DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2021)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il«padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: Io vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questa Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. Del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito »,.cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri il suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compi la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S.Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”..]

Omelia I

ECCELLENZA DELLA CARITÀ

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

I diversi doni spirituali, di cui erano stati abbondantemente arricchiti i fedeli di Corinto, dovevano essere tenuti tutti nel medesimo pregio. Se alcuni avevano doni più appariscenti degli altri, li avevano avuti da Dio, che distribuisce le grazie come a lui piace. Questi doni poi, come le membra di un sol corpo, dovevano concorrere a vicenda nel promuovere il bene comune, della Chiesa. Nessuno, dunque, deve invidiare i doni degli altri. Del resto c’è un bene molto più desiderabile di tutti questi doni: la carità. Di questa l’Apostolo dimostra l’eccellenza nell’epistola di quest’oggi. Essa, infatti.

1. È necessaria più di tutti i doni,

2. È l’anima di tutte le virtù,

3. Dura nella vita eterna.

1.

Se parlassi le lingue degli. uomini e degli Angeli e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. Che giova a Balaam predire, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la grandezza d’Israele, quando egli si fa ispiratore di prevaricazioni abominevoli, perché sopra Israele cadano i tremendi castighi di Dio? (Num. XXIV, 2 ss.) Che giova a Giuda aver avuto il mandato di predicare il regno di Dio e di risanare gli infermi? Anche coi doni più eccellenti, anche con le azioni più eroiche non cessiamo di essere iniqui agli occhi di Dio, se ci manca la carità. Gesù Cristo ci fa sapere che molti nel giorno del giudizio diranno: «Signore, non abbiamo noi profetato nel nome tuo, e non abbiamo nel tuo nome cacciato i demoni, e nel nome tuo non abbiam fatto molti prodigi?» Ma Gesù dirà loro: «Non v’ho mai conosciuti: ritiratevi da me, operatori d’iniquità» (Matt. VII, 22-23). Come possono essere operatori d’iniquità, coloro che compiono tali prodigi nel nome di Dio? Intanto uno è iniquo, in quanto non possiede la carità. «Chi non possiede la carità è senza Dio» (S. Pier Grisol. Serm. 53). E lontani da Dio non si può esser che suoi nemici, meritevoli della sua maledizione. Anche senza doni straordinari, anche senza l’opportunità di compiere atti eroici, a tutto basta, a tutto supplisce la carità. «Io credo — dice S. Agostino — che questa sia quella margherita preziosa, della quale sta scritto nel Santo Vangelo che, un mercante, trovatola dopo una lunga ricerca, vendette tutte le cose che aveva per poterla comperare. Questa preziosa margherita è la carità, senza la quale nulla ti giova di quanto possiedi: questa sola, se l’hai, ti può bastare. (In Ep. Ioa. Tract. 5, n. 7).

2.

 La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, ecc.  – L’Apostolo, dopo aver detto che la carità è più eccellente di qualsiasi dono, passa a mostrarne i caratteri. S. Gerolamo, riportata questa descrizione, conchiude : «La carità è la madre di tutte le virtù » (Ep. 82, 11 ad Theoph.). Per la carità noi amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor di Dio. Questo amore dev’essere necessariamente l’anima di tutte le nostre azioni, sia che riguardino Dio, sia che riguardino il prossimo. Così, la città spinse gli Apostoli alla conquista del mondo, e li rese forti e costanti a traverso tutte le difficoltà. La carità sostenne fino all’ultimo i martiri, rendendoli trionfatori dei più raffinati tormenti. La carità rese prudenti i confessori contro tutte le insidie, e li fece perseverare nella via retta dei comandamenti. La carità fa vivere sulla terra angeli in carne, e adorna questa misera valle di lagrime dei fiori d’ogni virtù. Essa stacca da questa terra il cuor dell’uomo e lo accende del desiderio di unirsi a Dio così da poter dire con l’Apostolo: «Bramo di sciogliermi dal corpo per essere con Cristo» (Filipp. 1, 23). Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. Ecco perché i Santi cercavano di progredire sempre più nella carità, anteponendola, nella stima, a tutte le grande azioni. Un giorno si vollero fare congratulazioni al Beato Bellarmino per tutto quello che aveva fatto in servizio della Chiesa. Ma il Beato respinge prontamente la lode con queste belle parole: «Una piccola dramma di carità val più di quanto io possa aver fatto» (Raitz. von Frentz. Der ehrw. Kardinal Rob. Bellarm. Freiburg, 1923, p. 141).

3.

L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita, L’Angelo sveglia S. Pietro nell’oscurità del carcere, lo guida a traverso le tenebre e le guardie, e scompare. L’Angelo Raffaele fa da guida a Tobia nel viaggio a Rages, lo libera nei pericoli, lo sostiene nella sua opera, ma un giorno dice: « Ora è tempo che io torni a Colui che mi ha mandato » (Tob. XII, 20). – La fede ci fa da guida in questa vita, mostrandoci la via che conduce al cielo. La speranza ci preserva dallo scoraggiamento, e, mostrandoci i beni della patria celeste, accende la nostra carità, la quale, a traverso a qualunque ostacolo, ci fa pervenire alla meta sperata. Qui, il compito della fede e della speranza è finito. Quando vediamo ciò che la fede insegna, essa cessa di sussistere: quando possediamo ciò che si sperava cessa la speranza. Solamente la carità non si ferma alla soglia della seconda vita. Essa vi entra con noi, ed entra nel regno suo proprio. Alla fede sottentrerà la visione di Dio; alla speranza sottentrerà la beatitudine: ma nulla sottentrerà alla carità, la quale, anzi, vi avvamperà maggiormente. Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia II.

[Discorsi di san G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars

Vol. I, Quarta Ed.; Torino – Roma, Marietti Edit. 1933 –

Nihil obstat Torino, 25 Nov. 1931 – Teol. Tommaso Castagno, Rev. Deleg.;

Imprimatur C. Franciscus Paleari, Prov. Gen.]

Sulla Penitenza

Pœnitemini igitur, et convertimini, ut deleantur peccata vestra.

(Pentitevi e convertitevi e saranno cancellati i vostri peccati)

(Act. III, 19).

Ecco, M. F.,  il solo spediente che S. Pietro annuncia ai Giudei colpevoli della morte di Gesù Cristo. Sì, loro dice questo grande Apostolo, il vostro delitto è orribile, perché avete rigettato la predicazione del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo, perché avete disprezzato i suoi benefizi e i suoi prodigi, e perché non contenti di tutto ciò, voi l’avete rinnegato e condannato alla morte più crudele e più infame. Dopo un tal delitto, quale spediente può restarvi, se non quello della conversione e della penitenza? A queste parole, tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto ed esclamarono: « Ah! che faremo noi, grande Apostolo, per ottenere misericordia? » S. Pietro per consolarli disse loro: « Non gettatevi alla disperazione, il medesimo Gesù Cristo che voi avete crocifisso è risuscitato, e ciò che maggiormente importa è diventato il salvamento di tutti coloro che sperano in Lui; Egli è morto per la remissione di tutti i peccati del mondo. Fate penitenza e convertitevi, e i vostri peccati saranno cancellati. » Ecco lo stesso linguaggio che la Chiesa tiene a tutti i peccatori che sono commossi della gravezza dei loro peccati e che desiderano di ritornare sinceramente a Dio. Ah! M. F., quanti di noi sono assai più colpevoli dei Giudei, perché costoro hanno fatto morire Gesù Cristo per ignoranza! Quanti che hanno rinnegato e condannato Gesù Cristo alla morte col disprezzo della sua santa parola, con la profanazione che abbiamo fatto dei suoi misteri, con l’omissione dei nostri doveri, con l’abbandono dei Sacramenti e con una profonda dimenticanza di Dio e del salvamento della povera anima nostra! Ora, M. F., qual rimedio può restarci in questo abisso di corruzione e di peccato, in questo diluvio che contamina la terra e provoca la vendetta del cielo? Non altro che quello della penitenza e della conversione. Ditemi, non sono troppi gli anni passati nel peccato? Non basta l’essere vissuto per il mondo e per il demonio? Non è giunto il tempo per vivere per il buon Dio e per assicurarci una eternità felice? Che ciascuno di noi si rimetta la propria vita davanti agli occhi, e noi vedremo che tutti abbiamo bisogno di far penitenza. Ma per determinarvi a far ciò, io voglio dimostrarvi quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, il dolore che noi ne proviamo e le penitenze che ne facciamo, ci consolano e ci rassicurano all’ora della morte; in secondo luogo, noi vedremo che dopo di aver peccato, noi dobbiamo farne penitenza in questo mondo o nell’altro; in terzo luogo esamineremo in qual modo un Cristiano può mortificarsi per fare penitenza.

I . — Noi diciamo che nulla vi è che ci procuri consolazione in questa vita e ci rassicuri all’ora della morte quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, quanto il dolore che ne proviamo e la penitenza che ne facciamo; ciò che è facile da comprendere, perché è con ciò che noi abbiamo la sorte di espiare i nostri peccati, con altre parole, di soddisfare alla giustizia di Dio. Sì, M. F., è con ciò che noi meriteremo nuove grazie per avere la sorte di perseverare. S. Agostino scrive, che assolutamente è necessario che il peccato sia punito o da colui che lo ha commesso o da colui contro il quale è stato commesso. Se voi non volete che il buon Dio vi punisca, punitevi voi medesimi. Noi vediamo che Gesù Cristo medesimo, per dimostrarci quanto la penitenza ci è necessaria dopo il peccato, Egli medesimo si mette nel ceto dei peccatori (S. Marc. II, 16). Egli ci dice che, senza il Battesimo, nessuno entrerà nel regno dei cieli (S. Giov. III, 5); e, in altro luogo, che se non facciamo penitenza, noi tutti periremo (S. Luc. XIII, 3, 5). Ciò è facilissimo da comprendere. Dopo che l’uomo ha peccato, tutti i suoi sensi si sono ribellati contro la ragione; e quindi, se noi vogliamo che la carne sia sottomessa allo spirito ed alla ragione, è necessario mortificarla; se noi vogliamo che il nostro corpo non muova guerra all’anima nostra, è necessario mortificarlo con tutti i suoi sensi; se noi vogliamo andare a Dio, è necessario mortificare l’anima nostra con tutte le sue potenze. E se voi bramate di essere convinti della necessità della penitenza, non avete che da aprire la santa Scrittura, e voi vedrete che tutti coloro che hanno peccato ed hanno voluto ritornare al buon Dio, hanno versato lagrime, si sono pentiti dei loro peccati ed hanno fatto penitenza. – Vedete Adamo: dacché ebbe peccato egli si consacrò alla penitenza onde poter placare la giustizia di Dio. La sua penitenza durò più di novecento anni (Gen. III, 17; V, 5); ed una penitenza che fa fremere, tanto sembra superiore alle forze della natura. Vedete Davide dopo il suo peccato: egli faceva risuonare il suo palazzo delle sue grida e dei suoi singhiozzi; e spinse i suoi digiuni ad un tale eccesso, che i suoi piedi non potevano più sostenerlo (Genua mea infirmata sunt a jejunio. Ps. CXVIII, 24). Quando si voleva consolarlo dicendogli che, poiché il Signore l’aveva assicurato che il suo peccato gli era perdonato, egli doveva moderare il suo dolore, egli esclamava: Ah! infelice, che cosa ho fatto? Io ho perduto il mio Dio, ho venduto l’anima mia al demonio; ah! no, no, il mio dolore durerà quanto la mia vita, discenderà con me nella tomba. Le sue lagrime piovvero dagli occhi suoi in tanta copia che era temprato il suo pane e ne era bagnato il suo letto (Ps. CI, 10; VI, 7). – Perché sentiamo tanta ripugnanza per la penitenza, e che proviamo sì poco dolore dei nostri peccati? Ah! perché non conosciamo né gli oltraggi che il peccato reca a Gesù Cristo, né i mali che ci prepara per la eternità. Noi siamo appieno convinti che dopo il peccato è necessario fare penitenza. Ma ecco quello che facciamo: noi rimandiamo tutto ciò ad un tempo lontano, quasi noi fossimo padroni del tempo e delle grazie del buon Dio. Ah! M. F., chi di noi non tremerà, poiché non abbiamo un momento di sicuro? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che vi ha una misura di grazie, oltre la quale il buon Dio altre non ne concede? Chi non fremerà pensando che vi ha una misura di misericordia dopo di che tutto è finito? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che occorre un certo numero di peccati, dopo il quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se medesimo? Ah! M. F., quando la misura è colma, è necessario che trabocchi. Sì, dopo che il peccatore ha ripiena la misura, è necessario che sia punito e che cada nell’inferno non ostante le sue lagrime e il suo dolore… Vi avvisate voi, che dopo di essere vissuti un numero d’anni nel peccato non ostante tutti i rimorsi che la vostra coscienza ha eccitati per muovervi a ritornare a Dio; avvisate voi, che dopo di essere vissuti da empi e da libertini, disprezzando tutto ciò che la Religione ha di più santo e di più sacro, vomitando contro di essa tutto ciò che la corruzione del vostro cuore ha potuto produrre; avvisate voi, che quando vorrete dire: Mio Dio, perdonatemi, voi avrete fatto ogni cosa, che voi non avrete più che da entrare in cielo? No, no, non siamo così temerari, né così ciechi per sperar ciò. Ah! M. F., è precisamente in questo momento che si compie questa terribile sentenza di Gesù Cristo il quale ci dice: « Voi mi avete disprezzato nel corso della vostra vita, voi vi siete riso delle mie leggi, ma ora che voi avete ricorso a me, che mi cercate, Io vi volgerò le spalle per non vedere le vostre sciagure (Ger. XVIII, 17); Io mi chiuderò le orecchie per non udire le vostre grida; io fuggirò lontano da voi per non lasciarmi commuovere dalle vostre lagrime. » Ah! per essere convinti di tutto ciò, non abbiamo che da aprire la santa Scrittura e la storia dove sono consegnatele azioni di questi famosi empi; noi vedremo che tutti questi castighi sono più terribili che non potete pensare. – Ascoltate l’empio Antioco tra gli altri famoso. Vedendosi colpito in modo visibile dalla mano dell’Onnipotente, si umilia, piange, dicendo: « È giusto, o Signore, che la creatura riconosca il suo Creatore » (II Macc. IX, 12)  Egli promette a Dio di far penitenza, di riparare tutti i mali che ha fatti nel corso della sua vita, tutti i mali che ha cagionati a Gerusalemme, e che elargirà dei grandi beni per conservare il culto del Signore, che si farà giudeo; finalmente che tutta la sua vita non sarà che una vita rispettosa della legge di Dio. Se voi l’aveste udito, voi avreste detto con gioia: Ecco un peccatore che è un santo penitente. Tuttavolta noi udiamo lo Spirito Santo dirci: « Questo empio domanda un perdono che non gli sarà concesso; egli piange, ma piangendo discende nell’inferno. » Ma perché essere più particolari per trovare degli esempi spaventevoli della giustizia di Dio verso il peccatore che ha disprezzato la grazia di Dio? Vedete lo spettacolo che ci hanno presentato gli empi, quegli increduli e quei libertini dell’ultimo secolo: vedete la loro vita empia, incredula e libertina. Non sono sempre vissuti da empi, con la speranza che il buon Dio loro perdonerebbe quando piacesse loro di domandar perdono? Vedete Voltaire. Tutte le volte che cadeva ammalato, non diceva: Misericordia? Non domandava perdono a quel medesimo Dio che insultava quando godeva buona salute, contro il quale non cessava di vomitare tutto ciò che la corruzione del suo cuore poteva produrre? D’Alembert, Diderot e Rousseau, come tutti i suoi compagni di libertinaggio, credevano che quando sarebbe di lor gusto domandare perdono a Dio, sarebbero perdonati; ma noi possiamo dir loro quello che lo Spirito Santo disse ad Antioco: « Questi empi domandano un perdono che non sarà loro concesso. » E perché questi empi non hanno ottenuto il perdono nonostante le loro lagrime? Perché il loro dolore proveniva non dal rammarico dei loro peccati, né dall’amore di Dio, ma solamente dal timore del castigo. Ah! per quanto terribili e spaventose siano queste minacce, esse non fanno aprire gli occhi a coloro che battono la stessa via. Ah! M. F., che colui che, essendo peccatore ed empio nutra la speranza che un giorno egli cesserà di esserlo, quanto è infelice e cieco! Ah! quanti il demonio ne conduce all’inferno in questo modo! la giustizia di Dio li colpisce nel momento che essi punto non vi pensano. Vedete Saulo, egli non sapeva che ridendosi degli ordini che gli dava il profeta, egli metteva il suggello alla sua riprovazione e ad essere abbandonato da Dio (I Reg. XV, 23). Vedete Amano, se egli pensava che preparando il patibolo a Mardocheo, egli medesimo vi sarebbe appeso per perdervi la vita (Esth.VII, 9). Vedete il re Baldassare, se egli pensava che il delitto che commetteva bevendo nei vasi sacri che il padre suo aveva involati a Gerusalemme, era l’ultimo delitto che Dio doveva lasciargli commettere (Dan. V, 23). Vedete ancora i due infami vecchiardi, se essi menomamente dubitavano che tentando la casta Susanna sarebbero lapidati e cadrebbero nell’inferno! (Dan. XIII, 61). No, certamente. Tuttavia questi empi e questi libertini benché nulla sappiano di tutto questo, essi non lasciano di arrivare al punto nel quale i loro delitti essendo giunti al colmo devono essere necessariamente puniti. Ora, che cosa pensate voi di tutto ciò, voi segnatamente che forse avete concepito il disegno spaventevole di rimanere nel peccato ancora alcuni anni, forse fino alla morte? Tuttavolta, sono questi esempi terribili che hanno mossi tanti peccatori ad abbandonare il peccato, per far penitenza, che hanno popolato i deserti di solitari, riempito i chiostri di santi religiosi e che hanno fatto salire tanti martiri sui patiboli, con gioia più grande che non i re sui loro troni, per il timore di provare gli stessi castighi. Se voi ne dubitate, ascoltatemi un istante, e se voi non siete indurati a questo punto nel quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se stesso, voi sentirete i vostri rimorsi di coscienza risvegliarsi e straziarvi l’anima. S. Griov. Climaco ci racconta (La Scala Santa, quinto grado) che si recò un giorno in un monastero; i religiosi che lo abitavano avevano talmente la grandezza della giustizia divina impressa nel loro cuore, essi avevano un timore tale di essere arrivati a quello stato nel quale i nostri peccati hanno stancato la misericordia di Dio, che la loro vita sarebbe stata per voi uno spettacolo capace di farvi morire di spavento; essi conducevano una vita così umile, così mortificata e così crocifissa; essi sentivano talmente il peso delle loro colpe; le loro lagrime erano così copiose e le loro grida così strazianti, che quando si avesse avuto il cuore più duro delle pietre, non si sarebbe potuto trattenere di versar lagrime. Quando ebbi aperta la porta del monastero – così il medesimo Santo – io vidi delle azioni veramente eroiche; io udii delle grida capaci di fare violenza al cielo; vi erano dei penitenti che si condannavano di restare tutta la notte sulla punta dei loro piedi; e quando il loro povero corpo cadeva per debolezza, essi si rimproveravano la loro viltà: « Infelice, dicevano a se stessi, se hai così poco coraggio per soddisfare alla giustizia di Dio, in qual modo potrai soffrire le fiamme vendicatrici dell’altra vita? » Altri, avendo sempre gli occhi e le mani innalzate al cielo, mandavano grida capaci di farvi rompere in pianto, siffattamente erano penetrati della gravezza dei loro peccati; altri si facevano legare le mani al dorso come colpevoli; essi si consideravano come indegni di guardare il cielo e si gettavano col volto contro terra: « Ah! mio Dio, esclamavano, ricevete, se così a voi piace, le nostre lagrime, i dolori nostri. » Ve ne erano che erano siffattamente coperti di ulceri, il loro povero corpo era così consunto ed esalava un odore così ributtante che era impossibile rimanere vicino a loro senza morire. Ve ne erano che non bevevano dell’acqua che per non morire; essi avevano sempre l’immagine della morte davanti agli occhi, e si dicevano gli uni gli altri: « Ah! che cosa diventeremo noi? Credete voi che noi progrediamo qualche poco nella virtù? Corriamo, miei amici, nella via della penitenza, uccidiamo questi sciagurati corpi come essi hanno ucciso le nostre povere anime. » Ma quello che era più spaventoso, è, quando uno di essi era vicino ad uscire da questo mondo; tutti i religiosi erano vicini al morente con un volto abbattuto, cogli occhi bagnati di lagrime, si volgevano a lui, dicendogli: « Che pensate di voi stesso ora che siete sul punto di morire? Sperate, credete che le lagrime vostre, il dolor vostro e le vostre penitenze vi abbiano meritato il perdono? Non temete di udire queste terribili parole cadere dalla bocca di Gesù Cristo medesimo: « Ritiratevi da me, maledetto, andate al fuoco eterno? »Ah! rispondevano questi poveri morenti, chi sa se le nostre lagrime hanno placato la giusta collera di Dio? Chi sa se i nostri peccati sono scomparsi dagli occhi di Dio? Che possiamo fare? Abbandonarci alla giustizia di Dio. Essi pregavano il loro superiore di non dar loro sepoltura, ma di gettarli nel mondezzaio, per servire di cibo alle bestie selvagge. – S. Giov. Climaco ci dice che questo spettacolo lo aveva siffattamente spaventato che non poté restare che un mese nel monastero; egli non poteva più vivere. « Quando fui di ritorno – così egli – il mio superiore vide che io ero così cangiato che appena poteva riconoscermi. Or bene! mio fratello, voi avete veduto le fatiche ed i combattimenti dei nostri generosi soldati. Io non potei rispondergli che con le lagrime, tanto questo genere di vita mi aveva spaventato e aveva reso il mio corpo debole e macilento. » – Ora, M. F., ecco Cristiani come noi e meno peccatori di noi; ecco penitenti che non aspettavano che il medesimo cielo di noi, che non avevano che un’anima da salvare come noi. Perché dunque tante lagrime, tanti dolori e tante penitenze? Perché sentivano la gravezza del peso dei loro peccati, e come l’oltraggio che il peccato reca a Dio sia orribile; ecco quello che hanno fatto coloro che hanno compreso la grandezza della sventura di perdere il cielo. O mio Dio! essere insensibili a tante e tante sciagure, non è la più grande di tutte le disgrazie? O mio Dio! Cristiani che mi ascoltano e che hanno la coscienza carica di peccati e che non hanno altra sorte da aspettare che quella dei riprovati! Mio Dio! Possono essi vivere tranquilli? Ah! quanto è sventurato colui che ha smarrita la fede!

II. — Noi diciamo che necessariamente dopo il peccato bisogna far penitenza in questo mondo o nell’altro. Se la Chiesa ha stabilito i giorni di digiuno e di astinenza, è per richiamarci alla mente che essendo peccatori, noi dobbiamo fare penitenza, se vogliamo che il buon Dio ci perdoni; e molto più noi possiamo dire che il digiuno, la penitenza, hanno cominciato col mondo. Vedete Adamo; vediamo Mosè che digiunò quaranta giorni. Noi vediamo pure Gesù Cristo il quale era la stessa santità, restare quaranta giorni in un deserto senza bere né mangiare, per addimostrarci che la nostra vita deve essere una vita di lagrime, di penitenza e di mortificazione. Ah! M. F., dacché un Cristiano abbandona le lagrime, il dolore dei suoi peccati e la mortificazione, è cosa fatta per la religione. Sì, per conservare in noi la fede, è necessario che noi siamo sempre occupati a combattere le nostre tendenze ed a gemere sopra le nostre miserie. – Ecco un esempio che assoda come dobbiamo stare sull’avviso per non concedere alle nostre inclinazioni tutto quello che domandano. Noi leggiamo nella storia che eravi uno sposo unito in matrimonio con una moglie molto virtuosa ed un figlio che camminava sopra le sue tracce. Essi facevano consistere tutta la loro felicità nella preghiera e nella frequenza dei Sacramenti. I santi giorni di domenica, dopo gli uffici, non avevano altra occupazione ed altro piacere che di fare del bene; essi si recavano a visitare gli ammalati e fornivano loro tutti i soccorsi che era nel loro potere. Essendo in casa, passavano il loro tempo a fare delle letture di pietà capaci di animarli nel servizio di Dio. Essi in tal modo nutrivano la loro anima nella grazia di Dio, ciò che formava tutta la loro felicità. Ma come il padre era un empio e un libertino, non cessava di biasimarli e di ridersi di loro, dicendo che il loro genere di vita gli recava grande dispiacere e che un tal modo di vivere non poteva convenire che a persone ignoranti; egli procurava di mettere sotto i loro occhi i libri i più infami e meglio capaci di allontanarli dalla strada della virtù che essi battevano. La povera madre piangeva udendo questo linguaggio e il figlio dalla parte sua ne gemeva. Ma, a forza di vedersi perseguitati, trovando continuamente questi libri davanti a sé, sventuratamente, vollero vedere quello che contenevano; e, ah! senza avvedersene, presero gusto per queste letture che traboccavano di lordure contro la Religione e i buoni costumi. Ah! i loro poveri cuori, altra volta affezionati al buon Dio, si volsero ben presto al male; il loro modo di vivere cangiò interamente; cominciarono ad abbandonare tutte le loro pratiche; non fu più questione né di digiuno, né di penitenza, né di confessione, né di Comunione, di guisa che essi abbandonarono affatto i doveri di Cristiani. Il marito che si avvide, fu contento di vederli voltarsi da questa parte. Come la madre era ancora giovane, tutta la sua occupazione fu di adornarsi, di frequentare i balli e le commedie e prender parte ai piaceri che poteva trovare. Il figlio, dalla parte sua, seguiva le tracce della madre; diventò quindi un grande libertino che scandalizzò il paese che prima aveva edificato. Si abbandonò interamente ai piaceri ed allo stravizzo, di guisa che la madre e il figlio facevano spese enormi e le loro sostanze furono ben presto assottigliate. Il padre, vedendosi indebitato, volle sapere se i suoi beni potrebbero bastare a lasciar loro continuare questo genere di vita di cui egli medesimo era l’autore; ma fu ben sorpreso quando vide che i suoi beni non potevano nemmeno far fronte ai suoi debiti. Allora una specie di disperazione si impadronì di lui; un bel mattino si alza, a mente fredda, ed anzi con riflessione, carica tre pistole, entra nella camera della moglie, e le brucia le cervella; passa nella camera del figlio, gli scarica contro il secondo colpo, l’ultimo fu riserbato per sé. Ah! padre sventurato, avesti almeno lasciato questa povera moglie e questo povero figlio nella preghiera, nelle lagrime e nella penitenza, sarebbero esistiti per il cielo, mentre li hai gettati nell’inferno cadendovi tu stesso. Ora, M. F., quale fu la causa di questa grande sciagura, se non perché avevano cessato di praticare la nostra santa Religione? Ah! M. F., qual castigo può essere paragonato a quello di un’anima, alla quale il buon Dio toglie la fede in punizione dei suoi peccati? Sì, M. F., se noi vogliamo salvare le anime nostre, la penitenza ci è necessaria per perseverare nella grazia di Dio come il respiro per vivere, per conservare la vita del corpo. Sì, siamo ben persuasi che, se noi vogliamo che la nostra carne sia sottomessa al nostro spirito ed alla ragione, è necessario assolutamente mortificarla con tutti i suoi sensi: se noi vogliamo che l’anima nostra sia sottomessa a Dio, è necessario mortificarla con tutte le sue potenze. – Noi leggiamo nella S. Scrittura che quando il Signore comandò a Gedeone di combattere contro i Madianiti, gli ordinò di comandare a tutti i suoi soldati timidi e paurosi di ritirarsi. Parecchie migliaia si ritirarono. Ne rimanevano ancora dieci mila. Il Signore disse a Gedeone: « Tu hai ancora troppi soldati; fa una piccola rivista, ed osserva tutti coloro che bevono attingendo l’acqua nel cavo della mano, ma senza fermarsi; sono questi che tu condurrai al combattimento. » Di diecimila non ne rimasero che trecento (Giud. VII, 6). Lo Spirito Santo presenta questo esempio per farci vedere come esiguo è il numero delle persone che praticano la mortificazione e che saranno salve. E vero, M. F., che la mortificazione non consiste tutta nella privazione del bere e del mangiare, benché sia necessario di non conceder tutto ciò che il nostro corpo domanda, dicendoci S. Paolo: « Io tratto duramente il mio corpo per tema che dopo di aver predicato agli altri, io non sia riprovato. »  – Ma è parimente certo, che una persona che ama i suoi piaceri, che cerca i suoi comodi, che fugge l’occasione di patire, che si inquieta, che mormora e che s’impazienta per la menoma cosa che non riesce secondo i desideri suoi e la sua volontà, non ha che il nome di cristiana; essa non è atta che a disonorare la sua Religione, perché Gesù Cristo ci dice: « Che colui che vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua; che rinunci a se stesso; che prenda la sua croce tutti i giorni della sua vita e mi segua. » (S. Luc. IX, 23). Non occorre dire, M. F., che una persona sensuale non avrà mai quelle virtù che ci rendono accettevoli a Dio e ci assicurano il cielo. Se noi vogliamo avere la più bella di tutte le virtù, che è la castità, sappiamo che è una rosa che non si coglie che fra le spine; e quindi che non si incontrerà, come tutte le altre virtù, che in una persona mortificata. Noi leggiamo nella santa Scrittura (Dan. IX, 3, 22) che l’Angelo Gabriele, essendo apparso al profeta Daniele, gli disse: « Il Signore ha ascoltata la tua preghiera, perché è stata fatta nel digiuno e nella cenere: »; la cenere indica l’umiltà. Noi leggiamo nella storia che due missionari gesuiti (Questi due missionari sono S. Francesco Borgia ed il Padre Bustamante.), essendo a dormire insieme, ve ne ebbe uno che, essendo colto da infreddatura, sputò tutta la notte sopra il suo compagno senza saperlo. Il mattino, vedendo l’altro che si lavava, ne fu sommamente addolorato, e gli domandò perdono. L’altro gli disse: « Mio amico, voi non potevate sputare in un luogo più vile che sputando sopra di me. » Ecco, M. F., un esempio che dimostra fino a qual grado questo buon Padre spingeva la mortificazione.

III. — Ma, mi direte voi, quante sorta di mortificazioni vi sono? — Ecco, ve ne sono due: l’una è interna, l’ultra è esterna, ma vanno sempre associate. Per la mortificazione esterna, essa consiste nel mortificare il nostro corpo in tutti i suoi sensi:

1° Noi dobbiamo mortificare i nostri occhi; non guardar nulla per curiosità, né diversi oggetti che potrebbero risvegliare in noi cattivi pensieri; né leggere libri che non siano capaci che farci praticare la virtù, e che all’opposto possano allontanarci ed estinguere il resto di fede che abbiamo.

2° Noi dobbiamo mortificare le nostre orecchie; non ascoltare con piacere tutte quelle canzoni, quei discorsi che possono adularci e che a nulla approdano: è sempre un tempo mal speso e rapito alle cure che dobbiamo consacrare alla nostra anima; mai prender piacere ad ascoltare le maldicenze e le calunnie. Sì, M. F., noi dobbiamo mortificarci in tutto questo e non essere nel numero di quelle persone curiose le quali vogliono saper tutto quello che si è detto, quello che si è fatto.

3° Noi diciamo che dobbiamo mortificarci nel nostro odorato: mai provar piacere nel sentire ciò che può soddisfare il nostro gusto. – Noi leggiamo nella vita di S. Francesco Borgia che egli non ha mai sentito i fiori, ma che all’opposto si metteva spesso in bocca delle pillole e le masticava (Catapotia dentibus eadem de caussa mandere solitus: « Egli aveva il costume di masticare delle pillole con i denti, per mortificarsi. » Vita di S. Franc. Borgia, cap. xv, Act. SS. t. V oct.., 286) onde punire se medesimo del piacere che poteva aver provato sentendo qualche buon odore o mangiando cibi delicati.

4° In quarto luogo, dico che noi dobbiamo mortificare la nostra bocca; non devesi mangiare per golosità, né più del necessario; non bisogna concedere al corpo nulla che possa eccitare le passioni, non mangiare fuori di pasto senza una necessità. Un buon Cristiano non prende mai il suo cibo senza mortificarsi in qualche cosa.

5° Un buon Cristiano deve mortificare la sua lingua non parlando che in quanto sia necessario per adempiere il proprio dovere e per la gloria di Dio e il bene del prossimo. Vedete Gesù Cristo: per dimostrarci quanto il silenzio sia una virtù che gli è aggradevole e per muoverci ad imitarlo, Egli ha conservato il silenzio per il volgere di trent’anni. Vedete la Ss. Vergine: il Vangelo ci fa vedere che non ha parlato che quattro volte solamente, quando la gloria di Dio e il salvamento del prossimo lo domandavano. Ella parlò quando l’Angelo le annunziò che sarebbe Madre di Dio (S. Luc. I, 34-38) parlò quando si recò a visitare la sua cugina Elisabetta, per metterla a parte della sua felicità (ibid.., 46); parlò al suo Figlio, quando lo ritrovò nel tempio (ibid. II, 48); parlò quando intervenne alle nozze di Cana, rappresentando al suoi Figlio il bisogno di quella gente (S. Giov. II, 3). Noi vediamo pure che, in tutte le comunità religiose, un gran punto delle loro regole è il silenzio; per la qual cosa S. Agostino scrive che colui che non pecca colla lingua è perfetto. (Questa parola è altresì dell’apostolo S. Giacomo: Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir. S. Giac. III, 2). Noi dobbiamo segnatamente mortificare la nostra lingua quando il demonio ci inspira di dire cattive ragioni, di cantare cattive canzoni, di lasciarci cadere di bocca delle maldicenze e delle calunnie contro il prossimo, di non pronunciare giuramenti e parole triviali.

6° Io dico che dobbiamo mortificare il nostro corpo non concedendogli tutto il riposo che esige, è una virtù di tutti i santi.

Mortificazione interna. In secondo luogo, abbiamo detto che dobbiamo praticare la mortificazione interna. E dapprima, mortifichiamo la nostra immaginazione. Non bisogna lasciarla vagare qua e là, né lasciare che si riempia di cose inutili, segnatamente non lasciarla aggirarsi sopra cose che possano condurre al male, come pensare a certe persone che hanno commesso qualche turpe peccato contro la santa virtù della purità, come pure pensare ai giovani che si maritano; tutto ciò non è che un’insidia che il demonio ci tende per trascinarci al male. Quanti di questi pensieri si presentano è necessario discacciarli. Neppure bisogna lasciarci occupare l’immaginazione, che cosa diventerei, che cosa farei, se fossi… se avessi questo, se mi si concedesse quello, se potessi guadagnare quest’altro. Tutte queste cose a nulla giovano se non a farci gettare via un tempo nel quale potremmo pensare a Dio ed al salvamento dell’anima nostra. È necessario, all’opposto, occupare la nostra immaginazione nel pensare ai nostri peccati per gemerne e per correggerci; spesso pensare all’inferno, per studiare di evitarlo; spesso pensare al cielo, per vivere in modo da meritarlo; spesso pensare alla morte e alla passione di nostro Signore Gesù Cristo, per aiutarci a sopportare i mali della vita in ispirito di penitenza. – Noi dobbiamo di giunta mortificare il nostro spirito: mai voler esaminare se la nostra Religione non è buona, né voler cercare di comprendere i misteri, ma solamente ragionare nel modo più sicuro col quale condurci per piacere a Dio e salvare l’anima nostra. Poscia noi dobbiamo mortificare la nostra volontà, cedendo sempre alla volontà degli altri quando la nostra coscienza non corra pericolo. E farlo senza mostrare che ciò reca pena; all’opposto essere contenti di trovare un’occasione di mortificarci per potere espiare i peccati della nostra volontà. Eccole, M. F., in generale, le piccole mortificazioni che possiamo praticare ad ogni istante, come pure di sopportare i difetti e le sconvenienze di coloro coi quali viviamo. Egli è certo che le persone che non cercano che di accontentarsi nel bere e nel mangiare e nei piaceri che il loro corpo e il loro spirito possono desiderare non piaceranno a Dio, perché la nostra vita deve essere una imitazione di Gesù Cristo. Io vi domando quale rassomiglianza si potrà trovare tra la vita di un ubbriacone e quella di Gesù Cristo, il quale ha passato la sua vita nel digiuno e nelle lagrime; tra quella d’un impudico e la purità di Gesù Cristo; tra un vendicativo e la carità di Gesù Cristo e via dicendo. Ah! che sarà di noi quando Gesù Cristo confronterà la nostra vita con la sua? Facciamo almeno qualche cosa che possa essere capace di piacergli. Abbiamo detto, cominciando, che la penitenza, le lacrime ed il dolore de’ nostri peccati ci consolano grandemente al punto della morte, e di ciò non è a dubitare. Qual felicità per un Cristiano, in quell’estremo momento, in cui egli si esamina per bene  a coscienza, di ricordarsi d’aver non solo osservato i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma d’aver trascorsa la sua vita nelle lacrime e nella penitenza, nel dolore de’ suoi peccati e in una continua mortificazione di tutto quanto poteva contentare i suoi gusti. Se noi abbiamo qualche timore, non potremmo dire, come S. Ilarione: « Di che temi, anima mia? sono molti anni che lavori a fare la volontà di Dio e non la tua! abbi fiducia, il Signore avrà pietà di te! » (Vita dei  Padri del deserto, t. V, pag. 208) Per meglio farvelo comprendere vi citerò un bell’esempio: Narra S. Giovanni Climaco (La scala santa), ch’eravi un giovane il quale aveva concepito un gran desiderio di passare la sua vita nella penitenza e di prepararsi in tal modo alla morte; egli non pose alcun limite alle sue penitenze. Allorché la morte giunse, fece chiamare il suo superiore, e gli disse: « Ah! padre mio, qual felicità per me! Oh! quanto sono lieto d’aver vissuto nelle lacrime, nel dolore dei miei peccati e nella penitenza! Il buon Dio, che è sì buono, mi ha promesso il cielo. Addio, padre, io vado a riunirmi al mio Dio del quale ho procurato d’imitare la vita per quanto mi fu possibile: addio, padre mio, io vi ringrazio d’avermi incoraggiato a camminare per questa fortunata strada. » Qual contento per noi, M. F., in quell’istante d’aver vissuto per il buon Dio; d’aver fuggito e temuto il peccato, di esserci privati non solo dei cattivi e vietati piaceri, ma altresì dei piaceri leciti ed innocenti; d’aver frequentato sovente e degnamente i Sacramenti dove abbiamo trovato tante grazie e virtù per combattere il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni. Ma ditemi, M. F., che si può sperare in quello spaventoso momento in cui il peccatore vede davanti ai suoi occhi una vita che non fu che una sequela di delitti? Che si può sperare per un peccatore che ha vissuto come se non avesse avuto un’anima da salvare e che credeva che quando fosse morto tutto sarebbe finito; che non ha quasi mai frequentato i Sacramenti, e che, ogni volta che li ha frequentati, non ha fatto che profanarli con cattive disposizioni; un peccatore che, non contento di aver deriso e disprezzato la sua Religione e coloro che avevano il bene di praticarla, fece ogni sforzo per indurre gli altri a battere la sua via d’infamia e di libertinaggio? Ah! qual fremito di disperazione per questo povero disgraziato di riconoscere allora ch’egli non è vissuto che per far soffrire Gesù Cristo, perdere l’anima sua e piombare nell’inferno! Dio mio, quale sventura! tanto più che egli sapeva benissimo che poteva ottenere il perdono de’ propri peccati purché lo avesse voluto. Dio mio, che disperazione per tutta l’eternità! Ecco un ammirabile esempio che ci fa vedere che, se noi siamo dannati, si è perché non abbiamo voluto salvarci. Narrasi nella Storia  (Vita dei Padri, t. I , cap. xv, S. Pafnuzio.) che S. Taide era stata nella sua giovinezza una delle più famose cortigiane che avesse sopportato la terra: nullameno essa era cristiana. Sprofondossi in tutto ciò che il suo cuore, che altro non era che un braciere di fuoco impuro, potesse desiderare; profanò nella crapula tutto ciò che il cielo l’aveva favorita di spirito e di bellezza; la stessa sua madre fu lo strumento di cui l’inferno si servì per gettarla con spaventevole furore in ogni sorta di laidezze, di modo che la sua povera giovinezza trascorse nelle sregolatezze più infami e disonorevoli per una donna. Gli uni si rovinarono per farle dei regali, molti si pugnalarono per non averla potuto possedere. Insomma le sregolatezze di questa commediante formavano lo scandalo di tutta la provincia e motivo di lamento per tutti i buoni. Potete immaginarvi il male che essa faceva, le anime che perdeva, gli oltraggi che infliggeva a Gesù Cristo per le anime che induceva al peccato. Nella sua infanzia era stata bene istruita, ma i suoi disordini e la violenza delle sue passioni avevano estinto in essa tutte le verità della Religione. Nonostante ciò, il buon Dio volle manifestare la grandezza delle sue misericordie, ben sapendo che la sua conversione ne produrrebbe altre; e, gettando su di essa uno sguardo di compassione, andolla a cercare Lui stesso in mezzo alle lordure più infami. Per compiere questo gran miracolo della sua grazia si servì d’un santo solitario al quale fece conoscere questa famosa peccatrice con tutti i suoi disordini. Il Signore gli comandò di andare a trovare questa cortigiana. Questo solitario era S. Pafnuzio. Egli assunse l’abito di cavaliere, si fornì di denaro, e partì alla volta della città ove essa abitava. Siccome egli era guidato da Dio stesso, giunse direttamente ove ella stava, e chiese di parlarle. Taide che nulla sapeva di tutto ciò, lo condusse in una camera remota e magnificamente arredata. Allora il santo le domandò se essa non ne aveva altra più remota ove potesse sottrarsi agli occhi di Dio medesimo. « Eh! state sicuro, gli disse la cortigiana, che nessuno verrà: ma se voi temete la presenza di Dio, non è ch’Egli è da per tutto? »  Il santo fu grandemente meravigliato a sentirla parlare del buon Dio: « Come! le disse, conoscete voi il buon Dio? » — « Sì, rispose ella; ed oltre a ciò, io so che vi è un paradiso per coloro che lo servono fedelmente, ed un inferno per coloro che lo disprezzano. » — « Ma come va – soggiunse il santo – che con tutte queste conoscenze potete vivere nel modo che vivete, e da molti anni, preparandovi a voi stessa un inferno? » Queste sole parole del santo, avvalorate dalla grazia del buon Dio, furono come un colpo di fulmine che abbatterono la nostra cortigiana come S. Paolo sulla via di Damasco. Ella si gettò ai suoi piedi profondendosi in lacrime e pregandolo in grazia di aver pietà di lei, di impetrare misericordia per essa dal Signore. Si protestò pronta a compiere tutto quanto ordinasse, per provare se il buon Dio volesse ancora perdonarla. Non domandò che una dilazione di tre ore per metter ordine alle sue faccende: dopo si recherebbe nel luogo da lui assegnato per non pensare più ad altro che a piangere i propri peccati. Avendole il santo concesso tal dilazione, radunò ella quanti poté dei libertini che si erano profondati con essa nel peccato, li condusse sulla pubblica piazza, e là, in loro presenza, si spogliò di tutti i suoi vezzi: fece portare i mobili acquistati con l’oro delle sue infamie, ne fece una catasta e vi appiccò il fuoco, senza nulla dire perché così operasse. Dopo ciò lasciò la piazza per recarsi presso il santo che l’aspettava, il quale la condusse in un monastero di donzelle. Egli la chiuse in una cella di cui suggellò la porta, e pregò una religiosa di portarle qualche pezzo di pane e un po’ d’acqua. Taide domandò al santo qual preghiera dovesse fare nel suo ritiro per muovere il cuore di Dio. Il santo le rispose: « Tu non sei degna di pronunziare il nome di Dio, né di innalzare le tue mani impure al cielo. Ti basti di volgerti verso l’oriente e dire con tutto il dolore del tuo cuore e nell’amarezza dell’anima tua: « O voi che mi avete creata, abbiate pietà di me. » Ecco tutta la preghiera ch’ella fece pel corso di tre anni che rimase in quel bugigattolo, durante i quali non perdette mai di memoria i suoi peccati. Ella pianse sì tanto, maltrattò sì crudelmente il suo corpo, che quando S. Pafnuzio andò a consultare S. Antonio per sapere da lui se il buon Dio le avesse usato misericordia, S. Antonio, dopo aver passata la notte in orazione co’ suoi religiosi per tal fine, gli disse, che il buon Dio aveva rivelato a uno dei suoi religiosi, il quale era S. Paolo il Semplice, che uno splendido trono stava preparato in cielo per la penitente Taide. Allora il santo pien di gioia e d’ammirazione che in così poco tempo avesse ella soddisfatto alla giustizia di Dio, andolla a trovare per dirle che i suoi peccati le erano perdonati, e che doveva lasciare la sua cella. Il santo le domandò ciò ch’essa avesse fatto in questi tre anni. Ella rispose: « Padre mio, io misi i miei peccati al mio cospetto come un mucchio, e non ho cessato di piangerli e d’invocar misericordia. » — « Ed è appunto per questo – ripigliò S. Pafnuzio – che tu hai conquistato il cuore di Dio, e non per altre tue penitenze. » Avendo abbandonata la sua cella per recarsi in un monastero, ella non sopravvisse che quindici giorni, dopo i quali andò a cantare in cielo la grandezza della divina misericordia. – Da quest’esempio, M. F., noi vediamo quanto presto possiamo guadagnare il cuore di Dio, purché il vogliamo, senza ricorrere a grandi penitenze. Qual rimpianto pel volgere dell’eternità per non aver voluto farci alquanta violenza per abbandonar il peccato! Sì, M. F., noi lo vedremo un giorno che noi avremo potuto soddisfare alla giustizia di Dio con null’altro che con le piccole miserie della vita, che siamo costretti a sopportare nella condizione a cui il buon Dio ci ha posti, se noi vorremo nello stesso tempo aggiungere qualche lacrima ed un sincero dolore de’ nostri peccati. Qual rammarico d’esser vissuti e d’esser morti nel peccato, allorché vedremo che Gesù Cristo ha tanto patito per noi e che tanto desiderava di perdonarci, se gli avessimo domandato perdono! Dio mio, quanto è cieco e sventurato il peccatore! Noi abbiamo timore della penitenza. Ma osservate, M. F., come si comportavano coi peccatori ne’ primordi della Chiesa. Coloro che volevano riconciliarsi col buon Dio si recavano nel mercoledì delle Ceneri alla porta della chiesa cogli abiti sucidi e laceri. Entrati in chiesa si spargeva loro la testa di cenere, si dava loro un cilizio cui dovevano portare tutto il tempo della loro penitenza. Dopo ciò si imponeva loro di prostrarsi contro terra, mentre si cantavano i sette salmi penitenziali per implorare sur essi la misericordia di Dio; poscia si faceva loro un’esortazione per indurli a praticar la penitenza con tutto lo zelo possibile, sperando che forse il buon Dio si lascerebbe placare. Dopo tutto ciò erano avvisati che sarebbero scacciati dalla chiesa con ignominia, come Dio scacciò Adamo dal paradiso terrestre dopo il suo peccato. Non appena usciti si chiudeva sopra di loro la porta della chiesa. Ma se desiderate sapere in qual modo passavano questo tempo, quanto durava questa penitenza, eccolo: primieramente erano obbligati a vivere ritirati, oppure ad occuparsi in lavori penosi; avevano alcuni giorni nella settimana in cui dovevano digiunare a pane ed acqua, secondo la gravità de’ loro peccati; lunghe preghiere durante la notte prosternati con la faccia contro terra; si coricavano sopra tavole; si alzavano più volte la notte per piangere i loro peccati. Si facevano passare per vari gradi di penitenza; le domeniche comparivano alla porta della chiesa vestiti di cilicio, col capo cosparso di cenere, rimanendo fuori esposti all’intemperie; si prosternavano dinanzi ai fedeli che entravano in chiesa, scongiurandoli con le lacrime agli occhi di pregare per loro. A capo di un certo tempo, era loro concesso di ascoltare la parola di Dio, ma appena fatta l’istruzione erano cacciati di chiesa; molti non erano ammessi alla grazia dell’assoluzione se non in punto di morte; e ciò era ancora tenuto per un gran favore che faceva loro la Chiesa, dopo aver passati dieci o vent’anni o più ancora nelle lacrime e nella penitenza. Ecco, M. F., come la Chiesa si comportava altra volta verso i peccatori che volevano davvero convertirsi. Se ora desiderate sapere chi erano coloro che si sottomettevano a queste aspre penitenze, vi dirò che erano tutti, dal mandriano all’imperatore. Se ne volete un esempio, eccone uno che abbiamo nella persona dell’imperatore Teodosio. Costui avendo peccato più per sorpresa che per malizia, S. Ambrogio gli scrisse, dicendogli: « Questa notte ho avuto una visione in cui il buon Dio m’ha fatto conoscere che voi venivate alla chiesa, e mi comandò di non lasciarvi entrare. » Leggendo questa lettera, l’imperatore pianse amaramente; tuttavia egli andò a prostrarsi, come al solito, alla porta della chiesa con la speranza che le sue lacrime e il suo pentimento commuoverebbero il santo vescovo. Quando S. Ambrogio lo vide avanzarsi, gli disse: « Fermatevi, o imperatore, voi non siete degno di entrare nella casa del Signore. » L’imperatore a lui: « È vero, ma anche Davide peccò, ed il Signore lo ha perdonato. » — « Ebbene, replicò gli S. Ambrogio, poiché voi lo avete imitato nel peccato, seguitelo nella penitenza. » A tali parole l’imperatore si ritira, senza nulla dire, nel suo palazzo, si toglie le insegne imperiali, si prosterna con la faccia contro terra e si abbandona a tutto il dolore di cui era capace il suo cuore. Per ben sette mesi non mise più piede nella chiesa. Allorché vedeva andarvi i suoi famigliari, mentre a lui era proibito, lo si udiva gridare in modo tale da commuovere i cuori più induriti. Quando poi gli si permetteva di assistere alle pubbliche preghiere, egli stava, non come gli altri, in piedi o in ginocchio, ma col volto prosternato a terra, nella maniera la più commovente, battendosi il petto, strappandosi i capelli ed amaramente piangendo. Per tutta la vita non dimenticò il suo peccato; non poteva pensarvi senza spargere lacrime. E così, M. F., voi vedete ciò che fece un imperatore che non volle perdere l’anima sua. – Che dobbiamo conchiudere, M. F.? Ecco: Giacché è assolutamente necessario piangere i nostri peccati, farne penitenza o in questo mondo o nell’altro, scegliamo la meno rigorosa e la meno lunga. Qual rammarico, F. M., giungere al punto di morte senza nulla aver fatto per soddisfare alla giustizia di Dio! Quale sventura l’aver non curato tanti mezzi che abbiamo di patir qualche miseria, che se noi le avessimo sopportate in pace per amor del buon Dio, ci avrebbero meritato il perdono! Quale sventura l’aver vissuto nei peccato, sperando sempre che lo avremmo lasciato, e morire senza averlo fatto! Prendiamo, F. M., un’altra strada che vantaggiosamente ci consolerà in quel momento; lasciano il male, cominciamo dal piangere i nostri peccati e tolleriamo tutto ciò che il buon Dio a  lui piacerà d’inviarci. Che la nostra vita non sia che una vita di rimordimenti, di pentimento de’ nostri peccati e d’amor di Dio, finché noi abbiamo la felicità d’unirci a Lui per tutta l’eternità. È quanto vi auguro…

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (6)

I sette Angeli con le trombe (Ap. VIII, 1-5)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (6)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770]

LIBRO SECONDO

COMINCIA LA STORIA DELLA CHIESA QUINTA

(Ap. III, 1-6)

Et angelo ecclesiæ Sardis scribe: Hæc dicit qui habet septem spiritus Dei, et septem stellas: Scio opera tua, quia nomen habes quod vivas, et mortuus es. Esto vigilans, et confirma cetera, quæ moritura erant. Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo. In mente ergo habe qualiter acceperis, et audieris, et serva, et poenitentiam age. Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur et nescies qua hora veniam ad te. Sed habes pauca nomina in Sardis qui non inquinaverunt vestimenta sua: et ambulabunt mecum in albis, quia digni sunt. Qui vicerit, sic vestietur vestimentis albis, et non delebo nomen ejus de libro vitae, et confitebor nomen ejus coram Patre meo, et coram angelis ejus.  Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

[E all’Angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Queste cose dice colui che ha i sette Spiriti di Dio e le sette stelle: Mi sono note le tue opere, e come hai il nome di vivo, e sei morto. Sii vigilante, e rafferma il resto che sta per morire. Poiché non ho trovato le tue opere perfette dinanzi al mio Dio. Abbi adunque in memoria quel che ricevesti e udisti, e osservalo, e fa penitenza. Che se non veglierai verrò a te come un ladro, né saprai in qual ora verrò a te. Hai però in Sardi alcune poche persone, le quali non hanno macchiate le loro vesti: e cammineranno con me vestiti di bianco, perché ne sono degni. Chi sarà vincitore, sarà così rivestito di bianche vesti, né cancellerò il suo nome dal libro della vita, e confesserò il suo nome dinanzi al Padre mio e dinanzi ai suoi Angeli. – Chi ha orecchio, oda quello che dica lo Spirito alle Chiese.]

[5] All’angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti. Si riprendono così i sacerdoti pigri – che abbiamo citato sopra – che non guardano né incoraggiano il popolo, non si fidano di Dio con tutta l’anima, né conservano la retta fede nella verità. Si chiamano Cristiani solo di nome, pensano di essere giunti alla vita cristiana, ma sono morti, e così sono rimproverati affinché vigilino e rivedano le varie cose in cui possono aver peccato; perciò avverte: ricordati di come hai ricevuto ed ascoltato la mia parola: conservala e pentiti. Vuole riportare alla memoria la dottrina apostolica, ed ordina di adempiere ciò che si era promesso nel battesimo della fede: di pentirsi dei mali del passato. Tu hai, – dice – un nome come di uno che vive, ma sei morto. Muore soltanto chi ha commesso un crimine mortale. Rianima ciò che sta per morire; questo lo dice solo a coloro che sono nel Sacerdozio, che sono costituiti nel ministero, e che peccano nell’adempiere al loro dovere, e per il peccato vanno alla morte (Rm. V, 12). Infatti chi ha perso il ministero della dottrina non può essere rianimato. Molti leggono, eppure sono digiuni della stessa dottrina.  Molti sentono la voce della predicazione, e dopo averla sentita si ritirano ancor più vuoti. Anche se il loro ventre mangia, la loro anima e le loro viscere non sono piene, perché anche se recepiscono con la loro mente la conoscenza della parola sacra, dimenticandola e non adempiendo ciò che hanno sentito, non trattengono queste cose nelle viscere del loro cuore. Perciò il Signore ne rimprovera alcuni attraverso il profeta, dicendo: « Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non tanto da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino ad inebriarvi » (Ag. I, 5). Semina molto nel cuore ma miete poco, chi conosce molti dei comandi divini perché li ha letti o ascoltati ma, lavorando con negligenza, miete poco. Mangia e non si sazia chi ascolta la parola divina, ma desidera i beni e la gloria del mondo. Si dice giustamente che chi mangia una cosa e ne desidera un’altra non è soddisfatto. Chi beve e non si disseta è colui che inclina l’orecchio alla parola della predicazione, ma non cambia la sua mente. Il senso dei bevitori che si ubriacano è spesso alterato. Chi è devoto nella conoscenza della parola di Dio, ma desidera raggiungere i beni di questo mondo, beve ma non si disseta; perché se si ubriacasse, certamente cambierebbe la sua mente. Ecco perché dice: non ho trovato le vostre opere perfette agli occhi del mio Dio. Perché se fossero perfette, essi cercherebbero le cose celesti e non desidererebbero le cose terrene. Non amerebbero più le vanità e le cose passeggere che amano. Il salmista dice degli eletti: « si saziano del grasso della tua casa » (Psal. XXXV, 9); infatti questi sono così pieni dell’amore di Dio onnipotente, che con il cambiamento della mente, sembrano alieni a se stessi, ed adempiono ciò che è scritto: chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso (Mt. XVI, 24). Si nega se stesso quando si cambia in meglio e si comincia ad essere ciò che non si era, cessando di essere ciò che si era. A volte vediamo alcuni che si commuovono dalla parola della predicazione come se si convertissero: costoro hanno cambiato i vestiti, non l’anima; assumono sì un abito religioso, ma non prima di essersi liberati dei vizi del passato; si agitano barbaramente per gli stimoli della rabbia; sono spinti alla sfida del loro prossimo da un sentimento di malvagità; sono orgogliosi per alcuni beni che mostrano agli occhi dell’uomo; cercano inutilmente i beni del mondo attuale e confidano solo nella santità del solo abito esterno che hanno assunto. Perciò, si dice giustamente: non ho trovato le vostre opere perfette agli occhi del mio Dio. Colui che è morto è già stato giudicato da Dio. Non solo non possiede opere perfette agli occhi del mio Dio, ma non ha assolutamente nulla. Certamente così è morto; perciò è chiaro che il cattivo Vescovo o Sacerdote è stato reindirizzato a compiere tutto il suo dovere, e gli è stato detto: resta sveglio e rianima ciò che ti è rimasto e che sta per morire. Perché non ho trovato le tue opere perfette agli occhi del mio Dio. Ricordati dunque di come hai ricevuto ed ascoltato la mia parola: conservala e pentiti. È questo ciò che dice a tutto il lignaggio della Chiesa, alla quale presiede, e alla quale come richiamo dichiara: perché se non state attenti, io verrò come un ladro e voi non saprete a che ora verrò sopra di voi. Si ritorna alla figura del servo malvagio « … se dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano » (Mt. XXIV, 48). Abbiamo già detto più volte che in questo unico servo è rappresentato il corpo di tutti i Vescovi. E con questi Vescovi, sono considerati un unico corpo tutti i membri della Chiesa, che sono i popoli, e la Chiesa è rappresentata – come detto – da un solo uomo, e l’occhio del suo capo è il Vescovo, la mano del suo corpo è il Presbitero, e il piede ne è il Diacono. E cosa fa quest’uomo se non ricondurre tutti i sensi nella sua testa, affinché veda con i suoi occhi, cioè ricordi il passato, ordini il presente e preveda sempre il futuro, indagando appassionatamente l’occulto dei Testamenti di Dio: la Legge ed il Vangelo; che ascolti con le orecchie, affinché ciò che ode, possa attuarlo con le mani; odori con il naso, affinché discerna ciò che di odoroso sia da ritenere, o ciò che per il fetore sia da scartate; dica con la bocca ciò che ha riconosciuto essere attraverso questi tre sensi in questi tre testimoni: credere con il cuore ciò di cui ha parlato, operare con le mani ciò che ha creduto, rincorrere con i piedi ciò che ha deciso di fare con le mani. E quando ha fatto questo, anche se tutto l’uomo sembra fatto di molte membra, la cosa essenziale è, tuttavia, che se tutte le membra hanno una testa sana, può fare quel che vuole; ed infatti, se la testa è malata, l’occhio senza pupilla, le orecchie senza udito, il naso senza olfatto, la lingua senza loquela, il cuore senza intendimento, le mani senza operazioni e i piedi senza cammino, cosa fa quest’uomo, se non è di alcuna utilità né per se stesso né per gli altri? Se c’è un Vescovo negligente, l’occhio di quella testa è senza pupilla. Se egli ha un clero pigro, cioè i ministri della sua diocesi, è un orecchio senza udito; se questi non correggono la negligenza delle persone loro affidate, è come un naso senza olfatto. Se non proclama la Legge ed il Vangelo, o non la fa proclamare, è una lingua muta. Se ciò che deve essere compreso nelle Scritture viene inteso in modo diverso da come è da intendere, è un cuore senza comprensione. Se ordina sacerdoti ignoranti, o male istruiti, o neofiti, è una mano senza opere. Se ordina dei diaconi pigri, è un piede che non cammina. Comprenda da questi membri citati cosa potrebbe essere utile per gli altri membri. E se per caso un Vescovo dicesse: sono un santo, sono religioso, non ho commesso alcun peccato mortale, penso di potermi salvare, e quindi cosa mi importa degli altri? … gli risponderei: « vuoi festeggiare con il Re? Sei stati invitato al pranzo di nozze dell’Agnello? Ma se hai le mani sporche, non puoi mangiare con il Re alla stessa tavola: vale a dire: se hai preti sudici, non puoi banchettare con il Re alla stessa festa ». Forse dirà ancora il Vescovo: io conduco una vita religiosa, e non spetta a me giudicare come sono i diaconi … Ma risponderei a questo: « siete stati – come detto – invitati alla cena? Ma non potete sdraiarvi con il Re sullo stesso letto se i vostri piedi sono sporchi, cioè se i diaconi della vostra diocesi, o i presbiteri, sono pigri e sudici, ed anche se sembrate santi nella vostra condotta, subirete un castigo, non solo per voi stessi, ma pure per il gregge che vi è stato affidato ». – Facciamo un altro esempio: cosa fa quest’uomo di cui parliamo, se in inverno nel suo cammino è oppresso dal freddo gelido e da una forte nevicata? L’arguzia del contadino utilizza di solito un martello, che la gente comune chiama “anello”; egli ha pure una pietra che colpisce con quello stesso ferro; ha un acciarino, con cui viene acceso il fuoco con le scintille che ne saltellano. Taglia poi la legna, ne fa un mucchio e gli dà fuoco dal di sotto, e quando comincia a bruciare, quelli che vogliono scaldarsi vengono a frotte da diverse parti, uno dopo l’altro. E tutti ricevono fuoco da quel medesimo fuoco, potendo così accendere un proprio fuoco, anche se il loro numero dovesse essere molto grande. E sopravvivono così pur nella neve, con il fuoco acceso, tutti quelli che senza fuoco potevano morire: questo simboleggia la Scrittura divina. Nella Legge si nasconde il fuoco dello Spirito Santo, come in una pietra di silice. E perché non dica forse qualche calunniatore: … come osi paragonare la pietra di silice alla Legge…, ascolta il Signore che rimprovera la Giudea attraverso il profeta Ezechiele: « figlio dell’uomo, ti mando ad un popolo che si è ribellato contro di me » (Ez. II,3), Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte (Ez. III, 9). Cosa si intende per fronte se non la conoscenza? Che cos’è un volto duro se non la Legge, dove si nascondeva lo Spirito Santo, in cui potevano riconoscersi? Come possiamo interpretare il ferro del collegamento (l’“anello”) se non con il Vangelo? Il Signore dice del ferro a coloro che lo seguono ed ai vincitori, attraverso lo stesso Giovanni: a colui che custodisce le mie opere, fino alla fine; io gli darò potere sopra le nazioni: le governerà con uno scettro di ferro, come si frantumano i vasi di argilla come anch’io le ho ricevute dal Padre mio (Ap. II, 26-28). Cosa fa la pietra focaia senza l’anello di collegamento? Cosa fa la Legge senza il Vangelo? Non è essa fredda e glaciale? Il Signore dice di questo gelo: « … per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. » (Mt. XXIV, 12). L’esca, con cui è acceso lo stesso fuoco dello Spirito Santo in mezzo a questi due elementi, e che si diffonde da questa esca, è l’uomo che possiede il fuoco, che è lo Spirito Santo che, attraverso le mani della Chiesa, abbiamo già detto essere i Sacerdoti, i quali mediante la Legge ed il Vangelo fanno bruciare questo fuoco, di cui il Signore dice: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e vorrei che fosse acceso » (Lc. XII, 49). Vedete che il Signore vuole che esso bruci; ma l’occhio senza la pupilla non aiuterà, per mezzo della pietra della Legge, del ferro del Vangelo e dell’esca del corpo, a portarli all’unità; e la mano tumida non può agire su entrambi, né può con i suoi colpi liberare il fuoco latente nella lettera con le scintille della predicazione, né accendere il fuoco dello Spirito Santo, né con la falce della predicazione tagliare o bruciare i boschi o le spine dei peccati; e nell’inverno di questo mondo tutti coloro che avrebbero potuto vivere per sempre con questo fuoco, muoiono invece senza questo fuoco. Questo è l’uomo al quale questo libro parla, risponde, insegna e spinge al pentimento. Questo è il servo infedele che, conoscendo la volontà del suo Signore, non la compie. Questo è colui che nasconde il talento ricevuto – cioè la parola della predicazione – sotto terra, cioè nei beni terreni. Questo è il servo che dice nel suo cuore: il mio Signore tarda a venire (Mt. XXIV, 51); ma il Signore verrà inaspettatamente, in un momento inatteso. Poi lo separerà e lo metterà a parte tra gli ipocriti: non che lo divida in parti, ma lo distinguerà completamente dai Santi. Ascoltate e temete ciò che dice di nuovo di lui e temete ciò che dice ai servi. Dice infatti: legategli la mani e i piedi, cioè legatelo insieme ai suoi presbiteri e diaconi e con le persone che lo hanno imitato, e gettatelo nelle tenebre esteriori: e là sarà pianto e stridor di denti » (Mt. XXII, 13). Si dice di queste tenebre attraverso il santo Giobbe: « terra di miserie e di tenebre, dov’è ombra di morte e disordine » (Giob. X: 22). La miseria significa il dolore, e le tenebre la cecità. Ciò che li tiene lontani dallo sguardo del Giudice severo è definito come una terra di miseria e di tenebre, perché all’esterno il dolore affligge chi è lontano dalla vera luce, all’interno è oscurato con la cecità. La terra di miserie e di tenebre può essere intesa pure in modo diverso. Infatti questa terra, dove siamo nati, è certamente anche terra di miseria, ma non è terra di tenebre, perché subiamo qui molti mali a causa della nostra corruzione; però, senza dubbio torniamo alla luce con il desiderio della conversione, secondo quanto consiglia la “Verità” che dice: « … Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre » (Giov. XII, 35). Quella terra è nello stesso tempo di miseria e di tenebre perché chiunque si abbassi a tollerare i suoi mali, non torna nuovamente alla luce, e per la cui descrizione si aggiunge « terra di oscurità e di disordine » (Giob. X, 22). Come la morte esteriore separa il corpo dall’anima, così la morte interiore separa l’anima da Dio. L’ombra della morte è l’oscurità della separazione, perché il dannato, mentre viene bruciato dal fuoco eterno, è accecato dalla mancanza di luce interiore. La natura del fuoco è quella di mostrare che la luce ed il calore provengono da esso, mentre la fiamma vendicativa dei peccati commessi ha solo il fuoco, anche se non ha luce. Questo è ciò che la Verità dice al reprobo: « allontanati da me, maledetto, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli » (Mt. XXV, 41). E ancora ad uno solo, il che significa come in una sola persona si indichi il corpo di tutti, si dice: legatelo con i piedi e con le mani, e gettatelo nelle tenebre esteriori. Se il fuoco che brucia il reprobo avesse luce, non avrebbe detto a colui che viene riprovato che è stato mandato nelle tenebre, perché coloro che sono divorati dal fuoco della gehenna, sono accecati nella visione della vera luce, per cui così esternamente sono tormentati dal dolore del bruciore, mentre internamente li lacera il dolore della cecità. Coloro che hanno trasgredito al loro Creatore con il corpo ed il cuore, infatti, vengono puniti sia nel corpo che nel cuore, e subiscono il castigo in entrambi, poiché di essi – qui vivendo – hanno abusato per le loro malvagie passioni; perciò Paolo dice giustamente: « … non offrite le vostre membra come armi di iniquità al servizio del peccato » (Rm. VI, 13). Scendere all’inferno “con le armi” significa soffrire i tormenti del giudizio eterno nelle stesse membra con le quali è stato appagato il desiderio del piacere; così come il dolore consumerà in ogni parte coloro che, sottomessi ai loro piaceri, combattono ovunque la giustizia di Colui che giudica rettamente. – Si rivolge poi a colui che ora rimprovera ripetutamente e dice: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te. – Il giudizio di Dio è improvviso e segreto, nessuno conosce l’ora del giudizio che verrà; ma la misericordia non punisce quei miserandi nella loro totalità, ma al contrario li consola dicendo: Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Così tutti coloro che non si sono macchiati col sudiciume del peccato, camminano con il Signore vestito di bianco, diventano degni di seguire le orme dell’Agnello, ed il loro nome non sarà cancellato dal libro della vita, dal momento che Egli li riconoscerà davanti al Padre suo che è nei cieli e davanti ai suoi Angeli. Grandi sono le lodi a favore di chi combatte, cioè i pochi tra tante persone sudicie. Perché non è molto lodevole l’essere buoni tra i buoni, ma lo è invece l’essere buoni stando tra i cattivi. Come infatti è maggior demerito l’essere cattivi tra i buoni, così è un grande merito essere buoni tra i cattivi. Per questo il Beato Giobbe ha detto: « Sono divenuto fratello dei draghi e compagno degli struzzi. » (Giob. XXX, 29). E ad Ezechiele è aggiunto: « Increduli e ribelli sono con te e ti troverai in mezzo agli scorpioni » (Ez. II, 6). Viene offerto qui un rimedio consolante a coloro che spesso trovano la vita tediosa perché non vogliono abitare con i malvagi. Ci chiediamo: perché, allora, non sono buoni tutti quelli che vivono con noi? Noi non vogliamo sopportare i mali degli altri e giudichiamo che dovremmo essere tutti santi ora, anche se non vogliamo essere pazienti nel sopportare il prossimo. Ma questo è più chiaro della luce: se non abbiamo ancora imparato a sopportare i cattivi, è perché noi stessi abbiamo ancora poca bontà. Nessuno è buono, finché non abbia imparato a sopportare i malvagi. Perché – come abbiamo detto sopra – diceva Giobbe, io ero il fratello di draghi e il compagno degli struzzi. Cosa si intende con il nome di draghi se non la vita degli uomini cattivi, di cui il profeta dice:  e aspirano l’aria come draghi » ? (Ger. XIV, 6). Poiché i malvagi, che respirano l’aria come draghi, si gonfiano di malefico orgoglio. Cosa suole intendersi poi con il nome di struzzi se non coloro che sono dei falsi? Infatti lo struzzo ha le ali, ma non vola. Così questi falsi hanno una sorta di santità, ma non hanno la virtù vera della santità; li decora l’apparenza del buon atto, ma le ali della virtù non li sollevano in alcun modo da terra. Per questo l’Apostolo Paolo dice ai suoi discepoli: « … immacolati in mezzo ad una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo » (Fil. II, 15). Perciò Pietro esalta il Beato Lot, dicendo: « … Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati » (2 Pt. II, 7). Egli era un giusto nell’aspetto e nell’udito, viveva tra coloro che ogni giorno tormentavano l’anima dei giusti con opere inique. Per questo l’Angelo della Chiesa di Pergamo viene avvisato, per mezzo di Giovanni col dire: « So dove vivete, dove si trova il trono di satana. Siete fedeli al mio nome e non avete rinnegato la mia fede. » Spesso, quando ci lamentiamo e siamo disgustati dalla vita dei nostri vicini, vogliamo cambiare luogo, e cerchiamo di ottenere una dimora più appartata, ignorando però che se ivi non c’è lo Spirito Santo, il luogo da sé non aiuta. Lo stesso Lot, di cui parliamo, è rimasto santo a Sodoma, ed ha peccato sulla montagna. Chi cerca luoghi nuovi, non curandosi della propria anima, finisce come lo stesso primo padre del genere umano e ha per testimone quello stesso che è caduto in Paradiso. Infatti. se il luogo avesse potuto salvare, satana non sarebbe caduto dall’alto del cielo. Perciò il Salmista, vedendo le tentazioni che sono ovunque in questo mondo, cercò un luogo dove fuggire, ma senza Dio non poté trovare un rifugio sicuro. Per questo chiedendo un posto per sé, cercandolo, diceva: « Sii per me la rupe che mi accoglie, la cinta di riparo che mi salva » (Sal. XXX, 3). Bisogna quindi saper sopportare il prossimo ovunque, perché non si può diventare Abele, senza che chi è tormentato dalla malizia di Caino non lo possa imitare un po’. C’è però un motivo per cui bisogna evitare la compagnia dei malvagi, se non si ha la forza di correggerli, in modo che non si venga attirati nella loro imitazione; infatti siccome non si convertono dalla loro malizia, pervertono coloro che vivono insieme ad essi. Per questo Paolo dice: « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (1 Cor. XV, 33). E – come si dice attraverso Salomone – : « Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non imparare i suoi costumi e procurarti una trappola per la tua anima. » (Prov. XXII, 24). Allo stesso modo gli uomini perfetti non devono evitare i loro vicini malvagi, perché così spesso si trascinano i vicini sulla retta via, senza essere trascinati da essi sulla cattiva strada; i deboli invece devono abbandonare la compagnia dei malvagi, perché non si compiacciano nell’imitare i mali che spesso vedono senza poterli correggere. Infatti ascoltando ogni giorno le parole dei nostri prossimi, le accogliamo nella nostra mente, allo stesso modo in cui sospirando e respirando introduciamo aria nel corpo, cosicché l’aria nociva, ripetutamente introdotta col respiro, si diffonde nel corpo; anche le cattive conversazioni ascoltate frequentemente danneggiano le anime dei deboli, che così si perdono per amore delle cattive opere indotte dall’iniquità delle ripetute conversazioni. È necessario notare ciò che dice il Signore: « … molti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti » (Mt. XX, 16); e « piccolo è il gregge » (Lc. XII, 32), al quale Egli ha promesso di dare l’eredità. Per questo pure dice: Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Chiama così questi altri ad indossare i suoi abiti, dicendo: “… Il vincitore sarà vestito da bianche vesti“. Non riconoscono i pochi Santi che il vivere in mezzo ad una moltitudine di macchiati sia stato dato loro, perché fossero in grado di mantenersi incontaminati? Infatti non possono essere Santi se non coloro che gemono e piangono a causa delle iniquità che si compiono in mezzo a loro: per la nequizia degli spiriti dell’aria, quanto più grande è il male che vedono, tanto più grande è l’afflizione che ne traggono come penitenza; e quelli che non ce l’hanno, non sono Santi! – I cattivi fratelli possono anche non vedere i giusti sia a motivo della similitudine della professione che unanimemente svolgono, sia per le loro virtù simili, ma essi non traggono merito dall’afflizione della penitenza; e, vedendosi nello stesso tipo di religione, pensano di essere loro simili anche se non brillano di segni esteriori di vera santità e, senza testimonianza, pensano che nessuno sia giusto; ma da dove viene quello che essi stessi dicono: « … la loro stessa presenza ci è insopportabile » ? (Sap. II 15). – E non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi Angeli. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

TERMINA LA CHIESA QUINTA NEL LIBRO SECONDO

COMINCIA LA CHIESA SESTA NEL LIBRO SECONDO

(Ap. III, 7-13)

Et angelo Philadelphiæ ecclesiæ scribe: Hæc dicit Sanctus et Verus, qui habet clavem David: qui aperit, et nemo claudit: claudit, et nemo aperit: Scio opera tua. Ecce dedi coram te ostium apertum, quod nemo potest claudere: quia modicam habes virtutem, et servasti verbum meum, et non negasti nomen meum.  Ecce dabo de synagoga Satanæ, qui dicunt se Judæos esse, et non sunt, sed mentiuntur: ecce faciam illos ut veniant, et adorent ante pedes tuos: et scient quia ego dilexi te, quoniam servasti verbum patientiæ meæ, et ego servabo te ab hora tentationis, quae ventura est in orbem universum tentare habitantes in terra.  Ecce venio cito: tene quod habes, ut nemo accipiat coronam tuam. Qui vicerit, faciam illum columnam in templo Dei mei, et foras non egredietur amplius: et scribam super eum nomen Dei mei, et nomen civitatis Dei mei novae Jerusalem, quae descendit de cœlo a Deo meo, et nomen meum novum. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

(E all’Angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: Così dice il Santo e il Verace, che ha la chiave di David: che apre, e nessuno chiude: che chiude, e nessuno apre: Mi sono note le tue opere. Ecco io ti ho messo davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere: perché hai poco di forza, ed hai osservata la mia parola e non hai negato il mio nome. Ecco io (ti) darò di quelli della sinagoga di satana, che dicono d’essere Giudei, e non lo sono, ma dicono il falso: ecco io farò sì che vengano e s’incurvino dinanzi ai tuoi piedi: e sapranno che io ti ho amato. Poiché hai osservato la parola della mia pazienza, io ancora ti salverò dall’ora della tentazione, che sta per sopravvenire a tutto il mondo per provare gli abitatori della terra. Ecco che io vengo tosto: conserva quello che hai, affinché niuno prenda la tua corona. Chi sarà vincitore, lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà più fuori: e scriverò sopra di lui il nome del mio Dio, e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme, la quale discende dal cielo dal mio Dio, e il mio nuovo nome. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dica alle Chiese.)

INIZIA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA SOPRA DESCRITTA

[6] Scrivi all’angelo della chiesa di Filadelfia: Così dice il Santo, il Verace che ha la chiave di Davide: se apre, nessuno può chiudere; se chiude, nessuno può aprire. David in latino significa “fortes manu = forte di mano”. Perché era davvero forte in battaglia. Egli era il desiderato, nel loro lignaggio, dalla sua stirpe. Di lui il Profeta aveva annunciato: Verrà, l’atteso da tutti i popoli (Ag. II, 8), e cioè Gesù Cristo incarnato, che ha la chiave di Davide, e che ha aperto tutti i misteri della Legge e dei Profeti che erano stati sigillati e chiusi sotto la lettera che uccide, mentre li ha fatti conoscere alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito che dà la vita; infatti se Cristo non fosse venuto, non ci sarebbe stato nessuno ad aprire ciò che era chiuso. Egli ha la chiave di Davide, cioè il potere regale che possiede sulla sua Chiesa. È chiaro che ai suoi che bussano, Egli apre, mentre chiude la porta della vita agli ipocriti – cioè ai falsi – quando bussano dicendo: Signore, Signore, aprici …  (Lc. XIII, 25); a questi Egli dice: « Non vi conosco. Partitevi da me, voi operatori di iniquità. » Ma ai suoi Santi dice: « Chiedete e riceverete, cercate e troverete, bussate e la porta vi sarà aperta » (Mt. VII, 7). Che cosa è il “chiedere” se non amare Dio con mente vigile, con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutte le forze, con diligente devozione e con ininterrotta preghiera? Questo è il chiedere a Dio! E che cosa è “cercare” se non il pensare in ogni momento al bene e sradicare dal proprio cuore ogni pensiero nocivo? Questo vuol dire il cercare Dio! E che cosa è “chiamare” se non operare sempre il bene con le proprie mani, amare il prossimo come se stesso, amare il proprio nemico per amore di Dio, e sopportare pazientemente tutte le ingiurie? E se qualcuno ti prende qualcosa per appropriarsene, oltre alla tunica che ti ha preso, non esitare a dargli anche il mantello. Per questo il Signore dice nel Vangelo: « Se ami chi ti ama, che ricompensa ne avrai? » (Mt. V, 46) Ma quando si ama chi ci odia, è allora che c’è la vera ricompensa davanti a Dio, come dice il Profeta: « con chi odia la pace, ero pacifico » (Psal. CXIX, 6): questo è dare la propria anima per il fratello. Per questo Salomone dice: « … L’amore è più forte della morte » (Cant. VIII, 9). E non solo amiamo, ma offriamo loro qualcosa del nostro profitto e dei nostri risparmi, in modo da poter dare loro una parola di esortazione per poterli congiungere in un’amichevole alleanza in qualità di membri del Signore, cioè nella Chiesa. Per questo Giacomo dice: « Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati. » (Gc. V, 19). Oltre a queste cose, secondo il costume apostolico, “bussare” è lavorare con le proprie mani e non essere di aggravio a nessuno, distribuire i propri beni ai bisognosi e non desiderare i beni altrui. Infatti, anche se distribuiamo tutti i nostri beni ai poveri, nulla sarà più prezioso per Dio, né più caro, che lavorare con le nostre mani; e quando avremo fatto questo, ci prepareremo e ci siederemo a mangiare, come dice l’Apostolo: « Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi » (2 Tess. III, 10). Questo è proprio del “bussare” al quale Dio promette di aprire. Perché a chi lavora, Dio promette il cibo che certamente darà non in questo secolo, bensì nel futuro. Egli dice: « Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed Io vi ristorerò » (Mt. XI, 28). Ma all’ozioso e al pigro dirà: « Hai già ricevuto la tua ricompensa » (Mt. VI, 5), « perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare  » (Mt. XXIII, 35), e così via… « Allontanatevi dunque da me, voi operatori di iniquità », voi che lavorate per l’iniquità (Lc. XIII, 27). Ma ai suoi Santi dice: Ti ho aperto una porta. Ma prima dice: se apro, nessuno può chiudere; come a dire: la porta che io apro alla Chiesa, nessuno pensi che la chiuda ad uno qualsiasi o anche all’ultimo dei Santi di tutto il mondo o di qualsiasi parte di esso, o che la porta che ho aperto una volta, un eretico qualsiasi possa richiuderla. Ma se si chiede, si cerca e si bussa, farò così come ho promesso. E poiché senza Dio non possiamo esistere, né vivere, né lavorare, il Signore ordinò al servo lavoratore di tagliare le spine delle ricchezze, di sradicare i vizi, di spargere il letame dei peccati nel campo fuori casa, di seminare il seme del buon lavoro nel campo coltivato, e di chiudere la porta della fede. Una volta che il seminatore ha fatto questo, di solito dorme, e quel seme germoglia, e mette radici e foglie, e cresce giorno e notte con la pioggia ed il sole che non manca; anche vari semi di altre erbe tendono a crescere, cioè la zizzania, che l’uomo cattivo semina quando il seminatore dorme. Ma quando il seminatore ha detto: « alzati, Signore, perché dormi? » (Psal. XLIII, 24), entrando nel campo del corpo, raccoglie ciò che è grande, ma ciò che è insignificante non lo tocca, perché non lo considera un ostacolo alla raccolta. Questa è la Chiesa: lavora, e il Signore manda la pioggia dei suoi precetti, respinge le cavallette dei demoni e spaventa le malvagie potenze dell’aria, calma le tempeste degli uomini malefici e fa fuggire il “cinghiale” – che è il principe malvagio della terra -, protegge e difende ogni giorno il suo raccolto, il raccolto che dice di avere in comune con il contadino. È questa Chiesa che accoglie i contadini ed i Santi che sono gli umili nel mondo che, pur ignorando le Scritture, hanno una fede incrollabile, né terrorizzati si allontanano dalla fede per alcuna circostanza. Perciò si dice loro: ho aperto una porta davanti a voi, aggiungendo, perché, anche se di poca potenza, avete conservato il verbo della mia pazienza, e vi conserverò nell’ora della tentazione. Riconoscano in tal modo la loro gloria nella Chiesa. E poiché sono semplici ed umili, e non irritano nessuno tentandolo malignamente, il Signore non permette loro di essere tentati seppure in piccola misura. Questa è la Chiesa che sceglie per sé il Signore per la sua liberale compassione, senza l’aiuto di filosofia alcuna o di alcuna dottrina. E mentre Egli rimprovera ciascuna delle suddette chiese nei suoi sacerdoti, questa Chiesa è invece governata dallo stesso Pastore celeste. – I. Nella prima Chiesa di Efeso accusa i falsi apostoli e l’amore che hanno perduto. – II. Nell’angelo della Chiesa di Smirne, rimprovera i falsi fratelli, che dicono di essere religiosi e non lo sono, ma che si sono già fisicamente collocati tra i membri dell’Anticristo. – III. Nell’angelo della chiesa di Pergamo, rimprovera i falsi religiosi per aver mangiato carne sacrificata agli idoli e seguito la dottrina dei Nicolaiti. – IV. Ancora una volta, all’angelo di Tiatira viene rimproverato di tollerare Jezebel la profetessa, che è un simulacro, cioè un’apparenza di Chiesa. V. Nell’angelo della Chiesa di Sardi, denuncia i Vescovi, che ne hanno solo il nome, ma di fatto sono morti. Citandoli come un unico corpo, Egli dice: Ricordate come avete sentito e ricevuto la mia parola. – VI. Nell’angelo di Filadelfia, che in latino si traduce con “colei che salva”, è descritto colui che crede nel Signore, e che con rustica semplicità e retta fede si mantiene nell’inviolabile osservanza della devozione. E poiché senza Dio non possiamo sostenere le nostre forze, è Lui stesso che combatte e vince per noi. E anche se fa questo da sé, attribuisce comunque i successi alla sua Chiesa, e contemplandone la debolezza dice: so che, pur avendo poca di forza, hai mantenuto la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. Aveva detto prima: vi ho aperto una porta – e cioè la fede evangelica, la predicazione apostolica – che nessuno può chiudere. … Anche se hai poca di forza. Conoscendo la fragilità umana, il Signore compassionevole dice: Ho aperto per te la porta della sapienza ed i segreti della fede in modo tale che, a causa della tua esigua virilità, nessuno abbia il potere di chiudere le cose che ti sono state aperte. … Avete mantenuto la mia parola e non avete rinnegato il mio nome. E giacché aveva già affermato più sopra la potenza del suo dono, il Signore le attribuisce anche la grazia che ha concesso alla sua condotta; poiché con il dono che il Signore ha concesso, il servo ha conservato la fede e non ha rinnegato il suo Nome eterno. Gli dice: hai poco di forza. È la lode del Dio protettore, ed anche della devozione della Chiesa, che fa sì che Dio con un po’ di forza apra la porta al vincente, e con un po’ di forza irrobustisca la fede. Perché non è il potere che va cercato, ma la fede. Infatti una donna sola, Giuditta, non ha ucciso Oloferne con la sua forza, ma per la sua fede. Né si poteva credere che il sesso debole avesse potuto strappare via la spada con la mano, ucciso il persecutore della Chiesa, sottomesso i plotoni dei nemici: non era opera dell’audacia temeraria, ma della fiducia nella virile fermezza. Così pure i figli d’Israele, testimoni di tanti ammirevoli atti di potenza, perché dubitavano nella loro fede in Dio, patirono varie disgrazie, e perirono nel deserto. Pur mangiando la manna, furono uccisi dai serpenti, altri anche dal fuoco e dalla spada. Per il loro mormorio e la diffidenza, non solo non entrarono nella Terra Promessa, ma persero per sempre i regni celesti. Così molti, escono pure dall’Egitto di quest’epoca, entrano nello stretto sentiero del deserto e conoscono la manna della grazia celeste, cioè i segreti delle Scritture; ma non trovano la via della promessa celeste se non solo i semplici, gli ignoranti ed i puri di cuore. Anche se sono stati istruiti, non possono trovare la strada se non hanno imitato i rozzi Apostoli. Dio non ha chiamato all’apostolato prima i letterati, o i filosofi, o gli oratori, ma i semplici, i poveri ed i pescatori. Mai uno dei filosofi avrebbe potuto dire: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt. XVI, 16). Demostene, Cicerone o il filosofo Catone non avrebbero mai potuto dire: « In principio era il Verbo, il Verbo era con Dio »(Gv. I, 1). E sappiamo che gli Apostoli Pietro e Giovanni, non erano filosofi, ma ignoranti ed illetterati. Pietro, con la sua mano callosa, predicando semplicemente il Figlio di Dio, venne a Roma per annunciarlo allo stesso imperatore e padre del popolo romano, quale dato alla luce da una Vergine, non come Romolo, che fu allattato da una lupa. Si vede quindi che non è stata la parola del filosofo a riempire il mondo, ma quella dell’ignorante Pietro, che riconosce l’uomo-Figlio di Dio. Il suo corpo gloriosissimo riposa in una tomba nella città di Roma, ma la sua parola brilla in tutto il mondo. Anche se una tomba può custodire il suo corpo, eppure la sua benefica influenza è evidente ovunque. Con devozione l’imperatore viene a venerare la sua tomba, a baciare i piedi di quell’ignorante, e si toglie la corona dalla testa. Di chi è questo potere se non di colui che credeva con fede perfetta e predicava con dedizione totale? Vediamo chiaramente che « … Dio ha scelto i deboli del mondo per confondere i forti. E ha scelto la stoltezza del mondo per confondere i saggi del mondo » (1 Cor. 1, 27); ha scelto la povertà e la semplicità del mondo per confondere i ricchi orgogliosi. Il Signore infatti non rimprovera i saggi, né i forti, né i ricchi del mondo, perché Egli è il saggio, il forte ed il potente; ma solo rimprovera – come abbiamo detto – i superbi, coloro cioè che non conoscono Dio e ripongono la loro speranza nelle loro ricchezze. Ecco così che molti uomini giusti hanno compiaciuto Dio con le proprie ricchezze, Abramo lo testimonia dicendo: Parlerò al mio Signore, io che sono polvere e cenere? (Gen. XVIII: 27). La ricchezza non è un impedimento, né lo è la saggezza, là dove abbonda l’umiltà. Il giusto pecca in un modo, in altro invece il peccatore o il malvagio. In un modo cade il giusto, e in un altro il malvagio. Infatti è proprio vero che: … i giusti cadono sette volte, ma si rialzano (Prov. XXIV, 16); questi non commettono un peccato tale da non essere più rialzati, quando si ride di taluno, o si lancia una contumelia, o sovviene un indegno pensiero. Si dice che quest’uomo pecca, eppure lo si chiama a ragione “giusto”. Egli infatti non cade in modo tale da non essere più giusto, perché sta scritto: « Se cade, non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano. » (Psal. XXXVI, 24). Così il Signore rimane anche quando il giusto cade, perché non pecca in modo tanto grave al punto che il Signore gli si allontani. Ha concupiscenza per la debolezza della carne, ma non acconsente al desiderio, fermato dalla virtù della grazia spirituale. La stessa concupiscenza è per la legge del peccato, stabilita anche nelle membra dei Santi. Eppure la Grazia di Dio libera i suoi giusti per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo. Per questo motivo « … Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; » (1 Pt. II, 24). Quando l’uomo giusto cade, contrae un debito. Ma i debiti dell’uomo giusto sono diversi, e ne chiede perdono quando, nel Padre Nostro, dice con verità: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. » Infatti i peccati dei Santi sono debiti dovuti alle necessità  dell’infermità. I peccati dei malvagi sono dovuti all’intenzione di una cattiva volontà. Nei primi si trova solo il principio del peccato, tale che non viene realizzato, perché il vizio, pur nascendo dalla debolezza, è vinto dalla grazia di Dio. Questi altri, però, privati dell’aiuto della grazia, sono rigettati dalla cattiva volontà alla li conduce il perverso desiderio. È per questo che i peccati dei Santi sono chiamati peccati, ma non crimini. È per questo che vengono corretti dal Padre, perché non siano puniti dal Giudice. Questa correzione, però, appartiene sì ad un giudizio, ma paterno, con il quale Dio punisce e flagella i suoi figli con misericordia, onde liberarli dal tormento della dannazione eterna. Per questo il beato Apostolo dice: « Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati, quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo » (1 Cor XI, 31-32). I peccati dei malvagi si compiono in tre modi: o mediante sacrilegio, o per incontinenza o mediante cattive opere. Una persona commette sacrilegio se non pensa rettamente di Dio, e per mera cecità, per perversità del suo cuore si separa dalla vera fede per paura di perdere i suoi beni temporali. Il peccato di incontinenza è commesso da chi vive senza freni e vergognosamente. Pecca con opere malvagie chi ferisce crudelmente un altro, o con danno, o con qualsiasi altro tipo di oppressione. Quando i Santi peccano, cadono in tanti peccati per debolezza umana, ma mai in maniera da rinnegare ostinatamente la vera fede, né da contaminarsi, né dal danneggiare il prossimo; essi seguono l’Apostolo, che dice di: « … vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo » (Tt. II, 12). E in un altro luogo dice: « non gustare più di quanto ti convenga gustare, ma assaggia con sobrietà » (Rm. XII, 3). Certo, secondo questa triplice divisione: viviamo rettamente, sobriamente e con pietà: vive sobriamente chi non segue i piaceri della lussuria; vive giustamente colui che non fa mai del male al prossimo, ma gli fa del bene nella misura delle sue possibilità; vive con pietà chi per nessun motivo si separa dall’assemblea dell’unità della Chiesa e, posto all’interno della Chiesa, osserva senza esitare ciò che chiaramente sa appartenere alla scienza della vera fede. E quelle cose che non sa o di cui dubita, o che non può capire dalle Scritture, le scopre meditando e leggendo con umiltà e pazienza, finché, anche se sa qualcosa con altri mezzi, lo sa perché è Dio che glielo rivela. La sobrietà, la giustizia e la pietà, che tutti i fedeli devono avere, sono legate tra loro in modo tale che, se manca una di esse, anche le altre che sembra avere, non gli sono di alcuna utilità. La sobrietà, con cui ognuno si astiene dai desideri, cioè dai peccati, non salva se non è accompagnata dalla giustizia e dalla pietà, cioè se non si creda rettamente in Dio, e se non si dia al prossimo con piacere ciò che la carità richiede. Né produce frutto la giustizia, per mezzo della quale ognuno dà al prossimo ciò che desidera sia dato o fatto a se stesso, se nello stesso tempo non è sobrio e pio. Ugualmente è morta la pietà, che rettamente crede in Dio e nell’unità della Chiesa, se la castità o l’amore per il prossimo non l’accompagnano. La vera salute dell’anima si acquista, quindi, se si osserva la pietà nella fede, la giustizia nell’amore, la sobrietà nella castità e nell’affabilità. E per insegnarvi brevemente ciò che accade all’interno della Chiesa, osservando quel che accade nella conduzione dei rapporti umani, dai quali possiamo più facilmente prendere esempio e capire chiaramente, consideriamo le anime di tutti i battezzati, come spose unite in matrimonio. Infatti l’Apostolo ha parlato del grande mistero del matrimonio stesso in Cristo e nella Chiesa (Eph V, 32). Così è per ogni anima fedelmente unita a Cristo come una sposa che vive fedelmente con il suo sposo, e che mantenendo la castità del matrimonio a volte rattrista l’anima del suo uomo, ma conserva la fedeltà del suo talamo con una castità limpida, e con prudenza e moderazione amministra i beni del marito; così se da un lato offende il marito, dall’altro vive castamente e fedelmente con lui. E quando la debolezza umana fa talvolta che ella manchi verso il marito, la castità coniugale la rende dolcemente unita ad esso. Ma quella donna che, dopo aver lasciato la casa del marito, o restando nella stessa casa del marito, venga coinvolta in un adulterio e sperperi i beni del marito, non è considerata degna di perdono, ed è ritenuta colpevole di delitto mortale. Tale è l’anima che, acconsentendo al diavolo, si abbandona all’infedeltà, non credendo rettamente in Dio, o è coinvolta in crimini secondo i piaceri della lussuria, o commette ingiustizie a danno del prossimo, oppure è avida e non fa del bene ai bisognosi, vive in  modo empio, si allontana dall’unità della Chiesa, o commette un atto di superbia contro qualcuno. Di tutti questi l’Apostolo dice: « Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. » (1 Cor. VI, 9). Tutte queste cose sono considerate crimini e peccati. Ma le colpe dei giusti sono considerate peccati, non crimini. Un peccato si commette quando diciamo o una leggera bugia, o una contumelia senza danneggiare, o nella disciplina della cura della famiglia, per cui l’uomo non riesce a vivere o stare senza peccato per un solo giorno, come dice l’Apostolo Giovanni: se diciamo “non abbiamo peccato”, inganniamo noi stessi (1 Gv. I, 8). La colpa è nel pensiero malvagio che non si realizza esteriormente, né con le parole, né con i fatti. Per questo l’Apostolo dice: « E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà dell’empio e del peccatore? » (1 Pt. IV: 18). – Poi continua a parlare dei nemici della Chiesa che si sottometteranno, e dice: Vi consegnerò alcuni della sinagoga di Satana, quelli che si dichiarano Giudei ma non lo sono, e che in realtà mentono. Li farò venire e li farò inchinare davanti ai tuoi piedi, affinché sappiano che Io ti ho amato. Dice che tutti i nemici e gli avversari della Chiesa saranno giudicati dalla Chiesa Cattolica, così come già l’Apostolo: « quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele » (Mt. XIX, 28). Sicuramente allora verranno coloro che si considerano Giudei, cioè uomini religiosi, e non lo sono: e si inchineranno ai piedi della Chiesa, e sapranno che il Signore l’ha amata. Questo è promesso a tutta la Chiesa per il futuro quando Egli l’avrà raccolta da ogni nazione: perché non solo la Chiesa di Filadelfia ha creduto, ma anche le altre Chiese. Al secondo Angelo della Chiesa di Smirne dice: sarete calunniati da coloro che si definiscono Giudei ma non lo sono: ma non promette, però, che verranno e si inchineranno davanti ai piedi della Chiesa, cioè davanti ai piedi del Corpo di Cristo. Noi crediamo che questo si realizzerà in futuro, e anche se tutti in questo mondo venissero a supplicare la penitenza davanti ai piedi della Chiesa, tuttavia questo deve essere inteso che avverrà del mondo futuro. Perciò al sesto Angelo, che precede il settimo, promette ciò che ha concesso senza promessa agli altri Angeli di cui sopra, cioè alle Chiese: perché il Signore non si aspetta che solo una sola Chiesa faccia penitenza, ma tutte e sette, perché in tutto il mondo c’è una sola Chiesa. Se dovesse succedere qualcosa ad un membro, tutto il corpo ne risentirebbe. Ed aggiunge: Poiché avete tenuto fede alla mia raccomandazione di essere pazienti nella sofferenza, vi terrò anche fuori dall’ora di prova che verrà su tutto il mondo, per mettere alla prova gli abitanti della terra. Ecco, così ha rivelato molto chiaramente che si riferiva non solo al mondo presente, ma anche a quello futuro. Ed ha promesso di mantenere la promessa alla sua Chiesa negli ultimi giorni, quando l’Anticristo, il nemico del genere umano, verrà a mettere alla prova gli abitanti della terra: così che chi vivrà allora non sarà turbato nell’ora della prova. Come allora non era Filadelfia l’unica ad essere indicata, anche se questo era stata promesso solo a lei, così è pure ora. Infatti, se solo Filadelfia, o allora l’Africa, avesse ricevuto la raccomandazione di Dio di avere pazienza, perché avrebbe poi avvertito che in seguito le prove si abbatteranno sul mondo intero? Diciamo chiaramente che non c’è nessuno al mondo che sia tentato, se non la Chiesa. E quello che dice a Filadelfia, lo dice a tutta la Chiesa. E siccome è la sua Chiesa, Egli promette ogni giorno la tutela della protezione, dicendo: vi terrò lontani dall’ora della prova che sta arrivando su tutto il mondo. Come è accaduto in Africa, così è giusto che avvenga in tutto il mondo, che cioè l’Anticristo si manifesti, come si è manifestato anche a noi in parte; e che questo sia il genere dell’ultima persecuzione nel tempo in cui l’Anticristo verrà; e che non succeda se non un’afflizione come non c’è mai stata fin dall’inizio dell’umanità; e che la Chiesa debba superare l’Anticristo ovunque, come lo ha superato già in parte, serve a mostrarci come sarà l’ultima battaglia. Perché l’Anticristo è sempre sconfitto dalla Chiesa. Ma non avverrà, come alcuni pensano, che l’Anticristo perseguiterà la Chiesa in una sola regione, perché dice infatti che ci sono anticristi ovunque. L’Anticristo sarà l’ultimo re che regnerà su tutto il mondo e che si proclamerà egli stesso Dio, cioè il Cristo. Ma ora l’Anticristo è nascosto nella Chiesa, perché non gli è ancora stato apertamente concesso il potere. Ma quando arriverà, assoggetterà il mondo intero al suo potere. Come si dice di lui attraverso Giobbe: « … trae dietro di sé tutti gli uomini e innanzi a sé una folla senza numero. » (Giob. XXI, 33). Qui ci si riferisce a coloro che godono dei beni terreni. Ma poiché il mondo intero è più che “senza numero”, dobbiamo capire perché dice che davanti a sé c’è una folla innumerevole e dietro di lui tutti gli uomini. Questo se non perché l’antico nemico, padrone dell’uomo reprobo, e cioè dell’Anticristo, strapperà via tutti quelli che trova nella carne, e li assoggetterà sotto il giogo del suo potere: colui che ora, ancor prima di apparire, ne trascina via certamente di innumerevoli, ma indubbiamente non tutti i carnali. Infatti per la misericordia di Dio molti sono restituiti ogni giorno dall’opera carnale alla vita ed allo stato di giustizia: alcuni ritornano con una breve, altri con una lunga penitenza. E quindi non li trascina via tutti, ma innumerevoli, perché non mostra ancora tutti i segni mirabili dei miracoli della sua falsità. Ma quando a suo tempo, davanti agli occhi della carne, farà, come i maghi, segni ammirevoli ai suoi stessi occhi, allora ne trascinerà dietro di sé innumerevoli e tutti. Perché chi in questo mondo si delizia per le piacevoli ricchezze presenti, si sottomette al suo potere senza alcuna resistenza. Ma, come abbiamo detto prima, attrarre tutti gli uomini è più che attrarne innumerevoli, perché dice sopra che trascina tutti gli uomini e poi che ne attira innumerevoli? L’ordine era che egli dicesse prima ciò che è meno, cioè gli “innumerevoli”, e poi, in numero crescente, dicesse ciò che è di più, cioè “tutti”. Ma si deve capire che qui gli “innumerevoli” citati sono più che “tutti”; e che trascina ogni uomo dietro di lui, perché in tre anni e mezzo, “tutti” quelli che troverà impegnati nella vita carnale, saranno sottomessi al giogo del suo dominio. E ne trascina dietro innumerevoli, perché per cinquemila e più anni, anche se non ha potuto trascinare tutti i carnali, eppure sono stati molti di più, in così tanto tempo, di quelli che trova da trascinare poi alla fine. Si dice, allora, correttamente: dietro di lui trascina tutto il mondo e davanti a lui una folla innumerevole: perché allora trascina meno, quando finalmente trascina tutto, e ora ne trascina di più pur non invadendo il cuore di tutti, perché il vero Cristo non ha ancora lasciato il centro della Chiesa, ed infatti dice: Verrò presto, tenete stretto ciò che avete, perché nessuno vi porti via la corona. Predice la Sua imminente venuta, e che la distruzione di satana avverrà molto rapidamente. E come annuncia che non ci sarà un lunga prova, così avverte che il nemico non prenderà la sua corona. Come dice Salomone: « … per non mettere in balìa di altri il tuo vigore e i tuoi anni in balìa di un uomo crudele » (Prov. V: 9). Poiché ci è stata data grande fiducia nell’affermare la perseveranza della Chiesa dovunque nella prova, dobbiamo rispondere alle calunnie di quelli che dicono che la Chiesa sta diminuendo, e che sarà ridotta al numero della casa di Noè perdendo molte delle sue corone, in quanto il Signore ha detto: conservate con fermezza ciò che avete, perché nessuno vi tolga la vostra corona, non considerandone l’aumento o la crescita; infatti se la corona viene data ad un altro, non è perduta; il posto vacante è di chi ha perso ciò che aveva. Che cosa è ciò che dice: perché nessuno ti tolga la corona, se non che non si trattiene ciò che si ha, affinché non lo prenda un altro, e noi non lo perdiamo, se non perché Dio ha voluto mostrare che si dovesse mantenere la fermezza nelle sue promesse, senza lasciare spazio a vane speranze? Questo perché alcuno si vanti vanamente della promessa di Dio e rimanga pigro e tiepido; e, vivendo in qualsiasi modo sotto la Religione, si consideri figlio di Abramo, avendo Dio promesso ad Abramo con giuramento che nella sua discendenza avrebbe ereditato tutti i popoli (Gen. XVI, 3). Per questo Egli avverte di conservare con fermezza, e ordina di tener duro, affinché nessuno la porti via, dal momento che la corona può essere tolta a chi non persevera, e che solo chi è visto non cadere e perseverare fino alla fine, avrà per sempre la sua corona. Questa è la potenza, questa è la fermezza delle promesse di Dio, che, avendo ripudiato alcuni figli di Abramo, ne suscita ancor più numerosi dalle pietre (Mt. III, 9), affinché il malvagio non si glori di essere figlio di Abramo, né Abramo perderà i suoi figli essendogli Dio debitore [della promessa] e Colui che li nutre. Così è impossibile che il numero dei Santi sia ridotto dalla malizia delle zizzanie che crescono; è impossibile, come abbiamo detto, che il raccolto sia strappato da mezzo della zizzania. Se viene strappato, non è raccolto con la zizzania, perché Dio giudice ha permesso ad entrambi di crescere fino alla maturazione. A coloro che persevereranno dice: Farò del vincitore una colonna nel santuario del mio Dio e non ne uscirà più. Chiamò “colonna” il membro prezioso e utile a molti, che avrebbe unito al suo corpo, per servire di ornamento e forza, come dice l’Apostolo Paolo: « Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la loro destra in segno di comunione » (Gal. II, 9). Nel tempio del mio Dio, cioè nella moltitudine dei Santi. E non ne uscirà, disse, mai più. Cioè dalla compagnia dei Santi; certamente non lascerà mai il merito e la gloria degli eletti. I gentili erano venuti da Dio, come sta scritto in Davide: « Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli » (Psal. XXI, 28). Si riferisce a coloro che Egli annuncia venire dalla sinagoga di satana. Questi infatti erano usciti, con uno scisma, fuori dalla casa di Dio. E si riferisce in modo particolare a questi, quando dice che non usciranno più, manifestando ciò che avverrà nell’ultima lotta finale. Perché ci sarà, dopo l’unità, un’altra separazione nella lotta finale, dalla quale se qualcuno sarà coinvolto, non ne uscirà più. Per questo motivo, il Signore ha permesso ad alcuni di uscire perché dovessero essere liberati più tardi, in modo che avessero il tempo di tornare: a questi, negli ultimi giorni, non permetterà però più di uscire, perché chi poi esce, non avrà più il tempo di tornare. E scriverò su di lui il nome del mio Dio, e il nome della città nuova, Gerusalemme, che scende dal cielo inviata dal mio Dio: affinché sia suggellato con il nome divino, e sia adornato con la gloria dell’immortalità, e riceva il nome della città divina, la nuova Gerusalemme, che è “la visione di pace”, così da godere del riposo eterno e della tranquillità della sicurezza. Essa è la città che scende dal cielo inviata da Dio, perché i Santi vivano in essa e si riposino …  e il mio Nome nuovo. Nulla è antico in Dio, che non invecchi con l’età, ma il Nome di Dio è sempre nuovo, sempre retto. E coloro che sono segnati con questo nome e trasferiti nel regno eterno, ottengono la vita eterna. In questo mondo il nome della Chiesa discende ogni giorno dal cielo mandato da Dio, cioè sempre la Chiesa nasce dalla Chiesa per mezzo di Dio. La chiamò nuova per la novità del Figlio dell’uomo, Gesù Cristo, ed è la Gerusalemme, e il mio “nuovo Nome”, che è il nome dei Cristiani, come prima della sua venuta venivano chiamati cristi, sacerdoti e dei, i governanti dell’uomo; ma non era questo il loro un nome nuovo, perché ce n’erano molti e nessuno di essi poteva salvare il mondo, ma solo lo poteva il Signore Gesù Cristo, cioè il Re Salvatore. Solo questo Re è Salvatore: questo è il nuovo Nome che sta al di sopra di ogni altro nome (Fil. II,9). Questo è il Re dei re, che è al di sopra di tutti i re. E non perché questo sia nuovo per il Figlio di Dio, come se fosse iniziato allora; infatti, non essendo veramente così, diciamo nuovo – ma solo nella carne – Colui che fin dal principio, prima della creazione del mondo, ha la stessa gloria del Padre. Eppure questo è nuovo per il Figlio di Dio, che è morto volontariamente ed è risorto, perché ne aveva il potere, ed è seduto alla destra di Dio; è “Figlio dell’uomo” quel che dice essere il “mio Nome nuovo”. È Lui che, all’inizio di questo libro, abbiamo visto tra i sette candelabri d’oro. Questi è il Figlio dell’uomo, Gesù, nel cui nome ogni ginocchio si piega in cielo, in terra e nelle profondità (Fil. II,10). Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. Ogni volta che lo Spirito dice cose che dovrebbero essere comprese in modo diverso da come risuonano all’orecchio, conclude dicendo questo: Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.

TERMINA LA SPIEGAZIONE DELLA CHIESA SESTA

INIZIA LA CHIESA SETTIMA NEL SECONDO LIBRO

(Ap. III, 14-22)

Et angelo Laodiciaæ ecclesiæ scribe: Hæc dicit: Amen, testis fidelis et verus, qui est principium creaturæ Dei. Scio opera tua: quia neque frigidus es, neque calidus: utinam frigidus esses, aut calidus: sed quia tepidus es, et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo: quia dicis: Quod dives sum, et locupletatus, et nullius egeo: et nescis quia tu es miser, et miserabilis, et pauper, et cæcus, et nudus.  Suadeo tibi emere a me aurum ignitum probatum, ut locuples fias, et vestimentis albis induaris, et non appareat confusio nuditatis tuae, et collyrio inunge oculos tuos ut videas. Ego quos amo, arguo, et castigo. Æmulare ergo, et poenitentiam age. Ecce sto ad ostium, et pulso: si quis audierit vocem meam, et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum, et coenabo cum illo, et ipse mecum. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo: sicut et ego vici, et sedi cum Patre meo in throno ejus. Qui habet aurem, audiat quid Spiritus dicat ecclesiis.

[ “E all’Angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice l’amen, il testimone fedele e verace, il principio delle cose create da Dio. Mi sono note le tue opere, come non sei né freddo, né caldo: oh fossi tu freddo, o caldo: ma perché sei tiepido, e né freddo, né caldo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca. Perciocché vai dicendo: Sono ricco, e dovizioso, e non mi manca niente: e non sai che tu sei un meschino, e miserabile, e povero e cieco, e nudo. Ti consiglio a comperare da me dell’oro passato e provato nel fuoco, onde tu arricchisca, e sia vestito delle vesti bianche, affinché non comparisca la vergogna della tua nudità, e ungi con un collirio i tuoi occhi acciò tu vegga. Io, quelli che amo, li riprendo e li castigo. Abbi adunque zelo, e fa penitenza. Ecco che io sto alla porta, e picchio: se alcuno udirà la mia voce, e mi aprirà la porta, entrerò a lui, e cenerò con lui, ed egli con me. Chi sarà vincitore, gli darò di sedere con me sul mio trono: come io ancora fui vincitore, e sedei col Padre mio sul trono. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dica alle Chiese.”]

TERMINA LA STORIA DELLA SETTIMA CHIESA

INIZIA IL COMMENTO ALLA STORIA DELLA SETTIMA CHIESA PRECEDENTEMENTE DESCRITTA NEL SECONDO LIBRO

[7] Scrivi all’angelo della Chiesa di Laodicea: Così parla il fedele e vero testimone  del principio delle creature di Dio: Conosco la tua condotta: tu non sei né caldo né freddo. Magari tu fossi freddo o caldo; ma siccome sei tiepido, e non sei né caldo né freddo, ti sto per vomitare dalla mia bocca. Dice qui che parla alla Chiesa lo stesso “verace” e “fedele” Signore Gesù Cristo, che è il principio delle creature di Dio, non ché Egli abbia avuto un principio, ma che lo ha dato, e annuncia che riprende la pigrizia di alcuni rimproverandone la tiepidezza, con il dire: sto per vomitarti dalla mia bocca. Egli rimprovera coloro che si sono abbandonati ad alcune fatuità, perché non li trova né gravati dal grande gelo dell’iniquità, né sostenuti dalle opere buone, ma persistono tiepidi in entrambe; perciò non presentano il cibo delle opere buone a Cristo, che si sazia delle buone azioni, ma, persistendo nelle loro delizie, si considerano pur fedeli; eppure Egli minaccia di vomitarli dal suo cuore e di scacciarli quanto prima, dicendo: tu non sei né freddo né caldo; poiché sei tiepido, ti vomiterò fuori dalla mia bocca, cioè non sarai nelle mie viscere, perché sei tiepido. Egli chiama tiepidi gli uomini ricchi credenti, posti nell’alta dignità, che, essendo credenti e ricchi, trattano delle Scritture nelle loro case e si discute fuori se siano della Chiesa, e senza dubbio si considerano anime fedeli. Essi cioè si glorificano, e dicono di conoscere tutti gli insegnamenti delle Scritture e di credere in Dio. E si ritengono con certezza essere attivi nella Chiesa, pur mancando le loro opere. È per questo che si dice loro: non siete né freddi né ferventi, cioè non siete né pagani né fedeli. Ed aggiunge per questo: magari fossi caldo, cioè religioso, fedele e santo; o vorrei piuttosto che tu fossi freddo, cioè infedele, incredulo, e fuori della Chiesa; in qualunque modo tu fossi, o nel bene o nel male, saresti perfetto e chiaro. Ma poiché non sei né freddo né caldo, ma tiepido, non sarai mangiato come mio cibo, né unito alle mie viscere. E poiché questi non è né caldo né freddo, si fa tutto a tutti, si adatta ad entrambi, agli increduli ed ai fedeli. Ti vomito – dice – dalla bocca, perché mi dai nausea. Nessuno ignora quanto sia odiosa la nausea, così come lo saranno questi uomini vomitati da Cristo e dalla Chiesa, quando saranno scacciati nel giorno del giudizio: ed infatti sono ricchi e tiepidi, finanche avidi per cupidigia; eppure – come detto – si ritengono fedeli e Cristiani. Però non può essere povero chi possiede ricchezze, né è ricco chi non faccia uso delle ricchezze; e lo stesso ricco istruito e fedele, parlando dice: “Sono ricco, mi sono arricchito, nulla mi manca “. Ma lo Spirito dice: “Non ti rendi conto di essere un disgraziato, degno di compassione, povero, cieco e nudo“. Ti consiglio di comprare da me dell’oro purificato dal fuoco. Siano confusi coloro che si gloriano delle loro azioni ed esultano dei propri affari. Se per caso danno una moneta ad un povero o fanno del bene, si vantano della loro scienza o della fede tiepidamente professata e, proclamandola, affermano di non aver bisogno di nulla. Eppure, al contrario, sono rimproverati, perché non meritevoli di compassione, in quanto poveri e mendicanti e sprofondati nella povertà delle opere buone; non vedono la loro nudità, né pensano di essere nudi e mancanti di buone opere. Li inclina pertanto alla salvezza con la solita bontà:  ti consiglio di comprare da me l’oro che è stato purificato dal fuoco, cioè di prendere esempio dalla mia passione, di passare nella fornace della tribolazione, affinché appaia provato da tutto, come Io sono stato provato da voi, e di seguire me, che sono morto per te, onde versare il tuo sangue per me, come Io l’ho versato per te …. affinché tu diventi ricco e vestito di bianco per coprire e nascondere la vergognosa tua nudità: così con le elemosine e con le opere buone diventi tu stesso l’oro provato dal fuoco, l’oro bruciato dalle fiamme dell’afflizione, purgato dalle elemosine e dalle opere rette; questo vuol dire: che tu sia ricco in ciò che fai, e ti ricopra delle mie vesti bianche, cosicché non appaia la confusione della tua nudità. Pensava questi infatti di essere ricco, bianco nel suo abbigliamento, e che non apparisse turpitudine alcuna delle sue opere. Mettete collirio negli occhi, cosicché possiate vedere. Questo è l’oro che Egli promette alla Chiesa attraverso il Profeta: « Farò venire oro anziché bronzo, farò venire argento anziché ferro, bronzo anziché legno, ferro anziché pietre. » (Is. LX, 17). Annuncia in tal modo che oro è la parola del Signore, il Vangelo, la dottrina apostolica. Chiunque ne rimanga arricchito, meriterà certamente delle ricchezze spirituali e si adornerà con bianche vesti, cioè con la luminosità delle opere buone, affionché con le opere buone, non apparirà la sua vergognosa nudità. Il collirio con cui ordina poi di ungere gli occhi è la contrizione del cuore, le lacrime del penitente, il dolore che guarisce chi si converte; e non si manifesta nel parlare né con la rabbia né con l’odio, ma piuttosto con la proclamazione del suo amore, quando dice: ungete i vostri occhi con il collirio, affinché possiate vedere. È come se dicesse chiaramente: O uomo ricco, tu che leggi, intendi ciò che dico. E così se leggi e non intendi, ungiti gli occhi con il collirio. A volte, nella Sacra Scrittura, per “occhi” si intendono i due Testamenti, cioè la Legge ed il Vangelo, che infondono ai credenti la luce della verità, come sta scritto: « … i precetti del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi. » (Psal. XVIII, 9). E ancora: « Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. » (Psal. CXVIII, 105). Se gli occhi sono illuminati dalla parola del Signore, siano illuminati anche quelli del ricco cieco. Si sa che Cristo, nel dare la vista ad un cieco, ha versato saliva sulla terra, ne ha fatto un collirio con il dito e lo ha spalmato sugli occhi dell’uomo nato cieco, dicendogli: « Vai a lavarti nella piscina di Sìloe » (Gv. IX, 6). Prima che la saliva giungesse a terra, c’era già la terra, ma essa non dava luce al cieco. Egli versò la saliva sulla terra e la rimescolò con il dito, e così unse gli occhi dell’uomo cieco nato. Questi andò a lavarsi e recuperò la vista. La saliva è il Vangelo, la terra è la Legge. Ma cosa fa la Legge senza il Vangelo, la Legge che non dà luce al cieco, ma lo lascia fermo lungo il sentiero, non permettendogli appunto di camminare lungo di esso. Discenda dunque la saliva di Cristo in terra, si unisca alla terra e la si mescoli con il dito dello Spirito Santo, ed unga gli occhi del ricco cieco e si vada alla vasca di Siloè, che significa “Colui che è stato mandato”, cioè a Colui che ha detto: Sono stato mandato solo alle pecorelle smarrite della casa d’Israele (Mt. XV, 24). O uomo ricco, se leggi e credi che Gesù sia stato mandato per te, indaga sulla profezia perché è venuto proprio da te. Leggi il Vangelo e comprendi quanto ha sofferto per te. Ti ha comprato a caro prezzo, poiché ti ha riscattato con il caro prezzo del suo sangue. Cosa restituisci a Colui che ti ha reso figlio, da servo che eri? Ascolta ciò che ti chiede: oro purificato dal fuoco! Questo è il vero scambio, perché il sangue viene ripagato con il sangue. Con questo collirio per gli occhi, possa tu vedere, possa tu sforzarti di fare ciò che liberamente già conosci dalle Scritture. E siccome questi uomini che da un grande peccato, tornano ad una grande penitenza, non sono solo utili a se stessi, ma possono essere di aiuto a molti, promette loro non una piccola, ma una grande ricompensa: sedere sul trono del suo giudizio. – Coloro che amo, Io li rimprovero e li correggo: siate perciò zelanti e pentitevi. Chiama alla penitenza coloro che sono immersi nella gravissima opera del peccato, e li invita ad imitare i Santi: insegna che nella Chiesa c’è chi debba essere imitato e seguito; ed è come se dicesse chiaramente: imitate coloro che vedete essere tormentati per il mio Nome. Tutta la moltitudine dei ricchi è racchiusa in un solo uomo, così come tutto il corpo dei Vescovi lo è in un solo Angelo delle Chiese. « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » Qua sta la nostra salvezza: il Signore Gesù Cristo, che bussa alla porta del nostro cuore! Colui che, pentendosi dei suoi peccati, getta via i fulmini della malizia e l’aridità del suo cuore, sicuramente entrerà e mangerà con Lui e assaggerà le delizie della giustizia; è come se Egli stesso dicesse  chiaramente: « chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e Io lo amerò e mi manifesterò a lui. Ed Io e il Padre mio verremo a lui e faremo la nostra dimora con lui » (Gv. XIV, 21). – Dopo questa correzione, dice ciò che promette alle buone azioni: Al vincitore gli concederò di sedere con me sul mio trono, come anch’Io siedo con il Padre mio sul suo trono. A chi dice che si siederà con Lui, promette di condividerne il potere. Però nel dire che siederà con lui sul trono del Padre, come siederà con il vincitore, dal momento che lo stesso Figlio unigenito siede con potenza sul trono del Padre, e come dice Egli stesso: « Non riempio io il cielo e la terra? » (Ger. XXIII: 24). Che cos’è dunque questo sedersi sul trono di Dio, se non riposare e gioire con Dio, stare davanti ai suoi tribunali beati e godere dell’infinita felicità della sua presenza? Chi ha orecchie, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.

TERMINA LA STORIA DELLA CHIESA SETTIMA

COMINCIA L’ESPOSIZIONE DELLE SETTE CHIESE SPIEGANDO IN SENSO SPIRITUALE, CON L’ARCA DI NOÈ, PERCHÉ NE SIANO SETTE.

[8] Il Signore disse a Noè: « Ho deciso di distruggere tutta la carne, perché tutta la terra è piena di violenza a causa loro. Perciò, ecco, io li sterminerò dalla terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori » (Gen. VI, 13).  Se vogliamo mirare diligentemente e con attenta osservazione alla fabbrica di quest’arca, attraverso la quale l’uomo giusto Noè meritava di essere salvato dal naufragio del mondo, troveremo senza dubbio che ci è stato offerto un grande mistero di grazia spirituale fin nelle sue stesse misure e nelle giunture. Infatti dice così: « Farai un’arca lunga trecento cubiti, larga cinquanta cubiti e alta trenta cubiti. E tu farai una copertura all’arca, e la finirai in cima per un cubito. Metterai la porta dell’arca nel suo fianco, e farai un primo piano, e un secondo piano, ed un terzo piano, e così via. » Questa fabbrica dell’arca indicherà chiaramente la figura della nostra Chiesa. Non c’è dubbio che Noè rappresentasse la figura di Cristo; Noè che, tradotto dall’ebraico in latino, significa “requies = riposo”, come il suo stesso padre Lamech profetizzò quando gli impose il nome: « Costui ci consolerà del nostro lavoro e della fatica delle nostre mani, a causa del suolo che il Signore ha maledetto » (Gen. V, 29). Come soltanto Noè fu trovato giusto su tutta la terra e solo fu salvato con quelli della sua casa fra tutti coloro che perirono nel diluvio dell’acqua, in quanto egli soltanto, vivendo rettamente, aveva compiaciuto Dio, irritato dal mondo per la sua condotta perversa, così anche quando il Signore verrà a giudicare il mondo tra le fiamme del fuoco, porrà fine a tutti i mali, agli angeli ribelli e a tutti i crimini del mondo; ma solo ai Santi concederà riposo nel regno del mondo a venire. Poiché quest’arca, che fu costruita con un legno incorruttibile, indicava, come detto, la fabbrica della venerabile Chiesa, che rimarrà sempre con Cristo. Le sette anime concesse al santo e giusto Noè, è riconosciuto che rappresentino la figura delle sette Chiese che saranno liberate da Cristo dal diluvio del fuoco del giudizio e che regneranno con Cristo nella nuova terra. Ma forse alcuni sono disturbati dal fatto che si parli di sette chiese, dal momento che la Chiesa è una sola, diffusa in tutto l’universo. Esse sono chiamate “sette chiese” al plurale, pur essendo una, per lo Spirito settiforme che le anima. Perché come il corpo è uno e le sue membra sono sette, o meglio, sette sono le funzioni delle membra, e cioè testa, mani, piedi, vista, udito, gusto e olfatto, così uno è il corpo della Chiesa, ma è settiforme per la grazia dei carismi. Sette sono gli occhi del Signore, sette sono le stelle della mano destra di colui che siede sul trono, sette sono i candelabri d’oro, sette sono le lampade del tabernacolo del Signore, sette sono gli Angeli, sette sono le trombe, sette sono le coppe d’oro, sette sono le donne che si impadroniscono di un solo uomo – cioè le virtù delle Chiese che possiedono Cristo – e sette sono le colonne della casa di Salomone, su cui sorge ed è costruito l’edificio della Chiesa; ma anche il beato Giovanni Apostolo scrisse alle sette chiese, e anche Paolo, il venerabile Apostolo, scrisse lettere a sette chiese, mentre ne scrisse le restanti ad uomini, in modo da non superare il numero di sette; così anche sette sono i pani del Vangelo; e le ceste ripiene dei pezzi avanzati indicavano la figura della Chiesa settiforme. Per questo la Scrittura divina dice: « Noè è entrato nell’arca e sette anime con lui. » Queste sette anime indicavano le sette chiese, come detto; in ognuna di esse dimostrerò brevemente come siano incluse le sette chiese. Sette sono i doni dei carismi, come il Signore si è degnato di manifestare per mezzo di Isaia, vate inclito: « Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. » (Is. XI, 2). Non tutti possiamo possedere totalmente questi doni, ma ognuno di noi ne possiede uno. Solo Cristo Signore li possiede tutti, Lui che è tutto il corpo. In noi, che siamo annoverati tra le sue membra, ce n’è uno soltanto. Tutti coloro del numero dei fratelli che rimangono nell’unica e medesima Chiesa, che possiedono lo Spirito di Sapienza, tutti quelli che possiedono il primo carisma, formano la prima Chiesa. Infatti Chiesa significa congregazione dei Santi. Allora il beato Apostolo Paolo, scrivendo alla Chiesa, specificò ciò che fosse la Chiesa, dicendo: ai santi e ai fedeli (Ef. I,1); e così tutti i Santi ed i fedeli fratelli che possiedono lo Spirito di Intelletto formano la seconda Chiesa, come un secondo gruppo. Per la stessa ragione, tutti coloro che possiedono lo Spirito di Consiglio formano il terzo gruppo, e quindi la terza Chiesa. E quelli che Egli ha riempito con lo Spirito di Fortezza sono elencati nella quarta Chiesa. Allo stesso modo, coloro che Egli ha riempito con lo Spirito di Scienza sono considerati nella quinta Chiesa. A coloro che erano pieni dello Spirito di Pietà viene indicato il numero della sesta Chiesa. E coloro che Egli ha raccolto nello Spirito del Timore di Dio sono contati nella settima Chiesa. Chiunque di noi sia separato, possiede solo uno dei carismi, ma quando siamo riuniti insieme, formiamo un’unica integra e perfetta Chiesa settiforme, vale a dire: il Corpo di Cristo. Queste sono le sette anime che a Noè, rappresentante dell’immagine di Cristo, sono state affidate nel diluvio delle acque. Con l’acqua, quindi, i giusti sono salvati mentre i peccatori e gli empi sono puniti. Ugualmente queste sette chiese, alla fine del mondo, mentre tutte le nazioni staranno per morire, saranno liberate da Cristo dalla catastrofe del fuoco e riceveranno la gloria del regno dei cieli. Infatti come nessun uomo riuscì a sfuggire al diluvio delle acque, se non colui che si fosse rifugiato nell’arca, così anche nel giorno del giudizio di Dio nessun uomo potrà sfuggire, se non colui che è custodito nell’arca della Chiesa Cattolica. E quando si dice che l’arca possedesse un secondo ed un terzo piano, si dimostrano chiaramente le dimore e le qualità delle abitazioni preparate per i Santi nel regno di Dio. Il primo piano è figura del Paradiso; il secondo è figura della Terra nuova, dove scenderà la Gerusalemme celeste, affinché in essa, come sentito, si realizzi la dimora di Dio con gli uomini. Il beato Giovanni dice: Ho visto un nuovo cielo e una nuova terra, la città celeste di Gerusalemme, scendere dal cielo verso una nuova terra (Ap. XXI, 1); e Isaia: « Sì, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò, dureranno per sempre davanti a me – oracolo del Signore – » (Is. LXVI, 22). Al terzo piano, ecco il Regno dei cieli. Per questo il nostro Salvatore e Signore ha detto nel Vangelo: « Nella casa del Padre mio che è nei cieli ci sono molte dimore » (Gv. XIV, 2). Per questo è stato scritto anche del regno dei cieli: « Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt. V, 10). A proposito dell’abitazione del Paradiso, il Signore stesso ne dimostra l’esistenza, quando afferma: Al vincitore – dice – darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel Paradiso del mio Dio (Ap. II, 7). Allo stesso modo Egli annuncia la dimora della Terra nuova quando dice: « Beati i miti, perché essi possederanno la terra » (Mt. V, 4). E lo stesso Salomone dice: « perché gli uomini retti abiteranno nel paese e gli integri vi resteranno, ma i malvagi saranno sterminati dalla terra, gli infedeli ne saranno strappati » (Prov. II, 21). Ugualmente il beato Isaia menziona questi tre livelli quando dice: « ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza avere fame. » (Is. XL, 31). Voleranno in cielo come aquile che volano con le ali; correranno in Paradiso e non si stancheranno; cammineranno nella terra nuova e non avranno fame, perché lì riceveranno una pietanza preparata da Dio. È questa triplice classe delle dimore dei santi che il Signore si degnò anche di manifestare ai suoi Apostoli nel Vangelo per mezzo di una parabola, dicendo: « Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. » (Mt XIII, 8). Il frutto di cento per uno, sarà prodotto da coloro che riceveranno una casa in cielo, quelli che produrranno il sessanta per uno, meriteranno una casa in Paradiso, e quelli del trenta per uno, vivranno sulla Terra nuova. Pertanto, dovrebbe già esserci chiaro che quest’arca a tre piani, come detto più volte, indica chiaramente la figura della Chiesa Cattolica. Le sue abitazioni a tre piani, cioè il Cielo, il Paradiso e la Terra nuova, sono state rese note dal Signore nei tempi passati. Per quanto riguarda quel che concerne la costruzione dell’arca, dice come la stessa sia stata concepita in modo da essere più ampia nel primo piano, dove si è iniziata, nel mezzo più stretta, e nel terzo coperto ai quattro angoli, fin dove non fosse stato sopraelevato, per la breve misura di un cubito, avendo una finestra nel lato: questo significava che nella prima parte della costruzione, cioè al primo piano, fosse stata concessa maggiore libertà di azione ai Santi, una disciplina più permissiva per tutti i Padri ed i Patriarchi a causa della necessità di generare la discendenza dei figli, e per questo doveva essere loro permesso di realizzare molte più cose lecitamente e fare più liberamente ciò che volevano. Per questo motivo al primo piano dell’Arca viene assegnato uno spazio maggiore e più ampio. Il piano intermedio è ridotto ad una misura più stretta, perché nel mezzo dei tempi, il popolo doveva essere costretto dalla Legge di Mosè e dei Profeti in uno spazio sempre più stretto ed angusto dai precetti che lo vincolavano. Che il terzo piano fosse coperto negli angoli e finito all’altezza di un cubito, significava che i quattro angoli, cioè i quattro Vangeli, dovevano delimitare l’intero edificio della Chiesa. Perché stretta e angusta  è –  dice – la via che conduce alla vita (Mt. VII, 14). E all’altezza di un cubito, cioè la misura dell’uomo in piedi, umanità di cui il Signore si è rivestito, dovevano essere finiti tutti i lavori della Chiesa. Insomma, nessuno può raggiungere il culmine della virtù e della gloria perfetta se non attraverso l’angoscia delle tribolazioni e l’afflizione delle persecuzioni che il Signore ha sopportato nella sua passione, come sta scritto: « … bisogna attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio » (Act. XIV, 22). E un cubito più sopra la terminerai (Gen. VI, 16); questo cubito è figura, come detto, del Corpo di Cristo; e questo cubito sembra riguardare piuttosto l’unità dell’uomo perfetto di cui siamo membri, che non la misura della statura dell’uomo. Infatti essendo tutti uno in Cristo Gesù, la costruzione dell’arca si finisce in un solo cubito, poiché nel solo Corpo di Cristo e nella grazia delle sue sofferenze doveva essere riunita tutta la pienezza della Chiesa. – E il corvo che si dice essere stato mandato dall’arca e non è tornato, ha dimostrato questo: che i desideri impuri degli uomini devono essere cacciati via dalla Chiesa, e non devono più tornarvi. – Il corvo significa, quindi, i piaceri dell’anima ingannevole ed impura, e la cattiva fama del colore nero rappresentava i vizi iniqui dei peccatori. – La colomba che fu mandata poi, non trovando alcun posto dove posarsi nel mondo, ritornò all’arca. Era essa figura dello Spirito Santo che, diffuso in tutto il mondo, non riusciva a trovare riposo negli uomini tutti, a causa dell’iniquità del mondo, e così è tornata all’arca della Chiesa, come lo stesso Signore – istruendo i suoi Apostoli nel Vangelo – dice: « In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi » (Mt. X, 11). Per questo, lo Spirito Santo, non avendo trovato accoglienza tra i popoli che non avevano ancora creduto in Cristo, ritornò all’arca della Chiesa degli Apostoli fino a quando, eliminate le iniquità del peccato, la dottrina della fede non fosse stata creduta in tutte le Nazioni, così da meritare di ricevere lo Spirito Santo. Aggiunge quindi la Scrittura: « … Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo » (Gen. VIII, 10). Il ramo d’ulivo portato da questa colomba indicava chiaramente una testimonianza di pace e di resurrezione, e che, annunciando e portando nel suo becco il legno della passione, doveva fornire la pura grazia del carisma. E venne di sera, perché doveva arrivare alla fine del mondo. La misura dell’arca, lunga trecento cubiti, indica evidentemente la figura della croce del Signore, perché i greci designano il numero trecento con la lettera “tau“; questa lettera forma come il tratto di un ramo d’albero piantato, mentre un altro si presenta come una traversa allungata in cima, così da indicare certamente la forma della croce, dal cui mistero ai credenti viene data la lunghezza della vita, fornita la larghezza della terra nuova e la si prepara per l’altezza del regno dei cieli. Cinquanta cubiti era la larghezza dell’arca: questo significava che a Pentecoste, cioè cinquanta giorni dopo la passione della croce del Signore, sarebbe sceso lo Spirito Santo, attraverso il Quale si può ottenere la speranza della salvezza e la gloria del regno dei cieli. I trenta cubiti dell’altezza dell’arca indicano i trent’anni di età del Signore, età in cui, per il ministero di Giovanni, fu battezzato nel Giordano l’Uomo di cui si era rivestito; aveva infatti trent’anni, secondo il Vangelo, quando con l’acqua del Battesimo illustrò coi doni celesti l’uomo – come detto – presunto, di cui si rivestì. È dunque l’altezza la misura dell’età del corpo di Cristo, secondo quanto afferma l’Apostolo Paolo: « … finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » (Ef. IV, 13). La lunghezza è nella passione della croce del Signore, con la quale i credenti sono suggellati nella fede. La larghezza è nel giorno di Pentecoste, in cui lo Spirito Santo scende sui credenti. Vedete, dunque, cari fratelli, che tutto l’edificio di quest’arca doveva essere premessa del mistero della venerabile Chiesa e che gli uomini non potevano essere salvati dalla rovina del mondo intero se non nella Chiesa, così come non si salvarono dal diluvio del mondo se non coloro che erano ospitati nell’arca. E così dobbiamo sforzarci di chiedere a Dio nostro Signore con tutto il cuore di meritare di rimanere, nella Chiesa Cattolica di Dio, fedeli al Signore. Seguiranno allora i premi se con i legami di pace e di concordia avremo conservato le norme dell’istituzione evangelica, in modo da poter essere felici al cospetto di Dio Padre Onnipotente.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DI LIEBANA (7)