CONOSCERE SAN PAOLO (18)

CONOSCERE SAN PAOLO (18)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

CAPO IV.

L’Epistola ai Filippesi.

I. IL CELEBRE TESTO CRISTOLOGICO.

1. QUADRO STORICO. — 2. LA FORMA DI DIO E LA FORMA DI SCHIAVO.

1. Filippi, la prima conquista di Paolo sul suolo europeo (Act. XVI, 12), fu sempre la sua chiesa prediletta. In quella popolazione rozza e semplice di coloni romani, aveva trovato spiriti docili e cuori affettuosi. In loro favore egli derogò alla regola impostasi di non accettare dai suoi neofiti né doni né sussidi (Fil. IV, 15-16; I Cor. IX, 12-15): egli conosceva troppo bene la sincerità e la profondità del loro affetto e non temeva di restare loro obbligato. I Filippesi si mostrarono degni di quella fiducia. Tra loro non vi erano né eresie, né scismi, né fazioni, ma tutto si riduceva a qualche rivalità personale, e la faccenda più grave era di comporre un dissidio tra due donne Fil. IV, 2-3). La sua terribile invettiva contro i giudaizzanti si spiega abbastanza con la notorietà delle loro aggressioni e con le preoccupazioni che queste non cessavano di cagionare all’Apostolo, e non è punto necessario supporre la loro presenza o la loro propaganda a Filippi (Fil. III, 3-4). Non si dovrà cercare in questa conversazione, fatta col cuore alla mano tra un padre e i suoi figli prediletti, un ordine perfetto né un nesso rigoroso. Nessuna lettera somiglia meno di questa ad un trattato di morale o di teologia; Paolo esorta, incoraggia, consola e soprattutto si sfoga liberamente. Il suo sentimento predominante è la gioia spirituale. Egli ripete continuamente: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni, rallegratevi con me », tanto che sente il bisogno di scusarsi della sua insistenza (Fil. II, 18; III, 1;IV, 4). Un primo motivo di rallegrarsi è la buona piega che va prendendo il suo processo al tribunale di Cesare. Paolo manderà Timoteo a Filippi non appena avrà al riguardo notizie migliori, ma soggiunge: « Confido nel Signore che verrò io stesso senza ritardo ». Non già che vada in giubilo al pensiero di una prossima liberazione, ma il solo suo desiderio è che il Cristo trionfi, o con la sua vita o con la sua morte: nobile indifferenza che lo tiene sospeso tra il desiderio naturale di vivere per lavorare ancora, per far fruttificare il Vangelo, per servire il prossimo e dare gloria al Maestro, e la felicità di morire per essere unito al Cristo suo amore e sua vita. Ma il cielo decide che egli viva ancora: « Io so che sopravvivrò, che resterò con voi per il vostro avanzamento e per colmare di gioia la vostra fede ». Il contegno degli Ebrei verso di lui, le benevole disposizioni del pretorio, le stesse lungaggini di un processo che si andava trascinando da più di quattro anni, tutto gli fa prevedere uno scioglimento favorevole. – E poi — ed è questo un secondo motivo di gioia — la sua prigionia non ostacola il progresso della predicazione: i custodi che si alternano accanto a lui, lo sentono parlare di Gesù Cristo; le sue condizioni lo mettono in vista e destano la curiosità, ed è questo un primo passo verso la diffusione del Vangelo. Il buon esito della sua difesa e la sua liberazione già quasi sicura infiammano lo zelo e l’intrepidezza dei Cristiani. Se alcuni vanno seminando la parola di Dio stimolati da un sentimento d’invidia, se raddoppiano di attività per rinforzare il loro partito e per rendere più amara la prigionia dell’Apostolo, poco gl’importa, purché il Cristo sia predicato e il Vangelo prosegua nelle sue conquiste: « Io me ne rallegro, dice Paolo dimentico di se stesso, e me ne rallegrerò sempre ». – Ma il suo motivo più grande di gioia — o almeno il più intimo — è l’affetto inalterabile dei Filippesi, il quale aspettava soltanto un’occasione per « rifiorire » splendidamente. Le cure, la devozione, l’abnegazione di Epafrodito che egli chiama suo fratello, suo collaboratore, suo compagno di armi, sua provvidenza visibile, lo hanno commosso profondamente. Dopo le angosce di una lunga malattia da cui si è appena riavuto, quest’uomo generoso ha manifestato il suo desiderio di rivedere la patria: Paolo lo incarica di rappresentarlo presso i suoi cari neofiti, lieto di poter dare a lui questa consolazione e a tutti questo piacere.

2. In mezzo a questa effusione di tenerezza paterna, in una lettera piena di abbandono, di sentimenti delicati, di allusioni affettuose, proprio nel momento in cui meno si aspetterebbe, compare la formola più precisa e più completa della cristologia paolina. Fa stupire il trovare questa dottrina sublime gettata come di passaggio in un brano parenetico, senza nessun proposito di controversia, come se si trattasse di un dogma volgare, da molto tempo conosciuto e creduto da tutti e che basta ricordare per farne la base di un’esortazione morale: fatto davvero sconcertante e affatto inesplicabile, se non si suppone che la preesistenza del Cristo e l’unione della divinità e dell’umanità nella persona di Lui, facessero parte della catechesi apostolica e appartenessero a quegli articoli elementari che nessun Cristiano doveva ignorare. Paolo eccita i fedeli all’unione fraterna, all’umiltà, a quell’abnegazione generosa che ci fa preferire agli interessi nostri quelli degli altri, secondo l’esempio di Colui che è il nostro modello perfetto: “Abbiate in voi i sentimenti che furono nel Cristo Gesù. Sussistendo nella forma di Dio, non considerò come una rapina l’eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma dello schiavo e diventando simile agli uomini. – E, riconosciuto uomo dal suo esteriore, si abbassò (ancora), facendosi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce. Perciò anche Dio lo ha esaltato senza misura e gli ha dato un nome che è sopra ogni nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo e su la terra e negli inferni, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è entrato nella gloria di Dio Padre” (Fil. II, 5-11). – Chi domandasse se qui Paolo parla del Cristo preesistente oppure del Cristo storico, proporrebbe male la questione. Paolo parla della Persona di Gesù Cristo e, secondo il suo solito, attribuisce a questo unico soggetto predicati che possono convenire alla preesistenza, allo stato di umiliazione o alla vita glorificata. Tocca all’esegesi distinguerli e classificarli secondo il senso ed il contesto. Quando si conosce per esperienza, che cosa diventi molte volte il testo più semplice tra le mani dei commentatori che lo stiracchiano in senso contrario, riesce una gradita sorpresa il constatare qui l’accordo quasi unanime della tradizione patristica. A dire il vero, i Padri greci e latini non sembrano qui avere il sospetto di reali difficoltà; dopo un breve commento, e qualche volta senza nessuna spiegazione, si affrettano a correre in giostra contro le eresie dei loro tempi. Bisogna udire San Giovanni Crisostomo, in uno slancio di magnifico lirismo, invitare i suoi uditori allo spettacolo degli eresiarchi — Ario, Sabellio, Marcione, Valentino, Manete, Paolo di Samosata, Apollinare di Laodicea, Marcello di Ancira, come le comparse Sofronio e Potino — abbattuti insieme sotto i colpi impetuosi di Paolo. « Se nei combattimenti del circo non c’è nulla che uguagli il piacere di vedere uno dei concorrenti urtare con violenza i cocchi dei rivali, rovesciare insieme quadrighe e guidatori, poi, mentre da ogni parte echeggiano gli applausi e le acclamazioni, volare solo alla mèta come trasportato nello spazio dall’ebbrezza del trionfo e dal delirio degli spettatori, quale non sarà la nostra gioia quando vedremo l’Apostolo del Cristo gettare a terra, insieme e con un colpo solo, tutte le costruzioni dell’errore e tutti gli arsenali del diavolo con i loro architetti! » Eccetto l’entusiasmo, gli altri Padri hanno un linguaggio simile. Le difficoltà rilevate da molti esegeti moderni non dipenderebbero dunque piuttosto da un difetto di metodo, da quella mania troppo comune di trascurare quello che è chiaro e che deve rischiarare il resto, per attaccarsi ai termini oscuri o ambigui, senza neppure accorgersi che i punti dubbi stanno alla periferia estrema della questione e non toccano per nulla il valore generale dell’insieme? Il punto capitale sta nel sapere a quale volontà del Cristo si riferisca lo spogliamento proposto ai Filippesi come esempio di abnegazione. L’esegesi tradizionale non esita affatto: essa trova l’annientamento nel fatto stesso dell’incarnazione e la considera perciò come effetto della volontà divina. Tuttavia certi interpreti, pochi ma risoluti, sono di un altro parere (7). Per loro lo spogliamento, sia pure simultaneo con l’incarnazione, viene logicamente dopo di essa e dipende perciò dalla volontà umana. Le loro ragioni sono speciose, ma non provano. Un atto che precedesse logicamente l’incarnazione, dicono essi, sarebbe comune alle tre Persone divine e non sarebbe proprio del Cristo preesistente. Non sarebbe per noi un esempio di umiltà e di abnegazione, virtù incompatibili con la perfezione della divinità. Finalmente non sarebbe meritorio, e il Cristo non gli sarebbe debitore della sua esaltazione. Ma queste ragioni, ripetiamo, non tengono. L’atto del Verbo il quale accetta l’incarnazione, è un atto di volontà nozionale e per conseguenza proprio del solo Figlio; si può dire anche che l’incarnazione è considerata come funzione ipostatica e non come atto di volontà o di potenza. Si noti che San Paolo non dice: « Abbiate i sentimenti che aveva il Cristo Gesù », ma dice: « Abbiate sentimenti conformi a quello che avvenne nel Cristo Gesù ». Ora il senso cristiano ha sempre considerato il fatto dell’incarnazione come un eccitamento all’abnegazione e alla rinunzia, ed a ciò è autorizzato dallo stesso Apostolo che non teme di proporre alla nostra imitazione colui che « essendo ricco » di tutte le ricchezze del cielo, « è stato povero per causa nostra, per arricchirci con la sua povertà ». Se si oppone che l’incarnazione, e come atto divino e come funzione ipostatica, non è meritoria, la risposta è facile. Nel periodo di Paolo vi sono parecchie azioni delle quali almeno una, espressa per l’ultima — l’obbedienza della croce — qualifica la volontà umana del Cristo e chiede come ricompensa la sua esaltazione gloriosa: « Egli si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato ». Se assolutamente si vuole far riferire il « perciò » a tutto quello che precede, bisognerà dire allora che esso significa tanto la convenienza quanto il merito. Non vi è dunque nulla che ci obblighi ad abbandonare l’opinione tradizionale; anzi, anche indipendentemente dalle ragioni di autorità, tutto c’invita a conservarla. È tuttavia giusto il notare che la nuova opinione di Velasquez e dei suoi seguaci, non intaccando la divinità di Gesù Cristo, è respinta piuttosto per l’esegesi che non per l’ortodossia. Che cosa significa la forma di Dio? Questa parola forma indica, nel Nuovo Testamento, qualche cosa di profondo e di intimo, ben distinto dall’esteriore e dalle apparenze, che tocca l’essenza stessa dell’essere e ne è inseparabile. Questo medesimo significato lo ritroviamo nei contemporanei dell’Apostolo, Giuseppe e Filone. Quest’ultimo dice che la forma di Dio non può ricevere, come una medaglia, un’aggiunta o una nuova impronta; l’altro afferma che Dio, invisibile per la sua forma e la sua maestà, si manifesta a noi con le sue opere e con i suoi favori. Così si spiega perché i Padri greci, col sentimento vivo che essi hanno del valore dei termini della loro lingua, identificano senz’altro la forma di Dio e la divinità. Ora essi danno come sinonimo di forma, o la natura o la sostanza, o l’essenza, benché non ignorino certamente la differenza metafisica di questi concetti; ora per forma intendono il carattere specifico, ma facendo notare che nell’Assoluto, dove non vi può essere mescolanza di atto e di potenza, il carattere specifico è lo stesso essere. E poi, essendo la forma di Dio l’opposto della forma di schiavo, e non potendo questa, in ultima analisi, significare altro che la natura umana, « essere nella forma di Dio » ed « essere Dio » sono necessariamente due formule equivalenti. Il Verbo non poteva prendere la forma di schiavo senza diventare veramente uomo e non può neppure essere nella forma di Dio senza essere veramente Dio. Quest’ultima espressione sembrava ai Padri ancora più chiara e meno discutibile dell’altra, e parecchi se ne servirono per stabilire contro i doceti la realtà della natura umana del Cristo. Non è dunque necessario, per il rigore della nostra conclusione, intendere la forma nel senso dell’ ἐντελέχεια (= entelekeia) di Aristotele, benché questo significato filosofico, noto ai contemporanei dell’Apostolo, potesse benissimo essere divenuto di uso comune (8). Un punto troppo dimenticato, eppure capitale, è che il Verbo esisteva nella forma di Dio anteriormente agli atti della volontà umana e agli effetti della volontà divina. Il participio presente (ὑπάρχων=uparkon) messo in correlazione con aoristi, prende il significato dell’imperfetto e indica l’esistenza senza limite di tempo. Esso coincide col momento preciso della durata espresso con l’aoristo, ma lo sorpassa da una parte e dall’altra, poiché precede logicamente quell’istante indivisibile e non finisce necessariamente con esso.Inoltre qui è, come è ordinariamente, causativo — essendo il senso avversativo soltanto eccezionale in queste specie di costruzioni — e si deve tradurre: « Perché era nella forma di Dio ». La parafrasi di Estio è dunque ottima: Cum esset ac sit in natura Dei, id est cum esset ac sit verus Deus.

II. LO SPOGLIAMENTO DEL CRISTO

1. EXINANIVIT SEMETIPSUM. — 2. LA CHENOSI.

1. Finora abbiamo a bello studio trascurato l’inciso molto discusso non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo sed emnanivit In realtà esso non aggiunge nulla di essenziale all’insegnamento dell’Apostolo, benché lo precisi e lo circoscriva. Non c’è dunque da stupire se i Padri v’insistono poco e se ci lasciano indovinare il loro pensiero più che non lo esprimano formalmente. Essi hanno ragione, perché le differenze di esegesi nella spiegazione di questo particolare non toccano seriamente il significato dell’insieme. – Anzitutto che cosa vuol dire precisamente l’eguaglianza con Dio? È l’eguaglianza di sostanza, oppure l’eguaglianza di grado e di trattamento? Certamente l’eguaglianza di condizioni suppone l’eguaglianza di natura, e nessuno ha diritto agli onori divini se non è realmente Dio. I Padri hanno dunque potuto conchiudere legittimamente da questa frase la consostanzialità delle Persone divine; ma la questione sta nel sapere se hanno fatto ciò per via di ragionamento e come teologi, oppure per via di analisi e come esegeti. È certo che l’espressione greca (εἶναι ἴσα Θεῷ = einai isa Teo) non significa direttamente « essere eguale a Dio », ma « essere alla pari di Dio, nello stesso grado di lui ». E parecchi Padri intendono infatti così l’eguaglianza con Dio, poiché dicono che il Verbo, incarnandosi, vi rinunzia per la sua natura umana. – Un altro dubbio è questo: il greco (ἐκένωσεν ἑαυτόν = ekénosen eauton), come il latino exinanivit semetipsum, può avere un senso assoluto o un senso relativo. Preso assolutamente, si deve tradurre con « si annientò »; preso relativamente, sarebbe « si spogliò ». Il secondo significato è senza dubbio il più naturale; ma i commentatori domandano di che cosa si è potuto spogliare il Verbo. Non certamente della forma di Dio, poiché in qualunque ipotesi la forma è inerente alla natura e virtualmente identica ad essa; si sarà dunque spogliato dell’eguaglianza di trattamento e di onori? Non si rinunzia alla propria natura, ma si può rinunziare ai diritti che la natura conferisce. Conservando a queste due espressioni il loro valore preciso, noi otteniamo un senso di facile interpretazione e teologicamente esatto. – Insomma, la sola difficoltà seria consiste nello stabilire il rapporto dei due membri: Non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo: sed exinanivit semetipsum. La parola grecaρπαγμός (= arpagmos), come anche il latino rapina, può essere attiva o passiva; in altri termini, può significare latrocinio o preda. Generalmente i commentatori latini stanno al senso suggerito dalla Volgata: « Perché era nella forma di Dio, non considerò come u n furto l’eguaglianza con Dio; tuttavia si spogliò prendendo la forma di schiavo ». Il Verbo non poteva considerare come un’usurpazione l’essere uguale al Padre poiché, essendo nella forma di Dio, è consostanziale al Padre; tuttavia il giusto sentimento della sua grandezza non gl’impedì di spogliarsi. – La maggior parte dei greci, quelli almeno che espressero più chiaramente il loro pensiero, espongono in modo diverso il senso dei termini: « Perché Egli era nella forma di Dio, il Verbo non considerò l’eguaglianza divina come una preda o un bottino che si vuole serbare avidamente, per timore di venirne privato se si abbandona per un momento, ma al contrario se ne spogliò prendendo la forma di schiavo ». Come si vede, la differenza di punteggiatura esprime in modo sensibile la diversità delle due interpretazioni: nell’una vi è soltanto una frase subordinata il cui senso non è completo se non dopo l’ultimo membro; nell’altra gli incisi sono coordinati, e il primo membro dà un senso compiuto. Ma tutte e due affermano con la stessa precisione, che l’eguaglianza divina appartiene al Verbo per diritto naturale, e che Egli può rivendicarsela senza ingiustizia. Quando Ario insinuava che se il Cristo non si era abrogata l’eguaglianza divina, riconosceva di non averne diritto, tutti i Cattolici insorsero sdegnosamente contro quella perversa esegesi, ripresa ai nostri giorni da alcuni scrittori non ortodossi. – Dunque, sotto l’aspetto teologico, le due interpretazioni sono quasi equivalenti. Ma quattro ragioni principali ci fanno preferire quella di San Giovanni Crisostomo e del suo secolo: l’autorità dei Padri greci assai più in grado di apprezzare le esigenze della loro lingua; il contesto che ci fa aspettare una lezione di umiltà, anziché l’asserzione diretta della dignità del Cristo; il lessico che sembra imporre alla locuzione ρπαγμόν ἡγεῖσθαι (=arpagmon egheistai) questo senso determinato; finalmente la grammatica che viene meglio rispettata se si traduce ἀλλά (= alla) per « ma » anziché per « tuttavia ». In questa ipotesi, noi scomponiamo il pensiero di Paolo nei suoi momenti successivi: il Cristo preesistente nella forma di Dio, e perciò Dio, quando meditava di farsi uomo, non considerava gli onori divini ai quali aveva diritto, come un bene che dovesse conservare gelosamente. Al contrario, se ne spogliò volontariamente facendosi uomo, nascondendo la forma di Dio sotto la forma di schiavo. L’esempio di umiltà e di abnegazione non è tanto nella volontà del Verbo che decreta gli abbassamenti della vita mortale (poiché tale volontà è comune alle tre Persone divine) quanto nel fatto stesso dell’unione ipostatica. Dopo l’incarnazione, la volontà umana compie lo spogliamente, accetta la morte di croce con la vita di obbedienza e di rinunzia che la prepara e che da quella morte viene incoronata. Per questo — per tale atto di obbedienza e di umiliazione — Dio. proporzionando la ricompensa al merito, lo esalta senza misura e lo fa sedere alla sua destra.

2. Dal nostro testo mal compreso nacque la stravagante teoria della chenosi o spogliamento del Verbo fatto uomo. In fondo, la chenosi deve la sua prima origine alla difficoltà di concepire due nature complete unite in una sola e medesima Persona; o l’una delle due nature era assorbita dall’altra, oppure esse erano mescolate in modo da produrre una natura nuova, oppure una delle due era diminuita affinché, completata dall’altra, potesse formare con essa un tutto unico. A dire il vero, l’inventore è Ario, benché la parola non sia sua. Egli ammetteva nel Cristo tre parti: un corpo, un’anima irrazionale e il Verbo o Logos che suppliva l’anima ragionevole degli altri uomini. La natura umana del Cristo era dunque incompleta, e il Logos il quale non era né eterno né infinito né Dio nel vero senso della parola, non poteva diventare parte integrante di una natura finita, senza subire egli stesso qualche cambiamento. Così gli Ariani ammettevano che il Logos non era fisicamente immutabile, benché tale fosse moralmente, come incapace di peccare. Al contrario di Ario, Apollinare di Laodicea sostiene la piena divinità del Logos, ma, come Ario, fa del Logos il terzo elemento dell’unica natura del Cristo il quale dunque si compone di un corpo, di un’anima sensibile o principio vitale e del Logos che fa le funzioni di un’anima ragionevole. Per quanto egli protesti che in questa fusione il Verbo rimane immutabile, tutto il suo insegnamento e i paragoni che adopera, confutano la sua asserzione: il Cristo infatti, secondo lui, non è né interamente Dio né interamente uomo, ma una mescolanza di uomo e di Dio; come il mulo e qualche cosa tra il cavallo e l’asino, come il colore grigio è una mescolanza di bianco e di nero. Tutti i monofisiti, ammettendo la fusione delle due nature, dovevano fatalmente finire nello stesso errore, se non volevano cadere nel docetismo. – Due idee di Lutero contribuirono grandemente a stabilire la chenosi in seno al protestantesimo. Lutero sosteneva, contro l’opinione comune, che lo spogliamento di cui parla San Paolo, non doveva essere stato compiuto dalla volontà divina del Verbo, perché, diceva, il Verbo incarnandosi non si era potuto spogliare di se stesso. Egli inoltre intendeva la comunicazione degli idiomi in questo strano senso, che la natura umana del Cristo possiede realmente gli attributi della natura divina e, reciprocamente, la natura divina possiede gli attributi della natura umana. Gesù Cristo, in quanto nomo, sarebbe dunque onnisciente, onnipotente, immenso. I luterani ritornarono più tardi all’esegesi ordinaria e intesero il testo di San Paolo del Verbo medesimo; ma parecchi accettarono la conclusione che Lutero temeva — però a torto — cioè che il Verbo, spogliandosi, aveva dunque perduto qualche cosa della sua divinità. Non si tardò neppure a vedere che la comunicazione degli idiomi, nel senso di Lutero, era inammissibile, poiché l’umanità del Cristo non si può trovare dappertutto. Alcuni cercarono di salvare la dottrina del maestro, dicendo che l’umanità del Cristo possedeva bensì in diritto gli attributi della divinità, ma che li aveva nascosti facendone soltanto un uso occulto, oppure che se ne era volontariamente spogliata non volendosene servire. La maggior parte poi aggiungevano che gli attributi della natura divina si possono benissimo comunicare alla natura umana, ma non reciprocamente; facevano anche le loro riserve per l’ubiquità dell’umanità del Cristo, che è infatti inintelligibile. – I difensori moderni della chenosi stanno di preferenza sul terreno filosofico. Una certa filosofia identifica la Persona con la coscienza; la perdita della coscienza (del sentimento dell’io) equivarrebbe all’annientamento della persona. Due coscienze in un medesimo soggetto, sarebbero due persone. Non vi sono dunque nel Cristo una coscienza divina e una coscienza umana, ma vi è soltanto o una coscienza divina o una coscienza umana. Con questo principio è impossibile sfuggire alla chenosi, eccetto che si dica che l’umanità del Cristo è assorbita nella divinità. Tomasio, il teorico del sistema, vuole che la coscienza del Verbo sia divenuta una coscienza umana, capace di evoluzione e di progresso. Altri pensano che l’incarnazione consiste nel prendere il predicato uomo invece del predicato Dio, cessando di essere Dio (Hofmann). Oppure il Cristo ha cambiato l’io divino con un io umano, e vi è una cessazione momentanea della vita intima del Verbo, e così il Padre cessa di generare il Figlio e lo Spirito Santo non procede più che dal solo Padre (Gess). Parecchi, fermandosi all’eresia di Ario e di Apollinare, fanno fare al Verbo, nel composto umano, la parte dello spirito o principio intellettuale (Gaupp). In tutti questi casi, l’incarnazione per il Verbo si riduce alla perdita o alla diminuzione della forma divina. Se ai fautori di questo singolare sistema si oppone l’immutabilità di Dio, essi rispondono o che noi non sappiamo in che cosa consista l’immutabilità divina, oppure che Dio può fare tutto ciò che non è incompatibile col suo carattere morale, ossia con la sua santità. – Noi abbiamo detto in che cosa consiste, per il Figlio di Dio, lo spogliamento dell’incarnazione. Egli volle liberamente unirsi ad una natura sottoposta a limitazioni di ogni sorta. Vi sono anzitutto le limitazioni L’umanità del Cristo è creata, e per conseguenza è finita: infinita in dignità, come unita ipostaticamente ad una Persona divina, ma finita nella sua essenza e dotata di una perfezione che non esaurisce tutta la potenza divina; senza contare che essa non occupa neppure il grado più elevato nella scala degli esseri attuali. Vi sono pure le limitazioni di ordine economico, le quali si riferiscono al compito e all’uffizio di Redentore, nel disegno presente della Provvidenza: il Cristo doveva soffrire e morire prima di entrare nella gloria, e di conquistare con i suoi meriti un’esaltazione che gli apparteneva per diritto naturale. Vi sono ancora, ma non sappiamo in quale misura, le limitazioni volontarie. Non dimentichiamo che l’unione ipostatica, non influendo direttamente su la natura umana del Cristo, potrebbe non apportare nessun cambiamento fisico al corpo, all’anima, alle facoltà intellettuali della santa umanità; ed ecco qui un vasto campo lasciato alla rinunzia volontaria. Il Cristo volle nascere povero; si caricò spontaneamente dei nostri dolori e delle nostre infermità; conobbe le tentazioni e le angosce dell’agonia; si fece servo dei suoi fratelli adottivi; rinunziò soprattutto, per la sua esistenza terrena, agli onori divini che per diritto gli spettavano. Con questo spogliamento volontario operato nella sua santa umanità, il Verbo ha spogliato se stesso, poiché forma con l’umanità una sola Persona.