BATTAGLIA DI LEPANTO

BATTAGLIA DI LEPANTO

[Sac. V. Stocchi: DISCORSI SACRI, Tipogr. Befani ed. Roma, 1884, – impr.]

DISCORSO LI.

PER LA VITTORIA DI LEPANTO

“Dies autem victoriæ huius in numero sanctorum dierum accipitur et colitur exilio tempore usque in præsentem diem.” (JUDITH. XVI, 31)

Accingendomi a celebrare la gran vittoria per la quale andrà eternamente famoso il pelago delle Curzolari e il golfo di Lepanto, mi si para davanti una domanda, che molti di voi, sono certissimo, avranno mosso a se stessi, e vorrebbero, potendo, muovere a me. Perché mai si commemora della vittoria di Lepanto il terzo centenario con una solennità che il primo centenario e il secondo non videro? Ecco signori. Non appena, volgono appunto tre secoli, volò per la attonita Europa la gran novella, che la mezza luna insolente per lungo corso di formidabili vittorie, aveva nelle acque di Lepanto abbassato le corna in faccia al segno trionfale della croce, ed era profligato e vinto il nemico del nome cristiano, smisurata fu l’allegrezza che commosse i cristiani popoli, smisurate le feste che se ne fecero per tutta la cattolica Chiesa. Si resero  grazie immortali a Dio onnipotente, guiderdoni e trionfi, emulatori degli antichi premiarono il valore dei vincitori, solennità, monumenti e templi votivi si decretarono ad eternare la memoria di un conflitto che aveva salvato la Chiesa dall’eccidio e la società dalla barbarie. E con tutto ciò il primo secolo che corse dopo tanto trionfo, si chiuse senza secolari feste, e senza secolari feste si chiuse il secondo. Oggi solamente dopo tre secoli, rimenando la ruota degli anni il giorno anniversario del gran conflitto, la rimembranza della cristiana vittoria ha commosso il mondo cristiano, e la festeggiano i cristiani popoli con disusata pompa di secolare solennità. Perché noi nipoti di ben tre secoli scuote una rimembranza che non iscosse i padri nostri, che del trionfo Lepanteo avevano recente la memoria e godevano il frutto? Questo perché o signori, che voi mi chiedete qui sulle mosse io vi dirò sulla fine della orazione raccogliendolo quasi frutto e corona della orazione medesima. Nella quale come apparecchio proporzionato a tanta risposta vi mostrerò: che la vittoria di Lepanto è vittoria comune del Romano Pontefice, della flotta cristiana e di Maria ausiliatrice del cristiano popolo. Il Romano Pontefice strinse la lega cristiana, congiunse la cristiana flotta, e la sospinse al conflitto. La cristiana flotta combattendo prostrò il nemico, Maria condusse a lieto fine i consigli del Pontefice e diede la vittoria alle armi dei combattenti. Onde a Maria nel gran successo le prime parti si debbono, le seconde al Pontefice, il cristiano stuolo proclama esso medesimo che a lui si debbono le terze. Questa conclusione raccoglierete nettissima dal mio discorso, il quale mentre nulla detrarrà al valore guerresco dei prodi di Lepanto, riferirà la gloria al principio d’ogni bene Dio onnipotente e alla guerriera della Chiesa, Maria, e in secolo ribelle a Dio e a Gesù Cristo tornerà alle anime cristiane vieppiù gradito per questo, che le rose di Maria s’intrecceranno alle palme guerresche; e il suono del nome benedetto e santo tempererà il rimbombo delle artiglierie e il fremito delle ire marziali.

1. Né fa mestiere di molta indagine per accertarsi che nell’impresa coronata dal trionfo di Lepanto, Maria prima e poi il Romano Pontefice vendicarono le prime parti, basta che altri ponderi con animo sincero il successo. A che potenza fosse salita nella seconda metà del secolo decimo sesto la mezza luna lo sanno tutti. Infranti da più di un secolo i confini dell’Asia, distrutto l’impero orientale e recata in sua mano Costantinopoli, si era il terribile ed insolente Mussulmano assiso sul Bosforo, e da quella formidabile rocca teneva il piede sul collo all’Oriente: e soggiogato l’Egitto e la Siria, espugnata Rodi, occupava per terra con formidabile esercito l’Ungheria, s’insignoriva per mare di quasi tutta la Grecia, assaliva Malta, e risospinto dal prodigioso sforzo di pochi cavalieri di Gesù Cristo, per rabbia di vendetta piombava sul regno di Cipro, e dopo i macelli di Nicosia e le perfide e invendicate carneficine di Famagosta, armata una flotta di ben trecento vascelli correva da padrone i mari, tentava la Sicilia e minacciava Italia. Gemeva la cristianità desolata alle novelle di tante rovine, Venezia soprattutto tremava di tanto apparecchio, e più del danno presente impauriva tutti il terrore delle desolazioni future. Si chiamava aiuto da ogni parte, ma niuno muoveva piede né mano. Come il villano dalla porta del suo casolare mirando torpido e spensierato il temporale che desola i campi del suo vicino, si consola pensando che mentre gli altrui flagella risparmia i propri; così i monarchi della cristianità divisi da una bieca politica e da una forsennata gelosia di stato, o non si curavano, o dissimulavano, o godevano che il turchesco turbine si rovesciasse sulle province altrui purché risparmiasse le proprie: di che il barbaro insolentiva, e impotente contro tutti ma inespugnabile contro ciascuno, crescendo della inerzia universale, uno dopo l’altro assaltandoli li conquideva. Solo il Romano Pontefice pieno il petto di quella carità che mancava altrui, levava la voce e chiamava alle armi. Sorgessero finalmente, e falange confederata e terribile piombassero che era tempo, sul nemico del nome Cristiano. Il Pontefice era Pio quinto, santissimo e costantissimo petto. Ma che poteva fare in tanta cecità delle menti e frenesia dei consigli? Né l’autorità della persona, né la santità della vita, né l’altezza del grado, né la presenza del pericolo valevano a scuotere gl’infingardi petti. Chiamava Cesare? Ma l’impero romano col Turco aveva pace. Invitava Francia? Ma il Cristianissimo nonché pace, col nemico del nome cristiano aveva, obbrobrio sempiterno, alleanza. Spronava Spagna? Ma il Cattolico sollecito delle costiere sicule ed africane, godeva che il turchesco artiglio ghermisse i possessi marittimi dell’emula Venezia. I mesi passavano, passavano gli anni, si negoziava sempre non si operava mai, e nell’inerzia cristiana il furore del barbaro non aveva fine né modo. Ogni costanza si sarebbe fiaccata, ogni pazienza avrebbe dato vinte le mani, e protestando la propria impotenza davanti agli uomini e a Dio si sarebbe rimasta. Ma non venne meno la costanza santa di Pio. Non pigliavano i suoi consigli l’impulso o dalla ambizione o dall’interesse, o dalla politica, sì dalla carità e dallo zelo dell’onore di Gesù Cristo: onde deluso non disperò, respinto non si rimase, e quando vide che i presidi e gli accorgimenti umani non profittavano, non perde la fiducia, perché intatti ed infallibili gli rimanevano i presidi divini. A Maria si rivolse, a Maria presidio e difesa del cristiano popolo: nelle mani onnipotenti della benedetta fra le donne commise la causa e la difesa del nome cristiano, e ordinò che la guerra che i potenti fare non volevano con la spada facessero i popoli con le orazioni, e si collegassero a supplicare Maria col Rosario.

2. La quale arte e maniera disusata di guerra ordinata contro il Mussulmano dal condottiere santissimo dell’esercito di Gesù Cristo, mi rivoca al pensiero Giosuè e la espugnazione di Gerico. Forte per sito e per munizione levava Gerico la fronte nei campi di Palestina, e colle brune mura, colle torri, coi baluardi attraversava la via al popolo del Signore, e sembrava sfidare l’esercito di Giosuè che risoluto di averla in pugno la circondava. Ma credereste? Chi dalle mura e dagli spalti della assediata piazza avesse speculando osservato il campo nemico, tutt’altro veduto avrebbe fuori che macchine, terrori ed apparati di guerra. Tutto era silenzio e quiete in quei singolari accampamenti, nulla che desse sentore di battaglia o di assalto. Solamente allora che il sole illustrava l’Oriente col primo raggio si vedeva uscire dalle trincee in ordinanza tutto il popolo ebreo. Precedeva l’esercito in tutto punto di arme, all’esercito succedevano sette sacerdoti che tenevano in pugno le sette trombe del giubileo, alto portata sugli omeri dei leviti veniva appresso l’Arca del Testamento, e appresso all’arca il popolo alla confusa, turba mista di donne, di fanciulli e di vecchi. Così ogni mattina per sette giorni uscivano dal campo, così lenti e gravi senza far motto giravano intorno alle mura di Gerico, così fornito il giro senza dar fiato a una tromba, senza brandire una lancia, senza ferire un colpo, di cheto e in silenzio alle tende si riducevano. Che dovettero dire di quest’arte singolare di guerra gli abitanti di Gerico? Forse il primo giorno sbalordirono non sapendo dove la cosa andasse a parare, forse osservarono trepidando il secondo, stettero forse sull’avviso anche il terzo; ma quando il quarto il quinto giorno ed il sesto andando in arme alle mura per ributtare un assalto si trovarono spettatori di una tacita processione, chi ne avrà contenuto le risa, gli scherni, i motteggiamenti? Così dunque, dovevano dire, si fa la guerra? Così si espugnano le città? Abbatterete le torri con le processioni e con le trombe, coi sacerdoti e con l’arca intorpidirete alle armi le mani dei combattenti? Così forse dissero, ma se lo dissero il quinto giorno ed il sesto, certo non lo dissero il settimo. Uscì infatti allo spuntare del settimo giorno col consueto ordine dalle tende il popolo d’Israele e intraprese il viaggio. Ma che? Pervenuta l’arca santa di Dio al cospetto della città i sacerdoti dettero fiato alle trombe, il popolo mise un grido. Stupenda cosa! A quel clangore a quel grido ecco crollare i baluardi, ecco precipitare le torri, ecco fendersi le muraglie, e irrompendo con le sguainate spade per le ruine 1’esercito di Giosuè, fu Gerico in breve ora un vasto campo di strage dove tra il sangue e i cadaveri imperversava il ferro ed il fuoco. Bestemmie simili a quelle dei Gericuntini udiamo noi ogni giorno dagli empi, e perché la Chiesa angariata ed oppressa, alla ferocia e alla rabbia dei figliuoli del diavolo oppone l’orazione e invoca il braccio e il piede infrangitore di Maria, ci deridono, ci scherniscono, ci domandano se le processioni sono eserciti, le orazioni e i rosari artiglierie. Ridevano anch’essi i Mussulmani, mentre correndo i mari col formidabile naviglio non si abbattevano in una vela, in una sola vela cristiana che accennasse di fronteggiarli, e solo udivano dagli esploratori novelle di processioni e di suppliche, che recitando il rosario per le meste contrade e circondando l’Arca del nuovo patto Maria, facevano i cristiani popoli. Ridevano, si fingevano con l’animo la vittoria, e immaginando dividevano le prede che riportato avrebbero sopra un nemico inerte e discorde, e vinto già col terrore dell’apparato e del nome. Ma ecco a un tratto subitaneo rivolgimento di cose. Una formidabile armata cristiana già tiene il mare e si appresta a piombare sul nemico. Ha mosso da Messina, è volata di lancio a Corfù, e bramosa di venire al cozzo s’inoltra. Dugento dieci vascelli, trenta navi, sei galeazze, mille e più di ottocento cannoni, ventotto mila soldati, marinari quasi dodici mila, quarantatremila validi rematori. Cento cinque galere manda Venezia e le conduce Sebastiano Veniero; dodici il Papa e le comanda Marcantonio Colonna, Spagna ottantuna tutte italiane e cavate da italiani porti, Napoli, Genova, Malta e Livorno, e le guida gran nome ma poco fido, Gian’Andrea Doria. Duce Supremo di tutti Giovanni d’Austria, luogotenente il Colonna, tremila nobili italiani d’inclito nome d’ogni italica provincia d’ogni città militano per Gesù Cristo, nel cristiano naviglio. Forse non vide mai il mare flotta più bella, non vide mai certamente né più infocato zelo né causa più santa. Ardono capitani e soldati di incontrare il nemico, di piombare sopra di esso, di vendicare in un giorno più secoli di onta e di danni inflitti al nome cristiano. Come mai tanto miracolo in termine sì disperato di cose? Chi ha raccolta questa flotta? Chi l’ha armata? Chi l’ha congiunta? Come tanta consensione è succeduta a tanta discordia? Come tante gelosie e tante ombre di bieca politica hanno dato luogo, e Gesù Cristo vede una flotta cristiana volare col suo vessillo alla vendetta della sua causa e alla gloria del suo nome? È tutta opera di Pio e della Vergine nata a schiacciare il capo di satana. O carità sviscerata del santo Pontefice, o veglie notturne, o diurne angosce, o ardenti preghiere, o lacrime sparse con larga vena, o speranze deluse, o disinganni crudeli! Vide più volte le pratiche oggi condotte a termine, rompersi duramente domani, vide la concordia conciliata con grande stento, per un’ombra di gelosia interessata disfarsi, vide ipocrite mostre, fatti ingannevoli, promesse non mantenute, imprese fallite, vide ahi dolore, espugnate città, province invase, regni perduti mentre la infingardaggine e la politica legava le cristiane mani, vide pianse e gemé, e l’eco notturna del Vaticano ripeté più volte i gemiti e i lai del desolato petto. Eppure non disperò Celeste visione comparendogli col rosario Maria, lo rincuorava, e confida, dicevagli, confida o Pio. Vedi: son io quella stessa che per mano di Domenico col mio rosario prostrai gli Albigesi, e sappi non ho abdicato il patrocinio di S. Chiesa, né perduta la mia possanza. E Pio confidava, e vinse; e quei medesimi che più ripugnavano, tirati dal rosario di Maria quasi da potente macchina, vennero tergiversanti sì, ma pur vennero, e fu stretta la lega, ed eccovi la flotta cristiana correre a fare le Curzolari famose per un turchesco eccidio e per una cristiana vittoria. Capitani e soldati, rematori e ciurma, hanno espiato le loro colpe nel Sacramento di Penitenza, e reficiati del corpo di Gesù Cristo, al coraggio che dà la natura hanno congiunto quello che infonde la pace della coscienza e la grazia. Uno è di tutti l’animo, combattere per Gesù Cristo, vincere o morire: beato chi vedrà la vittoria: ma più beato chi per sì nobile causa profonderà il sangue e la vita. Il mondo moderno non è capace di intendere questo linguaggio troppo nobile per tanta bassezza. Ma voi andate o anime generose piene il petto di quella fede che vince il mondo, e tu vola o naviglio che porti le speranze del nome cristiano, vola e ti sia propizio il mare, placido il vento, sicuro il viaggio, accelerato e trionfale il ritorno. Venga la vittoria sulle tue prue, semina dovunque vai lo spavento, fugga innanzi a te sbaragliato il nemico. Gesù Cristo ti ha radunato dal cielo, Pio dalla tomba di Pietro ti benedice, ti mira con benigno riguardo la Stella del mare Maria, vola con la tua scorta e combatti, e precipitato per te nei gorghi del mare il Faraone del Bosforo, intuoni il mondo cattolico il cantico che sulle rive dell’Eritreo cantò Israele mentre l’onda fremente spingeva al lido i corpi, i carri e i cavalli del sommerso Egiziano.

3. E qui potrei convertire la orazione contro quegli ingrati codardi, che pieni il petto di livore e di rabbia contro il Pontificato cattolico lo accusano di nimicare quella civiltà che ha salvato, e quella Italia di cui è stato ed è la gloria ed il vanto: e contrapponendo opere ad opere ed imprese ad imprese, gettare loro in faccia ignominie non inventate ma vere, e non antiche ma recenti, non insuccessi no, ma sconfitte; ma non voglio turbare con tanta lordura, tanta bellezza e nobiltà di argomento. Torniamo signori alla flotta cristiana spettatori oramai di cristiana vittoria. Ecco qua: questo è il famoso golfo di Corinto oggi detto di Lepanto, che chiuso quasi steccato all’intorno per uso di conflitti navali, fu già teatro di battaglie per cui si volsero le sorti del mondo, ma oggi vedrà l’affrontata più formidabile che abbia visto o sia per vedere giammai. Correva l’anno mille cinquecento settantuno, spuntava l’alba del memorando giorno settimo di ottobre, e le due flotte Turca e Cristiana certe di combattere, muovevano l’una da Lepanto l’altra dalla contrapposta spiaggia di Cefalonia e si scontravano sulla bocca del golfo. Forte era la flotta Mussulmana di dugento venti vascelli e sessanta fuste: novanta mila uomini e settecento cinquanta cannoni gonfiavano la baldanza turchesca. Condottiero supremo era Ali che feroce per indole, e per vittorie insolente teneva il centro, il destro corno comandava Maometto Scirocco pascià di Alessandria, il sinistro il re di Algeri Lacciali. La Turca armata scopre dalla lunga la flotta Cristiana, la Cristiana si avvede della Turchesca. Ali con un colpo di artiglieria provoca il cristiano stuolo alla pugna, Giovanni d’Austria rispondendo con altro colpo accetta la sfida; succede una sosta e un quietare repentino quale è quello che precede la tempesta. Quinci si ordina in battaglia lo suolo turchesco, quindi il cristiano. Al centro contro Ali Giovanni d’Austria con Marco Antonio Colonna e Sebastiano Veniero, a destra Gian Andrea D’Oria contro Lacciali, a sinistra Agostino Barbarigo contro Scirocco. Alì fermo ed eretto sulla capitana col grido, col cenno, col lampo della scimitarra e degli occhi infiamma le squadre, Giovanni con una nobile corona di duci scorrendo sur un legno leggiero la fronte della battaglia, questi accende, quelli saluta, rincuora tutti. Veduto avresti nell’uno stuolo e nell’altro un ardore, un impeto, una faccenda, una ressa, e un chiamare, e un rispondere, e un rincuorarsi ed un fremere, e l’imperio di chi comanda e il moto di chi obbedisce. Quand’ecco a un tratto squillano con giulivo suono le cristiane trombe: a questo squillo quasi in atto di ossequio tutte le bandiere si abbassano e danno luogo a una sola. È il santo vessillo della lega che Pio pontefice pel giorno della battaglia donò alla flotta, che sale maestosamente sull’albero della capitana, e in nobile drappo dispiega al vento l’immagine gigantesca di Cristo crocifisso, e ai lati del Crocifisso le sembianze di Pietro e di Paolo guerrieri di santa Chiesa. Parve che Gesù Cristo medesimo si presentasse alla flotta condottiero e combattente divino, quando al calare degli altri stendardi volteggiò all’aura tra cielo e mare la maestosa sembianza del Figlio di Dio. Un grido pieno ed universale dei prodi salutò il santo segno, si piegarono davanti ad esso tutte le ginocchia, ad esso si conversero tutti gli occhi e tutte le mani, chi batteva palma a palma, chi percotevasi il petto, chi intuonava cantici, chi domandava mercé, e intanto i sacerdoti d’alto luogo espiavano novellamente col cristiano rito e benedicevano pontificalmente i guerrieri. Sembrò a questo spettacolo scolorarsi la mezza luna, corse ai mussulmani un gelo per l’ossa, impallidì il truculento ceffo di Ali, e Gesù Cristo parve affidasse i campioni col motto che fregia il vessillo, e come già a Costantino dicesse loro “Εν τούτῳ νικᾰ” (= en touto nika) vinci con questo. Ma già di mezzo alle flotte sparito è il mare, già fulminano orribilmente le artiglierie, un nembo di frecce stridenti nasconde il sole, vola quinci e quindi apportatore di morte il fuoco ed il piombo, e le navi con orribile affrontata vengono al cozzo. Quinci i legni cristiani nei turcheschi percotono, quindi i turcheschi nei cristiani; sembra che alla percossa si schianti il cielo, e il mare ne vada alle stelle. I cristiani coi raffi, coi rampiconi, con le catene alle navi turche si afferrano, i turchi alle cristiane. I Cristiani fatto nodo con le spade, con le picche, coi moschetti sui turchi si avventano, i turchi con le nude scimitarre si precipitano sui cristiani. Di qua si assalta, di là si resiste, questi cedono, incalzano quelli, nave con nave combatte, schiera con schiera, soldato con soldato: i bronzi tonanti vomitano senza posa strage e sterminio, il fuoco dall’un naviglio all’altro si rovescia a torrenti, un denso fumo ravvolge l’aria di fitta tenebra. Infuriano intanto disfrenate le fiamme, ardono le navi: e quali stridono con cigolio ferale, e quali scoppiano con orrendo fracasso, quali si fiaccano, quali si fendono: sembra che avvampi il mare, che il cielo precipiti, le grida dei Cristiani, le bestemmie dei turchi, gli urli dei feriti, i gemiti dei moribondi, le voci dei naufraghi che domandano mercé si confondono insieme con inenarrabile frastuono, mentre vola inesorabile fra schiera e schiera la morte, e l’onda tinta in vermiglio tranghiotte nei suoi gorghi le infrante navi, e dibatte col flutto o corpi semivivi di prodi che chiedono mercé, o membra e brani di lacerati cadaveri. Torciamo l’esterrefatto sguardo da tanta atrocità di spettacolo, lasciamo per poco i campi sanguinolenti del mare, e lungi dal fragore delle armi riduciamoci altrove spettatori di più miti battaglie e di più mansueti guerrieri. Vedete voi quel simulacro di soave sembianza, che portato alto sotto nobile padiglione percorre quasi in trionfo le vie popolose di tutte le italiche città? È la immagine benedetta di Maria che supplicata col rosario dai cristiani popoli combatte con la cristiana flotta intercedendo vittoria presso il Dio degli eserciti. La precedono in bella ordinanza supplici schiere di uomini coperti di sacco, di matrone in gramaglia, e di vergini bianco vestite, la circondano devoti drappelli di sacerdoti, la seguono innumerevoli turbe di popolo confuso e misto, le voci argentine dei fanciulli, le soavi delle donne, le tremule dei vecchi fanno echeggiare l’aria con vario concento. Dio ti salvi o Maria piena di grazia, il Signore è teco, intuona una schiera, Santa Maria Madre di Dio prega per noi peccatori, l’altra schiera risponde, e il dolce suono della cara prece molce soavemente i cuori e chiama sul ciglio le lacrime. Che vogliono queste turbe devote? Che si fa qui con questa pompa solenne? Si combatte qui come a Lepanto, ma la maniera della battaglia è diversa. Qui si combatte con le preghiere, a Lepanto con le artiglierie, qui con gl’inni di pace, là col fremito e con le ire guerresche, qui col saluto angelico a Maria ripetuto cento volte e cento, là con le ferite e col ferro. A Lepanto operano le mani dei combattenti, qui s’invoca Maria perché ai combattenti soccorra. E Maria invocata nelle cristiane città, a Lepanto combatteva, e battagliera terribile avventava sui mussulmani il terrore, la paura, lo scompiglio, la fuga, lo spavento, la strage. Quam pulchri gressus fui in calceamentis filia principis. O che belle orme stampavi nella pompa leggiadra del calzamento o figlia del principe! O quanto era formidabile nella battaglia il tuo incesso o Maria! Eri ai Cristiani bella come la luna, eletta come il sole, eri al mussulmano terribile, come esercito schierato in battaglia. In questo atto, in questo sembiante la vide dalla specola pacifica del Vaticano il santissimo Pio, e rapito con lo spirito nel teatro sanguinoso di guerra corse a un balcone, ed ecco, gridò, ecco è vinta la gran battaglia e l’ha vinta Maria, vedo la mezza luna abbattuta, e spiegato al vento sulla capitana nemica il trionfale vessillo di Cristo. Pio così in Roma esclamava: e in Lepanto in quell’istante medesimo una palla cristiana percoteva nella fronte Ali condottiero, che cadendo al suolo ingombrava nuovo Golia col trucidato corpo la nave. Lo vede un prode cristiano e detto fatto; si precipita nella capitana nemica ratto così che non più ratta la folgore, recide al condottiero ucciso la testa, la infigge su di una picca e, orrendo spettacolo, la ostenta levata in alto agli – Un grido di spavento e di orrore si leva tra i turchi, i Cristiani rispondono con un grido di gioia, ed ecco tosto un nodo di valorosi Cristiani irrompe nella spaventata nave, urta, rovescia, trabocca in mare ogni ostacolo, e se ne fa padrone. Fu allora che calò, veggenti tutti, dal più sublime albero il turchesco stendardo, e salì trionfando a pigliarne il luogo il vessillo di Gesù Cristo. Vittoria vittoria si grida al centro della cristiana flotta, al sinistro e al destro si ripete vittoria. D’allora in poi non fu più battaglia fu strage, la disfatta dei turchi fu piena, universale, terribile, la carneficina e la preda non ebbero fine né modo. Cento sette navigli arsi, cento trenta presi, trucidati quaranta mila turchi, prigionieri ottomila, liberati diecimila schiavi Cristiani, il bottino inestimabile, le bandiere, i cannoni, le armi, l’argento, l’oro, le gemme senza numero e senza peso, mentre le recise teste di Alì e di Scirocco infitte sulle picche e portate in col pallore della morte, col sangue, con lo spettacolo, seminavano il terrore e lo sgomento in quei petti che testé infiammavano col lampo degli occhi e col grido. O si abbiano pure e lodi e trionfo nella gran giornata e combattenti e duci; e più che le armi dei combattenti e le prodezze dei duci siano nel trionfo di Lepanto esaltati i consigli del Pontefice Romano Pio quinto. Ma e Pio e combattenti e duci cedano a Maria le prime lodi e il vanto della vittoria, che bene sta. Taccia la lingua del cane che in laide e invereconde pagine invidia e contende il gran trionfo a Maria. – Ascolti i prodi di Lepanto che a gran voce proclamano, che Ella fu veramente che prostrò il nemico e ne conquise l’orgoglio. A Lei dunque sciolga il voto la Cristianità tutta quanta, al suo tempio si appendano le opime spoglie, le armi, le bandiere e i trofei del nemico, a Lei vincitrice sorga sul Quirinale il memore tempio, una solennità perpetua ricordando la gran vittoria intrecci alle palme di Lepanto le rose di Maria, e ringraziamento dei passati e presagio dei trionfi futuri si avvezzi la Chiesa a salutare la Vergine benedetta: Ausilìatrice del popolo Cristiano, prega per noi.

4. E se celebrassi il trionfo di Lepanto in qualunque altra parte del mondo fuorché in Italia, e in qualunque altro tempo fuori che in questo, avrei finito e liberata la mia parola, potrei fra brevi istanti tacere. Ma in Italia, i n questi tempi che corrono, la gloria di Dio e di Maria chieggono quasi per proprio diritto che anche questo soggiunga, che la vittoria di Lepanto fu vittoria italiana. Lasciate o signori che fra tante vergogne che la rivoluzione accumula sul capo di questa misera Italia, una gloria vera le rivendichi che la religione le partorì, la gloria della giornata di Lepanto. Le imprese infatti e le vittorie guerresche si attribuiscono ad una gente, quando in essa si agitarono della impresa i consigli, in essa se ne fermò il partito, da essa venne l’impulso, essa fornì le armi, le macchine, gli strumenti marziali, essa e i soldati e i condottieri, e ciò che è il nerbo nelle cose di guerra, essa con l’oro dei suoi erari diede vita e movimento a ogni cosa. Ora o signori, con gli incorrotti monumenti della storia alla mano io potrei senza fatica, discorrendo uno per uno i capi proposti, mostrare che tutto fu Italiano nella impresa di Lepanto. Un italiano principe infatti, Pio quinto pontefice, concepì il disegno della lega, e col consiglio, con l’autorità, con le legazioni, con l’oro le dette vita, mossa ed impulso: italiane tutte non una eccettuata, furono le navi che fecero in Lepanto le mirabili prove, italiane le artiglierie e le armi: le munizioni e gli arredi o da battaglia o da corso italiani: italiani da non molti spagnuoli infuori, i soldati: i rematori italiani, italiani i marinari e le ciurme. Italiano veramente non fosti o Giovanni d’Austria supremo duce della cristiana flotta, ma tutti italiani furono gli altri duci, e confessasti tu stesso o giovane egregio, e nessuno al detto tuo ripugnò, che la gloria della giornata di Lepanto appartenne al grande italiano che ha legato ad essa perennemente il suo nome, Marco Antonio Colonna. E mi metterei volentieri per questa via, anche perché fosse aperto che noi uomini di chiostro e di chiesa amiamo la patria e ne vendichiamo la gloria, ma la gloria vera non la falsa, la cristiana non la pagana, quella che partoriscono i consigli generosi e le opere egregie, non quella che fruttificano le tirannie e le vessazioni contro gli inermi ed i deboli, e le vigliacche connivenze verso i potenti. Ma io parlo nel cattolico tempio, tra la pompa di cattolica solennità, però sollevo l’orazione ad altezza più augusta, e dico che la impresa di Lepanto e la vittoria, fu impresa e vittoria Italiana perché fu impresa e vittoria pontificale. Gesù Cristo figliuolo di Dio, volendo congiungere tutti gli uomini da se redenti col sangue, nella carità di una sola famiglia, costituì centro e padre di questa famiglia, il Pontefice Vicario suo, e ordinò che la sede di questo Pontefice fosse Roma e l’Italia. Di qua come da rocca e specola divinamente costituita prospettasse l’universo mondo, di qua desse i responsi, di qua dettasse la legge, di qua confermasse i fratelli, di qua partisse, qua ritornasse il capo di quella catena che allaccia 1’universo mondo in unità di comunione e di fede. D’allora in poi si stabilì quasi una reciprocanza di uffici tra il Pontificato e l’Italia per modo tale, che il Pontefice illustrasse della sua gloria, corroborasse colla sua potenza, e della sua grandezza ingrandisse l’Italia, e la Italia grata e riverente vendicasse a sé le prime parti nell’ossequio al Pontefice, e nel grande ufficio di reggere la Chiesa, con ogni sua opera negli ordini naturali ed umani gli soccorresse. Si ricordò Pio quinto pontefice massimo di questa gran missione dell’Italia, allora quando il terribile nemico del nome Cristiano, rotte oramai le barriere dell’oriente rovesciava sull’Europa sbigottita e divisa, e la chiamò alla difesa della società e della Chiesa, si ricordò l’Italia dell’ufficio suo e prese nella grande impresa il posto di onore. Non una città, uno stato, non una provincia, non una terra, non un castello italiano, e per poco non dissi non una nobile ed insigne famiglia del patriziato che non avesse a Lepanto o navi o soldati condottieri e non comprasse la vittoria col sangue o con l’oro: e il Pontefice con l’Italia e l’Italia col Pontefice presso che soli, rovesciandosi sul mussulmano nelle acque di Lepanto, lo percossero di tal colpo dal quale non si è più rilevato. Vittoria italiana fu dunque la vittoria di Lepanto, e Pio lo sentì, e cuore veramente italiano, insieme col debito tributo di azioni di grazie a Dio O. M. e alla Vergine vincitrice, apparecchiò al Romano vincitore un romano trionfo, nel quale con Marco Antonio Colonna trionfasse l’Italia. Correva il giorno quarto di dicembre di questo anno medesimo che fece insigne la gran vittoria, e tutta Roma era in arredo di solennità, di giubilo, di trionfo. Brillava il sole quasi fosse di primavera, le strade erano cosperse di fiori, archi di trionfo e festoni di verzura adornavano la via trionfale, tuonavano le artiglierie, i popoli, i magistrati, le arti raccolto sotto i loro stendardi si versavano alla porta Capena. O nobile spettacolo. In arnese di gala precedono le milizie pontificali sotto le loro bandiere, presso ogni bandiera cori e armonie di musiche bellicose, succedono le arti sotto i loro vessilli, alle arti le accademie, alle accademie i collegi, ai collegi il patriziato e le corti. Chi ha parole per ridire cotanta festa? Chi può ritrarre narrando e le pittoresche divise del cinquecento, e le pompe e l’arredo dei cavalieri e delle dame e i cocchi e i cavalli e i drappi e l’oro argento e i popoli senza fine né numero e una gioia e un tripudio e un’esultanza sì piena, sì universale, quale noi in questi tempi di divisioni, di rabbie e di rancori settari neppure possiamo con l’animo escogitare? Che festa è mai questa? E tanta solennità di apparato e di concorso, perché? Leggete il titolo che alla porta soprastà. A Marco Antonio Colonna ammiraglio pontificio, perché ottimamente meritò dell’Apostolica sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano. Questo titolo fregia la fronte della porta Capena e dice a tutti, che questa pompa trionfale è il premio onde Pio pontefice onora il vincitore di Lepanto. Espugnatori di Roma, incidete un titolo come questo sulla breccia di porta Pia. Ma ecco a un tratto le trombe guerriere raddoppiano il loro squillo, le armi agitate scintillano, le bandiere volteggiano al vento, le artiglierie tuonano più universali e frequenti, un moto vivo e ardente commuove il popolo, tutte le cervici si tendono, si affissano tutti gli occhi, palpitano tutti i cuori, nessuno quasi ardisce fiatare, ecco è Marco Antonio che viene. Procede il nobile guerriero seduto sur un bianco cavallo dono di Pio, porta sul maestoso sembiante mista alla gioia marziale una nobile modestia, con atto di signorile decoro saluta i popoli, e circondato da nobile drappello di prodi che con esso pugnarono in Lepanto entra nella eterna Città. Lo precedono il Leone di S. Marco, e il vessillo di Spagna, insegne delle parti confederate, in mezzo ad esse sventola colle somme chiavi, il gonfalone di santa Chiesa, succede con le corna riversate a terra lo stendardo della mezza luna, e trascinate nel fango le bandiere nemiche, vengono appresso incatenati a due con le ciglia rase di ogni baldanza i prigioni mussulmani. Circondano il duce i magistrati, i guerrieri, le accademie, i patrizi, lo segue turba innumerabile ed esultante. Applaudono le genti, al plauso delle genti rispondono le artiglierie, all’un plauso e all’altro fa tenore il suono dei musicali stromenti. Fra tanto corteggio percorre Marco Antonio la via Sacra. La via medesima, e gli archi di Costantino, di Tito e di Severo, e le colonne, i portici, i monumenti parvero dilatarsi ed esultare ringiovaniti, al non più visto da tanti secoli spettacolo di romano trionfo, e si eclissò la gloria dei trionfatori pagani quando Marco Antonio trionfatore cristiano prima ascese in Campidoglio a ricevere dal Senato la corona del meritato alloro, poi sulla vicina rocca a deporre a pie di Maria il dono votivo e i conquistati trofei, e cavalcando quindi al Vaticano, pianse prima e pregò sulla tomba di Pietro, poi nelle tue braccia o Pio che lo aspettavi, sfogò, figlio nel seno del Padre, la piena del petto. Questo fu trionfo italiano e papale! Mostrate voi, qualche cosa che gli somigli o bastardi della rivoluzione!

5. E qui è tempo che liberi la mia parola e deducendo dalla orazione il perché le feste secolari del Trionfo di Lepanto non si celebrarono al chiudersi del primo secolo né del secondo, e si celebrano in tanta angustia dei tempi al consumarsi del terzo. La rivoluzione celebra senza posa gli anniversari secolari o no, dei suoi non trionfi no, ma delitti, e degli eroi che li consumarono: è giusto e degno che i Cristiani oppongano commemorazioni a commemorazioni, le commemorazioni delle glorie del Pontefice di Maria, di Gesù Cristo, dei Santi, alle commemorazioni dei plebisciti e dei fatti compiuti. Corrono tempi nei quali il Pontificato cattolico è odiato, bestemiato, oppresso, deriso da una fazione di italiani degeneri, nati all’onta e al flagello dei popoli. La commemorazione del trionfo di Lepanto ricorda a questa fazione parricida, che il Romano Pontefice salvò l’Occidente dalla barbarie, e illustrò l’Italia di gloria immortale. Perché l’empietà si allieta di un effimero ed infelice trionfo, insolentiscono i cattivi e portano alta la testa come avessero abbattuto dal trono Dio e Gesù Cristo; noi festeggiando la vittoria di Lepanto ricordiamo a costoro, che è in cielo quel medesimo Dio giusto e potente, che percosse una superbia più solida della loro, la superbia turchesca. I buoni cadono di animo e inviliscono, perché ai cattivi che manomettono oggi cosa umana e divina tutto succede a disegno. Con la memoria del trionfo di Lepanto noi ci argomentiamo di sostentarne il coraggio; e ricordiamo loro che quando Gesù Cristo dice basta, quietano l’onde frementi del pelago e la bonaccia consola in un momento tutte le angosce e i terrori della tempesta. La Chiesa tribolata e oppressa ha converso a Maria le mani e la voce, ma sembra che Maria non abbia udito le preci della sposa del suo Figliuolo. Noi celebriamo il trionfo di Lepanto per ricordare che Maria indugia talora, ma viene a suo tempo, e viene tanto più mirabile, quanto più lungamente aspettata, e guerriera nata della Chiesa fa mirabili prove, schiacciando i figli del diavolo col pie esercitato a schiacciare il teschio del padre. Ecco perché le feste secolari del trionfo di Lepanto, che i nostri padri non celebrarono in tempi lieti e felici, celebriamo noi nella tribolazione di questi tempi che corrono. Sono feste ordinate a commemorare le glorie passate, a consolare le desolazioni presenti, a presagire trionfi futuri. E gli empì lo sentono e si dirompono e bestemmiano e fremono e sfogano in opere ed esalazioni immonde il livore e la rabbia del petto. E questo è un altro motivo perché noi celebriamo le secolari feste delle glorie cristiane; per svergognare la rivoluzione, per confonderne la protervia e sbugiardarne i vanti, per dimostrare con la prova del fatto che il popolo italiano è col pontefice Vicario di Gesù Cristo, che ama la sua religione e il suo Dio, che mentiscono gli empì quando con velenoso oltraggio lo accusano di connivenza con quei delitti che esecra e con quelle opere che condanna. Ecco o signori! Una voce cattolica si è levata in Piacenza e ha chiamato il popolo a celebrare la vittoria di Lepanto. E il popolo alla voce nota dei suoi sacerdoti si è commosso, e questa pompa, e lo splendore di tanta solennità si deve all’obolo volontario del popolo piacentino, e con chi stia questo popolo dice chiaro questa festiva esultanza e questa folla e questa frequenza, alla quale è angusto il recinto del vastissimo tempio. Furibonda per tanto smacco la empietà settaria ha mostrato se stessa con opere degne di sé. E che ha fatto? Ha bestemmiato in lerci giornali, ha contaminato l’immagine sacrosanta del Salvatore; ma il popolo piacentino spregiando i latrati di questi cani, e le opere, e l’immondezza sacrilega di questi ciacchi, è concorso al tempio di Dio, e celebrando il cristiano trionfo, ha ostentato uno splendore e una pompa, e un fervore ed una pietà, quale noi medesimi a stento avremmo osato prometterci. E quello che Piacenza ha fatto, tutte hanno fatto le italiche città, e tanto consenso in fare onore a Maria è pegno e presagio dolcissimo di consolazioni future. E con queste speranze finisco ed esulto nel desiderio e nella espettazione dell’esaltamento della Chiesa del trionfo di Maria. Si io spero questo trionfo, e tanto fidatamente lo spero che quasi il veggo. Veggo, sì veggo un inaspettato raggio di luce rompere finalmente sì fitta tenebra, e fra questa luce veggo ma splendido, ma sereno lampeggiare il tuo bel volto o Maria. Veggo al lampo delle tue pupille sgominate le falangi di satana, e i nemici di Gesù Cristo convertire per più smacco le proprie armi contro se stessi. Veggo te o glorificatore di Maria, padre del cattolico mondo, fortissimo Pio, cingere alla canuta chioma intrecciato alla palma di martire l’alloro della vittoria, veggo umiliati i tuoi nemici, veggo consolati i tuoi figli, e rigettata nell’inferno onde emerse l’idra settaria, veggo turbe di pellegrini da tutto il mondo muovere alla tomba di Pietro a vedere il miracolo, e a sciogliere il voto all’ara di Maria vincitrice. Queste e mille altre cose io veggo, e veggendole esulto, e mi sollevo per gaudio sopra di me. Saranno sogni e lusinghe sterili e vane? No, perché in Maria si fondano: e non ha Maria no, né abdicato il patrocinio della Chiesa, né perduto la sua possanza.