DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

 [Stazione a S. Lorenzo fuori le mura].

Semidoppio. – Dom. Privil. di 2a cl. – Paramenti violacei.

Per comprendere pienamente il senso dei testi della Messa di questo giorno, bisogna, studiarli in corrispondenza delle lezioni del Breviario, perché, nel pensiero della Chiesa, la Messa e l’Ufficio sono una cosa sola. Le lezioni e i responsori dell’Ufficio della notte durante tutta questa settimana sono tratti dal libro della Genesi e narrano la creazione del mondo e quella dell’uomo; la caduta dei nostri primi genitori e la promessa di un Redentore; di più l’uccisione di Abele e le generazioni di Adamo fino a Noè. — « In principio, – dice il Libro Santo, – Dio creò il cielo e la terra e formò l’uomo su la terra e lo pose in un giardino di delizie perché Lo coltivasse» (3° e 4° resp.). Tutto ciò è una figura. – Il regno dei Cieli – spiega S. Gerolamo – è detto simile ad un padre di famiglia che prende degli operai per coltivare la sua vigna. Ora, chi più opportunamente può essere rappresentato nel padre di famiglia se non il nostro Creatore, il quale regge con la sua provvidenza ciò che ha creato e che governa i suoi eletti in questo mondo, così come il padrone ha i servi in sua casa? E la vigna che Egli possiede è la Chiesa Universale, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto che nascerà alla fine del mondo. E tutti quelli che, con fede retta si sono applicati e hanno esortato a fare il bene, sono gli operai di questa vigna. Quelli della prima ora, come quelli della terza, della sesta e della nona, designano l’antico popolo di Israele, il quale, dopo l’inizio del mondo, sforzandosi nella persona dei suoi santi, di servire Dio con fede sincera, non hanno cessato, per così dire, di lavorare nella coltivazione della vigna. Ma all’undecima ora sono chiamati i Gentili e a loro sono Indirizzate queste parole: « Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? » (3° Notturno). Dunque, tutti gli uomini sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, cioè a santificarsi e a santificare il prossimo glorificando con questo mezzo Dio, poiché la santificazione consiste a non cercare il nostro bene supremo che in Lui. Ma Adamo venne meno al suo compito. « Poiché tu hai mangiato il frutto che io ti avevo proibito di mangiare, – gli disse il Signore – la terrà sarà maledetta e ne trarrai il nutrimento con gran fatica. Essa non produrrà che spine e rovi. Tu mangerai il tuo pane, prodotto dal sudore della tua fronte fino a che non sarai tornato alla terra donde fosti tratto». «Esiliato dall’Eden dopo la sua colpa – spiega S. Agostino – Il primo uomo trascinò alla pena di morte e alla riprovazione tutti i suoi discendenti, guasti nella sua persona come nella loro sorgente. Tutta la massa del genere umano condannato cadde in disgrazia, o piuttosto si vide trascinata e precipitata di male in male (2° Notturno). « I dolori della morte m’hanno circondato, dice l’Introito; e la Stazione ha luogo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, contigua al Cimitero di Roma. « È assai giusto, aggiunge l’Orazione, che noi siamo afflitti per i nostri peccati ». Cosi la vita cristiana è rappresentata da S. Paolo nell’Epistola come una arena dove bisogna lottare per riportare la corona. La mercede della vita eterna, dice anche il Vangelo, viene concessa solo a quelli che lavorano nella vigna di Dio e, dopo il peccato, questo lavoro è penoso e duro. « O Dio, domanda la Chiesa, accorda ai tuoi popoli che sono designati da te sotto il nome di vigne e di messi, che dopo aver sradicato i rovi e le spine, sono atti a produrre frutti in abbondanza, con l’aiuto del nostro Signore » (or. del Sabato Santo – Or. Dopo l’8° profezia). « Nella sua sapienza – dice S. Agostino – Dio preferì ricavar il bene dal male anziché permettere che non accadesse nessun male » (6° lezione). Dio ebbe difatti pietà degli uomini e promise loro un secondo Adamo che ristabilisse l’ordine turbato dal primo. Grazie a questo novello Adamo essi potranno riconquistare il cielo sul quale Adamo aveva perduto ogni diritto essendo stato cacciato dall’Eden, che era l’ombra d’una vita (migliore) » (4° lezione). « Tu sei, Signore, il nostro soccorso nel tempo del bisogno e dell’afflizione » (Graduale); « presso di te è la misericordia » (Tratto); « fa che risplenda la tua faccia sopra il tuo servo e salvami nella tua misericordia » (Com.). Infatti, « Dio che creò l’uomo in una maniera meravigliosa, lo redense in modo più meraviglioso ancora (Oraz. dopo la 1° prof. del Sab. Santo), poiché l’atto della creazione del mondo al principio non sorpassa in eccellenza l’immolazione del Cristo, nostra Pasqua, nella pienezza dei Tempi ». Questa Messa, studiata in relazione alla caduta di Adamo, ci mette nella disposizione voluta per cominciare il tempo di Settuagesima e per farci comprendere la grandezza del mistero pasquale al quale questo Tempo ha per scopo di preparare le anime nostre. – Per corrispondere all’appello del Maestro che viene a cercarci fin nell’abisso dove ci ha sprofondati il peccato del nostro primo padre (Tratto), andiamo a lavorare nella vigna del Signore, scendiamo nell’arena e incominciamo con coraggio la lotta la quale si intensificherà sempre più nel tempo della Quaresima.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]


Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.

[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”].

Quando si tratta di vivere secondo la legge del Vangelo, tutto spaventa, tutto ripugna, tutto scoraggisce. Dio ci promette invano una gloria pura e durevole; invano ci offre una corona preziosa che non appassisce mai, una felicità piena, sovrabbondante, perfetta; e tutto ciò per qualche giorno, per qualche ora, per qualche momento di mortificazione. Vi sono scuse per tutte le età; non si ha mai salute abbastanza, siamo giovani troppo, troppo occupati, troppo delicati; ovvero siamo in età troppo avanzata; l’astinenza, il digiuno, sono al di sopra delle nostre forze. Ma pensiamoci bene, la corona che ci è preparata nel cielo non sarà ella al di sopra dei nostri meriti, e non l’avremo forse per sempre? Eleviamo dunque lo spirito nostro e il cuore verso Dio, chiedendogli quella rettitudine d’intenzione, quel distaccamento da ogni creatura, quella sobrietà di cui parla l’Apostolo, per la quale si usa dei beni di questo mondo come non facendone uso. O felice digiuno, ove l’anima tiene tutti i sensi privi del superfluo! O santa astinenza, ove l’anima saziata della volontà di Dio, non si nutrisce più della propria! Essa ha, come il suo divino Maestro, un altro pane col quale si nutrisce: pane che è al di sopra d’ogn’altra sostanza; che estingue tutti gli altri desiderj; vera manna che scende dal cielo, e ci fa pregustare l’eterne delizie. Prepariamoci a riceverla coll’astenerci, secondo il nostro potere, dal pane ordinario e comune, che è il nutrimento del nostro corpo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine.

[Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.

[Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. O

[Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.

[Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?

[Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.

[Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

PRETESTI DI RIFIUTARE L’INVITO DI DIO

Si era alle soglie della primavera, e sui colli palestinesi i lavori delle vigne erano incominciati. Il Signore prese lo spunto dal lavoro della stagione e imbastì la sua parabola. Il padrone d’una vigna uscì ad ingaggiare operai a giornata. Era costumanza d’allora che i disoccupati desiderosi d’impiego si raggruppassero alla porta della città. Quivi, prima del sole, arrivò il nostro padrone. Prese quanti uomini poté trovare, e contrattò con loro il prezzo che venne fissato a un danaro. Buona paga per quei tempi, tanto che tutti accettarono volentieri. – I lavori dovevano essere arretrati e la stagione precoce: già le gemme si muovevano e c’era da sarchiare, da potare, da legare i tralci. Occorreva mano d’opera. Perciò il padrone uscì una seconda volta tre ore dopo, verso le nove del mattino, trovò altri operai e prese anche quelli. Eppure non bastavano ancora; uscì una terza volta a mezzo giorno, ed una quarta volta alle tre pomeridiane, e a quanti incontrava diceva: « Andate anche voi nella mia vigna, vi darò una paga conveniente ». Gli urgeva di finire in quel giorno. Ed uscì una quinta volta, che mancava soltanto un’ora al tramonto. Vide un crocchio di sfaccendati a godersi l’ultimo tepore di quel sole primaverile. « Perché state qui a sciupar tempo? ». – « Perché nessuno ci ha preso a giornata ». – « Ma andate nella mia vigna: c’è da fare anche per voi ». E fu sera. Ogni lavoro cessò. Il padrone ordinò al fattore di pagare gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Essi ricevettero un danaro. Allora alcuni, ma specialmente quelli che avevano lavorato tutto il giorno, cominciarono a borbottare. « Questi ultimi prendono come noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo d’una giornata intera!… Non c’è giustizia! ». – Ma il padrone li udì, e affrontato il capoccia dei malcontenti: « Amico — gli disse — non ti fo torto: a te dò né più né meno del contratto. Prendi e vattene. Se agli altri voglio dar del mio, tu che ci perdi? Qui c’è giustizia; e c’è anche amore ». – La parabola racchiude molti punti da meditare, ma noi fermiamoci ora su uno solo, questo: il padrone della vigna chiama a lavorare tutti quelli che incontra, chiunque siano, in qualunque momento della giornata. Il padrone è Dio; la vigna è la Santa Chiesa di cui a ciascuno è affidata una porzione, cioè quella della propria anima; le varie ore della giornata sono le diverse età della vita. Ma purtroppo sono molti quelli che agli inviti ripetuti del Signore a provvedere al lavoro della propria santificazione, si esimono adducendo qualche pretesto. I pretesti più comuni sono due: le proprie condizioni sociali che impediscono di Pensare all’anima; il proprio carattere che non si riesce a modificare. PRIMO PRETESTO: IL PROPRIO STATO – Il proprio stato è determinato dal mestiere o dalla professione, dalla famiglia, e dall’ambiente sociale. Non è raro sentire così: « Non posso vivere la vita cristiana nelle condizioni in cui mi trovo: col mio mestiere, con la famiglia che ho, nell’ambiente in cui vivo, mi è impossibile ». Vi mostrerò che tutti sono pretesti che presso Dio non ci scusano, e sotto i quali sta mascherato il demonio o la nostra pigrizia. – a) Il pretesto del mestiere o della professione. — Il ricco crede che le ricchezze gli siano un’insuperabile ostacolo alla vita cristiana, perché impongono esigenze e abitudini contrarie al Vangelo e di cui non può fare a meno. Il povero invece sospira dietro i ricchi perché possono andare in automobile anche in paradiso: loro hanno danaro per far elemosine e per far dir Messe; loro hanno tutto il tempo e tutti i comodi per andare in chiesa. L’esercente dà colpa al mestiere se manca al precetto festivo, se è costretto ad arrangiarsi torcendo un tantino il collo alla giustizia. L’operaio accusa il lavoro di impedirgli di pregare; accusa le strettezze familiari se vive da anni in peccato mortale: « Bel dire i preti! si trovassero al nostro posto! ». – La madre di famiglia s’illude che soltanto nel convento sia facile salvarsi. Il professionista incolpa la professione che lo assorbe giorno e notte e che lo mette in un groviglio di cose donde la coscienza esce compromessa. Eppure S. Giovanni ebbe una visione che dimostra come in ogni mestiere o professione sia possibile salvarsi. Rapito in estasi un giorno vide la moltitudine degli eletti in paradiso, segnati sulla fronte col glorioso sigillo della redenzione. Della tribù di Levi, che era nel popolo giudeo la tribù dei sacerdoti, vide ben dodicimila salvati. Quanti ne vide egli poi della tribù di Giuda, ch’era quella dei principi e della stirpe reale? ancora dodicimila. Ed altrettanti ne vide della tribù d’Efraim, ch’era quella dei commercianti, è degli artigiani… (Apoc., VII, 2-8). Dunque sia dalla tribù regale, come dal ceto popolare, come dalla casta sacerdotale i salvati erano moltissimi. Nel regno dei cieli accanto ad Abramo, che possedeva immense ricchezze, c’è il mendico Lazzaro, che non aveva neppure le briciole; accanto a Samuele giudice e governatore, c’è Abele pastore e coltivatore dei campi. – b) Il pretesto dell’ambiente familiare. — Si racconta di un giovane monaco c’era molto suscettibile, e bastava la minima disattenzione d’un compagno nel parlare o nel fare, perché tosto s’accendesse di rabbia, e uscisse in parole più che scortesi, e poi perdesse il raccoglimento e la voglia di pregare. Onde disse a se medesimo: «Voglio andare nel deserto dove non c’è persona che mi possa turbare: là in un momento diventerò santo ». E così fece. Ma tornando un dì alla sua grotta con una scodella piena d’acqua, avendola posta in terra, o fosse stato il vento o fosse stato il demonio, la trovò rovesciata. Subito gli montò il sangue alla testa, si precipitò sulla scodella come fosse una cosa viva, e la percosse col piede. Passato quel momento di furia, rinsavì, e guardando mestamente i cocci disse: « Ecco, anche nel deserto mi prendono le arrabbiature: il male non era dunque nell’ambiente, ma in me. Non era il convento da abbandonare ma il difetto… ». E ritornò a vivere dov’era prima, imparando a sopportare i diversi caratteri dei monaci, e facendo violenza contro la sua orgogliosa passione predominante. Di modo che, coll’aiuto di Dio e coll’andar del tempo, divenne un santo monaco, e visse in gran pace di cuore (S. ANTONINO; Opera a ben vivere, Firenze, Fiorentina, 1923, p. 47). La storia di questo monaco dovrebbe insegnar molto a tanti genitori che dan la colpa dei loro peccati ai figli, di tante donne che si scusano di non potersi santificare a motivo di loro marito, o viceversa. Sono pretesti. « Se non avessi quel figliuolo, se non ci fosse quella cognata, e mio marito avesse un altro carattere, se non ci fosse quella malattia, quella miseria… » e così sognando una condizione familiare che non avranno mai, tralasciano di santificarsi a quella condizione dove realmente vivono, e dove soltanto possono salvare l’anima. Occorre fare come quel giovane monaco: abbandonare il deserto delle fantasie, ritornare per sé e per gli altri, pregare… S. Rita da Cascia divenne santa con un marito ubriacone. – c) Il pretesto dell’ambiente sociale. — Bisognerebbe — pensano alcuni per scusarsi — che il mondo fosse diverso: che non ci fossero quei luoghi di divertimento, se non incontrassi quegli amici, che non lavorassi in quell’ufficio, in quell’officina, se non servissi in quella casa… bisognerebbe che tutti agissero onestamente. Forse che i primi Cristiani, quelli che seppero dare anche il sangue per la fede, vissero in un mondo migliore del nostro? Forse che i santi fiorirono appena nei chiostri, non anche alla corte dei re (S. Elisabetta regina d’Ungheria, S. Luigi re di Francia, S. Enrico imperatore tedesco, S. Edoardo re d’Inghilterra), non anche sotto le armi (S. Sebastiano, S. Martino, S. Giovanna d’Arco)? Forse che non sono uomini del nostro tempo i professori Contardo Ferrini e Giulio Salvadori, i dottori Necchi e Moscati?… – Non è l’ambiente sociale da incolpare, ma la fiacca nostra volontà, la paura dei sacrifici. – SECONDO PRETESTO: IL PROPRIO TEMPERAMENTO. « Bisognerebbe essere fatti come i santi — dicono molti. — Non sentire quello se sento io, tutto il giorno; non avere un sangue infiammabile come il mio ». a) Ebbene, i santi erano proprio fatti come noi; sentivano gli stessi stimoli perversi, ma non si lasciavano travolgere; avevano lo stesso sangue infiammabile ma non si lasciarono incendiare. – Che cosa sperimentava S. Paolo se non le stesse nostre passioni, quando scriveva: «C’è una forza nella mia carne che fa guerra alla legge di Dio e vorrebbe farmi schiavo del peccato: ah, chi mi libererà da questa tortura? » (Rom. VII, 23-24). Ed era forse per divertimento che S. Bernardo si buttò nudo sulla neve, e San Francesco sulle spine della siepe? – S. Teresa del Bambino Gesù, quando a quindici anni si trovò nella rude clausura del Carmelo di Lisieux, ella che veniva da una ricca famiglia nido d’ogni squisita dolcezza, fu presa da un irresistibile bisogno d’essere amata, d’essere accarezzata. E se passava davanti alla cella della Madre Superiora, la prendeva una folle tentazione d’entrare; di avere da lei almeno una dolce parola, almeno uno sguardo affettuoso, un palpito muto di compatimento. Il suo cuore di fanciulla espansiva si ribellava alla gelida austerità di quella vita: le sarebbe tanto piaciuto diventare la beniamina di qualche suora, e ritrovare sotto le altre forme quell’amore umano a cui aveva rinunziato. « Ah; è per questo che sei venuta al Carmelo?…» diceva allora a se stessa in tono di rimprovero; e si afferrava alle sbarre della scala, perché il vento della tentazione non la trasportasse là dove non voleva. Se avesse ceduto, la Chiesa avrebbe una grande santa di meno.  – Anche a lei dunque la virtù costava, come costa a tanti giovani e a tante figliuole quando vorrebbero uscir di casa; cercare un incontro, un colloquio, uno sguardo come costa a tutti quelli che vogliono tenere il proprio cuore sotto la custodia della legge santa di Dio. b) Forse qualcuno penserà che i santi avevano grazie speciali, per cui la vittoria spirituale era, se non facile, sicura: È vero, senza dubbio, che essi ebbero grazie particolarissime. Ma non è meno vero che le grazie non mancano neppure a noi « Padre! — disse una volta a S. Antonino arcivescovo di Firenze una buona mamma raccomandandogli il figlio un po’ sviato. — Pregate Dio che gli tenga la sua santa mano in testa ». «Sì — rispose il santo — Ma voi pregate il vostro figliuolo che tenga la testa ferma sotto quella santa mano ». La mano in testa, Dio la tiene sempre anche su noi; ma purtroppo non sempre noi ci teniamo sotto la testa. La parola evangelica racchiude un conforto e un monito. Un conforto, perché qualunque sia la nostra età e il nostro passato, Dio c’invita. Un monito, perché nessuno sa, se rifiutando il presente invito, Dio tornerà a chiamarci in un’altr’ora. E se la sera della vita ci sorprendesse ancora oziosi?… – Un re di Persia chiamò i tre più famosi sapienti del suo regno e chiese qual cosa al mondo stimassero più orribile. Il primo rispose: « La più orribil cosa è cadere ammalati ». Il secondo rispose: « La più orribil cosa è diventar vecchi ». Il terzo pensò a lungo, e disse: « La più orribil cosa è trovarsi davanti la morte ed accorgersi che tutta la vita fu sciupata in futilità ». Questo, Cristiani, è orribile davvero. Lavoriamo alacremente nella vigna dell’anima nostra, perché non ci capiti di sperimentarlo. – Togliamo il velo della parabola degli operai chiamati alla diversa ora. Il padre di famiglia, già l’avete indovinato, è lo stesso Cristo; la vigna da lavorare è l’anima da salvare con l’esercizio quotidiano delle virtù e delle buone opere; gli operai siamo tutti noi, grandi e piccini, ricchi e poveri, invitati fin dalla tenera puerizia, chiamati in ogni età, sollecitati fin nella tarda vecchiezza. – Nella parabola tutti quelli a cui fu rivolto l’invito, l’accettarono. Nella vita, purtroppo, avviene ben diversamente, e molti sono quelli che non si mettono a lavorare. Consideriamo le risposte più consuete ch’essi dànno al Signore, e mettiamo a nudo lo specioso pretesto ivi nascosto: Non vengo: ora è troppo presto. Non vengo: ormai è troppo tardi. Non vengo: fan tutti così. ORA È TROPPO PRESTO. Questa scusa è specialmente dei giovani, ma è anche di molti che già sono in là con gli anni. Ad ogni modo, la si dica in qualsiasi età, essa è sempre stoltissima. E per due motivi: primo, perché non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima; poi, perché non si sa mai quanto manca a sera. – a) Non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima. San Giovanni Crisostomo non riusciva a capire come si potesse pensare il contrario, e moltiplicava i paragoni, per rendere a tutti evidente l’inescusabile sciocchezza di ritardare la propria conversione. – Diceva: Se un uomo: s’ammala, subito chiama il medico, e lo paga senza farsi rincrescere, e gli obbedisce con scrupolosa esattezza, sottoponendosi a cure fastidiose, lunghe, dolorose anche. Invece per l’anima, che da anni è inferma, è ferita, aspetta. Che cosa si aspetta? che sia incancrenita irrimediabilmente? Diceva ancora: Se un improvviso incendio s’appicca alla nostra casa, subito si grida, si corre, si implora aiuto, si porta acqua da tutte le parti, si trepida finché il fuoco non sia del tutto spento. Invece per l’anima invasa dalle fiamme dell’ira, dell’odio, della lussuria, non si grida aiuto nella preghiera, non si corre tosto alle fonti del Salvatore, cioè ai Sacramenti; ma si aspetta. Che cosa si aspetta? Che sia bruciata irrimediabilmente? E ancora diceva: — Se casca un bambino nel torrente, suo padre o sua madre, adendo il suo grido, si precipitano rapidi come il vento. Invece d’un bambino, è caduta l’anima nostra nel torrente dei peccati, nell’abisso della rovina: voi udite la sua straziante implorazione; e rispondete: « adesso è troppo presto ». Che cosa si aspetta? che sia affogata irrimediabilmente? – Se una compagnia di navigazione trasportasse un carico prezioso su di una nave che fa acqua, con massima solerzia e fatica i marinai attenderebbero notte e giorno a riparare le falle, a manovrare le pompe, a difendere i motori, per guadagnare il porto. Ma non vedete che l’anima vostra è una nave che fa acqua d’ogni parte? E voi dite: « Adesso è troppo presto ». Che cosa aspettate? che sia sprofondata irrimediabilmente. – b) Un altro motivo rende ancora più deprecabile la stoltezza, la cecità degli uomini che differiscono il lavoro per la salvezza della loro anima: l’incertezza dell’ora della sera. Pensiamo che nella vita la sera non ha un’ora fissa come nella giornata, ma può prescindere bruscamente a mezzo la puerizia, o la fanciullezza, o la virilità. Quando meno l’aspettiamo, quell’ora discende. Che sarà di noi se c’incoglie senza aver lavorato intorno alla vigna dell’anima nostra? Resteremo privi della mercede promessa, cioè della beata vita eterna, e saremo condannati a un tormento senza fine. Scuotiamoci dunque dall’ozio spirituale, mettiamoci a lavorare; perché non ci venga meno quella mercede che solo importa. Chi deve accostarsi ai sacramenti, s’accosti subito; chi ha una restituzione da fare,  restituisca; chi ha una passione da vincere, la vinca; chi ha un’occasione da abbandonare, l’abbandoni. Ognuno adempia i doveri del proprio stato; santifichi le feste del Signore, rispetti le leggi della Chiesa; faccia secondo le sue possibilità l’elemosina. – ORMAI È TROPPO TARDI. Quest’astuto perditore di anime che è il demonio, dopo averle rovinate coll’indurle a procrastinare, tenta di perderle gettandole nella disperazione. « Ormai è troppo tardi ». Quest’amara parola può essere pronunciata con un triplice senso di scoraggiamento: o per mancanza di tempo, o per mancanza di forze, o per mancanza di fiducia in Dio. – Per mancanza di tempo. Se un uomo, in un momento di lucidità interiore, contemplando la sua vita tutta immersa nell’iniquità, persuaso che occorrerebbero molti anni di penitenza e di pianto per riparare a tanti scandali, cancellare tanti peccati, mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più tempo », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Alla sera della vita saremo giudicati dall’amore con cui avremo lavorato. In pochissimo tempo si può lavorare con tanta generosità e intensità d’amore da raggiungere la misura d’una lunga serie d’anni ». – Per mancanza di forze. Se un altro uomo, dopo aver dissipato tutti i sentimenti del suo cuore versandoli nel fango, dopo aver impresso una rigida piega nel male a tutte le sue energie, ormai si sentisse incapace di raddrizzarle nel bene, e rimpiangendo l’antica innocenza disperasse di poterla riacquistare e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non ho più forze per essere buono », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! La grazia di Dio può fare ciò che è impossibile alla natura. Se le forze sono illanguidite, essa può rinvigorirle; se sono esaurite, essa può ricrearle al bene. La grazia rinvergina il cuore, purgandolo dai maligni fermenti, ridona il candore dell’innocenza, il profumo della bontà ». – Per mancanza di fiducia in Dio. Se, infine, un altro uomo ancora, aprendo di colpo gli occhi sulla moltitudine dei suoi peccati, sulla gravità delle sue ribellioni, più non osasse sollevare lo sguardo al cielo, e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più perdono », io gli risponderei: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Nessuno può diventare cattivo quanto Dio è buono. L’iniquità di tutti gli uomini insieme è una goccia in confronto all’oceano senza rive della misericordia divina ». – Insomma, sotto qualsiasi forma d’abbattimento il demonio vi possa tentare, Cristiani, ricordatevi sempre degli operai dell’undecima ora. È uno dei punti più commoventi e incoraggianti di tutto il Vangelo. Il giorno se ne andava di già, eppure furono ancora chiamati; si misero al lavoro, quando gli altri riunivano gli arnesi; avevano appena dimostrata la loro volontà che furono chiamati alla ricompensa. E la ricompensa fu grande, fu piena come se avessero lavorato una giornata intera. Non è mai troppo tardi per lavorare alla nostra salvezza. Finché c’è un fiato di vita, l’ora undecima non è finita. – FAN TUTTI COSÌ. C’è una terza risposta che molti dànno a Cristo per esimersi dal lavoro spirituale a cui li invita: « Fan tutti così! ». Il Signore dice a quel padre di famiglia, a quell’impiegato, o a quell’operaio: «Tu approfitti di una forma di guadagno che non è lecita: smettila, e pensa all’anima tua che deperisce ». Egli sente una irrequietudine nella coscienza, capisce che nei suoi atti c’è qualcosa di torbido, ma risponde: « Fan tutti così! Soltanto io devo fare lo scrupoloso, l’ingenuo, lo sciocco, e trascurare il mio interesse?… ». Anche ai tempi di Noè, caro Cristiano, tutti ridevano, ballavano, mangiavano, ed egli solo, il buon patriarca, s’affannava a costruire un arnese strano che sembrava una pazzia; ma poi venne il diluvio. Buon per Noè che non fece come avevano fatto tutti. – Il Signore dice a certi sposi: « La vostra maniera d’intendere la vita coniugale è gravemente peccaminosa… Oltraggiate Dio, infangate la vostra dignità umana e cristiana, dissacrate e contaminate la famiglia ». Essi sentono nel cuore, ad intervalli almeno, una strana malinconia, un malessere di non sentirsi a posto, un timore di sventura, ma rispondono: « Fan tutti così. Ci canzonerebbero come insipidi cretini se ci mettessimo ad osservare la legge di Dio. Il medico, la levatrice, gli amici, i conoscenti, tutti ci segnerebbero a dito, quasi fossimo incapaci di prendere la vita come va ». Anche ai tempi di Loth, cari Cristiani, tutta una città corrotta e depravata rideva malignamente di lui e della sua famiglia, perché viveva secondo il giusto e l’onesto: ma poi piovve il fuoco su Gomorra. Buon per Loth che non fece come avevano fatto tutti. Ricordiamo la sentenza con cui termina la parabola d’oggi, i chiamati sono molti, ma gli eletti pochi. Quale conseguenza dovremo tirare da siffatto proverbio? Questa: Viviamo coi pochi per salvarci coi pochi. Che cosa fanno i molti? – Voi lo vedete: pensano a guadagnare denari e roba, pensano a divertirsi sfogando tutte le passioni, pensano a godere più che possono in questo mondo. Il loro paradiso è quaggiù. – Che cosa fanno i pochi? Voi lo sapete: temono e amano il Signore; mortificano le disordinate passioni, abbondano in opere buone; vivono da pellegrini sulla terra, perciò, pur usando secondo il bisogno delle cose di questo mondo, si guardano bere dall’attaccarvi il cuore; sanno che la loro patria è il cielo, perciò sopportano volentieri i sacrifici quotidiani, e stanno sempre preparati alla morte. La quale, del resto, a loro non fa tanta paura. Seguiamo i pochi. – Molti secoli fa, un Papa (Papa Formoso del sec. IX) aveva fatto eseguire bellissime pitture nella basilica di S. Pietro. Poi vennero giorni di crudele prepotenza, i suoi avversari lo presero e lo gettarono nel Tevere in piena. Passò molto tempo, e i monaci scopersero sulla riva del fiume, quasi alla foce, il cadavere del Pontefice. Lo ricomposero degnamente, e in processione lo trasportarono pregando, a Roma. Quando il feretro entrò in S. Pietro, si racconta che le immagini dei Santi da lui fatte dipingere, sorrisero e s’inchinarono all’arrivo del suo cadavere. – Cristiani, ogni opera buona, ogni lavoro che facciamo intorno all’anima nostra, sono pitture eseguite per la basilica eterna del cielo. Quando, trasportati dagli Angeli, dopo la morte, vi entreremo, esse ci sorrideranno, si inchineranno al nostro arrivo. Saranno la nostra consolazione, e l’omaggio che presenteremo a Dio per ricevere da Lui la ricompensa.

Seduto ad un tavolo, davanti a dei mucchietti di danari, l’amministratore chiamava gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Questi che avevano lavorato appena un’ora, e per di più quando il calore e il sudore non fastidiva, ricevettero un danaro. Allora coloro che avevano sarchiato fin dal mattino cominciarono a sperare più del convenuto: e invece anch’essi ricevettero un danaro. Perciò, postisi a mormorare, senza riguardo alcuno, dicevano: « È una ingiustizia bell’e buona! Sgobbare tutta la santa giornata, lasciarci bruciare il cervello sotto il sole, e poi… e poi essere trattati come avessimo lavorato un’ora appena! ». Alzarono talmente la loro voce villana che il padrone, venuto ad assistere la paga, udì. Non fece complimenti: acciuffò il più impertinente e gli disse: « Camerata, che c’è da borbottare? Se voglio regalare il mio danaro a chi più mi piace, sarai tu a proibirmelo? Se hai l’occhio cattivo, io non cesso d’essere buono; e se anche a quest’ultimo voglio dare come a te, non ti faccio ingiustizia ». E tagliò corto; levando la voce così che tutti l’udirono, disse: « Prenditi ciò che ti spetta e vattene! ». Com’è vera ancora questa parabola del Signore! Come punge in pieno anche la nostra coscienza! Egli è buono, Egli è generoso, Egli è giusto: ma il nostro occhio è cattivo: Oculus tuus nequam est. Da qui hanno origine tutte le mormorazioni e le invidie, mormorazioni ed invidie che son la ruggine consumatrice della nostra vita. MORMORAZIONI. Quando l’itterizia colpisce un uomo, a questi la vista s’intorbida: un velo giallo si stende davanti al suo sguardo, su tutte le cose. Giallo egli trova il prato, giallo il lago, giallo il cielo, gialli i fiori, sempre e da per tutto quell’antipatico giallo… Vi è anche un’itterizia spirituale, e chi ne è sgraziatamente colpito vede male in tutti: anche le persone più integerrime per lui son macchiate, anche le azioni più diritte da lui sono male interpretate. Non contento di scovare i difetti altrui sente nella lingua il prurito di manifestarli ed è inquieto se non ha trovato modo di sfogare il suo veleno: ed ecco le innumerevoli mormorazioni. Ma chi mormora ha l’occhio cattivo: 1) perché tra molte virtù vede soltanto il difetto; 2) perché il difetto veduto esagera ed estende fino a farlo diventare un’abitudine; 3) perché vede solo le apparenze esterne e non la realtà interna. – a) Ecco una nuora che mormora della suocera: «Se sapeste, che donna incontentabile! ». Sarà anche vero; ma perché non ha visto come è donna precisa, laboriosa, paziente, pia?… Ecco un uomo che mormora d’un suo compagno»: « Se sapeste, come è goloso! ». Sarà vero anche; ma perché non ha visto come è laborioso, caritatevole, sincero?… Oculus tuus nequam. – b) Un tale fu visto una volta a rubare qualcosa e subito c’è chi prova gusto a mormorare di lui dicendo: «È un ladro ». Un altro una sera tornò a casa alticcio, e subito c’è chi si compiace a mormorare di lui, dicendo: «È un ubriacone» Una rondine non fa primavera, e perché deve bastare un atto o due per giudicare un uomo? Anche il sole si è fermato una volta per favorire la vittoria di Giosuè, ed un’altra volta s’è oscurato per piangere la morte del Salvatore: nessuno per questo dirà che il sole appaia immobile o sia scuro. Anche Noè e Loth una volta bevvero troppo: nessuno però oserà chiamarli alcoolizzati. Anche Pietro una volta tagliò l’orecchio a un servo, e spergiurò il vero: nessuno lo giudicherà un sanguinario o uno spergiuro. – c) E poi, benché un uomo sia stato vizioso per lungo tempo, non dobbiamo giammai osare di giudicarlo tale: chi può vedere nel suo interno? chi può dire che non sia convertito? È appunto quel che capitò a Simone il lebbroso quando disse a Gesù: « Vedi quella donna? è una peccatrice ». Si trattava della Maddalena. Ma l’imprudente mormoratore si udì rispondere: « Simone lebbroso: io ti dico che questa donna è più santa di te ». – Quanto sono sagge le parole di S. Francesco di Sales nella Vita Divota: « Poiché la misericordia di Dio è così grande che un sol momento basta per impetrare e ricevere la sua grazia, qual certezza possiamo avere se un uomo che ieri era peccatore lo sia anche oggi? Il giorno passato non deve pregiudicare il giorno presente: non c’è che l’ultimo giorno il quale può giudicare tutti gli altri ». – Davanti a queste fini considerazioni dei Santi, noi, così spregiudicati e grossolani ci sentiamo una vampa di rossore salire in volto, e ci sentiamo in cuore il pungolo di troppi rimorsi. « Ohimè! — diciamo col profeta Isaia — sono un uomo dalle labbra immonde e abito in mezzo ad un popolo dalle labbra immonde ». Anche a noi, o Signore, manda il tuo Serafino con in mano un carbone acceso per purificarci la bocca da ogni mormorazione (Isaia, VI; 55). – INVIDIA. Chi ha l’occhio cattivo tutto il corpo ha cattivo e torbido.E l’occhio cattivo l’hanno non solo i mormoratori, ma anche gli invidiosi il cui sguardo è pieno di malvagità come quello del demonio quando scorgeva Adamo beato nel terrestre paradiso. Ogni bene del prossimo li rattrista, come fosse cosa di loro spettanza ed a loro rapita. Ogni sventura del prossimo li rallegra, come fosse per loro un guadagno. Oculus nequam: occhio malvagio che tutto il corpo rende malvagio: mente, cuore, mani. La mente non sa più pensare in bene. Colui che prima ci pareva meritevole di lode, appena sorge l’invidia ci par tutto diverso da quel che era. Ciò che prima era devozione in lui, diventa ora per noi ipocrisia: quel che era generosità è ora audacia; quel che era forza ora è prepotenza. E non è ch’egli sia cambiato, è il nostro occhio che è cattivo. Il cuore non sa più avere pace. Se ascoltiamo le lodi della persona invidiata, subito una lama gelida taglia la nostra anima, come se quegli encomi fossero rimproveri per noi. Se riacquista salute dopo una malattia, ci sentiamo oppressi noi dalla febbre e dai deliri che l’hanno lasciato. Se il suo campo, la sua bottega, i suoi affari prosperano non possiamo dormire in pace, come se una forza maligna minacciasse la fortuna del nostro campo, della nostra bottega, dei nostri affari. – Il cuore dell’invidioso è il carnefice di se stesso e non solo deve soffrire per i propri dolori, ma anche per le gioie degli altri. – Le mani dell’invidioso sono capaci di tutto: di prendere un ferro e cacciarlo nel petto del proprio fratello, come fece Caino; di spingere l’innocente in una cisterna, come fecero i fratelli di Giuseppe; di rapire la vigna di un povero come fece Acab; di avvelenare l’acqua del pozzo come han fatto certi invidiosi per il selvaggio gusto di privare i Giudei d’un bene invidiato. – Udite! da tutti i villaggi, da tutte le città risuonano liete canzoni di vittoria. Il Filisteo è stato sconfitto e le fanciulle intonano un canto che ha questo ritornello: «Ne uccise Saul mille e David dieci mila ». Saul il re ascolta: ha invidia. Da quel giorno — dice la Scrittura — non poté più vedere Davide se non con occhi malvagi. Non rectis oculis Saul aspiciebat David a die illa. E l’occhio malvagio rese malvagio tutto il corpo. Malvagia la mente: «Come? — andava rimuginando in sé quell’invidioso —Ne hanno assegnato dieci mila a Davide e a me non ne dan che mille. Chi è? un fanciullo imberbe, il figlio di un mio servo di Betlem, un custode di mandre ». E non ricordava più che David era il vittorioso uccisore del gigante.Malvagio il cuore, che si era gonfiato d’odio implacabile: anzi, la Storia lo dice, uno spirito maligno era venuto in quel cuore invidioso ad abitare. Exagitabat cum spiritus nequam. Malvagia la mano che un giorno afferrò una lancia e la scagliò con la bramosia d’inchiodar Davide sul muro. Ma Davide per due volte sfuggì. –  Il vecchio Tobia era divenuto cieco: ma il suo figliuolo guidato da un Angelo portò a casa un pesce pescato nel Tigri; col fiele di quel pesce spalmò le spente pupille del padre dalle quali caddero subitamente delle squame biancastre. E il cieco riebbe la vista. Anche noi abbiamo gli occhi malati. Ed il Signore, oggi, per mezzo del suo Angelo che è il sacerdote, ci manda la parabola pescata nel suo Vangelo. Possa essa guarire la nostra vista. Ci faccia vedere come tutti siamo fratelli e membri di un corpo unico, il mistico Corpo di Cristo. Ci tolga ogni squama malvagia che c’induce a mormorare e a portare invidia al nostro prossimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime.

[È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi.

[O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te.

[Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant.

[I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (192)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

III. — L’Inferno.

D. L’inferno è lo scandalo.

R. Io non ti nasconderò la mia emozione, nel momento di parlartene con una sincerità completa. Vi son qui dei profondi misteri. Ma oso domandarti di non fissare il tuo giudizio sulle mie parole prima d’aver letto tutto quello che segue.

D. L’inferno non sarebbe uno spauracchio leggendario, un mito?

R. L’inferno non è un mito; esso figura nel Vangelo in termini formali, e la sua affermazione fa parte integrante del deposito della fede. Ciò che è esatto si è che talvolta le nostre immaginazioni se lo figurano, è vero, sotto forme inevitabilmente mitiche, più che di ragione, come ne fanno testimonianza tanti quadri dei quali il poema di Dante fu il principio.

D. Tu ripudi le immagini del Fiorentino, quelle delle cattedrali gotiche, quelle dell’Angelico, di Michelangelo, del Tiepolo, di Giovanni Goujon, e di tanti altri?

R. Io le ammetto per quello che sono: immagini, vale a dire figurazioni simboliche, che bisogna guardarsi dal prendere alla lettera, e che converrebbe oggi sostituire, perché esse si allontanano troppo dalla realtà supponibile, e traviano la mente.

D. Ad ogni modo tu mantieni la realtà dell’inferno?

E. Io la mantengo con la fede cattolica, e aggiungo che essa risponde a una necessità del piano universale così come ne abbiamo tracciato il disegno. L’inferno è una conseguenza terribilmente logica di ciò stesso che esalta le nostre speranze, se la speranza sbaglia la sua strada.

D. In che consiste questa necessità di piano?

R. Non vi è che un Dio, non vi è che un Salvatore; non vi è che una sorgente di vita e di salute; e noi abbiamo veduto che è possibile attaccarvisi in più modi; ma evidentemente chi se ne distacca si perde.

D. Perdersi, cioè non fare capo là dove uno si spinge, è andare all’inferno?

E. Sì; perché riguardo all’essenziale non vi è stato neutro. Chi non entra nell’ordine offende l’ordine. Chi non vuole Dio offende Dio di un’offesa infinita per il suo oggetto, per l’infinita bontà che lo propone, per le tenere industrie e la pazienza che lo mettono e lo mantengono a disposizione della nostra libertà. Onde Gesù disse: « Chi non è con me è contro di me», e nei due casi la situazione sviluppa tutte le sue conseguenze,

D. Quali conseguenze?

R. Colui che offende l’ordine col peccato dev’essere ricondotto all’ordine con la pena. Colui che respinge Dio deve sentire l’abbandono di Dio. Avendo sdegnato l’amore, il peccatore deve vedere la giustizia adoperarsi a vendicare l’amore.

D. Quale ordine può turbare un piccolo peccatore?

R. Fortunatamente nessuno, alla fine dei conti; ma quello che il peccatore non può effettuare, in realtà lo tenta; non potendo turbare l’ordine eterno, egli lo offende, e se l’ordine non è turbato, ciò avviene a questa condizione che vi sia contro di lui una reazione compensatrice. « La pena è l’ordine del delitto » (S. AGOSTINO).

D. Il peccatore non è libero, nell’universo?

R. Il peccatore è libero d’impegnare la lotta contro l’ordine, ma non di vincerlo. Nella sua totalità eterna, l’ordine è divino; esso resiste, e contro di esso è solo possibile stritolarsi. Non abbiamo detto e non sostieni tu stesso che Dio è tutto essere, tutto potenza, tutto azione? Che se, per un miracolo, Egli poté fare degli esseri capaci tuttavia di fare qualche cosa che loro appartenesse, perciò di ubbidirgli o di urtare i suoi voleri, è giocoforza — sotto pena che qualche azione sfugga all’Azione e qualche essere all’Essere — che al di là di questa azione creata, si ritrovi l’azione di Dio, per ricondurre al suo proprio ordine, per approvazione o per costringimento, quello che lui stesso non ha fatto.

D. Se l’ordine è divino, esso ha dell’indulgenza.

R. L’indulgenza ci attende, e, appena vi acconsentiamo, essa ci ripara; ma, in difetto del peccatore impenitente, non deve essa riparare anche l’ordine eterno che egli ha compromesso?

D. Non capisco bene questa bilancia compensatoria, che pare volere equilibrare un male con un altro.

R. Il peccato è un male; la pena è un altro male; ma che il peccato sia riparato dalla pena, è un bene; come se dicessi: la cancrena è un male; l’amputazione d’un membro è un altro male; ma l’asportazione d’un membro incancrenito è un bene.

D. Dio non è forse tanto grande da lasciar correre, per sorridere, come fa nella Bibbia: « Ecco Adamo diventato come uno di noi! ».

R. L’ironia biblica è qui talmente spaventosa che non vi è luogo d’invocarla contro le retribuzioni. E che cosa sarebbe la grandezza di Dio, se essa non fosse la grandezza de’ suoi attributi: bontà, misericordia, pazienza in tutta la misura del possibile; ma, dopo questo, giustizia vendicatrice procedente dallo stesso fondo, che è l’amore del bene?

D. L’amore del bene è una cosa, la vendetta rispetto al male è un’altra.

R. È esattissimamente la stessa cosa. Che sarebbe un amore della salute il quale non fosse un odio della malattia? Amore del bene, odio del male, sono due nozioni solidali. L’orrore del male non può mancare di essere in Dio nella misura della sua percezione. Egli permette il male in vista del bene; ma alla fine, bisogna che questa « quantità ausiliare » si elimini, e se la libertà mantiene il male in se stesso, bisogna che l’ordine del bene esploda nella repressione.

D. Tutta l’opera di Dio non è che un’emanazione di bontà.

R. «Tutta l’opera della giustizia divina (alla sua volta) non è che una procurazione di bontà» (TERTULLIANO). Ma quando la giustizia non può più adoperarsi a ordinare il bene che la bontà divina comunica, è necessario che essa si adoperi a riparare il male che essa condanna.

D. Ogni male è un oggetto di pietà, e la pietà è divina.

R. Il male è un oggetto di pietà quando è involontario, nella misura che è involontario. Si compatisce l’uomo che soffre senza averlo meritato; si compatisce il reo che si pente; si compatisce, anche ribelle, se si crede capace di pentimento; ma l’indurito — solo questi può essere condannato — non presta più alla pietà nessuna materia che la muova. La pietà è divina; ma, dice Carlyle, « un essere che non conosce il rigore, non conosce neppure la pietà », perché la sua pretesa pietà non potrebbe essere che dabbenaggine o codardia. Al Dio amico del bene e nemico del male, preferisci tu l’impassibile testimonio dei razionalisti, o lo sciocco « Dio della buona gente »? Dio non può essere immensamente buono se non a patto che sia anche formidabile. Se si ammette un attributo senza l’altro, una bontà senza giustizia, non si ha più Dio.

D. Se Dio è Dio, Egli è un operatore di felicità.

R. Perciò organizza ogni cosa in vista della felicità. Ma l’ordine ch’Egli stabilisce non sarebbe un ordine morale, se fosse possibile essere felici allontanandosi dal bene. Quale coscienza si potrebbe credere onesta, se si offendesse della giustizia di Dio? È possibile vedere un Dio sotto il regno del quale il male potrebbe spassarsela e sfidare la vendetta? Questo Dio non deve forse proteggere la bontà, perché non sia volta in derisione dal vizio? « Dio non si lascia deridere » (S. PAOLO).

D. Per poco, tu faresti dell’inferno un’opera d’amore.

R. È quello che fa Dante, il quale attribuisce al « Primo Amore » la costruzione della città infernale.

D. È un lugubre paradosso.

R. È una penosa verità, che tu trovi alla lettera nel Vangelo, poiché appunto per illustrare il suo comandamento dell’amore, e come una conseguenza del suo proprio amore unito a quello di suo Padre, Gesù erge solennemente agli occhi de’ suoi il tribunale supremo: Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio… perché io ebbi fame e voi mi avete dato da mangiare, ecc. E a coloro che saranno alla sua sinistra: Andate, maledetti, nel fuoco eterno… Il dittico tenero e terrificante: « Venite, benedetti », « Andate, maledetti », è chiarissimamente presentato come una sanzione del doppio precetto: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi. Se voi mi amate, osservate i miei comandamenti.

D. Nel nome di che cosa l’amore divino esige l’inferno?

R. Nel nome di una reciprocanza la cui assenza è un orribile scandalo ben più grave che quello dell’inferno. Ci scandalizziamo dell’inferno mentre non diamo nessuna importanza al peccato, mentre disprezziamo praticamente la grandezza di Dio, ma in special modo mentre sdegniamo di pensare a tante misteriose prevenienze, a tanti benefizi, a tanti perdoni, a tante misericordie, mentre ci dimentichiamo di apprezzare la croce, il tabernacolo e il cielo.

D. Certi santi ebbero spavento dell’inferno.

R. Tutti i santi ebbero spavento dell’inferno; ma non si scandalizzarono se non della nostra incoscienza. Lì stava per essi il «mostro », come direbbe Pascal. Ferventi nell’amore, capirono che l’amore è altrimenti esigente che la giustizia, e che, beffandosi dell’amore divino, si deve correre un rischio in proporzione con la mercede, che qui è infinita, poiché la ricompensa è Dio stesso.

D. L’amore si vendica?

R. All’amore divino, per vendicarsi, basta ritirarsi in se stesso; in questo ritiro, per noi che dobbiamo attendere tutto da Dio, giace una spaventosa sventura, e ne segue per giunta il ritorno contro di noi di tutto ciò che l’Amore regola, di modo che noi ci troviamo al bando dell’universo. È quello che Bossuet chiama « la collera della colomba », certo per metafora e non prendendolo se non dal lato degli effetti. Nello stesso senso il P. Lacordaire dice: « Non è la giustizia, che sia senza misericordia, ma l’amore ». « L’amore è la vita o la morte, e quando si tratta dell’amore di un Dio, è l’eterna vita o l’eterna morte ».

D. Un amore che si muta in tal modo dimostra i suoi limiti.

R. L’amore divino non ha altri limiti fuorché i rifiuti opposti dalla nostra libertà. Di più, esso non tiene nessun conto dei nostri rifiuti parziali e provvisori, per quanto gravi e ripetuti siano essi. Una sola cosa lo disarma: un rifiuto decisivo e irremissibile. Allora siccome la sorgente delle grazie è esaurita da un’inespiabile infedeltà, come si arresterebbe il torrente della giustizia? Per essa, lo stesso amore si deve adoperare e punire.

D. Ecché! Dio riporrebbe la sua gioia nella sofferenza della sua creatura?

R. Dio ripone la sua gioia nella gioia della sua creatura, entro l’ordine nel quale riposa tutta quanta la creazione. Fuori di lì, Dio ripone la sua gioia non nella sofferenza della sua creatura, ma nell’ordine della giustizia. Non bisogna forse che, dopo avere esaurite tutte le sue prevenienze, l’amore di Dio « si giustifichi di fronte alla sua giustizia? » (Bossuet). Esso ciò fa abbandonando il peccatore nelle sue mani.

D. Passiamo sopra il principio dell’inferno; ma come lo concepisci tu e quali sono le sue pene? L’inferno è un luogo?

R. Ho detto che la vita eterna, felice o infelice, è essenzialmente uno stato, e non un luogo. Tuttavia un luogo non le può essere estraneo, poiché noi crediamo a un aspetto fisico di questa vita, specialmente dopo l’ultima risurrezione.

D. Ritorni dunque al « fuoco », che sembravi scartare or ora?

R. Io scartavo le caldaie bollenti, le fiamme lambenti i corpi, o satana con la bocca piena. Ma devo mantenere — del resto vi si rivela una grande logica — una pena veniente dalla creazione corporea e che il Vangelo figura col fuoco, come figura col verme roditore il rimorso che tortura le anime.

D. In che consiste questa pena?

R. Noi non lo sappiamo. Figurati che per saperlo ci occorrerebbe una scienza universale circa la materia del mondo, i suoi poteri, le sue relazioni con la carne e con lo spirito.

D. Perché sarebbe necessaria questa scienza totale?

R. Perché si tratta qui di rapporti fondamentali, impegnanti l’essenza ultima delle cose, giacché si tratta dei rapporti eterni. Si può sapere come una fiamma disgreghi un corpo mortale; ma quale contatto si possa stabilire tra una sostanza ostile e un corpo immortale, anzi con un’anima, chi ce lo dirà? S. Tommaso è di opinione che si tratti di uno spaventoso costringimento, risultante dal fatto che il peccatore, rigettato fuori dell’ordine, è oppresso da questo fino a un’angoscia senza nome.

D. L’ordine può forse opprimere?

R. Nulla vi è così oppressivo come l’ordine, per colui che vi penetri e non vi si acconci punto. Rappresentati un folle smarrito in mezzo a un esercito in marcia: senza che nulla gli sia ostile, egli è molestato da ogni parte. Porta ciò fino all’intimo degli esseri e dei loro più segreti poteri, e tu congetturerai forse un supplizio tanto inenarrabile quanto sono grossolani quelli che la nostra barbarie organizza. Ecco indubbiamente quello che faceva dire a S. Tommaso che i supplizi dell’inferno, attinti dalla verità essenziale delle cose, sono in confronto di quelli di quaggiù quello che è un fuoco reale in confronto della fiamma in pittura.

D. Ciononostante, io non capisco come un’anima separata dal suo corpo (fino al giorno del Giudizio) possa soffrire un dolore fisico.

R. Il corpo di un mutilato soffre del membro asportato: così in qualche maniera l’anima amputata del suo corpo. Nel primo caso, si tratta di terminazioni nervose e di una falsa localizzazione; nel secondo, dei poteri fisici di cui l’anima è dotata in se stessa, benché essa quaggiù li eserciti mediante il corpo.

D. Ma perché l’universo opprimerebbe il peccatore?

R. Perché l’universo è di Dio e opera ai fini di Dio. Finché noi siamo legati a Dio, fosse pure con un vincolo provvisorio, l’universo — sia pure provvisoriamente — lavora altresì per noi. Ma nel caso definitivo, il peccatore, reso ostile a Dio, vede l’universo diventargli ostile, e ostile sino a’ suoi ultimi confini. L’ondata degli esseri l’assedia, perché questo mare ubbidisce a un ritmo che a lui è diventato estraneo, che a lui è dunque contrario. « La natura è essenzialmente soprannaturale; se essa non è divina, è diabolica. Se l’uomo è vero, retto e fedele, la grande Realtà lo porta; se non è tale, il mondo prende fuoco sotto di lui » (CARLYLE).

D. È il rovesciamento delle parti.

R. Di fatto tutto il piano della nostra vita è sconvolto: l’ordine divino del quale noi dovevamo essere beneficiari fino alla suprema felicità, si precipita contro il suo violatore diventato nemico di Dio, e per conseguenza nemico dell’uomo unito a Dio, nemico di se stesso, abbandonato all’anarchia interiore, e nemico dell’universo.

D. Sconfitta!

R. Sconfitta totale, anarchia morale decisiva, che equivale a un’anarchia vitale eterna e universale, a un vivente morto, come di un cadavere che sentisse la sua dissoluzione.

D. Almeno è questa la più grande pena dell’inferno?

R. È di gran lunga la minore. La più grave è quella che dà il suo nome alla dannazione, la pena del danno.

D. In che consiste?

R. Consiste nella privazione di Dio ed essa è « tanto grande quanto Dio » (S. AGOSTINO).

D. La privazione di Dio può essere una così gran pena? Non vedi che il peccatore vi si adatta?

R. Il peccatore si adatta alla privazione di Dio perché non conosce né Dio né se stesso, e quindi non si può rendere conto della suprema convenienza dell’Essere primo con ciascun essere, ma principalmente con l’essere ragionevole, in stato di tuffarsi in Dio, per l’intuizione del cielo, fino a intime profondità. Ma noi crediamo che nell’ora del giudizio, una subitanea rivelazione di questo rapporto venga fatta ad ogni anima. È il lume del giudizio stesso. In seguito, per il miserabile dannato, questo lume diventa una coscienza inestinguibile della sua sventura.

D. Si ha difficoltà a rappresentarsi questa angoscia.

R. Rappresentarsela è impossibile; ma riflettendo a quello che è Dio e a quello che Egli è per noi, Tesoro dell’essere in cui si trovano contenuti sovreminentemente tutti gli oggetti della nostra ricerca, vi è già qualcosa di spaventoso nel supporre tra Dio e un infelice bandito l’eterno addio. « Addio, Padre mio; addio, Fratello mio; addio, Amico mio; addio, mio Dio; addio, mio Signore; addio, mio Maestro; addio, mio Re; addio, mio Tutto! » (Bossuet). Che Dio concepisca una specie di odio per la sua creatura, vale a dire — poiché Dio in se stesso non è punto soggetto all’odio — che egli la lasci in un abbandono assoluto, non lasciando sussistere in lei se non la capacità della infelicità, invece di tanti poteri che per mezzo suo sarebbero beatificanti, è spaventoso, terrificante!

D. Dunque, in quell’antro, orrendo, non perviene la luce di Dio?

Sempre essa perviene ai dannati, ed è la loro disgrazia.

D. Essa non li rischiara?

R. Li abbaglia.

D. Non li rallegra?

R. Li brucia.

D. Non li attrae?

R. Li attrae infinitamente e nello stesso li respinge. Da ciò proviene il loro strazio e la loro tortura.

D. La loro infelicità dunque è senza misura?

R. Tal è nel suo oggetto; ma nondimeno comporta dei gradi, forse delle attenuazioni, delle riduzioni di pena, e se la infelicità suprema di certi dannati sta in ciò che essi non hanno la speranza di morire, si può credere che altri, meno completamente diseredati, tengano tuttavia all’esistenza. È il sottile filo che allaccia ancora quegli spatriati eterni a quello che noi amiamo.

D. Eterni! ecco la cosa terrificante e inaccettabile. A questo prezzo, mi sembra che preferirei non credere in Dio piuttosto che credere all’inferno?

R. Allora tu avresti fatto di questo mondo un inferno! Inferno per tutti, e specialmente per i buoni, che, come dice S. Paolo, « sarebbero i più miserabili di tutti gli uomini ». Infatti avresti scritto alle porte della vita e della morte, così vicine l’una all’altra: « Lasciate ogni speranza, voi che entrate » (DANTE).

D. Ma finalmente, con quale principio sufficientemente saldo pretendi tu di giustificare una tale sfida?

R. Mi rifaccio al punto di partenza della mia spiegazione. Non vi è che un Dio; non vi è che un Salvatore; non vi è che una fonte di salute: chi se ne distacca si perde, e ciò, per sé, è irrimediabile.

D. Perché irrimediabile?

R. Perché non è possibile attaccarsi a Dio senza Dio, e perché in un ordine soprannaturale, un soccorso soprannaturale è indispensabile.

D. Questo soccorso è forse rifiutato?

R. Questo soccorso non è mai rifiutato se non a colui che lo rifiuta; ma è proprio il dannato colui che ha opposto alla misericordia divina un definitivo rifiuto.

D. Quale rifiuto può essere definitivo? Non vi è la penitenza?

R. Vi è la penitenza qui; ma al di là, non vi è più penitenza.

D. Perché al di là non vi è più penitenza?

R. Ti rispondo con precauzione, perché vi è qui molto mistero. Come farne le meraviglie? Che cosa sappiamo noi di ciò che diventa, in quest’altro stato dell’essere, la nostra categoria del tempo? Che sappiamo noi dell’anima separata e del regime psicologico in cui essa si stabilisce? Quali siamo morendo, forse tali rimaniamo per un necessità di costituzione spirituale, per un arresto dell’evoluzione psichica in materia di scelta. Ad ogni modo, noi sappiamo che allora non è più il tempo della grazia.

D. Vi è un tempo per la bontà?

R. Non vi è tempo per la bontà in se stessa; ma vi è un tempo per le sue manifestazioni, che esigono un certo ordine. Se un buon capo è sempre buono, ciò non gl’impedisce di segnare un tempo oltre il quale non si dovrà più fare assegnamento che sopra la sua giustizia.

D. Dio è capo in tal modo, e non è più padre?

R. Dio è padre, ma è un padre giusto. Anche un padre può essere costretto al ripudio.

D. Che cosa è che può « costringere » Dio. Non è forse supremamente libero de’ suoi doni?

R. Dio è supremamente libero; ma le opere della sua libertà comportano un ordine intimo, in cui la giustizia ha un giorno la sua necessaria parte.

D. Che cosa può determinare questa parte?

R. È quello che noi non sappiamo, ed è la nostra terza ignoranza. Per saperlo, bisognerebbe esplorare a fondo l’ordine morale in ciò che ha di eterno, come per sapere quello che è il « fuoco » dell’inferno, bisognerebbe conoscere a fondo l’ordine fisico in ciò che ha di eterno. « Le idee che abbiamo di ciò che è giusto e ingiusto sono stranamente limitate, osserva Pascal, poiché insomma non si tratta fra noi se non di una giustizia da uomo a uomo, cioè tra fratelli dei quali tutti i diritti sono uguali e reciproci, e qui si tratta di una giustizia da Creatore a creatura, in cui i diritti sono in una sproporzione infinita ». La giustizia dell’inferno dipende dall’ingiustizia del peccato. E chi può valutare il peccato senza sapere che cosa è Dio, che cosa è l’uomo nel suo rapporto naturale e soprannaturale con Dio? Dio è talmente superiore al pensiero che noi ne abbiamo; il Dio intimo, il Dio Trinità, ci sfugge a tal segno che anche il peccato deve oltrepassare infinitamente le nostre misure, e la giustizia dell’inferno la nostra giustizia.

D. Ma la natura del peccato per noi e il peso delle nostre responsabilità peccaminose non dipendono forse dalla cognizione che ne abbiamo noi?

R. Certamente; ma vi è cognizione e cognizione. L’uomo che arguisce nel padre suo qualche grandezza misteriosa a lui sconosciuta e qualche sacrifizio segreto, ma incomparabile, compiuto in suo favore da questo padre, se egli offende questo padre, non è forse responsabile anche di ciò che egli non conosce punto? Noi che sappiamo la grandezza incommensurabile del nostro Dio, l’infinita sua tenerezza, l’ampiezza del sacrifizio della croce, possiamo forse dire veramente con fondamento: Io non sono responsabile riguardo al mistero delle giustizie celesti, sotto pretesto che nel momento della colpa le nostre immagini mentali non le rappresentano punto?

D. La tua soluzione circa la possibilità o l’impossibilità della penitenza è dunque

R. La penitenza è possibile quaggiù, perché noi siamo in tempo di sperimento, di « prova », sotto un regime di grazia, e perché la natura fluttuante delle nostre menti, suddite dell’immaginazione, ora ci fa uscire dalla strada e ora ci fa rientrare. Ma strappati dalla morte a questa doppia condizione; avendo da rendere conto, e non più da sperimentare; non avendo più grazie di conversione, perché non siamo più sulla strada (in via); non essendo più in balia di quelle fluttuazioni che non dipendono se non dalle immagini mentali, creazione del cervello animato, noi entriamo nel dominio del definitivo, del fisso, e « dove l’albero cade, ivi rimane ».

D. La dannazione sarebbe dunque l’effetto d’un volere definitivo e che non potrebbe mutare?

R. Quello che noi vogliamo definitivamente, nel pieno senso della parola, è di fatto quello che fissa i nostri destini, che sono destini morali. C’è lì dell’assoluto, alcun che di estraneo al tempo, qualunque sia il tempo che mettiamo a costituirlo. Il determinare per saggi a tastoni quello che noi veramente vogliamo, esige del tempo, e il tempo può servire a riconoscerlo; ma quel voler decisivo che è come l’edizione ne varietur delle

nostre opere morali, il tempo non lo può diminuire, non lo può modificare, non lo può consumare; l’anima lo contempla sub specie aeterni, direbbe Spinoza, in forma eterna; e volere così Dio è dunque essere un eletto eterno; e rifiutare così Dio è essere un dannato eterno. A ciò non vi è rimedio.

D. Ma che cosa è questo volere assoluto del quale tu ragioni? Vi è qualcosa di assoluto în noi? La libertà può forse incatenare se stessa a qualcosa di definitivo, e disporre per sé o contro di sé dell’avvenire?

R. Nessuno dei nostri voleri particolari è un volere assoluto in questo senso che noi lo vogliamo, nel fatto, definitivo: il peccatore indubbiamente si riserva di cambiare più tardi; ad ogni modo potrebbe ciò fare, sotto un regime di grazia, quand’anche non l’avesse voluto prima. Tuttavia, in ogni atto pienamente deliberato vi è una specie di volontà incondizionata della quale bisogna tener conto, una scelta senza condizione di tempo, una scelta fuori del tempo, una scelta che, se l’avvenire non dipendesse che dal volere attuale nella sua stessa essenza, varrebbe per tutto il tempo, e perciò include ciò che si potrebbe chiamare una eternità soggettiva, in via di decidere per l’altra, a meno che nel tempo che gli è lasciato il peccatore non cambi,

D. Perché non cambierebbe?

R. Egli cambia finché vuole quaggiù. Ma siccome al di là non vi è più cambiamento, è di diritto, rigorosamente parlando, che, avendo il peccatore peccato « nella sua eternità propria », come dice S. Agostino, « Dio lo punisca nella sua. »

D. Non intendo bene questa psicologia della colpa.

R. «Tutti i nostri desideri determinati racchiudono qualcosa che non ha limiti, e una segreta avidità di un godimento eterno… È dunque un giusto giudizio di Dio che i peccatori, avendo nutrito nel loro cuore une segreta avidità di peccare senza fine, siano rigorosamente puniti con pene che non avranno fine » (Bossuet). In altre parole, vi è qualcosa di definitivo in fondo a ogni volontà formale, benché questa volontà possa esser ritrattata in seguito, nello stesso modo che in fondo a ogni amore, finché dura, vi è qualcosa di eterno. Ogni peccato mortale implica come una profondità infinita di abbandono. L’inferno ne è la reciprocanza. Che dico? l’inferno vi è già contenuto, come notavamo a proposito del giudizio. Per questo dicevamo che per diritto stretto, in sé, nel modo assoluto, ogni peccato mortale vale l’inferno quanto alla sua durata, nello stesso modo che esso l’uguaglia e lo supera in gravità, comportando obiettivamente,

poiché è diretto contro Dio, un’infinità di offesa.

D. Che cosa è questa infinità di offesa, in un essere finito?

R. L’offesa non è infinita in noi; ma è infinita in se stessa, per definizione — la definizione dell’atto e la definizione di Dio — e noi lo dobbiamo sapere. Il bene e il male differiscono infinitamente: così lo sente ogni coscienza profonda. Non può recare nessuna meraviglia che la sorte definitiva di quelli che scelgono l’uno o l’altro sia per così dire infinitamente distante. In realtà, essa non lo sarà, ed è per questo che i santi dicono che anche nell’inferno vi sarà misericordia.

D. Resta sempre quel volere « definitivo » del peccatore, che tu fondi sopra un’esegesi psicologica un po’ troppo sottile.

R. Ma io non ho detto tutto. Ho parlato solo del diritto stretto, giudicando del peccato in sé e dell’ordine morale soprannaturale in tutto il suo rigore.

D. Che cosa aggiungi ancora?

R. Aggiungo questo. È possibile che uno dei nostri voleri, preso in particolare, per quanto sia fermo, decisivo e pieno di responsabilità in se stesso, non basti qualificarci, riguardo al giudizio eterno. Ma dall’insieme dei nostri voleri particolari, se ne fai la somma, apparisce un carattere morale che veramente ci giudica.

D. In quale momento questo carattere si determina?

R. Ciò dipende dagli individui; ma è determinato alla morte, poiché è in tale momento che termina la prova. Avviene come di una sala di votazione in cui l’urna sarebbe a tua disposizione per un certo tempo. Qualunque sia la scheda che tu deponi in buona e dovuta forma, essa decide in sé del risultato; ma tu puoi esitare, essere combattuto, ritirarti, rimettere e ritirare ancora. Ma quando è scoccata l’ora finale tutt’a un tratto la

è finita, e l’ultima scheda conta come se fosse stata sola.

D. È dunque il caso che decide.

R. Non è il caso, poiché sei tu ogni volta, e qui potrebbe far ritorno quello che dicevamo or ora del diritto stretto. Ma adesso dico: Il tempo che ti è lasciato non è fissato da qualcuno estraneo al tuo stato di spirito e a’ tuoi gesti, da qualcuno che ignori le tue esitazioni, le tue riprese, i tuoi buoni voleri attraversati, e del quale tutto il compito consista nel venire a vedere, alla fine, quello che vi è nell’urna. Dio è il padrone della vita e della morte; ogni decisione che Egli prende ha un carattere morale in armonia col carattere della nostra propria esistenza. Si deve dunque credere che l’ultima scheda è quella delle schede che conta per tutte, agli occhi di chi scruta i reni e i cuori. Di modo che un destino stabilito su quest’ultima scheda è un destino giusto, o per dire meglio misericordiosissimo. Ecco quello che s’intende quando si dice: « Di solito si muore come si è vissuto ».

D. Perché di solito?

R. Perché il problema morale non è posto e risoluto per tutti nello stesso modo, né nella stessa relazione col tempo. Certi destini si decidono prestissimo e non si decidono per

questo meno profondamente, in una maniera meno significativa in quanto al valore totale e decisivo della coscienza considerata. Altri destini più regolari nel loro corso, sono da un capo all’altro quasi identici a se stessi… Nel primo caso, si potrà cominciare male e finire bene, o viceversa, senza che c’entri il caso più che nell’altra ipotesi. Ma in quest’altra ipotesi, si verificherà il proverbio: si muore come si è vissuto, perché si viveva così come si era proprio in fondo, agli occhi del Padre celeste.

D. È possibile, sì o no, essere dannati per un solo peccato mortale?

R. È possibile.

D. Ecco dunque un povero uomo che ha condotto una vita onorata e meritoria; alla fine commette un peccato mortale, ed eccolo dannato!

R. Prendendo l’ipotesi tal quale è, bisogna dire sì, ma è la stessa ipotesi che è assurda. Tu ragioni come se vi fosse un Dio vendicatore, ma non una Provvidenza vigilante e buona, e come se fosse sempre Atropo che tagliasse il filo dei giorni. Quando diciamo che un solo peccato mortale merita l’inferno a cagione della sua natura, non considerando che la sua natura, non per questo diciamo che esso l’ottenga. Se uno può essere dannato — come anche salvato — per un solo atto, è perché questo atto esprime, allo sguardo infallibile di Dio, la nostra personalità profonda tale e quale noi stessi ce la siamo data, la nostra libertà nel suo slancio totale, il nostro atteggiamento decisivo di fronte alla vita.

D. Abbiamo conoscenza noi stessi di questo fatto?

R. Non mai con certezza, e per lo più in nessun modo. Nulla è per noi più misterioso che noi stessi. Ma quello che noi non sappiamo, benché sia opera nostra, lo sa Dio.

D. E tu dici che Egli ne tiene conto?

R. Non si vede che Dio tenda un’insidia alla sua creatura sorprendendola, dopo una vita di merito, nel momento di una noncuranza, fosse pure, per sé, mortale. I giudizi di Dio fanno la somma totale; pesano l’anima più che il fatto. L’anima, nella tua ipotesi, è onesta: dunque il tuo onest’uomo, in stato di peccato mortale come accidentalmente, o non morrà, lasciandogli Iddio il tempo di ravvedersi e di rialzarsi egli stesso, oppure morrà, ma prevenuto da grazie estreme che lo metteranno in stato di operare in extremis questa stessa conversione.

D. Tu credi a grazie dell’ultima ora a titolo corrente?

R. Ogni Cristiano pensa che nell’ora decisiva, sia l’ultima o un’altra, Dio è lì. Dunque soltanto sotto il suo controllo, e non altrimenti, l’urto della morte spezza in noi la potenza di metamorfosi, e il nostro essere morale si fissa, si cristallizza, e le nostre accettazioni e i nostri rifiuti della legge morale si sintetizzano in un sì o in un no eterno.

D. Su che cosa appoggi tu questa soluzione?

R. Sulle molteplici dichiarazioni di Dio stesso, nelle Scritture. Da per tutto sta scritto in queste o in altre parole: Io non voglio la morte del peccatore, ma che egli si converta e viva. Dunque lo stato di peccato non crea in Dio una volontà di dannazione finché la conversione non è stata rifiutata in modo decisivo, finché la persona morale non è stata espressa integralmente, di modo che la sua qualificazione decide della sua sorte. L’inferno è un’ultima morte per coloro che assolutamente non avranno saputo vivere.

D. A questo titolo chi metteresti tu nell’inferno con certezza?

R. Nessuno! Sarebbe un’atroce presunzione il dire: un tale si è dannato, fosse pure ai nostri occhi il peggiore delinquente. I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore.

D. La tua Chiesa non pretende di avere su ciò dei lumi?

R. Nessuno. Per l’atto di canonizzazione essa dichiara essere certo che il tale o il tal altro sono nel numero dei santi; ma non dichiara mai che questo o quello sia dannato.

D. Almeno gli eletti sono per te in piccolo numero?

R. Coloro che lo pretendono non ne sanno niente. Si può sperare che all’opposto l’Amen terminale dell’opera divina sarà un’immensa e innumerabile acclamazione.

D. Quest’acclamazione finale degli esseri non dovrebbe forse riunirli tutti, e Hugo non ha forse ragione di vedere alla fine amnistiato anche satana?

R. Ancora una volta, noi non sappiamo chi è salvo e chi è dannato; ma ciò che è certo si è che l’ipotesi di cui tu parli, presentata specialmente come un’esigenza dell’ordine divino, è pienamente immorale.

D. Come ciò?

R. Perché suppone che dal principio del mondo sino alla fine, qualunque cosa facciano e vogliano gli esseri, con qualsiasi ostinazione pretendano di restare nelle loro vie, vi è una china necessaria che conduce a Dio. E ciò vuol dire che la volontà non è punto libera, o che ad essa si dà la facoltà d’infischiarsene.

D. L’ipotesi immorale non sarebbe piuttosto l’eternità delle pene, se per colpe finite da parte dell’uomo, come hai ammesso, s’infligge all’uomo una punizione infinita?

R. L’inferno è eterno non perchè il peccato è infinito, ma perché è senza rimedio, come una piaga più o meno grave in se stessa, ma che non possa guarire, poiché il tessuto mortificato non è più atto alle riparazioni della vita. Il peccatore non esce dall’inferno perché non si pente; non si pente perché è fuori della zona del cambiamento possibile, fuori del flusso e del riflusso dell’anima; fuori del tempo della grazia. È sempre punito perché è sempre peccatore, eternamente ostinato nel suo male.

D. Eppure tu lo abbandoni ai rimorsi.

R. Il rimorso non è il pentimento; tra i due la differenza è immensa, a tal segno che è quasi un’opposizione radicale. Infatti colui che si abbandona ai rimorsi decide di restare solo; si ripiega sopra di se stesso e non si occupa che di rodere se stesso, di « mordersi le dita », come si dice volgarmente. Ed è quanto dire che egli rinunzia ad amare. Ora il perdono è una risposta dell’amore all’amore, dell’amore misericordioso all’amore in lacrime.

D. Vi è altro ancora. Perché creare per dannare? La verità non è forse col trovatore che diceva: « Bel Signore Iddio, io vi farò una bella proposta: rimandatemi dov’ero prima di nascere, oppure perdonatemi tutti i miei peccati; perché io non li avrei commessi se non fossi esistito » (PEIRE CARDENAL).

R. Un tal parlare è legittimo sulle labbra di colui che si pente; se no, è un’insopportabile insolenza. Dio non crea per dannare; Egli non ci colloca sulla strada dell’inferno, ma su quella del cielo; la sua volontà è quella di associare eternamente gli esseri alla sua felicità. Se questa meta si fallisce per colpa nostra, non è forse normale che la sconfitta abbia la stessa ampiezza?

D. Il bene dovrebbe essere più potente del male.

R. Così è; infatti, gli eletti godono una felicità fuori di ogni proporzione coi loro meriti, e a rovescio avviene delle pene dell’inferno. Ma ciononostante vi dev’essere una proporzione trai due termini. Il sì e il no si rispondono. «La nostra caduta ha la forma rovesciata della nostra grandezza possibile » (ERNESTO HELLO). Là dove la vittoria offre più che la vita, è naturale che la disfatta porti seco più che la morte.

D. Si preferirebbe una vittoria del tutto pura.

R. Essa allora sarebbe gratuita e volgare. La meta non può essere meravigliosa com’è, senza presentare un rischio terribile. L’estremo bene trae sempre seco la possibilità dell’estremo male. L’universo ha troppe vette perché non abbia abissi, e, come osservava Carlyle, l’essere divini obbliga eventualmente ad essere eventualmente infernali. Non basta forse che dipenda assolutamente da ciascuno di decidere da parte sua intorno ciò che egli dovrà essere?

D. Siamo troppo fragili, perché c’incarichiamo di una simile opzione.

R. Noi siamo la fragilità stessa; ma non siamo soli, e non ci si giudica secondo le nostre forze. « Si esigerà molto da colui al quale si sarà dato molto » (S. Luca). La salute non dipende da questa o da quell’opera determinata che potrebbe superare le nostre forze, ma dallo stato del nostro cuore di fronte a Colui che lo giudica infallibilmente.

D. Perché lanciarci a nostro malgrado in una simile avventura?

R. Si rimprovera forse a un padre di aver messo nelle mani di suo figlio una magnifica eredità con tutto quello che occorre per trarne felicità, a cagione di questo che in caso di abuso qualificato e pertinace la caduta sarà più triste e più deplorevole? Sublime è la nostra vocazione, sublimi i nostri soccorsi, sublimi i nostri rimedi, sublimi anche i nostri rischi.

D. Si annientino piuttosto gl’incorreggibili, se turbano il piano divino.

R. Il niente non è una soluzione; esso non ha nessun significato razionale; dunque non può compensare niente, riparare niente.

D. Non sarebbe ciò una sanzione?

R. Di’ piuttosto il contrario di una sanzione. Annientare è rinunziare a sanzionare e per conseguenza a fare giustizia. Eliminare il colpevole è sottrarlo al giudizio e alle sue conseguenze. Ciò somiglia a un verdetto di giudice così concepito: Quest’uomo è talmente colpevole che non si ha più da occuparsi di lui.

D. Sarebbe ad ogni modo una fine.

R. Sarebbe l’assenza di fine. Una fine è un’ultima maniera di essere e qui vi sarebbe assenza di essere. Bisogna che il dannato sia lì, per proclamare, pure odiandola, la giustizia di Dio.

D. Io mi domando come questa presenza negli abissi di sventurate creature che gli eletti forse avranno amate potrà ad essi essere tollerabile. Come potranno stare in pace?

R. Riconosciamo la nostra impotenza a immaginare queste cose, e lo scandalo della nostra sensibilità terrena di fronte a tali pensieri. Ma la nostra sensibilità, la nostra immaginazione non sono la regola eterna.

D. Anche secondo la ragione, che diresti?

R. Direi: La pace è la tranquillità dell’ordine; la gioia è nella vittoria dell’ordine. Se il disordine del male persistesse, allora la pace degli eletti non sarebbe possibile. Il bene trionfante da una parte, dall’altra il male vinto e che non può più rialzare la testa, ecco la pace del cielo.

D. Non vi è finalmente, nelle vostre storie, qualche caso di remissione concessa a dannati?

E. Ce ne sono; ma checchessia della loro autenticità, che non ha alcuna garanzia certa, s’interpretano conforme alla dottrina. S. Tommaso dice: Costoro uscirono dall’inferno perché la loro sentenza non era decisiva.

D. Come ciò è possibile?

R. Nulla incatena il volere di Dio in ciò che riguarda l’applicazione delle sue regole. La regola è: ogni esistenza al suo termine è fissata per sempre. Ma quando sia al suo termine dipende dalla Provvidenza. Regolarmente è il tempo della vita; ma al di là, se piace a Dio, la prova può proseguire; si può essere « viatori » altrove che sopra il nostro suolo; si può essere viatori sopra questo suolo una seconda volta, come fu il caso di Lazzaro risuscitato. Ciò non fa torto alcuno ai principii e può rispondere a certe situazioni morali.

D. Ma chi può dire che la sentenza di un dannato sia o no definitiva?

R. Dio solo.

D. Chi può dire di quanti dannati la sentenza è definitiva o no?

R. Dio. solo.

D. Allora non si potrebbe dire: L’inferno eterno è un principio; ma riguardo a qualche essere in particolare, non è necessariamente un fatto?

R. Ciò si può dire col benefizio delle spiegazioni precedenti, nel senso di queste spiegazioni. Ma quale formidabile imprudenza commetterebbe chi riposasse su una possibilità così astratta! Mi pare di vedere un uomo che si precipita dalla Torre Eiffel dicendo: Forse non mi ucciderò!

D. Ebbene teoricamente, non fosse che per una scappatoia,

una porta resta aperta a indicibili misericordie.

R. Nessuno può imporre limiti alla misericordia di Dio. Quello che bisogna ritenere di questa discussione penosa, è che -1° Dio è giusto; – 2° la sua misericordia oltrepassa di molto la sua giustizia; – 3° noi siamo responsabili dei nostri atti nella misura precisa dei nostri lumi e dei nostri poteri. Ecco quello che è certo. Tutto il resto è mistero. Ma ciò basta perché possiamo dire: Se qualcuno va all’inferno, è perché lo ha largamente meritato. Che altro possiamo noi chiedere?

D. Di vederci un po’ più chiaro, forse.

R. A una santa che gli chiedeva questo in un’estasi, Gesù rispose: « Sta tranquilla, Io ti farò vedere che tutto è bene ».