LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (26)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (I.) (*)

« Il mio sogno è di essere

la lode della

sua gloria ».

Giovedì, 16 agosto 1906.

(*) Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna ricorrere al suo « Ultimo ritiro ». Essa stessa lo intitolò: « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », ed è, per così dire, la sua piccola somma mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero trattato dell’unione trasformante, quale la concepiva nella linea della sua vocazione suprema di « lode di gloria », e quale interiormente la viveva. E, in esso, lascia un programma di vita a tutte le « lodi di gloria » che più tardi vorranno seguirla nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità.

Primo Giorno

« Nescivi »

« Nescivi. Non seppi più nulla » (Cntica; VI, 2): ecco ciò che canta la sposa dei sacri cantici dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello del canto di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata, ma in continuo progresso. « Nescivi »: non so più nulla, non voglio sapere più nulla, fuorché « la cognizione di Lui, la partecipazione ai suoi dolori, la conformità alla sua morte » (Fil. III, 10). « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore. Quando sarò perfettamente conforme a questo divino Esemplare, quando sarò tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna, quella per la quale Dio in Lui mi elesse « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò l’incessante lode della sua gloria: « laudem gloriæ eius » (Efes. I, 12). « Nessuno ha veduto il Padre, ci dice san Giovanni, se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (San Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo capire il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrati molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » (Efes. III, 4) che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i Santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » (San Luca, II, 19) nessuna lingua ha potuto mai rivelarlo, nessuna penna esprimerlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina sia un’immagine vivente, « eloquente », del suo « Primogenito » (San Matteo, I, 25), il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre suo.

Secondo Giorno

« Nel silenzio delle potenze »

« L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII, 109): è l’intimo canto dell’anima del mio Maestro; ed ecco perché in mezzo a tutte le angosce, Egli rimaneva sempre il Calmo, il Forte. « Porto sempre l’anima mia fra le mie Mani »: che cosa significano queste parole, se non il pieno dominio di sé, in presenza del Pacifico? Vi è un altro canto di Cristo che vorrei incessantemente ripetere: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII, 10). E la mia Regola mi dice: « La tua fortezza sarà nel silenzio » (Isaia, XXX, 15). Dunque, serbare la propria fortezza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità del nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo esercizio dell’amore, avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci. – Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi quest’anima disperde le proprie forze; non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divin Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, e le cui potenze non sono « tutte raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare ininterrottamente il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E, invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento. Nel silenzio delle potenze  a disperse un po’ da per tutto. – Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi pare che proprio a questa unità mirava il Maestro divino quando parlava alla Maddalena dell’ « unum necessarium » (San Luca, X, 42). E come lo aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità e, silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « Porto sempre l’anima mia nelle mie mani »; e soggiungere la breve parola: « Nescivi ». Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: « Nescivi! ». Potevano accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. – Così è dell’anima entrata nella fortezza del santo raccoglimento. Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che Egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la Sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Fil. III, 8). Allora il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi, « a suo beneplacito » (Efes.IV, 7); e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile. Perché l’unità è il trono della Trinità santa.

Terzo Giorno

Alla presenza di Dio

« Stiamo stati predestinati, per disposizione di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Efes, I, 11-12). San Paolo ci partecipa questa divina elezione, egli che tanto profondamente penetrò nel « segreto celato nel cuore di Dio dall’eternità » (Efes. III, 9). Ed ora egli stesso ci illumina su questa vocazione alla quale siamo stati chiamati: « Dio — egli dice — ci ha eletti in Sé prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità » (Efes. I, 4). Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano divino, « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio ufficio di « laudem gloriæ », devo tenermi in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est » (San Giovanni, IV, 8): e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa » ai suoi sguardi. Tutto questo lo riferisco alla bella virtù della semplicità, della quale un pio autore ha scritto che « dà all’anima il riposo dell’abisso », cioè il riposo in Dio, abisso insondabile, preludio ed eco di quel sabato eterno di cui parla san Paolo: « Noi che abbiamo creduto saremo introdotti in questo riposo » (Ebrei, IV-3). I beati godono questo riposo dell’abisso, perché contemplano Dio nella semplicità della sua Essenza. « Essi lo conoscono come sono conosciuti » da Lui, cioè con lo sguardo semplice della visione intuitiva, ed ecco perché, continua il grande Santo, « sono trasformati di luce in luce, dalla potenza del suo Spirito, nella immagine di Lui » (         II Corinti, III, 18), divenendo così incessante lode di gloria dell’Essere divino che contempla in essi il proprio splendore. – Mi pare che daremmo una gioia immensa al cuore di Dio, se ci esercitassimo, nel cielo dell’anima nostra, in questa occupazione dei beati, e a Lui aderissimo mediante quella contemplazione semplice che riavvicina la creatura a quello stato d’innocenza nel quale Dio l’aveva creata. « A sua immagine e somiglianza » (Gen. I, 26); tale fu il sogno del Creatore: potersi contemplare nella sua creatura, vedere irradiate in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo limpido e terso; non è questa una specie di estensione della sua propria gloria? Per la semplicità dello sguardo col quale fissa il suo Oggetto divino, l’anima si trova separata da tutto quanto la circonda, separata anche e soprattutto da se stessa; allora essa risplende della « cognizione della chiarezza di Dio» (II Cor. III, 18), perché permette all’Essere divino di riflettersi in lei, e tutti i Suoi attributi le sono comunicati. Quest’anima è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni; e in ogni occupazione, anche le più ordinarie, canta il canticum magnum, il canticum novum che fa trasalire il cuore di Dio fin nelle sue profondità. Possiamo ripetere con Isaia: « La tua luce si leverà nelle tenebre, e le tenebre diverranno come il pieno giorno; il Signore ti farà godere un perenne riposo, inonderà la tua anima dei suoi splendori, fortificherà le tue ossa, e tu sarai come un giardino sempre irrigato, come una fontana le cui acque non si esauriscono mai… Ti eleverò al sopra di quanto c’è di più elevato in questo mondo » (Isaia, LVIII, 10 – 14).

Quarto Giorno

Ecco la fede

Ieri Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di spingere lo sguardo « nell’eternità dei santi, nella luce » (Col. I, 12), perché io vedessi  la loro occupazione e procurassi, quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro, per adempiere il mio ullicio di « laudem gloriæ ». Oggi san Giovanni, il discepolo che amava, mi schiude le « porte dell’eternità » (Salmo XXIII, 7) perché l’animamia possa nella santa « Gerusalemme, dolce visione di pace (Ufficio della Dedicazione). E, prima di tutto, mi dice che « nonha bisogno di luci, la città,perché lo splendore di Dio la illumina e sua luce è l’Agnello » (Apoc. XXI, 23). Ora, se voglio che la mia città interiore abbia qualche tratto di conformità e di somiglianza con quella del Re immortale dei secoli e riceva la grande irradiazione di Dio, bisogna che io estingua ogni altra luce e che l’Agnello ne sia l’unica face. Ed ecco, mi appare la fede, la bella luce della fede; questa sola deve illuminarmi per andare incontro alle Sposo. Il Salmista canta che « Egli si occulta nelle tenebre » (Salmo XVII, 12); poi, in un altro punto, sembra contraddirsi dicendo: « la luce lo avvolge come una veste » (Salmo CIII, 2). L’insegnamento che per me risulta da questa contraddizione apparente è che devo immergermi nella «sacra tenebra », facendo la notte e il vuoto in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il mio Signore, e la luce che lo avvolge come una veste avvolgerà me pure, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della Sua luce, della sola Sua Luce, « ed abbia la chiarezza di Dio » (Apoc. XXI, 11). – Si dice di Mosè che « era incrollabile nella sua fede come se avesse veduto l’Invisibile » (Ebr. XI, 27). Mi pare che tale debba essere la disposizione di una lode di gloria che vuol proseguire, malgrado tutto, il suo inno di ringraziamento: « incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile », incrollabile nel credere all’« eccessivo amore ». .. « Abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV, 16). « La fede, dice san Paolo, è sostanza delle cose che speriamo e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebr. XI, 27). Raccolta nella luce che accende in lei questa parola, che cosa importa ormai all’anima sentire o non sentire, essere nella notte o nella luce, godere o non godere? Ella si vergogna, quasi, di fare tali distinzioni; e quando sente di non saper rimanere nell’indifferenza, si disprezza profondamente per il suo poco amore, e rivolge subito lo sguardo al suo Maestro divino per farsi liberare da Lui. « Essa lo esalta — secondo l’espressione di un grande mistico — sulla cima più elevata della montagna del suo cuore », al di sopra, cioè, delle dolcezze e delle consolazioni che da Lui emanano, perché è risoluta a tutto superare per unirsi a Colui che ama. Mi sembra che a quest’anima che possiede una sì grande fede nel Dio-Amore, si possano rivolgere le parole del Principe degli Apostoli: «Voî, che credete, sarete ripieni di un gaudio immutabile e sarete glorificati » (I S. Pietro, IV, 16).

Quinto Giorno

Sulla via del Calvario

« Vidi una grande moltitudine che nessuno poteva enumerare ». Chi sono mai? « Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato e reso candide le loro stole nel Sangue dell’Agnello; per questo, stanno dinanzi al trono di Dio e Lo servono dì e notte nel suo tempio; e Colui che è assiso sul trono abiterà in essi. Non avran più fame né sete, non li colpirà il sole né ardore alcuno, perché l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti dell’acqua viva; e Dio asciugherà ogni lacrima dei loro occhi » (Apoc. VII, 9-17). Tutti questi eletti che hanno in mano la palma e che sono bagnati dalla grande luce di Dio, hanno dovuto passare prima per la grande tribolazione, conoscere il dolore « immenso come il mare » (Lam. II, 13) cantato dal Profeta. Prima di « contemplare svelatamente la gloria del Signore » (II Cor. III, 18), essi hanno partecipato agli annientamenti del suo Cristo; prima « di essere trasformati di chiarezza in chiarezza nell’immagine dell’Essere divino » (Ibid.), sono stati conformi all’immagine del Verbo Incarnato, Crocifisso per amore. L’anima che vuol servir Dio notte e giorno nel suo tempio, cioè in quel santuario interiore del quale parla san Paolo quando dice: « Il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi » (I Cor. III, 18), quest’anima deve essere risoluta di partecipare realmente alla passione del suo Signore. Essa è una riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime; e canterà perciò sulla sua lira: « Io mi glorio della croce di Gesù Cristo (Gal. VI, 14) …Con Cristo, sono confitta alla croce…» (GA. II, 19) ed ancora: «Do compimento, nella mia carne, a ciò che manca alla passione di Cristo, per il corpo di Lui, che è la Chiesa » (Col. I, 24). « Alla tua destra sta la Regina» (Salmo XLIV, 19): tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa procede sulla via del Calvario alla destra del suo Re crocifisso che, annientato, umiliato, eppure così forte, calmo e pieno di maestà, va alla sua passione, per far risplendere « la gloria della sua grazia » (Efes. I, 6), secondo l’espressione così forte di san Paolo. Ed Egli vuole associare la sua sposa all’opera di redenzione; ma la via dolorosa in cui la fa camminare sembra alla sposa la via della beatitudine, non solo perché alla beatitudine conduce, ma ancora perché il Maestro santo le fa comprendere che deve superare quello che vi è di amaro nel dolore, per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora, può veramente servire Dio « notte e giorno nel Suo tempio »; le prove interne ed esterne non possono farla uscire dalla santa fortezza in cui Egli l’ha rinchiusa; non ha più « né fame né sete » perché, malgrado il suo struggente desiderio che fu quello del suo Maestro divino: la volontà del Padre; non sente più « il sole che su lei dardeggia », cioè non soffre più di soffrire; « e l’Agnello può condurla, ora, alle sorgenti della vita », come Egli vuole, come gli pare, perché lei non guarda per quali sentieri passa, ma tiene fisso lo sguardo semplicemente sul Pastore che la guida. Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo « Figlio primogenito fra tutte le creature » (Col. I, 15), la riconosce per una di quelle da Lui « predestinate, chiamate, giustificate »; ed esulta nelle sue viscere di Padre, pensando di consumare la opera sua, cioè di glorificarla, trasferendola nel suo regno, perché vi canti, nei secoli senza fine, la « lode della sua gloria ».

29 SETTEMBRE: DEDICAZIONE DI S. MICHELE ARCANGELO

29 SETTEMBREDEDICAZIONE DI SAN MICHELE, ARCANGELO

Oggetto della festa.

La dedicazione di S. Michele è la festa più solenne che la Chiesa celebra nel corso dell’anno in onore di questo Arcangelo, e tuttavia lo riguarda meno personalmente perché vi si onorano tutti i cori della gerarchia angelica. Nell’inno dei primi Vespri la Chiesa propone alla nostra preghiera l’oggetto della festa di oggi con le parole di Rabano Mauro, abate di Fulda: Celebriamo con le nostre lodi Tutti i guerrieri del cielo, Ma soprattutto il capo supremo Della milizia celeste: Michele che, pieno di valore, Ha abbattuto il demonio (Seguiamo la versione antica del Breviario monastico, non quella del Breviario romano, ritoccata da Urbano VIlI).

Origine della festa.

La festa dell’otto maggio richiama il ricordo dell’apparizione al monte Gargano e nel Medioevo si celebrava soltanto nell’Italia del Sud. La festa del 29 settembre è propria di Roma e segna l’anniversario della Dedicazione di una basilica, oggi scomparsa, che sorgeva sulla via Salaria, a Nord-Est della città. Il fatto della dedicazione spiega il titolo conservato alla festa nel Messale Romano: Dedicatio sancti Michaèlis. Le Chiese di Francia e Germania, che nel Medioevo seguivano la liturgia romana, hanno attenuato spesso nei loro libri liturgici il titolo originario della festa, che venne presentata come festa In Natale o In Veneratione sancti Michaèlis, così che dell’antico titolo non restava altro che il nome dell’Arcangelo.

L’ufficio di san Michele.

Anche l’Ufficio non poteva conservare il ricordo della dedicazione. Infatti gli antichi Uffici relativi alle dedicazioni celebravano il santo in onore del quale la chiesa era consacrata e non l’edificio materiale in cui egli era onorato; non avevano perciò niente di impersonale e rivestivano anzi un carattere molto circostanziato. L’Ufficio di san Michele può essere considerato una delle più belle composizioni della nostra liturgia e ci fa contemplare ora il principe delle milizie celesti e capo degli angeli buoni, ora il ministro di Dio, che assiste al giudizio dell’anima di ogni defunto, ora ancora l’intermediario, che porta sull’altare della liturgia celeste le preghiere dell’umanità fedele.

L’Angelo turiferario. I primi Vespri cominciano con l’Antifona Stetit Angelus, che deriva il testo dall’Offertorio della Messa del giorno: « Un angelo stava presso l’altare del tempio e aveva un incensiere in mano: gli diedero molto incenso e il fumo profumato si elevò fino a Dio ». L’Orazione della benedizione dell’incenso alla Messa solenne designa il nome di questo angelo turiferario: « Il beato Arcangelo Michele ». Il libro dell’Apocalisse dal quale son presi i testi liturgici ci spiega che i profumi, che salgono alla presenza di Dio sono le preghiere dei giusti: « Il fumo degli aromi formato dalle preghiere dei santi salgono dalla mano dell’angelo davanti a Dio » (Apoc. 8, 4).

Il Mediatore della Preghiera eucaristica.

È ancora Michele che presenta al Padre l’offerta del Giusto per eccellenza ed Egli infatti è designato nella misteriosa preghiera del Canone della Messa in cui la santa Chiesa chiede a Dio di portare sull’altare sublime, per mano dell’Angelo Santo, l’oblazione sacra in presenza della divina Maestà. È cosa molto sorprendente notare negli antichi testi liturgici romani che san Michele è sovente chiamato l’Angelo Santo, l’Angelo per eccellenza. Probabilmente sotto il pontificato di Papa Gelasio fu compiuta la revisione del testo del Canone nel quale l’espressione al singolare Angeli tui fu sostituita con quella al plurale Angelorum tuorum. Proprio a quell’epoca, sul finire del v secolo, l’Angelo era apparso al vescovo di Siponto, presso il Monte Gargano.

Vocazione contemplativa degli Angeli.

Come si vede la Chiesa considera san Michele mediatore della sua preghiera liturgica; egli è posto tra l’umanità e la divinità. Dio, che dispose con ordine ammirabile le gerarchie invisibili (Colletta della Messa) impiega, per opulenza, a lodare la sua gloria il ministero degli spiriti celesti, che contemplano continuamente l’adorabile faccia del Padre (Finale del Vangelo della Messa) e, meglio che gli uomini, sanno adorare e contemplare la bellezza delle sue infinite perfezioni. Mi-Ka-El: Chi è come Dio? Il nome esprime da solo, nella sua brevità, la lode più completa, la più perfetta adorazione, la riconoscenza totale per la trascendenza divina e la più umile confessione della nullità delle creature. Anche la Chiesa della terra invita gli spiriti a benedire il Signore, a cantarlo, a lodarlo e esaltarlo senza soste (Introito, Graduale, Communio della Messa; Antifona dei Vespri). La vocazione contemplativa degli Angeli è modello della nostra e ce lo ricorda un bellissimo prefazio del Sacramentario leoniano: « È cosa veramente degna… rendere grazie a Te, che ci insegni, per mezzo del tuo Apostolo, che la nostra vita è trasferita in cielo, che, con benevolenza comandi, di trasportarci in spirito là dove quelli che noi veneriamo servono e di tendere verso le altezze, che nella festa del beato Arcangelo Michele contempliamo nell’amore, per il Cristo nostro Signore ».

Aiuto dell’umanità.

La Chiesa sa pure che a questi spiriti consacrati al servizio di Dio è stato affidato un ministero al fianco di coloro, che devono raccogliere l’eredità della salvezza (Ebr. I, 14). Senza attendere la festa del 2 ottobre, dedicata in modo speciale agli Angeli custodi, la Chiesa già oggi chiede a san Michele e ai suoi Angeli di difenderci nei combattimenti che dobbiamo sostenere (Alleluia della Messa; Preghiera ai piedi dell’altare dopo l’ultimo Vangelo). Chiede ancora a san Michele di ricordarsi di noi e di pregare per noi il Figlio di Dio, perché  nel giorno terribile del giudizio non abbiamo a perire. Nel giorno terribile del giudizio il grande Arcangelo, vessillifero della milizia celeste, difenderà la nostra causa davanti all’Altissimo (Antif. Del Magnificat ai secondi Vespri) e ci farà entrare nella luce santa (Offertorio della Messa dei defunti).

Preghiera.

Da questa terra, nella lotta contro le potenze del male, possiamo rivolgere all’Arcangelo la preghiera di esorcismo che Leone XIII inserì nel rituale della Chiesa Romana: « Principe gloriosissimo della celeste milizia, san Michele Arcangelo, difendici nel combattimento contro le forze, le potenze, i capi del mondo delle tenebre e contro lo spirito di malizia. Vieni in soccorso degli uomini, che Dio ha fatti a sua immagine e somiglianza e riscattati a duro prezzo dalla tirannia del diavolo. » La Santa Chiesa ti venera come custode e patrono; Dio ti ha confidato le anime redente per portarle alla felicità celeste. Prega il Dio della pace, perché schiacci satana sotto i nostri piedi, per strappargli il potere di tenere gli uomini in schiavitù e di nuocere alla Chiesa. Offri le nostre preghiere all’Altissimo perché  sollecitamente scendano su noi le misericordie del Signore e il dragone, l’antico serpente, chiamato diavolo e satana, sia precipitato, stretto in catene, nell’abisso, perché non possa più sedurre i popoli »

[Dom Gueranger: l’anno Liturgico. Ed. Paroline, Alba, 1957]