DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2018)

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DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Dan III:31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.
[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes V: 15-21
Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XV.– Torino 1899]

 “Badate adunque, o fratelli, come procediate circospetti, non da stolti, ma come saggi, ricomperando il tempo, perché corrono giorni tristi. Il perché non siate imprudenti, ma studiatevi di conoscere qual sia la volontà del Signore. Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza, ma riempitevi di Spirito Santo, parlando a voi stessi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore; rendendo grazie del continuo, per ogni cosa al Dio e Padre, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo „ (Agli Efesini, V, 15-21).

La Chiesa in questa Domenica ci chiama nuovamente a meditare alcune sentenze della lettera di S. Paolo scritta ai fedeli di Efeso. Io non so quante volte, lungo l’anno, ci si proponga a considerare qualche tratto di questa lettera, ma certo sono moltissime, benché la lettera sia tra le più brevi, e ciò a ragione. Nell’ultima parte di questa lettera l’Apostolo ha condensato tante e sì mirabili massime di morale evangelica, che nulla di meglio; è una miniera ricchissima di verità pratiche, che tornano acconce ad ogni stato e ad ogni classe di persone. Era dunque ben naturale che la Chiesa ci conducesse frequentemente in questa miniera, e ci invitasse a cavarne l’oro purissimo delle più sante verità. Io mi studierò di aprirvi questa miniera, di scavarvi l’oro delle verità che vi si nascondono, sceverarlo dalla terra e dalla scoria che lo copre, e voi studiatevi di riceverlo e custodirlo gelosamente. – Nei versetti precedenti, S. Paolo, sull’esempio di Cristo, ha caldamente esortato i fedeli a guardarsi da ogni cupidigia, a non lasciarsi sedurre, a separarsi, essi, figli della luce, dai figli delle tenebre e a rendere frutti a Cristo, ruggendo e riprendendo le male opere, ch’Egli chiama opere di tenebre, e, continuando sempre il suo metodo, che è quello d’indicare il male da fuggire e poi suggerire il bene da praticare, per via di sentenze concise e chiarissime, dice: “Badate, fratelli, come procediate circospetti. „ La nostra vita è un cammino, che comincia dalla culla e termina sull’orlo della tomba; è un cammino alcuna volta piano e netto, più spesso ripido, seminato di sterpi e di spine, infestato da ladroni e assassini, costeggiato da dirupi e precipizi; le insidie e i pericoli sono senza numero. Per correre questo cammino sì aspro e sì pieno di lacci, senza cadere, si richiede aver sempre l’occhio aperto, e badar bene dove mettiamo il piede, affine di non inciampare: “Videte quomodo caute ambuletis — Badate come procediate circospetti. „ Sicuramente i nemici interni ed esterni e la naturale nostra debolezza ci creano tante difficoltà e pericoli, che è assai difficile non cadere; ma che sarà poi se cammineremo senza cautela e quasi a caso? Se noi terremo sempre gli occhi sopra noi stessi, se veglieremo sui nostri pensieri e sui nostri affetti; se peseremo le nostre parole e porremo ben mente ad ogni nostro atto; se staremo in guardia quanto alle compagnie, alle amicizie, alle letture, insomma a tutto ciò che ne circonda, noi eviteremo moltissime colpe e acquisteremo la perfetta signoria sopra noi stessi, e opereremo non da stolti, ma sì da prudenti, come vuole l’Apostolo: Videte quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes. – Allorché una cosa ci sta molto a cuore, noi la ripetiamo, e S. Paolo ripete qui la sua raccomandazione, cioè di camminare od operare circospetti, non da stolti, ma da saggi, sed ut sapiente», dove la parola saggi è il contrapposto di stolti, ed è la ripetizione di circospetti. Questa circospezione e saggezza, sì efficacemente inculcata dall’Apostolo, deve manifestarsi in particolar modo in una cosa, che tosto si accenna. Uditela: ” Redimentes tempus — Ricomperando il tempo. „ Il cielo è una mercede, che si dà soltanto a chi lavora: è la mietitura che si fa soltanto da chi ha seminato. Ma dove si lavora? dove si semina? Qui sulla terra! Quando si lavora e quando si semina? In questa giornata della vita presente, nel tempo. Allorché cala la notte, e le tenebre coprono la faccia della terra, nessuno può lavorare, e allora comincia il riposo. Similmente allorché la morte stende sopra di noi il nero suo velo, si chiude lo stadio del tempo e comincia la eternità interminabile, non possiamo più lavorare, e cessa il periodo di vita, in cui possiamo meritare. Ora può accadere (e troppo frequentemente accade) che molti si trovino già presso alle porte della eternità, sul finire della vita, dopo avere malamente sciupato il loro tempo e con le mani quasi vuote di meriti. Costoro che devono fare se hanno senno? Ciò che fa il viaggiatore, il quale, avendo perduto gran parte del suo tempo in discorsi inutili e in sonno non necessario, studia il passo e procura di riguadagnare il tempo inutilmente speso. Gli Efesini, ai quali l’Apostolo scriveva, per la maggior parte dovevano essere stati Gentili, ed erano entrati nella Chiesa già molto innanzi negli anni. Il tempo per loro perduto nella idolatria e nelle brutture del paganesimo era molto: quello che rimaneva era breve. Qual cosa più naturale quanto l’esortarli ad affrettarsi, e con la frequenza e col fervore delle buone opere ricuperare il tempo perduto, e così in qualche modo mettersi a pari con quelli che avevano speso santamente tutta la loro vita? – Dilettissimi! Uno sguardo alla nostra vita. Ben è vero che noi abbiamo ricevuta la fede col santo Battesimo prima ancora che ne potessimo avere coscienza; ma (siamo sinceri) nella nostra vita qua e là non vi sono molti intervalli, e fors’anche lunghi, nei quali ci arrestammo sulla via e facemmo getto d’un tempo prezioso? Non è egli vero che vivemmo mesi e mesi (e a Dio non piaccia), anni e lustri in peccato? Quello, o cari, è tutto tempo miseramente perduto per il cielo, e Dio stesso nella sua onnipotenza non potrebbe fare che non sia perduto. Eppure possiamo ripararne la perdita, non già col far sì che ritorni il tempo perduto, ma col far uso migliore di quello che ci resta, simili all’operaio, che nelle due ultime ore del giorno può fornire il lavoro che altri fornisce appena in quattro. È questo il ricomperare il tempo, che S. Paolo predica agli Efesini. E perché avessero nuovo e più forte sprone a ricomprare ciò che per negligenza avevano perduto, l’Apostolo aggiunge una ragione speciale, dicendo: ” Perché ì tempi volgono tristi Quoniam dies mali sunt. „ I tempi tutti sono cattivi, perché brevi per ciascun uomo, incerti, pieni di lotte, di pericoli, di tentazioni, di dolori, di mali d’ogni guisa; è vero, essi hanno anche la loro porzione di beni, che si alternano; ma la misura dei mali quasi sempre soverchia quella dei beni. I tempi poi, nei quali l’Apostolo scriveva la sua lettera, erano miserrimi sopra tutti: persecuzioni sanguinose, tirannie, delle quali non abbiamo nemmeno l’idea; basti sapere che imperava Nerone; corruzione spaventosa, schiavitù, ignoranza dei primi principi della morale, guerre atrocissime e continue. Aveva ben dunque ragione S. Paolo di esclamare: ” I tempi corrono tristi! „ Quale la conseguenza? L’ha detto sopra: quella di usare a bene di tempi sì cattivi. Come? Soffrendo con pazienza, con costanza e con rassegnazione tanti mali, e così volgendo in guadagno pel cielo le calamità della terra. — “In questo, continua l’Apostolo, voi mostrerete il vostro senno — Propterea nolite fieri imprudente» — se farete di conoscere qual sia la volontà del Signore — Intelligentes quæ voluntas Dei.  I mali che ci travagliano, così sembra ragionare il nostro Apostolo, sono grandi, e i tempi sono infelici; io vi dico di farne tesoro e con il soffrirli generosamente, riguadagnare quelli malamente perduti. Ma voi direte: Questi mali, che si aggravano sopra di noi, vengono dalla malizia degli uomini. No, risponde Paolo: se avrete la vera sapienza dei figli di Dio, comprenderete che è Dio quegli che così vuole. Come ciò? domanderete voi. Ve lo spiego. Tutto ciò che accade sulla terra è voluto da Dio o da Lui permesso: ciò che è bene è certamente voluto da Dio, che è la stessa bontà, e non è mestieri provarlo; ciò che non è bene, ma è male, e al male conduce, non è voluto da Dio, ma da Dio permesso e tollerato. E poiché è cosa manifesta che Dio potrebbe, nella sua onnipotenza, impedire il male, ne segue che se avviene, avviene perché lo permette, e lo permette perché anch’esso entra nei grandi disegni della sua sapienza e della sua misericordia. Lo permette per farci conoscere e sentire la nostra debolezza, per fiaccare il nostro orgoglio, per obbligarci a levare a Lui supplichevoli le nostre mani e invocare il suo aiuto, per staccarci dall’amore di questo mondo, per darci modo di esercitare la pazienza, la carità, la prudenza, la fortezza, per acquistare meriti, per renderci simili al Figliuol suo, fatto uomo, Gesù Cristo. Allorché dunque i mali della vita presente si addensano sopra di te, o fratel mio, e ti senti per poco schiacciato, non lagnarti, non far ingiuria a Dio e alla sua provvidenza, dicendo: Perché mi abbandonate, o Signore? Nei mali che ti opprimono, e in quelli che ne sono strumenti e ministri, vedi la mano paterna di Dio, che opera o che lascia fare, e sappi che tutto è volto a tuo bene. Non fermare l’occhio sulla mano del tristo che ti percuote, ma in Dio che, potendo arrestare questa mano, la lascia percuotere. L’infermo che geme e si dimena dolorosamente sotto il ferro del chirurgo, che recide il membro cancrenoso, non si sdegna col medico pietosamente crudele, ma lo ringrazia. Ecco ciò che voleva insegnare l’Apostolo allorché esclamava: “Sono giorni tristi, ma non vogliamo essere dissennati, anzi riconosciamo che anch’essi sono voluti da Dio, e volgiamoli a nostro vantaggio. „ – S. Paolo, continuando la sua esortazione morale, scrive: “Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza — Nolite inebriavi vino, in quo est luxuria. „ Ubriachezza! Questa parola sì brutta e sì vergognosa per l’uomo ragionevole, e più brutta e più vergognosa assai per il Cristiano, come quella di lussuria, non si dovrebbe nemmeno pronunciare. Eppure più volte comparisce sotto la penna del grande Apostolo! “Non vi ubriacate. — Gli ubriachi non possederanno il regno dei cieli. — L’uno ha fame e l’altro è ubriaco. „ Sono sentenze dell’Apostolo, e provano come anche nei primi giorni della Chiesa, tra gli stessi discepoli degli Apostoli, il turpissimo vizio della ubriachezza non fosse ignoto. E ai nostri giorni, o carissimi? Che avviene sotto i nostri occhi? Qual vituperoso spettacolo vediamo noi quasi ogni giorno, e particolarmente nei giorni consacrati a Dio? Uomini, giovani, vecchi, e perfino talvolta donne, avvinazzati per le vie, barcollanti, schiamazzanti, presentare in se stessi il miserando spettacolo del più schifoso degradamento morale! Genitori ubriachi e i bambini senza pane, coperti di luridi cenci, piangenti per la fame e per il freddo! E sono uomini, e sono Cristiani costoro? L’ubriachezza toglie all’uomo ciò che lo differenza dalla bestia: la ragione. Vedetelo, il miserabile, mal reggersi in piedi, barcollare e cadere! La lingua va articolando parole e accenti che nessuno intende; guarda e non vede; or ride stupidamente ed or minaccia; or prega ed ora insulta e bestemmia; attacca brighe con tutti, provoca risse e peggio, oggetto di compatimento e di orrore, di scherno e di disprezzo, disonore della famiglia, tormentatore di chi è costretto a vivere con lui, scialacquatore, distruggitore d’ogni cosa, finisce anzi tempo una vita di scandalo; eccovi l’ubriaco! – Ma l’Apostolo, in questo luogo, da conoscitore profondo della natura umana, col vizio detestabile dell’ubriachezza ne congiunge un altro come conseguenza naturale, ed è la dissolutezza: “Non vi ubriacate di vino, nel quale è dissolutezza — In quo est luxuria. „ Dissolutezza e ubriachezza sono inseparabili; lo videro gli stessi pagani, e ne sono autorevolissimi testimoni Cicerone, Seneca ed altri. Ma noi non abbiamo bisogno dell’autorità di sapienti pagani; udite S. Girolamo: “Dove è intemperanza e ubriachezza, ivi signoreggia la libidine… Io non riputerò giammai casto l’ubriaco… Dica chiunque ciò che vuole, io parlo secondo la mia coscienza: io so che a me fece danno l’interrompere l’astinenza, e mi giovò il ripigliarla.” (Ep. Tit.) — L’ubriachezza è propria dei buffoni e dei mangiatori, ed un ventre pieno di vino ci lascia veder tosto la spuma della libidine. „ Bando adunque, o cari, all’intemperanza, bando all’ubriachezza che ci fa meno che uomini, che è il flagello della famiglia e della società: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria. – Non è pago l’Apostolo di ciò che ha detto per tenere lontani i suoi cari dal vizio detestabile dell’ubriachezza: dopo il vizio da fuggire, suggerisce il bene da fare, come è suo costume: “Non inebriatevi di vino, ma siate ripieni di Spirito Santo — Sed implemini Spiritu Sancto. „ Cioè fate in modo che la grazia di Dio, che è il dono per eccellenza dello Spirito Santo, riempia le vostre menti e i vostri cuori e ridondi anche nei vostri corpi. Il vino riscalda i corpi, esalta gli spiriti, annebbia la ragione, porta l’uomo ai piaceri sensuali, lo fa simile ai bruti; la grazia divina riempie l’anima d’un fuoco puro e sacro, la eleva sopra se stessa, rischiara la sua mente, le fa gustare le caste delizie del cielo, la fa simile agli Angeli. Ecco il vino sacro, di cui potete inebriarvi: Implemini Spiritu Sancto. E quando sarete ripieni di questo vino sacro della grazia divina, le vostre anime gioiranno, i vostri cuori esulteranno, sarete inondati d’una santa letizia, e sentirete il bisogno di sfogarla tra voi stessi e nelle vostre radunanze, “cantando salmi ed inni e cantici spirituali, salmeggiando nei vostri cuori al Signore. „ – Allorché l’uomo è compreso da sublimi verità, da gagliardi sentimenti umani, e più ancora se divini, sente il bisogno irresistibile di sfogarli col canto e con la musica: il canto e la musica sono naturali all’uomo, come lo sono il pianto ed il riso (S. Girolamo distingue gli inni e i salmi e i cantici, e dice, che negli inni si celebrano la grandezza, la bontà e le perfezioni di Dio, e mette nel numero degli inni quei salmi ai quali è premesso o aggiunto l’alleluja: i salmi, secondo lui, sono quelli che si riferiscono alla morale; i cantici poi celebrano le bellezze e le armonie dell’universo). Il canto è uno sfogo naturale degli affetti interni, e in pari tempo giova mirabilmente ad alimentarli ed a crescerli. S. Agostino narra che, allorquando, dopo la sua conversione, entrava in chiesa e udiva il popolo cantare a pieno coro i salmi, si sentiva tutto commuovere e versava copiose lacrime. E chi di noi non si sente fortemente commosso e intenerito allorché ode la gran voce del popolo, che canta le litanie della Vergine, il Miserere od il Pange lingua? S. Paolo esortava i suoi cari Efesini ad innalzare a Dio inni e salmi e cantici spirituali: e perché non faremo altrettanto noi pure? E qui un mesto pensiero, o carissimi, si affaccia alla mia mente. Alle nostre orecchie giungono, e spessissimo, i cantici degli operai nelle loro officine e lungo le vie, e dei contadini sparsi pei campi. Che canti son questi? Ah! certo non sono cantici spirituali, come li voleva S. Paolo: Canticis spiritualibus — ; non sono le lodi di Dio o della Vergine benedetta; sono cantici profani, forse liberi, fors’anche osceni, che rivelano un cuore abbietto o corrotto, che accendono e dilatano una fiamma impura. Che le vostre labbra non si imbrattino mai di queste canzoni che, come e forse più dei discorsi cattivi, corrompono i costumi: Corrumpunt bonos mores colloquia prava. Come starebbe bene che nelle nostre campagne ritornasse il costume che S. Girolamo ricorda usato nella villetta dov’egli viveva! “In questa villetta di Cristo, così il Santo, tutto è semplicità, tutto è silenzio, fuorché il canto dei salmi. Dovunque ti volgi, il contadino che ara, tenendo l’aratro, canta alleluja (La parola Alleluia è composta di Allelu- e –ia, abbreviazione di Jehovah, e vuol dire Vìva Jehovah, viva Dio.); il mietitore che suda, si richiama coi salmi, e il vignaiuolo che con la curva falce pota la vite, canta qualche strofa di Davide. Questi sono i canti nella campagna; queste, come suol dirsi, le canzoni d’amore, questo il fischio dei pastori, queste le armi dell’agricoltura (Epist. 17 ad Marcellam). „ Né vi sfugga, o cari, quella espressione di S. Paolo riguardante il modo d’innalzare a Dio gli inni, i salmi ed i cantici: “Salmeggiando e cantando nei vostri cuori al Signore. „ Con queste parole egli ci ricorda che le nostre preghiere, le nostre lodi, i nostri ringraziamenti a Dio, non devono risuonare soltanto sulle nostre labbra, ma devono sgorgare dai nostri cuori, cosa che troppo facilmente per molti si dimentica. Gesù Cristo, ammaestrando la povera Samaritana, tra le altre cose, le disse: “I veri adoratori adoreranno in spirito e verità… Dio è spirito, e perciò conviene che quelli che l’adorano, l’adorino in spirito e verità, cioè spirito vero „ (S. Giov. IV, 23, 24). Come è l’anima tua, o Cristiano, quella che fa vivere e muovere il tuo corpo, cosi dev’essere l’anima tua che fa cantare la lingua e lodare Iddio. Se la mente ed il cuore non accompagnano la tua lingua, che valore possono avere le tue preghiere e le tue lodi? Nessuno, perché manca ciò che le fa degne di Dio e di te, la mente e il cuore: sarebbero come le preghiere e le lodi di chi sogna o delira. Tu incontri un uomo che ti saluta ed inchina cortesemente, e ne va lieto. Se tu leggessi nel suo cuore e vedessi ch’egli ha ciò fatto senza saperlo, senza porvi mente, te ne terresti tu onorato? Non credo. Come vuoi tu dunque che torni accettevole a Dio la tua preghiera, la tua lode, se vede ch’essa si riduce ad un movimento di lingua, ad un suono materiale, e che il tuo cuore non vi ha parte alcuna? Il tuo canto non differisce da quello dell’augelletto che saluta il nuovo giorno. “Non è la voce, ti dice S. Agostino, quella che Iddio vuole, non è la corda della cetra, ma il tuo cuore. „ Allorché pertanto pregate e lodate Iddio, almeno a principio, con la voce levate a Lui il vostro cuore, secondoché vuole lo stesso Apostolo in altro luogo, scrivendo: “Io salmeggerò con lo spirito, salmeggerò con la mente „ (I. Cor. XIV, vers. 15). “Rendendo grazie del continuo, per ogni cosa, a Dio e Padre, nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. „ La nostra vita, ad ogni istante è un continuo beneficio di Dio: ogni respiro, ogni battito del nostro cuore è suo dono; suo dono il cibo che ci nutre; suo dono la bevanda che ci disseta; suo dono il sole che ci illumina e ci riscalda; suo dono l’aria che respiriamo, tutto il nostro essere, tutto ciò che è in noi e fuori di noi, è suo dono, puro suo dono. È dunque dover nostro, essere grati a tanto donatore, ringraziarlo di tanti benefici. Ma come farlo debitamente noi che siamo creature sì miserabili? Abbiamo Gesù Cristo; come Dio Egli è uguale al Padre e al Santo Spirito; come uomo è fratello nostro; Egli è il nostro capo, il nostro mediatore: il nostro ringraziamento presentato per le sue mani è degno di Dio: ringraziamolo adunque per suo mezzo: In nomine Domini nostri Jesu Christi. – La nostra Epistola si chiude con questa raccomandazione bellissima, che esprime a meraviglia l’indole della legge evangelica: “Siate soggetti tra voi nel timore di Cristo. „ Ogni società, sia grande, sia piccola, intanto può conservarsi e prosperare, in quanto è bene ordinata, ed è bene ordinata in quanto ogni membro rimane al suo posto, e rimane al suo posto osservando l’ubbidienza. Togliete l’ubbidienza, ed ogni cosa è turbata: le famiglie si dividono, la società va in rovina. Ed è questa ubbidienza che S. Paolo raccomanda, dicendo: “Siate soggetti tra voi — Subditi invicem. „ L’ubbidienza, perché sia secondo verità e giustizia, deve prestarsi dagli inferiori ai superiori, e così senza dubbio ha da intendersi la sentenza apostolica. Ma perché dire: “Siate soggetti tra voi, ad invicem, „ come se il dovere dell’ubbidienza fosse imposto a vicenda, cioè in guisa che ciascuno debba ubbidire a ciascun altro, senza badare a chi tiene l’autorità? Certamente il comando dell’Apostolo: “Siate soggetti, „ importa che si debba ubbidire dagli inferiori ai superiori, ed è questa la vera ubbidienza; ma io penso che l’Apostolo volesse insinuare in bel modo ciò che forma una cotale appendice dell’ubbidienza, e ch’egli in altro luogo espresse felicemente in questa frase: “Reputandovi gli uni agli altri superiori nella umiltà. „ Ai superiori noi dobbiamo l’ubbidienza; agli eguali ed agli inferiori dobbiamo rispetto, piacevolezza, cortesia e condiscendenza, che sono alcunché di simile alla ubbidienza. E perché dobbiamo ubbidire ad altri, che infine sono uomini come noi, e, può essere, anche inferiori a noi? Perché così vuole Iddio, perché così comanda Gesù Cristo, e ubbidendo a quelli che tengono il suo luogo, ubbidiamo a Lui stesso: a disubbidendo loro, a Lui disubbidiamo. E come non temere di rifiutare l’ubbidienza a Gesù Cristo? Ecco perché S. Paolo, dopo aver detto: “Siate soggetti, „ soggiunge: “nel timore di Cristo. „ Così si eleva l’autorità che comanda, e con l’autorità si eleva e si nobilita l’ubbidienza, e tutto si riporta a Gesù Cristo, a Dio, al quale sia onore e gloria per tutti i secoli.

Graduale
Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne. [Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

Omelia II

[Mons. BONOMELLI, Saggio di Omelie, ut supra, Omelia XVI]

“Vi era un certo ufficiale regio, il cui figliuolo era infermo in Cafarnao. Questi avendo inteso che Gesù dalla Giudea era venuto nella Galilea, lo pregava perché scendesse e gli risanasse il figlio, che era presso a morire. Ma Gesù gli disse: Se voi non vedete segni e miracoli, voi non credete. L’ufficiale gli disse: Signore, scendi prima che il figliuol mio si muoia. Gesù gli disse: “va, il figliuol tuo vive”. Colui credette alla parola che Gesù Cristo gli aveva detto, e se ne andava. Ma, scendendo egli, i servi gli vennero incontro ad annunziargli che il figliuolo viveva. Ed egli domandò loro a che ora si era sentito meglio: e gli risposero: Ieri all’ora settima lo lasciò la febbre. Quindi il padre conobbe che quella era l’ora che Gesù gli aveva detto: Il figliuol tuo vive: e credette egli e tutta la sua famiglia. ,, – (S. Giov., IV, 46-53).

Gesù, ritornando dal suo primo viaggio in Gerusalemme, dove aveva celebrato la Pasqua, accompagnato da alcuni dei suoi discepoli, passò attraverso alla Samaria, incamminandosi verso la sua Galilea. In questo viaggio Egli si fermò presso la città di Sichem, al pozzo detto di Giacobbe, e convertì la celebre peccatrice e buon numero di Samaritani, come sappiamo dal Vangelo. Poi riprese la via della Galilea e recossi a Cana, dove aveva operato il primo miracolo, mutando l’acqua in vino e dove, secondo ogni verosimiglianza, trovavasi ancora la Madre sua. Sembra che in quei giorni gli Apostoli, che l’avevano seguito a Gerusalemme, fossero ritornati alle loro case ed alle loro occupazioni a Betsaida o a Cafarnao, giacché solo alcuni giorni dopo, vi sta la pesca prodigiosa, lo seguirono definitivamente. Gesù adunque era a Cana; ma la fama dei suoi miracoli e della sua dottrina erasi largamente sparsa per tutta la Galilea, e più ancora a Cafarnao e nei luoghi vicini, dove erano ritornati gli Apostoli dopo il loro viaggio a Gerusalemme. – Tutto questo dovevo dirvi per venire alla esposizione del fatto che avete udito e che deve formare il soggetto della nostra omelia. Esso avvenne adunque, poco dopo la prima Pasqua celebrata a Gerusalemme, nei primi mesi della predicazione di Gesù, ed è narrato dal solo Giovanni. — Ed ora a noi, carissimi. – “Vi era un certo ufficiale regio, che aveva un figliuolo infermo in Cafarnao. „ Chi era questo ufficiale regio? Ne ignoriamo il nome, e non importa gran fatto il saperlo. Dove dimorava? Evidentemente a Cafarnao, città allora non senza importanza, dove aveva stanza una guarnigione romana. Che ufficio teneva a Cafarnao? Il Vangelo non lo dice. Di qual re era egli ufficiale? Senza dubbio di Erode Antipa, figlio di quell’Erode che mise a morte i bambini e Giovanni Battista, e tre anni più tardi si vedrà condotto innanzi Gesù Cristo in Gerusalemme per essere giudicato come suo suddito. Erode era tetrarca, o re della Galilea, ma tributario dei  Romani. – Questo ufficiale aveva un figliuolo infermo a morte. Ogni speranza nei medici era perduta. Immaginate il dolore del povero padre, che si vedeva il caro figliuolo venir meno sotto gli occhi! Tolta ogni speranza nei rimedi umani, il buon padre si volse ai rimedi sovraumani. Aveva udito parlare di Gesù e dei suoi miracoli; aveva saputo ch’era poc’anzi ritornato da Gerusalemme in Galilea, e che trovavasi a Cana, distante da Cafarnao circa quindici chilometri. Che fa egli? Gli spunta nell’animo il pensiero di andare a Lui, di pregarlo e scongiurarlo a salvargli il figliuol suo. – Che idea, quale concetto aveva egli della persona di Gesù Cristo? Credeva in Lui? Sarebbe difficile il rispondere: probabilmente lo credeva un uomo di Dio, un profeta, forse anche soltanto un medico valentissimo. Ad ogni modo, che non può l’amore di un padre? Egli lascia Cafarnao, che giace sulla riva del lago, sale le colline che stanno a ridosso e giunge a Cana, dov’era Gesù, gli si presenta e lo prega di scendere con lui fino a Cafarnao, perché gli salvi il figlio ormai morente. Non vi sia grave far meco una considerazione non inutile a voi, o genitori. Voi, padri, e specialmente voi, o madri, amate teneramente i vostri figli, massime ancora fanciulletti. Che non fate per loro se cadono infermi? Voi li vegliate dì e notte: trepidate sulla loro vita: non badate a spese per riaverli sani; per loro pregate, chiamate i medici, porgete loro le medicine, non vi è cosa, per quanto grave e molesta, che non siate pronti a fare nella speranza che possa loro giovare. Voi non sareste da meno, al bisogno, di questo buon padre del quale parla il Vangelo. Sta bene, ed io non posso che ammirare e commendare altamente l’amore che avete per i vostri figliuoli: è vostro dovere. Ma vi domando: I vostri figli, oltre il corpo, non hanno essi altresì l’anima? — Sì; lo teniamo per ragione e per fede. — E l’anima non è da più del corpo? — E chi ne può dubitare? — E dunque giusto, o genitori, che voi siate solleciti, sì, del corpo, ma più assai dell’anima? — Certamente. — Eppure, che cosa vediamo noi, o cari genitori? Noi vi vediamo pieni di sollecitudine e di cure le più amorose, allorché trattasi del corpo dei vostri figliuoli, dei loro interessi temporali, ma non raramente trascurati e quasi dimentichi dei vostri doveri, allorché si tratta dell’anima loro, degli interessi loro eterni. Dove sono quei genitori che insegnano ai loro piccoli figliuoli le orazioni del Cristiano e i misteri della fede? Dove sono quei genitori che sorveglino debitamente i loro figliuoli, che li tengano lontani dalle amicizie e compagnie pericolose, che rammentino loro il dovere di santificare le feste, di ascoltare la parola di Dio, di usare ai sacramenti, di vivere cristianamente? Voi ne troverete molti che li scandalizzano coi loro discorsi, con le loro maldicenze, con le loro bestemmie, col porre nelle loro mani libri perversi e condurli a spettacoli teatrali osceni od irreligiosi! Ah! genitori! Tanto amore per il corpo dei vostri cari figliuoli, e sì poco amore, anzi odio sì feroce per le loro anime innocenti! Tanta sollecitudine per la loro felicità nel tempo, sì poca o nessuna per quella dell’eternità! Quale contraddizione! Esaminate e risolvete. Il buon padre del Vangelo pregava Gesù che volesse scendere fino a Cafarnao e guarirgli il figlio. — Voi vedete come era imperfetta la fede di questo uomo. Se l’avesse creduto fermamente Figliuolo di Dio, gli avrebbe detto, come poco dopo il Centurione: “Signore, non son degno che entriate nella casa mia: ditelo con la parola e il figliuol mio sarà salvo. „ Egli lo doveva credere un profeta, un uomo santo e nulla più; egli credeva che non potesse risanare il suo figliuolo che con la presenza materiale, ponendo le mani sul capo di lui, pregando per  lui o applicando qualche rimedio. Né fa punto meraviglia questa fede sì debole ed imperfetta in un uomo laico, ufficiale regio, in quei primordi della vita pubblica di Cristo: era la fede di parecchi altri, e forse di alcuni dei suoi stessi discepoli. — Udiamo la risposta di Gesù. “Se voi non vedete segni e miracoli, voi non credete. „ La risposta è rivolta al padre, ma insieme a tutti i Giudei, e parecchi dovevano essere presenti. Essa contiene un lamento ed insieme un ammaestramento. Gesù vuol dire: “Voi, o Giudei, volete vedere soprattutto dei miracoli; voi chiedete con i miracoli vantaggi materiali; la curiosità e l’interesse per voi tengono il primo luogo, e vanno innanzi alla fede; più che il regno di Dio e la  verità, voi cercate le cose della terra. Levate più alto il vostro sguardo: prima la fede, prima i beni eterni e poi le cose di quaggiù. „ – Queste parole di Gesù Cristo potrebbero essere rivolte anche ad alcuni Cristiani, i quali mostrano di tenere la religione più per gli interessi e i vantaggi materiali, che talora ne traggono o sperano di ritrarne, che per il sentimento del dovere e pei beni della vita avvenire. Essi domandano a Dio la salute dei corpi, la liberazione di danni o mali temporali, i frutti copiosi della campagna, la prosperità dei negozi, più spesso e con maggior fervore, che la salvezza dell’anima. Che nessuno di noi si renda meritevole del rimprovero di Cristo, ricordandoci, che se possiamo domandare a Dio i beni della terra, dobbiamo anche essere pronti a rinunciare a questi quando a Dio piaccia altrimenti, o possano tornare dannosi o pericolosi alla nostra santificazione. Il buon padre ascoltò umilmente l’ammonimento del divino Maestro, e credo che ne facesse suo prò e ravvivasse la sua fede, ripetendo con maggiore istanza la sua preghiera: “Signore, scendi prima che il figliuol mio muoia — Domine, descende priusquam moriatur filius meus. „ In queste parole dell’afflitto padre sentiamo tutta la grandezza dell’amor suo e l’angoscia che l’opprimeva. Presto, par che dica a Gesù, presto, te ne prego, te ne scongiuro, vieni meco, salvami il figlio prima che muoia. — Egli è ancor fermo nella sua povera idea che sia necessaria la presenza materiale di Gesù per guarire il figlio morente, come se Gesù non sapesse ogni cosa, dice S. Giovanni Crisostomo, e non lo potesse risuscitare anche morto. Gesù, alla vista di quel padre sconsolato, che con tanto affetto e sì viva speranza lo pregava, s’intenerì, e con sicuro accento gli disse: “Va, il figliuol tuo vive — Vade, filius tuus vivit. „ Egli dovette pronunciare queste parole con tanta autorità e sicurezza, da togliere ogni dubbio nel padre, infondendogli nell’anima quella fede a cui tutto è possibile, e che in qualche modo lo rendeva meritevole del miracolo. “Con le stesse parole, dice un Padre, il Salvatore curò l’anima dell’ufficiale, donandogli la fede e risanando il corpo del fanciullo. „ Voi vedete come Gesù opera da Dio. Il fanciullo è lontano, in termini di morte; non dice: Confida, o uomo, il figliuolo guarirà, non gli addita nessun rimedio umano, anzi non prega nemmeno: “Va, il figliuol tuo vive”; è una promessa assoluta, anzi un comando perentorio, e noi vedremo subito come ebbe in quel punto stesso pieno adempimento. – Figliuoli carissimi! In qual modo quel buon padre ottenne la guarigione temporale del figliuol suo? Con la preghiera, e preghiera ripetuta. Ecco il gran mezzo a tutti presto e facile per ottenere le grazie divine: la preghiera. Usatene voi pure e ne sperimenterete la potenza. Può essere che tra voi, che mi ascoltate, vi siano padri e madri che hanno i loro figliuoli infermi, non del corpo, ma dell’anima, che è troppo maggior male; figliuoli riottosi, insolenti, dissoluti, miscredenti, che corrono per le vie della perdizione, che fanno versare lacrime amare ai poveri genitori. Voi forse li avete corretti le cento volte inutilmente. Che vi resta a fare ? Correte a Gesù, pregatelo, come lo pregava il padre di cui parla l’odierno Evangelo; non stancatevi, ripetete un giorno, due, venti, cento, un anno la vostra preghiera, e vincerete la prova. La preghiera d’un padre, d’una madre desolata per la conversione del figlio traviato ha una forza meravigliosa sul cuore di Dio. Quanti giovani gettati sulla mala via si ravvidero, si convertirono per le preghiere dei genitori, e specialmente delle madri! La storia di Agostino e di Monica è la storia di molte madri e di molti figli. — Ma ritorniamo al nostro Vangelo. – Udite quelle parole consolanti, il padre si rasserenò, sentì infondersi in cuore una tranquilla e dolce speranza, ringraziò Gesù Cristo, “credette — credidit, „ e se ne ritornava frettoloso alla volta di Cafarnao, ansioso di rivedere il figliuol suo e l’effetto della affermazione solenne: “Il figliuol tuo vive. „ ” Scendendo egli, i servi gli mossero incontro ad annunziargli che il fanciullo viveva, „ forma di dire che significava essere guarito perfettamente, come vuole il contesto. Questo correre dei servi incontro al padre, per portargli la felice novella, è cosa naturalissima. Egli era partito per Cana, in cerca di Gesù, lasciando il fanciullo in fine di vita: immaginavano facilmente le ansie del povero padre: vedono ad un tratto ritornato da morte a vita il fanciullo: pieni di gioia, gli corrono incontro per anticipargli il faustissimo avvenimento, del quale non conoscevano la causa, o tutt’al più la potevano confusamente sospettare. Appena lo videro da lontano, dovettero alzare la voce e gridargli che il fanciullo viveva ed era guarito. Il buon padre, al colmo della gioia, ricordando la promessa di Gesù ed a Lui attribuendo la salvezza del figlio, domandò loro: A qual ora s’era riavuto. — E quelli: Ieri all’ora settima lo lasciò la febbre. — Il padre conobbe che quella era l’ora che Gesù gli aveva detto: “Il figlio tuo vive. ,, – Voi vedete semplicità e candore di narrazione che non ha l’uguale. L’Evangelista di suo non vi mette una parola: racconta il fatto in guisa che voi lo vedete: non una osservazione, non una applicazione, non una parola di meraviglia o di stupore per mettere in maggior luce la potenza divina di Gesù Cristo. Quale guarentigia, qual carattere di veracità! Gli Ebrei dividevano il giorno, come la notte, in dodici ore; onde, dicendo Giovanni che il fanciullo fu risanato alle ore sette del giorno, e che precisamente a quell’ora Gesù pronunciò le parole: “Il figliuol tuo vive, „ siamo certi che l’una e l’altra cosa ebbe luogo ad un’ora circa dopo il mezzodì. – È vero: i servi dissero che la guarigione era avvenuta il giorno innanzi, “ieri all’ora settima, „ e non è credibile che il padre, sì desideroso di rivedere il figliuolo, impiegasse un giorno a percorrere meno di cinque chilometri; ma la cosa si spiega agevolmente, allorché si pensi al modo con cui gli Ebrei determinavano il principio e la fine del giorno. Noi contiamo il giorno da una mezzanotte all’altra, doveché per gli Ebrei il nuovo giorno cominciava col tramonto del sole; il perché se l’incontro dei servi avvenne dopo il tramonto del sole, questi potevano e dovevano dire ieri e non oggi. E qui torna acconcio fare due osservazioni, che mi sono suggerite dal racconto evangelico. Gesù, stando lontano, con un atto della sua volontà onnipotente, aveva in un istante risanato un fanciullo: era un miracolo. Il padre, che l’aveva domandato e ne godeva il beneficio, vuole accertarsene, e perciò interroga i servi intorno all’ora in cui si era compiuto. Non era questo un mettere in dubbio la promessa di Gesù Cristo? No: l’accertarsi del miracolo era un diritto ed un dovere di quel buon padre, ed in ciò merita lode. E ciò che fa la Chiesa e dobbiamo far noi pure ogni qual volta  il bisogno lo richieda. Si parla di fatti straordinari? di profezie? di miracoli? di apparizioni, insomma di cose soprannaturali? Qual è il nostro diritto e il nostro dovere? Quello di esaminare con la ragione, e a tutto rigore di ragione, i fatti che si narrano o che si vedono: chi crede senza esaminarli mostra d’essere leggero, dice la Scrittura, e facilmente può essere ingannato. Dio ci ha data la ragione, e secondo essa dobbiamo operare e regolarci, e allorché sottoponiamo alla ragione i fatti che si dicono miracolosi, noi non facciamo torto a Dio, anzi gli rendiamo onore, usando del suo dono, che è la ragione, per conoscere se quei fatti sono veramente opere sue o della natura, o frutto dell’ignoranza, o inganni dell’astuzia. La fede ha i suoi diritti senza dubbio, ed inviolabili; ma anche la ragione ha pur essa i suoi non meno inviolabili, perché anch’essa è dono di Dio, e disse bene S. Tommaso, che: “L’uomo non crederebbe se non conoscesse essere dover suo il credere. „ La seconda osservazione è questa: Il padre, poiché ebbe conosciuta la coincidenza delle parole di Cristo con la guarigione del figlio, sgombrò ogni dubbio: comprese ch’Egli era padrone della natura, e che a Lui doveva aggiustare ogni fede, e di fatto credette egli e tutta la sua famiglia. Due volte si dice nel Vangelo che il padre credette: la prima volta quando Gesù gli disse: “Va, il figliuol tuo vive, „ e se ne andò; la seconda, qui, allorché intese l’adempimento delle parole di Cristo: Credidit. Qual differenza corre tra il credette della prima volta ed il credette della seconda? Grande, ed è questa. Dapprima credette che gli avrebbe guarito il figlio; dappoi credette ch’egli era il Messia; quella prima fede fu il primo passo che lo condusse alla seconda. Una fede imperfetta, confusa, lo fece andare da Cafarnao a Cana, ai piedi di Gesù, egli pose sulle labbra la preghiera per il figlio; la parola di Gesù rinvigorì quella fede, e pieno di speranza lo fece ritornare a casa; il conoscimento del miracolo compì l’opera, gli fece conoscere Gesù per quel che era veramente, e credette in Lui. – Io vo pensando tra me stesso: Quanti padri, a quel tempo, in quel giorno stesso avranno avuto i loro figliuoli gravemente infermi! Quanti in Cafarnao e nelle vicine borgate avranno veduto od udito parlare della guarigione di quel fanciullo fatta da Gesù Cristo? E quanti avranno imitato quell’ufficiale regio, correndo a Gesù e domandandogli la guarigione dei figli loro ? Non lo so, e dal Vangelo nulla si rileva, ma, secondo ogni probabilità, si può affermare che quel buon padre non trovò imitatori, o ben pochi. E perché? Mistero della umana libertà, e, aggiungo anche, della umana cecità! Così è, o carissimi. Gesù Cristo, per mezzo della sua Chiesa, continuamente ammaestra, rimette i peccati, salva le anime: è l’opera per la quale è venuto sulla terra, e per la quale vive perennemente nella Chiesa stessa. Accoglie tutti quelli che vanno a Lui, concede il perdono dei peccati a tutti quelli che lo chiedono, salva tutti quelli che vogliono essere salvati. E quanti sono quelli che vanno a Lui? Un certo numero: e gli altri? Non se ne curano. E perché? Ripeterò ancora: Mistero dell’umana libertà e dell’umana cecità!

Credo

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.
[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta
Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent. [O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

Communio
Ps CXVIII:49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.
[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.
[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XXXI

ALCUNI PRECETTI EVANGELICI.

Il precetto del perdono non è troppo duro? — Quello della continenza, non è contro natura? — Quello dell’umiltà,  non è avvilente? E quello della preghiera non è inutile? — La preghiera non umilia che serve pregare se non si ottiene? — Perché  dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? — Io pregherei, ma mi manca il tempo e sono assalito dalla noia.

— Ma nel Vangelo di Gesù Cristo non vi sono forse dei precetti impossibili a praticarsi?

L’asserire ciò è parlare da eretico. Santo Agostino dice chiaro che Dio (epperò Gesù Cristo) non domanda cose impossibili; ma comandando ti anima a fare quello che tu puoi e a domandare a Dio quello che da te non puoi.

— Ma, ad esempio, quel precetto di presentare la guancia sinistra a chi ci ha percosso nella destra, di cedere anche il mantello a chi ci ha tolta la tonaca, di correre altre due miglia a chi ci ha già trascinati a correre con lui per un miglio …

Anzi tutto devi ritenere che il praticare tali cose letteralmente, per ispirito di mortificazione e di umiltà, è solo consiglio. Come precetto poi Gesù Cristo intende di dire che non dobbiamo cercare o desiderare la vendetta, che piuttosto che vendicarci dobbiamo essere disposti a ricevere un’altra ingiuria, e che interiormente dobbiamo essere disposti a rinunziare a quello che ci sarebbe dovuto, ogni volta che la carità e la gloria di Dio lo richieda. D’altronde combattendo Egli la passione della vendetta, non intende di togliere per tal guisa ai magistrati la libertà di reprimere l’ingiusto offensore e nemmeno perciò all’offeso la facoltà di ricorrere ai medesimi per avere riparazione o giustizia.

— Ad ogni modo però il mondo reputa melenso e vile colui, che sopporta in pace l’ingiuria e perdona l’offensore.

Così fa il mondo degli uomini stravolti di cervello, il mondo dei malvagi e dei viziosi; ma non già il mondo dei savi, dei buoni, dei ben pensanti, perciocché questo mondo ha sempre riguardato come vile colui che si vendica. Ed in vero non è proprio da vile l’adirarsi, il vendicarsi, facendo così quello che fanno le bestie, quello che fa la vespa, che punge chi la stuzzica, quello che fa la vipera che morde chi la calpesta, quello, che fa il mulo che spranga calci contro chi lo percuote? – Sì, lo diceva già Aristotile, filosofo pagano: L’ira e la vendetta sono appetiti bestiali.

— Eppure è cosa dura certe volte il perdonare!

Anzi è duro tutto il contrario. Capisco che l’amor proprio deve fare un sacrificio, ma non è mille volte meglio per la tranquillità di nostra vita che lo faccia? E come può vivere tranquillo chi ha in cuore l’amarezza, l’odio, il livore, la brama di vendicarsi! È ancora per lui la pace, la gioia, la felicità? No, affatto. Più non dorme quieto la notte; di giorno, anche in mezzo agli affari, lo tormenta un pensiero funesto, tra gli stessi divertimenti una larva, che conturba, gli si para dinanzi, la larva della sua inimicizia. E poi ha da sacrificare le compagnie, le adunanze, le ricreazioni dove pratica l’avversario; deve evitare quelle strade per dove egli passa, deve star pronto a voltare la faccia quando lo incontra; e quando pure è riuscito a umiliarlo, a vendicarsi di lui, più che mai deve temere, che o egli, o i suoi parenti, o i suoi amici preparino di ripicco un’altra vendetta. E questa condizione di vita non è un inferno anticipato? E non è dunque meglio perdonare, e per tal guisa compiere il precetto di Gesù Cristo, e assicurarsi di essere così da Dio perdonati, avendo detto lo stesso Gesù: « Perdonate e vi sarà perdonato? »

— Queste considerazioni mi persuadono assai, non solo della convenienza, ma persino della facilità del perdonare. Un altro precetto tuttavia che nella morale di Gesù Cristo mi pare molto difficile ad eseguirsi è quello che riguarda la continenza. A me pare che l’obbligo di questa virtù sia cosa contro natura, superiore alle forze umane, epperò impraticabile.

Il dire ciò seriamente sarebbe una gravissima bugia ed una esecranda bestemmia contro la sapienza di Gesù Cristo, che non comanda nulla che non si possa praticare. L’uomo coll’aiuto del Signore può vincere qualsiasi più terribile passione, epperò anche quella contraria alla continenza, la quale, se fosse contro natura, non verrebbe certamente comandata da Colui, che è Autore stesso della natura. D’altronde gli stessi filosofi pagani hanno riconosciuta la necessità e l’importanza di tale virtù. Talete ha detto; « Temi la voluttà, che è madre del dolore ». Cicerone lasciò scritto: « L’impudicizia impedisce il consiglio, è nemica della ragione, né tiene alcun commercio colla virtù. Non vi è peste più esiziale della lussuria ». Aristotile ha sentenziato: « Con le laidezze della libidine si logora il corpo ». E Quintiliano insegnò: « Essendo divina l’origine dell’anime nostre, conviene aspirare alla virtù, e non servire ai turpi piaceri del senso ».

— Ma pure non vi ha nell’uomo una tendenza naturale contro siffatta continenza?

Anche le tendenze a mangiare e a bere sono naturali; ma se si soddisfano entro i limiti della natura e della fede non c’è male, se invece si fa ciò fuori dei giusti limiti, si fa cosa cattiva, dannosa e condannevole. Così è di quest’altra tendenza. Se essa è contenuta nei limiti del matrimonio cristiano, secondo le leggi di Dio, non è cattiva, e l’obbedirvi giusta i sentimenti della ragione e della fede non è male, anzi può essere un dovere. Ma il soddisfarla fuori dell’ordine e dei limiti voluti e fissati da Dio per il bene della società, è e sarà sempre un gran male. E lo è e sarà non solo perché violazione d’un precetto divino e causa di una serie di danni spirituali per l’anima, ma ancora perché fonte funesta di tanti mali morali e corporali per gl’individui e per la società. Se noi entrassimo in certe famiglie e domandassimo la cagione di tante discordie, di tanti disordini, di tanti patrimoni mandati a fondo, di tanta miseria, di tanti scandali, e persino di tante violenze e di tanti delitti, molte sarebbero costrette a risponderci che non fu altra, se non l’abbominevole vizio della disonestà. E se domandassimo ai medici, che frequentano le case dei privati e i pubblici ospedali, ben ci saprebbero dire, che la causa principalissirna di tante schifose infermità e di tanti morti sul fior della vita si è purtroppo questo detestabile vizio. Così pure quelle nazioni dove il brutto vizio trionfa sia per la immoralità dei privati individui, sia anche per la connivenza dei reggitori della cosa pubblica, per la libertà orribile che essi concedono a tutto ciò che lo fomenta, alla letteratura, alla pittura, alla scultura, ai teatri, ai balli, ai divertimenti pubblici, ai trafficanti della disonestà ed alle case del peccato, quelle nazioni, dico, benché (come una nazione a noi vicina), siano ricche, piene di lusso e di civiltà raffinata, sono tuttavia nazioni, che precipitano alla rovina. In conclusione se nella dottrina di Gesù Cristo vi hanno dei precetti, come questo, alquanto difficili, a praticarsi tutt’altro che inferirne qualche cosa contro il pregio di tale dottrina, se n’ha piuttosto a riconoscere la somma perfezione. Con tali precetti Gesù Cristo mostrò di avere grande stima di noi; ci fa conoscere che vuole anche l’opera nostra nell’affare di nostra salvezza, che non dobbiamo pretendere di andare in Paradiso in carrozza, senza superare difficoltà, senza far opposizione alle proprie inclinazioni, che il regno dei cieli insomma, come Egli ha detto, patisce forza e lo guadagnano coloro che si fanno violenza.

— Sì, lo credo. Non mi negherà tuttavia che nella dottrina di Gesù Cristo vi siano precetti strani ed avvilenti l’umana dignità. Quel comando ad esempio di non fare le nostre buone opere per essere veduti e lodati dagli altri, di dichiararsi servi inutili, quando si è fatto bene qualche cosa, di non cercare i primi posti, di farsi l’ultimo e il servo altrui, di fuggire gli onori e le lodi e persino la compiacenza delle medesime, di essere umili insomma, mi sembra troppo vero che, se venga da noi praticato, offenda il sentimento della nostra dignità!

Così pur troppo si pensa da coloro che parlano contro le virtù cristiane, senza sapere neppure che cosa esse siano; ma del resto è tutto il contrario. Se c’è cosa che rispetti il vero sentimento della nostra condizione è l’umiltà, e se c’è cosa che l’offenda è la brutta superbia. L’umiltà non è mica un inganno, per cui uno si sforzi di riputarsi quello che non è e di rinunziare ad ogni merito. L’umiltà è in fondo in fondo purissima verità; è una luce dell’intelletto che ci discopre quello che noi siamo, e nell’ordine della natura e in quello della grazia, ed una sincera disposizione del cuore di trattarci e lasciarci trattare in conformità di ciò. Laonde il vero umile non disconosce alcuno dei doni, che possiede. Se ha ingegno, virtù, prerogative speciali di natura o grazia, non gli è vietato di riconoscerle, perché come farebbe a ringraziarne Iddio, se non riconoscesse quello che da Lui gli fu donato? Ma a questa cognizione egli aggiunge per l’appunto l’intima persuasione che i beni che ha, non li ha da sé, ma da Dio: che perciò non ha il diritto per essi di cercare le lodi altrui, di vantarsi abile a questo e a quello, di volere dagli altri essere onorato, applaudito e collocato al primo posto, e di vanamente compiacersi; ma che in quella vece ha il dovere di offrire a Dio ogni bene che ha. Ora che cosa vi è in tutto ciò, che offenda menomamente il sentimento dell’umana dignità? Al contrario veramente l’offende la superbia, che è la falsa stima e il falso amore di se stesso spinto fino al punto di voler essere al di sopra di tutti gli altri, da non volere degli uguali, e da disprezzare ben anche gli inferiori. E l’offende altresì per i mezzi, dei quali induce l’uomo a valersi per riuscire nel suo intento di primeggiare su tutti; giacché a raggiungere tale scopo non lo induce forse talvolta a strisciare cortigianescamente ai piedi altrui, a far mercato di se stesso, a ricorrere ad arti abiette, a transazioni vigliacche, a bugiarde promesse? Ed ecco perché il mondo stesso mentre ammira chi è umile, e facendo il bene, ed essendo valente non cerca la lode altrui, beffa e irride chi è superbo; tanto che chi non è umile finge di esserlo e fa sembiante di rifiutare gli onori per non incorrere l’altrui biasimo.

— Anche in questo ella dice bene, e godo che togliendomi dalla mente certe strane idee, mi faccia ammirare la giustizia e la sapienza dei precetti del Vangelo. Tuttavia non le pare che Gesù Cristo abbia pure fatto dei precetti inutili?

Precetti inutili? E quale per esempio?

— Quello della preghiera.

Come? il più utile, il più necessario anzi dei precetti, tu lo chiami inutile?

— E sì. Che bisogno ha Iddio, che noi lo preghiamo?

Egli certamente bisogno non ne ha affatto, ma non lascia di avere il diritto, che noi con la nostra preghiera lo glorifichiamo, lo adoriamo, lo ringraziamo. Non è Egli il nostro Dio, il nostro Sovrano, il nostro Benefattore supremo? E noi vorremmo da non avere ad aprire la bocca per confessare tutto ciò? Non arriveremmo al massimo della ingratitudine e della malvagità? E poi non dobbiamo noi pregare Iddio, perché ci conceda gli aiuti d’ogni maniera, di cui abbisogniamo?

— Ma Iddio, con la sua onniscienza, non conosce tutto quello che ci è necessario, e non può Egli darcelo, senza che noi glie lo domandiamo?

Senza dubbio che ei lo potrebbe: ma se Egli non lo vuole, non è padrone di fare come gli piace? E non siamo noi tenuti di obbedire ai suoi comandi? Non sono già moltissimi i doni, che Dio ci ha fatto del tutto gratuitamente, non solo senza alcuna nostro merito, ma senza che pure glieli chiedessimo? Se per tanto ve ne sono ancora moltissimi altri, di cui abbiamo assolutamente bisogno, e che Egli non ci vuol dare senza che glieli domandiamo, non avremo noi l’obbligo assoluto di pregarlo?

— Ma Iddio è un essere immutabile: ciò che Egli vuole, lo vuole eternamente. Egli perciò ha dato al mondo delle leggi, che sono invariabili e le quali fanno fare alle cose tutte il corso loro segnato. Perchè adunque pregare? Perché Iddio cangi quello che dall’eternità ha stabilito? E allora come credere all’immutabilità della sua natura?

Caro mio, questa obbiezione non è altro che un pretto giuoco intellettuale. Difatti, tra queste leggi invariabili, di cui tu parli, non tiene un primo posto la preghiera? Se Dio ha stabilito da tutta l’eternità di rendere feconda la terra, di guarire degli ammalati, di consolare degli afflitti, di convertire dei peccatori, di rassodare dei virtuosi, di salvare dal flagello un popolo alla tale e tale altra ora dei secoli, perché a questa e a quell’altra ora dei secoli sarà pregato dagli uomini, forseché egli muta perciò le sue leggi? o non ne mantiene piuttosto immutabile il corso ? Noi adunque preghiamo, noi dobbiamo pregare « non già, come nota San Tommaso, per mutare le divine disposizioni, ma per impetrare ciò che Egli ha stabilito doversi adempiere per ragione della preghiera, per meritare cioè per mezzo della preghiera quei beni, che Egli innanzi ai secoli ha disposto di donarci per essa »

— Non mi potrà tuttavia negare che la preghiera umilii l’uomo e lo avvilisca.

Oh sì! Certe preghiere avviliscono e sono al tutto indegne dell’uomo. Coloro ad esempio che si pongono in ginocchio davanti alle divinità carnali dei loro cuori, davanti ai potenti della terra, e si fanno a domandar loro in grazia o uno sguardo o una piccola croce da cavaliere, costoro sì che si avviliscono prodigiosamente nelle loro preghiere! ma non già colui, che s’inginocchia avanti a Dio e Lui prega, e pregandolo riconosce la sua grandezza, la sua sovranità, la sua bontà, le sue perfezioni, e in tal guisa non si spinge alla ridicolaggine superba di credersi senza bisogno del suo aiuto e di voler essere da Lui indipendente.

— Eppure a che serve pregare, se non si ottiene da Dio quel che si vuole?

Ma bisogna un po’ vedere se si vuole ciò che è bene, oppure ciò che è male. A che si prega da molti? Si prega per ottenere una buona fortuna, si prega perché sia prosperata nelle ricchezze la famiglia, si prega per vincere quella lite ed abbattere quell’avversario, si prega sembra strano, ma pur è vero, si prega talvolta anche per riuscire a fare una vendetta, o per altri scopi somiglianti. E come mai il Signore, che è pieno di bontà, esaudirà queste nostre insensate preghiere? Inoltre anche allora che si domandano cose buone, si prega come si deve, con divozione, con fede, con umiltà, con perseveranza? – Sii certo che Gesù Cristo, come nella sua dottrina ci ha comandato di pregare, così nella stessa avendoci assicurato l’esito della preghiera, farà sempre onore alla sua parola, purché noi facciamo del tutto per parte nostra il nostro dovere.

— Benissimo. Ma perché dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? Non possiamo noi pregare Dio da per tutto? E Gesù Cristo nel suo Vangelo ci ha forse fatto alcun precetto a questo riguardo? Mi sembra anzi che Egli abbia detto di chiudersi perciò nella propria stanza. Dunque?

Dunque è verissimo che noi possiamo pregare Iddio da per tutto, in casa, fuori di casa, nelle campagne, sul lavoro, in viaggio, eccetera, e facciamo benissimo a pregarlo in ogni dove. È vero ancora che Gesù Cristo fa grande elogio dell’orazione privata e da solo, e ce ne diede Egli più volte l’esempio ritirandosi sul monte, nel deserto, presso il Getsemani a pregare Dio da sé solo. Tuttavia ci vuole altresì l’orazione pubblica, fatta in comune e in chiesa. Nel suo Vangelo ha ricordato che la chiesa nelle Scritture, si chiama per eccellenza Casa di orazione. Ed in vero nell’antica legge, quando Iddio ordinò la costruzione del tempio, a questo fine particolarmente l’ordinò, e nella sua consacrazione assicurò in modo esplicito e preciso, che chiunque si fosse recato nel tempio a pregarlo l’avrebbe esaudito. – Per di più aggiunse che « se due si fossero uniti insieme a chiedere a Dio qualunque cosa, sarebbe stata loro accordato dal suo Padre celeste, perché dove fossero due o tre congregati nel suo nome, Egli sarebbe stato là in mezzo a loro ». Le quali parole si riferiscono alla preghiera fatta in comune e specialmente in chiesa, dove i fedeli formano nel pregare un cuor solo ed un’anima sola. – D’altronde la stessa ragione ci mostra la convenienza e l’utilità della preghiera fatta altresì nella Casa di Dio. Non è per mezzo di questa preghiera, che si rende a Dio il culto pubblico della società? Non è per questa preghiera che si stringe vieppiù fra gli uomini la fraternità? Non è per essa che ci andiamo animando meglio gli uni gli altri a compiere i nostri doveri verso Dio?

— Sì, ciò è verissimo. Ma è vero altresì che la preghiera sia tanto utile come si dice?

Utilissima. La conservazione della fede, la volontà risoluta di fare il bene, la forza di vincere le tentazioni, la luce per dissipare i dubbi, la consolazione in mezzo alle tribolazioni della vita, l’energia, gli slanci generosi, i magnanimi propositi di renderci sempre migliori, e infine la nostra eterna salvezza, tutto proviene dalla preghiera. E invece quei languori, quelle debolezze, quelle irritabilità, quei disgusti della vita al tutto singolari, quelle angosce così cocenti e quelle disperazioni così gravi, che talora si provano, sono causa dell’assenza della preghiera. Prega, amico mio, prega, e ti troverai contento e felice.

— Io pregherei, ma mi manca il tempo; ho molte altre cose da fare. E poi chi lavora, prega.

Tu dici una gran bugia. Trovi tanto tempo non solo pe’ tuoi affari, pe’ tuoi lavori e pe’ tuoi studi, ma anche per i tuoi divertimenti e per tante chiacchere inutili, e forse anche dannose, e non trovi tempo per un po’ di preghiera? Tu dici: Chi lavora, prega. Sì, anche il lavoro indirizzato a Dio può servire di bella preghiera. Ma appunto perciò bisogna offrirlo e consacrarlo a Lui col mandargli innanzi un po’ di preghiera. Alla fin fine credi tu che sia necessario che tu passi delle ore intere nel pregare? Alcuni minuti al mattino, alcuni altri alla sera, in cui tu dica le orazioni indicate dal Catechismo pel buon cristiano, ordinariamente bastano. Vedi adunque che non puoi dire che ti manchi il tempo per pregare. Che se poi realmente ti mancasse, dovresti trovarlo. Non lo trovi forse per mangiare, per dare al tuo corpo il necessario sostentamento? Quanto più adunque devi trovarlo per dare il necessario sostentamento all’anima.

— Sì, ha ragione. Ma che vuole mai? Quando mi metto a pregare mi piglia tale noia, oppure mi assalgono tali distrazioni, che mi par proprio inutile il pregare.

Se ti assale la noia, è perché non ti studi di pregare con fede, con amore, con raccoglimento. Se poi durante la preghiera ci assalgono delle distrazioni, e allora noi facciamo il possibile per allontanarle. Ma se non ci avvediamo delle medesime, non dobbiamo credere perciò che il Signore non accetti le nostre preghiere. Egli è infinitamente buono, e sa benissimo compatire alla nostra debolezza.

— Ebbene sia certo che d’ora innanzi praticherò colla massima esattezza questo precetto della preghiera.

Bravo? Mi rallegro di cuore con te per questo buon proposito.