LO SCUDO DELLA FEDE (195)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VI. — La Risurrezione della carne.

D. Il tuo Credo parla anche della risurrezione dei corpi?

R. «Ogni anima che si salva, salva anche il suo corpo » (C. PÉGUY).

D. Donde viene questa credenza?

R. Come quella dell’immortalità, quella del cielo e dell’inferno, anche la dottrina della risurrezione dei corpi è nel Vangelo, come ti dicevo, e assai presuntuosi sono quei che prendono dal Vangelo una « morale » a loro modo rigettando lezioni così fondamentali!

D. In quali termini si presenta la dottrina?

E. « Viene l’ora in cui quelli che sono nei sepolcri udiranno la sua voce (del Figliuolo dell’Uomo), e ne usciranno: quelli che avranno fatto il bene per una risurrezione di vita, quelli che avranno fatto il male per una risurrezione di giudizio » (Vang. di S. GIOVANNI).

D. Si credette subito a queste parole?

R. I primi Cristiani credettero ad esse a tal segno che questa credenza offuscò in molti di loro la nozione della sopravvivenza delle anime, quella del giudizio individuale, e, come ho ricordato e spiegato sopra, fece credere a una brevissima durata del mondo.

D. Devi confessare che, nella credulità iniziale che menava a queste conclusioni, vi era molta ignoranza.

R. Vi era della semplicità, e bisognerebbe vedere se questa facilità a credere dei misteri, là dove interviene l’onnipotenza divina e dove i destini ultimi sono in gioco, non sarebbe più filosofica, più assennata di tanti bei sorrisi.

D. Ancora bisogna rispettare la ragione e tenersi nei limiti del possibile.

R. Pascal conosce un poco questo genere di regole, ed ecco quello che egli osserva: « Quale ragione hanno essi di dire che non si può risuscitare? Che cosa è più difficile, nascere o risuscitare? Che quello che non è mai stato sia o che quello che è stato sia ancora? È più difficile venire in essere che il ritornarvi? La consuetudine rende l’uno facile e la mancanza di consuetudine rende l’altro impossibile. Popolare modo di giudicare! ».

D. Non capisco guari la somiglianza dei due casi.

R. Bisogna tuttavia che essa sia impressionante, poiché, quattordici secoli prima di Pascal, Tertulliano scriveva: « Tu cerchi di sapere come rivivrai? Sappi prima, se ti è possibile, come sei arrivato alla vita ».

D. Dove sta esattamente la somiglianza?

R. I nostri genitori sono gli autori della nostra vita; ma Dio ne è maggiormente l’autore, e quello che essi poterono, Dio lo può benissimo senza di loro. Per mezzo dei nostri genitori e in essi, è l’anima il principio di vita, e quest’anima, che importa con sé la vita, può benissimo rendercela. Che una materia che è stata una volta impastata da formare un uomo ,sia impastata una seconda non è più difficile di quello che è vedere un’argilla modellata e rimodellata secondo un medesimo ideale.

D. Ma dove ritrovare, qui l’« argilla »?

R. So assai! vi sono le polveri gettate al vento e disseminate nelle piante, che gli animali mangiano, che un uomo può rimangiare. Vi è l’antropofago, e tante altre puerilità di « spiriti forti ».

D. Perché puerilità?

R. Perché con ciò si sfoggia una leggerezza di argomentazione ridicola; perché si sottintende una scienza certa di ciò che nessuno sa, ciò che è veramente il più « popolare modo di giudicare », se pure non si fa così ingiuria al popolo.

D. Che cosa rimproveri tu all’argomentazione?

R. Di procedere come se la materia necessaria alla ricostituzione di un corpo in una vita eterna fosse identica agli atomi materiali che vi si succedono come l’acqua in un torrente. E questo è una stoltezza notoria.

D. E di quali sottintesi pretensiosi vuoi tu parlare?

R. Si argomenta con fierezza relativamente alla materia: ci si figura dunque di sapere che cosa essa è. E vedo ridere Pascal. Sento i dotti e i filosofi moderni disputare con sempre minore speranza a proposito di questo Proteo, domandarsi se esso esista altrimenti che come forza, parlare della sua « smaterializzazione », della sua fuga all’infinito a misura che la si analizza. Il tuo obiettante ignora deplorevolmente queste cose.

D. Ma quale necessità, per l’anima immortale assorbita in Dio, di ridarsi una materia?

R. Come se tu domandassi: Che necessità, per l’uomo, di esistere? L’anima immortale non è l’uomo. S. Tommaso osserva che non le appartiene più nemmeno il nome di uomo. Non si può dire, parlando con precisione: Un tale è presso Dio. « Un Tale » è semplicemente distrutto; sussiste solo una parte della sua persona, la parte principale, è vero, talmente principale che l’altra a buon diritto è giudicata insignificante per la felicità essenziale. Ma l’essenziale richiede l’accessorio, dicevi tu. Se non vi è risurrezione della carne, l’anima umana è salva; ma l’uomo non è salvo; l’umanità è estinta; l’universo di Dio è impoverito di una specie che noi amiamo di credere la prima, che ad ogni modo è d’un pregio immenso, grazie all’unione dello spirito; quel posto unico al quale si arresta indubbiamente l’attenzione degli Angeli, dove si fissa con terrore e fascino quella delle bestie, ai confini della materia e dello spirito quel posto non è più occupato, e la morte, che Cristo doveva abbattere, ha conservato il suo impero; non si può più esclamare con S. Paolo « O morte, dov’è la tua vittoria; o morte; dov’è il tuo stimolo? ».

D. Sia pure! L’uomo non esiste più, e ciò può impoverire l’universo; ma ciò che importa all’anima? Non è forse essa, come spirito, in una piena integrità, e per conseguenza in una piena indifferenza riguardo al suo corpo?

R. L’integrità dell’anima è nell’integrità e nell’armonia di tutte le sue funzioni, un gran numero delle quali esigono uno strumento materiale. Mancando di queste funzioni, l’anima è mutilata, e per quanto alta sia la sua vita per la sua unione col suo principio, questa vita non è interamente normale. Un sublime moncherino è sempre un moncherino. La vita dell’anima separata è quella di un amputato che prova in tutte le sue estremità nervose l’impressione del membro perduto; non si può dire che ciò sia una condizione felice, benché incomparabili compensi ne annullino praticamente il peso. Lo stato naturale dell’anima comporta un coscienza corrispondente al nostro essere intero: Or nella sopravvivenza dell’anima sola, non vi è più coscienza corporale, non vi è più sensibilità, né impressione dell’universo e di se stesso al completo, né immaginazione, né, propriamente, memoria, poiché il tempo fisico non corre più. Però di tutto questo sussiste il principio, poiché l’anima è una e non può vedersi dividere le funzioni fino alla loro radice. Come supporre che questo principio d’ampie operazioni, ridotto a una sola, cioè il pensiero, non abbia una tendenza naturale verso tutto quello che esso non ha più? Come immaginarlo soddisfatto di vedere eternata questa amputazione? Il pensiero è la quintessenza dell’anima, ma non è tutta l’anima, neppure aggiungendovi il suo correlativo di tendenza che è l’amore.

D. Tu parli da naturalista; ma il punto di vista soprannaturale non t’’invita ad eliminare queste osservazioni?

R. Esattamente l’opposto. Il principio della sopravvivenza del corpo è stato posto col soprannaturale stesso, poiché la giustizia originale, al punto di partenza, implicava l’immortalità. In seguito alla caduta interviene la morte; ma la riparazione per mezzo di Cristo, che, prendendo carne, viene in soccorso della carne come in soccorso dell’anima, ci rende il diritto dell’immortalità corporale. La Risurrezione dopo tre giorni ne è il pegno. Perciò S. Paolo, apostrofando taluni de’ suoi Corinzi, esclama: « Se si predica che Cristo è risorto da morte, come mai certuni tra voi dicono che non vi è risurrezione da morte? Se non vi è risurrezione da morte, neppure Cristo è risuscitato ».

D. Una religione spirituale non dovrebbe disinteressarsi di un avvenire corporale?

R. La nostra Religione non è una religione « spirituale », ma una religione umana. Essa è integralmente umana appunto perché è divina, e non è forse cosa più umana che l’anima, un giorno purificata, possa riprendere il suo ufficio, associando alla sua estasi il corpo che ella invano cercava, quaggiù, di trascinare alla felicità? La nostra Religione è fondata sopra l’incarnazione, come ti dicevo, e non sopra la disincarnazione. – La visibilità della Chiesa, il suo carattere sociale, i suoi mezzi sacramentali, la sua pratica tutta quanta attestano questo carattere. La risurrezione dei morti è un corollario richiesto dalla coerenza dottrinale come dalla natura delle cose. Uniti, nella Chiesa, allo Spirito di Cristo, facendo corpo con Cristo, noi, alla nostra ora, abbiamo diritto di prender parte alla risurrezione di Cristo e al trionfo della sua carne mortale. « Se lo Spirito che ha risuscitato Gesù abita in voi, esso vivificherà anche i vostri corpi mortali » (S. PAOLO).

D. Possiamo allora domandarci perché questo ritardo sino alla fine dei tempi, quando Cristo risuscita dopo tre giorni. Possiamo anche domandarci perché la morte, poiché Cristo la vinse.

R. Abbiamo veduto sopra che la morte e gli altri effetti del peccato furono mantenuti per la nostra utilità spirituale, e non come sevizie, per la continuità e l’armonia dell’opera provvidenziale, per il benefizio della nostra unione con Cristo e della nostra cooperazione al suo sforzo redentore, ecc. Anche per i nostri peccati attuali, la morte è una purificazione. La morte parziale chiamata mortificazione comincia il compito; il verme sepolcrale lo compie, e, col suo sottile taglio, spezza gli attacchi della carne a questa fondamentale concupiscenza che è in noi. La morte individuale è dunque in tal modo giustificata non come carnefice, ma come incaricata di una missione, come ancella.

D. Ciò non spiega l’attesa sino alla fine del mondo.

R. Ciò la spiega mediante un’osservazione supplementare. Un corpo individuale è un insieme momentaneo di atomi e di forze che si adoperano a servire un’anima, ma che poi l’abbandonano per rientrare nel mare donde altre anime a migliaia, attingeranno. Tal è la provvidenza generale. La vita è come una serie di onde su un mare; l’ondulazione non s’interrompe se non alla fine, quando, trovandosi compiuto il lavoro delle forze e delle anime, potrà venire la gran calma. Ora è di regola che la provvidenza generale limiti, all’uopo, la provvidenza particolare di questo o di quell’essere, per unirsela e per servire i fini comuni. La materia compie presentemente il suo ufficio universale; lavora alla nascita di nuovi eletti, alla loro prova terrestre, al loro progresso mediante lo sforzo, al compimento sociale di Cristo, capo dell’umanità di tutti i tempi. Quando il numero degli eletti sarà completo come la predestinazione eterna vuole; quando lo sforzo collettivo degli uomini sarà compiuto, l’incarnazione pienamente utilizzata, il livello di civiltà che Dio attende ottenuto, il perfetto potrà venire per tutti e conseguentemente per ciascuno; le anime si potranno ridare il loro corpo, organizzarlo a perfezione come ne avranno il potere, unite al Capo dell’ordine, e cominciare veramente la loro eternità.

D. È un disegno che si compie a lunga scadenza.

R. Così dev’essere; ma il capolavoro è indifferente alla durata. Quando si tratta di una vita eterna, « mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni ».

D. Di quale « perfezione » parli tu, riguardo alla vita corporale futura?

R. Quando l’anima riprende il suo lavoro di fabbricazione, di organizzazione, di animazione e tutto l’insieme delle sue funzioni riguardo al corpo, lo riprende in condizioni talmente nuove, che la vita così rilanciata, il corpo così ricostituito non possono mancare di provarne gli effetti. L’anima è intimamente unita al suo principio, che è il principio di tutto. Principio essa stessa, ma nella dipendenza dal Primo, trova nella sua intimità beata di che infondere nel corpo delle energie che non possiamo neppure sospettare, in questa pesante esistenza. Una calamita applicata a limatura l’organizza: l’anima calamitata in Dio non organizzerà essa il suo corpo in vista di funzioni più alte, più perfette, meglio adatte a un ambiente rinnovato del quale parleremo, meno lontane dall’anima stessa e da’ suoi soprannaturali poteri? Ecco quello che ci fa chiamare il corpo risuscitato un corpo spirituale, per rapporto al corpo animale di cui abbiamo l’esperienza. Queste espressioni sono di S. Paolo, e sono profonde.

D. Qual è il loro senso preciso?

R. Il corpo animale è quello che vive nel senso fisiologico della parola, e cioè che muore; infatti la vita è una morte perpetua che perpetuamente si redime, fino al declinare e all’arrestarsi finale. L’assimilazione o nutrizione è il suo fenomeno fondamentale. Nutrirsi è morire e rinascere a ciascuna pulsazione della carne. In uno stato immortale, la carne non potrà più essere così palpitante e fluente; la sua organizzazione sarà necessariamente stabile, com’è stabile lo spirito, unito a Dio-Spirito, ed è per questo che il corpo risuscitato si chiama un corpo spirituale. Questa parola non significa un cambiamento di natura, ma un cambiamento di stato.

D. Come un tale stato di fissità è possibile, per quello che vive?

R. «Vi sono in cielo e sopra la terra più cose che non ne conosca la tua filosofia » (HAMLET). Ti si concede che la parola vita, qui e là, non ha esattamente lo stesso senso; solo una analogia la fa rassomigliare. Del resto, le teorie attuali della materia, ti dico io, ci preparano a tutto. La nostra esperienza banale relativamente all’universo è dovunque in rotta. Noi cominciamo a sospettare il segreto degli esseri e i loro poteri infiniti di metamorfosi. Presto il « corpo spirituale » o qualsiasi altra cosa non ci stupirà più.

D. In qual forma risusciteremo noi?

R. Nella nostra, tal quale la vuole il principio di vita sciolto dagl’impedimenti del corpo animale.

D. Che cosa vuol dire questo?

R. Vuol dire un’integrità, una bellezza, un’assenza di difetti e di particolarità accidentali che non fanno nessun torto al carattere individuale, come neppure al tipo della razza. Precisare di più non sarebbe in nostro potere.

D. Tuttavia si è parlato di « doni » particolari che si attribuiscono al corpo spirituale.

R. Due di essi si riferiscono a ciò che ora ho detto. Il corpo risorto sarà al sicuro dalla dissoluzione interna alla quale l’alimentazione reca un rimedio provvisorio, al sicuro dalla morte, al sicuro dall’accidente vitale, ed è quello che si chiama la sua impassibilità. Esso si troverà esente da vizi deformanti, e sarà se stesso a fondo, tipo e carattere, ed è quello che si chiama la sua chiarezza, per allusione alla luce immanente che è l’idea creatrice nel composto morfologico, o vivente. Inoltre il vivente immortale dovendo adattarsi a un ambiente indefinitamente largo, cittadino dell’opera di Dio e non più della minuscola terra, viene dotato dell’agilità, che lo mette in proporzione col suo mondo nuovo. Finalmente gli ostacoli di altri tempi, dipendenti dalla pesante opacità e dalla resistenza degli ambienti saranno vinti dalla sottigliezza, qualità che si manifesta in Cristo quando, pure essendo le porte chiuse, dopo la sua risurrezione, apparisce in mezzo a’ suoi.

D. Quali fenomeni di sensibilità puoi supporre in tali corpi?

R. Qui, evidentemente, ogni scienza è sconcertata e ogni psicologia incompetente. Noi crediamo nondimeno a una vita sensitiva non solo rispettata, ma anche accresciuta, purificata, resa più delicata, più vicina allo spirito e alle sue forme d’azione, e, naturalmente, cessando di essere esauriente per i suoi organi, così come diciamo della vita generale del corpo.

D. Asserisci dunque che vi sono dei piaceri?

R. Certamente. Quello che è la gioia per l’anima, lo è il piacere per il corpo. Una beatitudine umana senza piaceri del corpo non sarebbe armonica. Il tutto sta nel concepire questi piaceri corporali in concordanza con lo stato che viene descritto, nel non prenderne da Maometto il pensiero grossolano, nel non attribuire dei piaceri di nutrizione a ciò che non si nutre, di generazione a ciò che non genera più, ecc. Ma gli organi dei sensi hanno altri usi, e se ora è impossibile descrivere il loro funzionamento quanto il loro oggetto, tutto induce a dire che essi rimangono, in testimonianza e per l’autentica espansione, nel perfetto, della nostra essenza umana.

D. La felicità corporale così compresa aggiunge qualcosa a ciò che hai chiamato beatitudine essenziale?

R. Non potrebbe aggiungere alcun che, dal momento che procede da essa. Ma procura la sua estensione, e si può dire che l’estensione di una felicità, anche senza valore che propriamente vi si aggiunga, è una felicità nuova.

D. Una felicità nuova per l’anima?

R. Una felicità nuova per l’anima, che, nel beatificare il suo congiunto, trova la soddisfazione della sua propria tendenza, la testimonianza dell’unità umana di cui essa è il principio, la gioia di questa unità, di quest’armonia interiore che accelera in tutti i sensi, nel nostro essere, le onde della vita.

D. Dici tuttavia che la felicità dell’anima non è aumentata e che per conseguenza, tutto considerato, la risurrezione non le è necessaria?

R. La felicità dell’anima non è aumentata; quella che viene al corpo l’attraversa essa stessa e le appartiene prima di estendersi al corpo. E di fatto, per quanto alta convenienza presenti la risurrezione del corpo, per quanto armonica in grazia di essa sia la dottrina e generosa si mostri la Provvidenza, ne segue tuttavia che la felicità dell’anima sarebbe, fuori della felicità del corpo, una felicità un po’ compressa in se stessa, ma pure una felicità piena. « Assai avara è un’anima a cui Dio non basta ».