DOMENICA DI PENTECOSTE (2020)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro in Vincoli.

Doppio di I Cl. con Ottava privilegiata di I ord. –  Paramenti rossi

Il dono della sapienza è un’illuminazione dello Spirito Santo, grazie alla quale la nostra intelligenza contempla le verità della fede in una luce magnifica e ne prova una grande gioia ».

P. MESCHLER.

Gesù aveva posto le fondamenta della Chiesa durante la sua vita apostolica e le aveva comunicato i suoi poteri dopo la sua Resurrezione. Lo Spirito Santo doveva compiere la formazione degli Apostoli e rivestirli della forza che viene dall’Alto (Vangelo). Al regno visibile di Cristo succede il regno visibile dello Spirito Santo, che si manifesta scendendo sui discepoli di Gesù. La festa della Pentecoste è la festa della promulgazione della Chiesa; perciò si sceglie la Basilica dedicata a S. Pietro, capo della Chiesa, per la Stazione di questo giorno. Gesù, ci dice il Vangelo, aveva annunciato ai suoi la venuta del divin Paracleto e l’Epistola ci realizzazione di questa promessa. All’ora Terza il Cenacolo è Investito dallo Spirito dì Dio: un vento impetuoso che soffia improvvisamente intorno alla casa e l’apparizione di lingue di fuoco all’interno, ne sono i segni meravigliosi. — Illuminati dallo Spirito Santo (Orazione) e riempiti dall’effusione dei sette doni, (Sequenza), gli Apostoli sono rinnovati e a loro volta rinnoveranno il mondo intero (Introito, Antifona).E la Messa cantata all’ora terza, è il momento in cui noi pure « riceviamo lo Spirito Santo, che Gesù salito al cielo, effonde in questi giorni sui figli di adozione ». (Prefatio), poiché ognuno dei misteri liturgici opera dei frutti di grazia nelle anime nostre nel giorno anniversario in cui la Chiesa lo celebra. Durante l’Avvento, dicevamo al Verbo: «Vieni, Signore, ad espiare i delitti del tuo popolo»; ora diciamo con la Chiesa allo Spirito Santo: Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in noi il fuoco dell’amor tuo » (Alleluia). È la più bella e la più necessaria delle orazioni giaculatorie, poiché lo Spirito Santo, il « dolce ospite dell’anima », è il principio di tutta la nostra vita soprannaturale.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap I: 7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII: 2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.

[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II: 1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” 

Omelia I

LA VENUTA DELLO SPIRITO SANTO

A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – [Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

“Giunto il giorno della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nel medesimo luogo. E all’improvviso venne dal cielo un rumore come di vento impetuoso, e riempì tutta la casa, dove quelli sedevano. E apparvero ad essi delle lingue come di fuoco, separate, e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare varie lingue, secondo che lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Ora abitavano in Gerusalemme Giudei, uomini pii, venute da tutte le nazioni che sono sotto il cielo. Quando si udì il rumore la moltitudine si raccolse e rimase attonita perché ciascuno li udiva parlare nella sua propria lingua. E tutti stupivano e si meravigliavano, e dicevano: «Ecco, non son tutti Galilei, questi che parlano? E come mai, li abbiamo uditi, ciascuno di noi, parlare la nostra lingua nativa? Parti, Medi ed Elamiti, e abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia in vicinanza di Cirene, e avventizi romani, Giudei e Proseliti, Cretesi e Arabi li abbiamo uditi parlare nelle nostre lingue delle grandezze di Dio”. (Atti II, 1-11).

Dopo l’Ascensione di Gesù Cristo al cielo, gli Apostoli con Maria madre di Gesù e con altre pie donne e discepoli, in tutto 120, si erano ritirati nel cenacolo. Vi perseveravano nella preghiera da dieci giorni, quando la mattina del di della Pentecoste, la solennità delle messi e della promulgazione della Legge che gli Ebrei celebravano cinquanta giorni dopo Pasqua, avvenne il fatto della discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli, come è narrato nel capo secondo degli «Atti degli Apostoli». La venuta dello Spirito Santo:

1. Illumina e infiamma gli Apostoli,

2. Che danno principio alla loro missione,

3. La quale produce effetti diversi.

1.

All’improvviso venne dal cielo un rumore come di vento impetuoso, e riempì tutta la casa, dove quelli sedevano. Era ancor mattina, e sugli Apostoli, che con Maria e i discepoli sono radunati nel cenacolo, scende lo Spirito Santo promesso. Gesù Cristo aveva posto il fondamento della Chiesa, aveva insegnato la dottrina che gli Apostoli avrebbero fatta conoscere; aveva loro data la missione determinata di portare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra; ma il sorgere della Chiesa fuori dalle fondamenta non si vedeva ancora. La mente degli Apostoli, che per tre anni sono stati alla scuola del Redentore, è ancora avvolta nelle nubi dell’oscurità e nella nebbia dei pregiudizi. La mattina stessa dell’Ascensione, mentre Gesù dà loro le ultime istruzioni, essi domandano:«Signore, in questo momento ricostruirai il regno d’Israele?» (Act. I, 6) interpretando materialmente le profezie sul regno di Gesù Cristo. Dovevano andare per tutto a predicare il Vangelo, ma intanto non osavano comparire per Gerusalemme. Perché si manifestasse la vita della Chiesa, era necessario il Battesimo dello Spirito Santo, promesso dal Fondatore. E lo Spirito Santo discende, manifestandosi all’improvviso con forte rumore di vento gagliardo. Al battesimo di Gesù lo Spirito Santo discende sotto forma di colomba, simbolo di innocenza, di semplicità, di riconciliazione. Adesso la sua discesa si manifesta con l’azione di un vento forte e sotto il simbolo del fuoco. Come un vento gagliardo, che tiri dai monti, dopo lunghe giornate di maltempo, spazza via le nubi e riconduce il sereno,e pare che abbia mutato la faccia del creato; parimenti la discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli, cambierà, a così dire, il loro aspetto; li trasformerà. La risurrezione di Cristo e la sua Ascensione non erano bastate a togliere dall’animo loro ogni tristezza. Ora, lo Spirito Santo spazza via dall’animo loro ogni nube di mestizia, e vi porta il sereno. Gesù Cristo aveva detto agli Apostoli: «Ho ancora molte cose da dirvi ma per ora sono sopra la vostra capacità. Quando verrà lo Spirito di verità, Egli vi insegnerà tutta la verità (Giov. XVI, 12-13). Lo Spirito Santo non avrebbe insegnato agli Apostoli altra verità che quella insegnata da Gesù Cristo; « ma era necessario che la loro capacità si accrescesse, e che fosse moltiplicata la costanza di quella carità che scaccia ogni timore, e non teme il furore dei persecutori » (S. Leone M. Serm. 76, 5). Lo Spirito Santo che scende sotto la forma di fuoco farà una cosa e l’altra. Quelli che prima non potevano intendere pienamente le verità più chiare, che Gesù Cristo loro insegnava, ora comprendono i misteri più profondi. Il loro interno è purificato: non più gelosia, non più ambizione. La loro volontà è infiammata: ora non sentono che un bisogno; quello di uscire in pubblico a confessare Gesù.

2.

E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare varie lingue, secondo che lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Gesù Cristo aveva predetto: «Coloro che avran creduto… parleranno lingue nuove» (Marc. XVI, 17). Il miracolo comincia precisamente nel giorno natalizio della Chiesa, e comincia sulle labbra degli Apostoli nel momento che sono ripieni di Spirito Santo. Non avevano mai studiato l’arte del dire, e si dimostrano eloquentissimi. Non avevano mai imparato alcuna lingua, e ora se ne fanno intendere in parecchie con la più grande sicurezza. La cosa è così portentosa che riempie di meraviglia gente di varia condizione e di ogni regione, convenuta a Gerusalemme per la festa di Pentecoste. Sebbene costoro non parlino tutti la stessa lingua, tutti intendono il linguaggio degli Apostoli. Quante sono le lingue parlate da quella moltitudine, tante sono le lingue in cui gli Apostoli si fanno intendere. E questi forestieri si fanno la domanda: «Non son tutti Galilei questi che parlano? E come mai li abbiamo uditi, ciascuno di noi, parlare la nostra lingua nativa? Avrebbero potuto anche aggiungere: Non sono questi dei poveri pescatori? E come mai si dimostrano così eloquenti? Non sono quegli stessi che dal loro Maestro ebbero il rimprovero: «Non conoscete e non intendete ancora? Avete il cuore accecato? Avendo occhi non vedete, e avendo orecchi non udite?» (Marc. VIII, 17-18). E come mai adesso parlano con tanta sicurezza delle grandezze di Dio? Non sono costoro i medesimi che nella notte della passione fuggirono abbandonando Gesù, che più tardi si rinchiusero nel cenacolo per paura degli Ebrei? E come mai adesso rivolgono la parola agli Ebrei con tanta intrepidezza? La spiegazione è molto facile. Adesso sono ripieni di Spirito Santo. La Chiesa doveva estendersi a tutto il mondo; ma questo non doveva avvenire d’un tratto. Il suo Fondatore l’aveva paragonata a un albero che cresce, mano a mano, e si sviluppa fino al punto da raccogliere sotto i suoi rami le nazioni di tutta la terra. Se nel giorno della Pentecoste la Chiesa, nel suo nascere, non raccoglie sotto i suoi rami le nazioni di tutta la terra, manifesta, però, subito il suo carattere universale col fatto delle lingue parlate dagli Apostoli. Non è più, come per il passato, la sola lingua ebraica l’interprete della grandezza e della volontà di Dio. Sulla bocca degli Apostoli sono consacrate tutte le lingue parlate dall’umanità. Oggi gli Apostoli parlano le lingue delle varie nazioni che sono rappresentate a Gerusalemme: i loro successori parleranno altre lingue ancora, via via che gli scopritori di nuove terre additeranno altri popoli allo zelo dei missionari. E verrà il giorno, (il giorno in cui ci sarà un solo ovile e un solo pastore), che tutti i popoli della terra magnificheranno le grandezze di Dio, come nel giorno di Pentecoste le magnificarono gli Apostoli.« La Chiesa oggi incomincia da Gerusalemme e si dilata fra tutte le nazioni… Dovunque risuonano le voci degli Apostoli, che rendono testimonianza della nostra speranza nell’unità del corpo di Cristo» (S. Agost. En. in Ps. CXLVII, 20). E le voci degli Apostoli con la loro testimonianza, continueranno a risuonare senza affievolirsi. La forza che le vivifica non verrà mai meno. La loro forza vivificatrice non viene dagli uomini; viene dall’alto, dallo Spirito Santo.

3.

I forestieri convenuti a Gerusalemme, e che assistono al grande miracolo che si compie sulle labbra degli Apostoli, dichiarano candidamente: li abbiamo uditi parlare nelle nostre lingue le grandezze di Dio. «E tutti si stupivano ed erano pieni di meraviglia, dicendo l’uno all’altro: «Che vuol esser questo?». Ma altri schernendo dicevano: «Sono pieni di vino» (Att. II, 12-13). – Uomini retti, dalla mente non offuscata dalle passioni, non possono spiegare il grande avvenimento, ma ne ammettono l’importanza. «Che vuol essere questo?» Alla vista delle meraviglie che si compiono riflettono, e si prestano docili all’azione della grazia. E quando San Pietro avrà parlato di Gesù Cristo crocefisso e risorto, entreranno numerosi nella Chiesa. Di fianco a questi, però, ci sono i beffardi, che trattano gli Apostoli da ubriachi. Ciò che non si comprende, si mette in ridicolo. Qui, poi, lo scherno passa ogni misura. « Quanta audacia, quanta empietà, quanta sfacciataggine attribuire all’ubriachezza il dono stupendo delle lingue! » (S. Giov. Crys. In Act. Ap. Hom. 4, 3)). Questo modo di trattare il Cristianesimo al suo apparire non è stato più abbandonato. I beffardi dei nostri giorni non fanno che ripeterlo. Si chiamano spiriti illusi, menti deboli, fanatici, coloro che professano coraggiosamente la Religione Cattolica e si mostrano figli devoti della Chiesa. La prova di queste affermazioni? Non è più forte di quella degli Ebrei, quando chiamavano ubriachi, alle nove del mattino, gli Apostoli, proprio nel momento che operavano cose meravigliose. Questo differente contegno di fronte alle cose meravigliose operate dagli Apostoli, ripieni dello Spirito Santo, sarà ancor più spiccato quando San Pietro, in compagnia di Giovanni, guarirà uno storpio. Quei del popolo, « tutti glorificavano Dio per quello che era avvenuto » (Act. IV, 21); e molti di loro, dopo un secondo discorso di San Pietro, abbracciano la fede cristiana. Quei del Sinedrio sono pure testimoni del miracolo, che non possono mettere in dubbio. « E’ noto a tutti — dicono — che un miracolo evidente è avvenuto per opera loro, e non possiamo negarlo » (Act,. IV, 16); ma l’odio acceca. Quando Pietro dichiara che il miracolo è stato compito nel nome di Gesù Cristo, invece di credere in Lui, intimano a Pietro e a Giovanni di non parlare o insegnare in alcun modo nel nome di Gesù; e alla intimazione aggiungono le minacce. Ma gli Apostoli non hanno nulla da temere, poiché è con loro lo Spirito Santo. Tornati dal Sinedrio assieme con gli altri Apostoli e discepoli domandano a Dio: «E ora guarda alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunciare con tutta libertà la tua parola». E terminata la preghiera « tutti quanti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano con franchezza la parola di Dio » (Act. IV, 29-31). – Lo Spirito Santo non abbandonerà mai la Chiesa. Uno dopo l’altro scenderanno nella tomba i banditori del regno di Gesù Cristo, ma questo, assistito dallo Spirito Santo, continuerà ad estendersi. Il Beato Cottolengo si trovava un giorno in udienza dal Re Carlo Alberto. Questi si mostrava trepidante per la sorte della Piccola Casa il giorno che il Fondatore fosse passato all’altra vita. Stando i due personaggi vicino a una finestra del Palazzo Reale, si poteva vedere benissimo il cambio della guardia che avveniva precisamente allora. Il Beato fa un cenno al Re e gli dice: «Maestà, vede là sulla piazza che si cambia la sentinella al portone del palazzo? Un soldato bisbiglia all’orecchio del compagno una parola, questo si ferma coll’archibugio sulla spalla, quell’altro se ne va e, senza che a palazzo nessuno se ne sia accorto, la guardia continua come prima. Così, sarà per la Piccola Casa. Io sono un nulla; quando la Divina Provvidenza lo voglia, dirà una parola ad un altro che verrà a prendere il mio posto e farà la guardia. E la Piccola Casa continuerà la sua strada meglio di prima (M. C. Luigi Anglesio, primo successore del b. G. B. Cottolengo, Torino, 1921, p. 28-29). Fino alla fine del mondo la Chiesa avrà sempre nemici implacabili che al suo espandersi opporranno ostacoli d’ogni genere. Di fronte a costoro lo Spirito Santo susciterà sempre nuovi campioni che prendono il posto di quelli che vanno a ricevere la corona. Noi seguiamo costoro. Anzi, preghiamo lo Spirito Santo che tocchi l’animo nostro, come il giorno della Pentecoste toccò l’animo degli Apostoli e dei primi fedeli. «Il solo suo toccare è insegnare. Poiché egli muta l’animo umano appena lo illumina: d’un tratto lo trasforma da quello che era, e subito lo fa diventare quello che non era» (S. Greg. M. Hom. 20, 8).

ALLELUJA

Allelúja, allelúja

Ps CIII: 30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja.

[Manda il tuo Spírito e saran creati, e sarà rinnovata la faccia della terra. Allelúia.

[Hic genuflectitur:]

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

[Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli: ed accendi in essi il fuoco del tuo amore]

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus,

et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

[Vieni, o Santo Spírito,
E manda dal cielo,
Un raggio della tua luce.

Vieni, o Padre dei poveri,
Vieni, datore di ogni grazia,
Vieni, o luce dei cuori.

O consolatore ottimo,
O dolce ospite dell’ànima
O dolce refrigerio.

Tu, riposo nella fatica,
Refrigerio nell’ardore,
Consolazione nel pianto.

O luce beatissima,
Riempi l’intimo dei cuori,
Dei tuoi fedeli.

Senza la tua potenza,
Nulla è nell’uomo,
Nulla vi è di innocuo.

Lava ciò che è sòrdito,
Irriga ciò che è àrido,
Sana ciò che è ferito.

Piega ciò che è rigido,
Riscalda ciò che è freddo,
Riconduci ciò che devia.

Dà ai tuoi fedeli,
Che in te confidano,
Il sacro settenario.

Dà i meriti della virtú,
Dà la salutare fine,
Dà il gaudio eterno.
Amen. Allelúia. ]

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV: 23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Chiunque mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole. E la parola, che udiste, non è mia: ma del Padre, che mi ha mandato; queste cose ho detto a voi, conversando tra voi. Il Paracleto poi, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome mio, Egli insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che ho detto a voi. La pace lascio a voi; la paco mia do a voi; ve la do Io non in quel modo, che la dà il mondo. Non si turbi il cuor vostro, né s’impaurisca. Avete udito, come io vi ho detto: Vo, e vengo a voi. Se mi amaste, vi rallegrereste certamente perché ho detto, vo al Padre: conciossiaché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso prima che succeda: affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò ancor molto con voi: imperciocché viene il principe di questo mondo, e non ha da far nulla con me. Ma affinché il mondo conosca, che Io amo il Patire, e come il Padre prescrissemi, così fo” (Jo. XIV, 23- 31) .

OMELIA II

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sopra il dono dello Spirito Santo

“Repleti sunt omnes Spiritu Sancto”, Act. II

Giunto il giorno di Pentecoste, cioè il giorno in cui gli Ebrei celebravano la festa della pubblicazione della legge da Mosè fatta, che era il cinquantesimo giorno dopo la loro liberazione dall’Egitto, e il cinquantesimo pure dopo la risurrezione di Gesù Cristo, il decimo dopo la sua Ascensione, giunto questo giorno, e adunati gli Apostoli insieme coi Discepoli nel luogo ove Gesù Cristo aveva loro detto di raccogliersi per aspettare la venuta dello Spirito Santo, udirono ad un tratto venir dal cielo come lo strepito d’un Vento impetuoso che fece rimbombare tutto il cenacolo dove erano. Nello stesso momento videro comparire come delle lingue di fuoco disperse che si fermarono sopra ciascuno d’essi; tutti allora furono ripieni dello Spirito Santo e cominciarono a parlare diverse lingue: Repleti sunt omnes Spiritu Sancto et cœperunt loqui variis lìnguis. Tale è, Cristiani, il mistero che noi celebriamo in questo giorno, mistero ineffabile che è l’adempimento delle promesse di Gesù Cristo, il fine della sua misericordia, il frutto de’ suoi meriti, e che mette il colmo all’ineffabile carità d’un Dio verso gli uomini. Il Padre eterno ci aveva dato il suo Figliuolo, il quale erasi dato Egli stesso per nostra redenzione: che cosa restava per consumar l’opera della nostra salute e rendere la nostra felicità perfetta se non che lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figliuolo e che è uguale all’uno e all’altro, si desse Egli stesso a noi, siccome Gesù Cristo aveva promesso ai suoi Apostoli d’inviarlo sulla terra per santificare il mondo? Si è dunque in questo giorno che il divino Spirito, il quale sino allora non erasi comunicato che con le sue grazie, si comunica in Persona; si è in questo giorno ch’Egli riempie non solamente gli Apostoli, ma tutta la terra d’una presenza intima e particolare che si fa sentir con i benefizi più segnalati. Spiritus Domini replevit orbem terrarum. – Si è in questo giorno che questo divino Spirito viene a scolpire la sua legge, non più sulla pietra come altre volte, ma nel cuore degli uomini coi tratti dell’amore più tenero, più liberale. Si è in questo giorno finalmente che sopra le rovine della sinagoga s’innalza una città santa, una nuova Chiesa che comincia a manifestarsi a tutte le nazioni della terra, che sono testimoni dei prodigi dallo Spirito Santo operati per mezzo degli Apostoli. E perciò noi, dobbiamo, fratelli miei, riguardare questa festa, come la nascita della Chiesa; perché gli è in questo giorno che gli Apostoli, divenuti uomini affatto nuovi, hanno pubblicato il Vangelo in una maniera più strepitosa che sin allora non s’era fatto. Benediciamo il Signore di questo favore immenso; ma adoperiamo nello stesso tempo a renderci degni delle grazie che lo Spirito Santo è venuto a spargere sopra gli uomini. Mentre non è solamente ai soli Apostoli ch’Egli si è comunicato, ma si comunica ancora a tutte le anime che sono ben disposte a riceverlo. Vi ho mostrato domenica scorsa ciò che conviene fare per questo; vediamo in quest’oggi gli effetti ch’Egli produce nelle anime ben apparecchiate. Qual è la felicità di un’anima che riceve lo Spirito Santo? Primo punto. A quali segni possiamo noi riconoscere, se l’abbiamo ricevuto? Secondo punto.

I. Punto. Noi non possiamo meglio, fratelli miei, conoscere la felicità di un’anima che riceve lo Spirito Santo e gli ammirabili effetti che vi produce, che da quelli che produsse negli Apostoli allorché scese su di essi. Ora se noi consideriamo le circostanze del mistero di questo giorno, quanti prodigi non vi scopriamo operati dalla virtù di quel divino Spirito? Egli fa primieramente annunziare la sua venuta con lo strepito d’un vento impetuoso che fa rimbombare tutta la casa ove erano gli Apostoli; figura ammirabile dello zelo di cui veniva a riempirli, Egli li rese cosi ardenti per la gloria del loro divino Maestro che, simili a nuvole spinte dal soffio veemente dell’Onnipotente, li fece volare sino all’estremità della terra per d’una dottrina affatto celeste. Lo Spirito Santo comparisce in appresso sopra gli Apostoli in forma di fuoco; altra figura ancora molto sensibile delle meraviglie ch’Egli opera in essi; mentre è proprio del fuoco d’illuminare, di scaldare, di penetrare, di purificare la materia cui egli si attacca; nello stesso modo lo Spirito Santo veniva ad illuminare gli Apostoli con la sua luce, ad infiammarli col suo ardore, a purificarli delle imperfezioni cui erano soggetti prima della sua venuta. Questi sono gli effetti ch’Egli produce nelle anime che lo ricevono d’una maniera, la quale sebbene meno sensibile, non è però meno reale; Egli le illumina, le infiamma, le santifica. Che erano gli apostoli prima della venuta dello Spirito Santo? Uomini semplici e grossolani, che non sapevano altra cosa che l’arte di condurre una barca. Egli è vero ch’erano stati istruiti alla scuola di Gesù Cristo, il quale aveva loro spiegato per tre anni la verità del regno di Dio. Ma il loro spirito era involto da sì dense tenebre che, non ostanti le istruzioni ricevute dal loro divino Maestro, nulla essi comprendevano dei molti misteri che loro Egli proponeva: Et erat verbum istud absconditum ab eis (Luc. XVIII). Essi si scandalizzavano dei patimenti, non volevano credere la Risurrezione, diffidavano delle promesse che loro aveva fatte, a tal segno che Gesù Cristo medesimo, prima di salire al cielo, fece ad essi rimproveri sopra la loro incredulità e la durezza del loro cuore: Exprobravit incredulitatem eorum, et duritiam cordis (Luc. XXIV). Quest’ignoranza degli Apostoli era accompagnata da molta debolezza e timidità. Essi ne diedero ben chiare prove nel tempo della passione del Salvatore; poiché taluni l’abbandonano, uno lo rinnega alla sola voce d’una fantesca; e sebbene Gesù Cristo fosse risuscitato ed avesse loro dati manifesti segni della sua risurrezione, se ne stavano nascosti né ardivano comparire in pubblico per tema della persecuzione de’ Giudei. – Ma che furono gli apostoli dopo la discesa dello, Spirito Santo? Essi divennero uomini affatto nuovi, furono illuminati dalle più sublimi cognizioni, istruiti nei misteri. Lo Spirito Santo che ricevettero insegnò loro, secondo le promesse di Gesù Cristo tutte le verità della sua religione, tutta la perfezione della sua morale, tutta l’estensione delle sue massime. Ripieni di quel divino Spirito che svela tutto ciò che avvi di più oscuro essi appresero in un momento tutto ciò che i più dotti uomini dell’antichità non avevano giammai potuto sapere con lo studio di più secoli. Qui, fratelli miei, si verifica quel che il Signore aveva predetto per uno dei suoi profeti, che Egli spargerebbe il suo Spirito sopra ogni carne: Effundam spiritum super omnem carnem; che i figliuoli, farebbero da profeti, avrebbero visioni, e i vecchi dei sogni che stupirebbero coloro che udissero: Filii vestri prophetabunt (Joel. 2). – Quale strano e meraviglioso spettacolo, vedere e udire quei poveri pescatori, all’uscir del cenacolo dove avevano ricevuto lo Spirito Santo annunziare a popoli innumerevoli, radunati in Gerusalemme da diversi climi del mondo, le verità più sublimi, i misteri più nascosti, la dottrina più santa farsi intendere da essi in ogni sorta di lingue, benché non le avessero giammai imparate! Il che cagionò tale stupore in quei popoli che meravigliati si domandavano gli uni agli altri: Come può egli darsi che questi uomini che sono Galilei, che non furono giammai nelle nostre contrade, parlino la lingua di ciascuno di noi? Quomodo nos audivimus unusquisque linguam nostram in qua nati sumus (Act. II)? Noi Parti, Medi, Elamiti,noi che abitiamo la Mesopotamia,la Giudea, la Cappadocia, il Ponto, l’Asia,la Frigia, la Panfilia, l’Egitto…Romani, Arabi, noi li abbiamo tutti intesi nella nostra lingua annunziare le meraviglie di Dio: Audivimus eos loquentes nostris linguis magnalia Deti (Ib.). Questa fu, fratelli miei, la meraviglia che diede subito un sì grande accrescimento,alla religione cristiana, chela divulgò, per così dire, in un sol giorno per tutto l’universo; poiché quei popoli convertiti dai discorsi degli Apostoli,sopraffatti dalle meraviglie che avevano vedute ed intese, le annunziarono successivamente quando furono nei loro paesi, pubblicarono questa religione ela fecero abbracciare a coloro che l’ignoravano. Or chi aveva reso gli Apostoli sì sapienti per annunziare questa santa religione, se non lo Spirito Santo che li aveva illuminati della sua luce divina, che aveva snodate le loro lingue per parlare con tutta eloquenza? Egli aveva data loro una scienza superiore a quella dei più dotti filosofi, che furono essi convinti, ed obbligati di arrendersi alle verità che intendevano. Confessiamo, fratelli miei, che non appartiene che allo Spirito Santo di fare in sì poco tempo simili discepoli, o più tosto sì dotti maestri. Or non fu solamente del dono della scienza, che lo Spirito Santo riempì gli Apostoli; esso li fortificò ancora di una forza affatto divina per sostenere le verità che dovevano annunziare al mondo. Qual differenza infatti tra ciò che erano gli Apostoli prima della discesa dello Spirito Santo e ciò che furono dopo averlo ricevuto? Quegli uomini grossolani, deboli e timidi, che non ardivano per lo innanzi farsi vedere, comparvero arditamente avanti alle potenze della terra più formidabili: loro annunziarono con santa libertà la religione di Gesù Cristo, senza che le minacce dei grandi, il rigore dei supplizi, il timore della morte più orribile fossero capaci d’intimorirli. Ben lungi dal temere la persecuzione e dal fuggirla, si stimano felici e sono trasportati da allegrezza perché sono stati trovati degni di soffrire pel nome di Gesù: Ibant gaudentes…. quoniam digni habiti sunt prò nomine Jesu contumeliam pati (Act. V). Affrontano il furore dei tiranni, vanno incontro ai supplizi e alla morte, trionfano colla loro pazienza dei più crudeli persecutori, confermano col sangue la religione che predicano ed ispirano il loro coraggio a quelli che debbono loro succedere, nello stesso ministero. Donde è venuta, fratelli miei, questa forza che gli Apostoli hanno mostrato per lo stabilimento della religione di Gesù Cristo? Si è la virtù divina e la possanza dello Spirito Santo che gli ha sostenuti; è il suo ardore che li ha animati, fortificati; ed è questo ardore medesimo questa medesima possanza che ha sostenute altresì schiere innumerabili di martiri che camminando sulle tracce degli Apostoli, hanno sparso il loro sangue per la gloria di Gesù Cristo e del suo Vangelo. Ecco gli ammirabili effetto che questo divino Spirito ha prodotti nei primi seguaci della santa religione che noi professiamo.Non ne dubitate, fratelli miei; le operazioni dello Spirito Santo non hanno avuto fine nei soli Apostoli, ed in quelli che li hanno seguiti nel loro ministero. Questo divino Spirito si comunica alle anime che sono ben disposte a riceverlo; Egli le illumina con la sua luce, le infiamma col suo ardore, le fortifica con le sue grazie. Egli le illumina con la sua luce, comunicando loro i doni di sapienza, d’intelletto, di scienza e di consiglio. Egli fortifica la loro volontà coi doni di fortezza, di pietà di timor di Dio: doni ammirabili di cui voglio io darvi una succinta spiegazione. –

Il dono della sapienza che lo Spirito Santo dà all’anima è una cognizione della vanità delle cose della terra, cognizione che le fa dispregiare i beni passeggieri per non attaccarsi che ai beni eterni, ch’ella giudica soli degni delle sue ricerche e delle sue premure. Dono di sapienza che il re Salomone preferiva a tutte le ricchezze e a tutti i regni del mondo, præposui sapientiam regnis et sedibus (Sap. VII), perché  trovava in essa tutto ciò che può fare la felicità dell’uomo. Questa sapienza gli faceva vedere che quaggiù tutto non è che vanità ed afflizione di spirito, e che la sola cosa che non è vanità, si è di amare e di servir Dio: vanitas vanitatum, et omnia vanitas (Eccl. 1). Questo è, fratelli miei, ciò che lo Spirito Santo vi fa vedere di tempo in tempo quando vi apre gli occhi sul nulla degli onori, dei beni e dei piaceri del mondo, che non fanno che passare e sono incapaci di contentare il cuore dell’uomo; quando v’inspira il desiderio d’una felicità più degna di voi e v’insegna i mezzi di pervenirvi. Il dono dell’intelletto è una conoscenza dei misteri della fede, di cui lo Spirito Santo istruisce un’anima nella quale Egli fa la sua dimora, insegnandole le verità della religione cristiana e quanto le è necessario per adempiere i doveri dello stato in cui è impegnata. Il dono della scienza è un lume soprannaturale che lo Spirito Santo sparge nell’anima del giusto, che gl’insegna l’uso che deve fare delle cose di questo mondo, per non impiegarle che nel fine che Dio si è proposto creandole: cioè, per servirsene unicamente a sua gloria e a nostra salute. Finalmente il dono del consiglio, con cui lo Spirito Santo rischiara l’intelletto, è un giusto discernimento ch’Egli ci dà dei mezzi che ci conducono al nostro ultimo fine, per non confondere il bene col male, per saperci determinare nei casi particolari ove convien operare, per distinguere la vera virtù da quella che è solo apparente e che non è secondo Dio. – Dopo aver illuminato il nostro intelletto su di ciò che dobbiamo fare, lo Spirito Santo fortifica la nostra volontà per farcelo eseguire, comunicandoci i doni di fortezza, di pietà e di timor di Dio. Dono della fortezza, che c’innalza al di sopra di noi medesimi per farci superare gli ostacoli che s’incontrano nelle vie della salute, che ci fa trionfare delle tentazioni e vincere i nostri nemici, che c’induce a quella santa violenza che convien farsi per la pratica delle virtù e per guadagnare il regno dei cieli. Dono della fortezza, che ci sostiene nelle tribolazioni della vita, le quali ci opprimerebbero col loro peso, senza l’unzione salutare che lo Spirito Santo vi sparge, ma che divengono leggieri per le dolci consolazioni con cui questo divino Spirito ne tempera le amarezze. Dono della pietà, che ci rende soavi e felici gli esercizi della religione, che ci fa adempiere i nostri doveri a riguardo di Dio e del prossimo; a riguardo di Dio, ch’ella ci fa rispettare e rispettarlo come nostro vero Padre, a riguardo del prossimo, ch’ella ci fa amare come nostro fratello, rendendogli tutti i servigi che da noi dipendono. Dono del timor di Dio, che ci ritira e c’impedisce dal far cosa alcuna che possa dispiacergli, che ci fa risguardare il peccato come il più gran male che ci possa accadere. Con questo timore di Dio noi ci solleviamo al di sopra dei rispetti umani, noi dispregiamo le minacce degli uomini, che possono perdere i nostri corpi, per ubbidire a Colui che può perdere il corpo e l’anima per tutta un’eternità. – Mi rimane a dirvi come lo Spirito Santo santifichi l’anima in cui Egli viene a fare la sua dimora. Si è non solamente spargendo in quest’anima la grazia santificante, la carità abituale, che la rende amica di Dio, erede del regno eterno: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum (Rom V), ma ancora correggendola de’ suoi difetti e purgandola delle imperfezioni che le restano anche nello stato di grazia. Oimè! fratelli miei, a quanti difetti siamo noi sottoposti! Qual fondo d’orgoglio nella nostra anima! Quante ricerche di noi medesimi! Quanta vanità! Quanto amor proprio! Qual propensione per tutto ciò che lusinga i nostri sensi! Quale avversione per tutto ciò che ci disgusta e fa soffrire la nostra natura! Qual felicità a trasportarci, a sdegnarci contro coloro che ci fanno qualche dispiacere! Or lo Spirito Santo che abita in un’anima ne corregge i difetti, ne rettifica le inclinazioni perverse. Come il fuoco purifica il ferro, così lo Spirito Santo purifica un’anima: di carnale e terrena che ella era, Egli la rende affatto celeste, la stacca da tutti gli oggetti creati, rompe le catene che la tenevano prigione per innalzarla sino a Lui e rendersene il solo padrone; Egli la trasforma, per così dire, in Sé stesso, comunicandole le virtù che la rendono per partecipazione ciò ch’Egli è per natura. Il candore, l’innocenza, la mansuetudine, l’umiltà, la carità, la pazienza, la bontà, la modestia, la continenza, la castità sono i frutti ch’Egli in essa produce, dice l’Apostolo s. Paolo, e che l’anima medesima produce d’accordo con questo divino Spirito, che è in essa il principio di tutte le sue buone azioni. Sì, fratelli miei, se noi facciamo qualche poco di bene, si è allo Spirito Santo che noi lo dobbiamo; Egli è che comincia e compie in noi la grand’opera della nostra predestinazione: Egli è, dice s. Leone, che fa versare le lagrime dei penitenti, che produce i sospiri dei supplicanti, che domanda anche per noi con gemiti ineffabili, dice l’Apostolo: Postulat prò nobis gemitibus inenarrabilibus (Rom. VIII). Egli è questo divino Spirito che ispira a tante anime sante, i cui esempi ci edificano, quel generoso staccamento dai beni della terra, quella rinuncia a se stesso, quell’amor della croce, quel fervore nel servigio di Dio, che noi ammiriamo in coloro che hanno abbandonato il mondo, ed anche in coloro che vivono nel mondo. Son questi, fratelli miei, gli effetti che lo Spirito Santo ha in voi prodotti? Oimè, forse si troverebbe tra voi chi dir potrebbe come quei popoli che, essendo richiesti se l’avevano essi ricevuto, risposero che non sapevano neppure se eravi un Santo Spirito! Io voglio credere che voi non siate in questa ignoranza; voi sapete che lo Spirito Santo è la terza Persona della Santissima Trinità, Dio eguale al Padre e al Figliuolo; voi sapete le meraviglie ch’Egli ha operate per la santificazione degli uomini. Ma avete provate in voi queste meraviglie? Siete voi al presente in uno stato di santità? Potete voi accertare con la testimonianza della vostra coscienza che lo Spirito Santo abita in voi? Lo conoscerete ai segni ch’io sono per darvene.

II. Punto. Siccome è proprio dello Spirito di Dio, di scacciare dai nostri cuori lo spirito del mondo, di darci la forza per combatterlo, d’unire i cuori dei fedeli coi legami d’una perfetta carità e d’ispirarci un santo ardore per il servizio di Dio, a questi segni, fratelli miei, voi potete riconoscere se avete ricevuto lo Spirito Santo; saranno altresì mezzi efficaci di conservarlo, se ricevuto l’avete. – Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, dice l’Apostolo, ma lo Spirito di Dio, che il mondo non può ricevere, non spiritum huius mundi accepimus (1 Cor. II). Questi due spiriti sono incompatibili l’uno con, l’altro; le loro leggi e le loro massime sono interamente opposte. Perciò, fratelli miei se voi avete ricevuto lo Spirito di Dio, non dovete seguire lo spirito del mondo. – Bisogna necessariamente appartenere all’uno o all’altro. Niuna neutralità avvi a serbare; esaminate dunque quale di questi due spiriti vi anima, e conoscerete quello a cui appartenete; per saperlo, convien conoscere i loro differenti caratteri. – Che cosa è lo spirito del mondo? Egli è uno spirito d’orgoglio e di dominio, uno spirito d’interesse, uno spirito di immortificazione, nemico della penitenza e delle croci. Questi sono i tre mobili che lo guidano e che sono, dice s. Giovanni, le tre sorgenti della corruzione e della riprovazione del mondo. Primo carattere dello spirito del mondo si è lo spirito d’orgoglio e di dominio, che non cerca d’innalzarsi, che non s’occupa che d’idee di grandezza, che è idolatra della gloria e degli onori del secolo, che, non mai contento di ciò che ha, ambisce sempre ciò che non ha, e dice sempre, come il primo degli spiriti ribelli: Ascendam, io salirò ancora più alto. Spirito d’ostentazione, che si compiace di far pompa di ciò che ha di brillante, che si manifesta nel lusso delle vesti, nella magnificenza delle suppellettili, nelle novità delle mode, e con un esteriore autorevole di cui si serve per abbagliare i suoi partigiani. Spirito d’indipendenza, che non riconosce alcuna subordinazione, si sottrae all’autorità più legittima, dispregia le leggi più sacre; che cerca anche di scuotere il giogo della fede, combatte con una pertinace resistenza le verità della religione. Tali sono gli estremi a cui lo spirito del mondo conduce coloro che se ne lasciano predominare. – Ah! che lo Spirito di Dio ispira sentimenti molto diversi ad un’anima che Egli conduce! Questi sono sentimenti d’umiltà la più profonda, che fugge la gloria e gli onori, per non cercare che le umiliazioni; che invece di comparire e manifestarsi per via di ciò che può fargli onore, non cerca che di nascondersi per involare agli occhi del mondo ciò che può attribuire qualche gloria; che cammina con candore e semplicità, né cerca di farsi ammirare, né contesta le precedenze, e cede volentieri ai sentimenti altrui. Un’anima condotta dallo Spirito di Dio, invece di sollevarsi contro le autorità, di combattere la verità, si sottomette con docilità al giogo che le viene imposto, crede senza esitare le verità che la religione insegna; ella non parla, non opera che per la gloria del suo Dio. Tali furono le disposizioni in cui si trovarono gli Apostoli dopo avere ricevuto lo Spirito Santo. Essi non ebbero che del dispregio per i plausi e gli onori del mondo; si fecero gloria della umiliazione; ben lungi dal disputare sulla precedenza, si riguardarono come la feccia del mondo; tamquam purgamenta huius mundi (Cor. IV), e non ebbero altra ambizione che di procurare gloria a Dio coi loro discorsi e con le loro fatiche: loquebantur magnalia Dei. – Sono questi, fratelli miei, i vostri sentimenti? Preferite voi l’obbrobrio e l’umiliazione della croce alla gloria del mondo? Non cercate voi punto meritare sua stima e i suoi applausi? Amate voi piuttosto l’ultimo posto che il primo? Siete voi indifferenti alle lodi come ai dispregi? Non cercate voi in ogni cosa che la gloria di Dio? Se è così, voi avete ricevuto il suo divino Spirito; Egli fa in voi la sua dimora, e voi lo conserverete sinché avrete questi sentimenti: ma se l’orgoglio, la vanità signoreggia nel vostro cuore, è lo spirito del mondo che vi conduce. E che dovete aspettarvi? Schiavi del mondo, voi perirete col mondo. Voi conoscerete ancora se avete uno spirito d’interesse, che è il secondo carattere dello spirito del mondo, opposto allo Spirito di Dio. Su di che s’aggirano infatti tutti i progetti che si formano nel mondo? A che vanno a finire i passi della maggior parte degli uomini? Non hanno di mira che l’interesse; le ricchezze sono l’idolo cui tutto sacrificano: in esse ripongono la loro felicità, e non stimano felici che quelli cui prodiga la fortuna i suoi favori, riguardando come infelici coloro che sono nella povertà e nell’indigenza. Quando i ricchi sono i soli onorati, laddove gli altri sono nell’obbrobrio e nel dispregio. – Ma lo Spirito di Dio c’insegna a pensare  molto diversamente sui beni del mondo. Questo divino Spirito, che Gesù Cristo ci ha inviato per insegnare le massime del suo Vangelo, ci dice che beati sono i poveri perché di essi è il regno de’ cieli; disgraziati sono i ricchi, perché le ricchezze sono un grande ostacolo per entrare in quel regno. Per la qual cosa c’inspira il dispregio delle ricchezze e l’amore della povertà. Tali furono i sentimenti ch’Egli inspirò agli Apostoli e ai primi discepoli della religione. Gli Apostoli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù Cristo, non vivevano che delle limosine che lorio facevansi, e passarono tutta la loro vita nella povertà. I primi Cristiani nulla possedevano di proprio, ma vendevano tutto quel che avevano per recarne il prezzo ai piedi degli Apostoli ad essere distribuito a ciascuno secondo i suoi bisogni. Ecco sino a qual punto portavasi il disinteressamento nella primitiva Chiesa, perché seguivansi i movimenti dello Spirito Santo. Esaminate dunque, fratelli miei, se voi siete animati da questo divino Spirito, dalle disposizioni in cui vi siete trovati a riguardo dei beni del mondo. Per verità Dio non esige da voi che vi spogliate dei vostri beni , come i primitivi Cristiani, con una rinuncia reale ed effettiva, ma bisogna almeno staccarne il cuore, di modo che voi siate tanto indifferenti per le ricchezze quanto per la povertà; voi nulla apprezzare dovete apprezzare le cose create, Dio solo deve fare il vostro tesoro: Or se voi siete poveri, siete voi contenti in quello stato? Se siete ricchi, qual uso fate dei vostri beni? Ne impiegate voi il superfluo a soccorrere i poveri? Siete voi pronti ad abbandonare ogni cosa, se Dio da voi lo richiede? E quando vi accade qualche sinistro accidente, qual è la vostra sommissione alla volontà di Dio che così permette? A questi segni voi conoscerete se avete lo Spirito di Gesù Cristo, che è uno spirito di povertà. Ma se siete sempre avidi dei beni, se soffrite mal volentieri le perdite che quando la fortuna vi è favorevole, è segno che lo spirito del mondo regna in voi e non lo Spirito di Dio. – Terzo carattere dello spirito del mondo, opposto a quello di Gesù Cristo, spirito d’immortificazione e di mollezza, nemico della penitenza e delle croci. Basta per esserne convinti di esaminare la vita dei mondani. Qual sollecitudine a soddisfare le loro brame, quali precauzioni per procurarsi i piaceri della vita! Quale indulgenza a lusingare la carne e a procurarle tutto ciò ch’ella domanda; qual violenza si fanno per reprimere le loro inclinazioni sregolate! Tutta la loro vita non è che un cerchio di divertimenti, che si succedono gli uni agli altri. Dopo essersi renduti colpevoli di molti delitti, non pensano in nessun modo a farne penitenza; lasciano la mortificazione a coloro che vivono nel ritiro: quanto ad essi si credono in diritto di vivere nell’allegrezza e nei piaceri. – Ma quanto le massime dello Spirito di Dio sono esse opposte a quelle del mondo! Questo divino Spirito, che porta la divisione sino nelle potenze dell’anima, come dice s. Paolo, reprime non solo le inclinazioni sregolate, ma mortifica ancora le più legittime; Egli inspira l’abnegazione di se stesso, la mortificazione dei sensi  l’amore della penitenza e delle croci. Un’anima condotta da questo divino Spirito si fa una violenza continua per correggersi dei suoi difetti; per ridurre le sue passioni in ischiavitù, essa si abbandona ai rigori della penitenza, ed abbraccia con piacere tutte le croci che il Signore le presenta, ed è così, fratelli miei, che voi combattete contro di voi medesimi per fare penitenza dei vostri sregolamenti, per reprimere le vostre malvage inclinazioni? Amate voi la mortificazione e le croci? Se la cosa va così, voi avete ricevuto lo Spirito Santo; e se persistete nelle vostre sante pratiche, Egli dimorerà con voi. Ma se vivete secondo la carne, se non la sottomettete allo spirito, se accordate alle vostre passioni tutto ciò che esse domandano, se la penitenza e le croci vi disgustano, voi non siete animati a quella vita divina che lo Spirito Santo comunica alle anime che lo ricevono, voi siete all’opposto in uno stato di morte, perché avete estinto in voi lo spirito della vita con le vostre resistenze alle sue grazie, voi non gli appartenete più, ma appartenete allo spirito delle tenebre, che è divenuto vostro padrone: Vos ex patre diaboli estis! Qual disgrazia, fratelli miei! Potete voi pensarvi senza fremere, e non fare ogni sforzo per rompere i vostri legami e ricuperare la libertà dei figliuoli di Dio? Si richiede per ciò della forza: ma lo Spirito Santo ve la darà; si è da questa virtù medesima che voi conoscerete se l’avete ricevuto. Io vi ho fatto vedere, fratelli miei, la forza che lo Spirito Santo comunicò agli Apostoli, ch’Egli rese intrepidi in mezzo delle più crudeli persecuzioni e superiori alle minacce, ai supplizi e alla morte più spietata. Tali sono gli effetti che produce in un’anima che l’ha ricevuto. Se voi avete questa sorte sosterrete la causa di Dio contro tutti gli sforzi del mondo, vi renderete superiori al rispetto umano, ai motteggi, alle persecuzioni degli uomini; vi opporrete al torrente dei cattivi costumi, reprimerete il vizio in coloro che vi sono soggetti, vi farete gloria della virtù avanti a coloro che la dispregiano; difenderete la gloria della vostra religione innanzi a quelli che l’attaccano. Ecco quel che lo Spirito Santo esige da un’anima cui Egli si comunica. Ma se voi non ardite dichiararvi per la verità, né prendere il partito della virtù per tema di dispiacere agli uomini, se un rispetto umano vi chiude la bocca mentre convien parlare; se per timidi riguardi, e per una falsa prudenza applaudite alle passioni altrui, se commendate il vizio in quelli che dovete riprendere, per tema d’incorrere la loro disgrazia; se non praticate la virtù che sin tanto che avete l’applauso del mondo, e l’abbandonate tosto che siete esposti alle censure degli uomini; ah! voi dovete giudicare che non avete punto ricevuto quello Spirito di fortezza che comparve nei primi Cristiani, quello che fu in s. Paolo, che non si riguardava più come discepolo di Gesù Cristo qualora avesse la disgrazia di piacere agli uomini: si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). No, dice questo grande Apostolo, noi non abbiamo ricevuto uno spirito di timidità, ma uno spirito di forza e di fermezza per sostenerci nella pratica del bene contro le false massime del mondo, contro le persecuzioni degli uomini: Non dedit nobis spiritum timoris, sed virtutis (2 Tim. 1).Finalmente, fratelli miei, lo Spirito Santo è uno Spirito di pace, che unisce i cuori coi legami d’una perfetta carità. Unione sì grande tra i primi Cristiani che facevano tutti un cuore solo ed un’anima sola. A questo segno voi conoscerete ancora se possedete questo divino Spirito; se vivete in pace col vostro prossimo, con quei medesimi che sono nemici della pace, se sopportate pazientemente gli affronti, le ingiurie, se perdonate ai vostri nemici e se rendete del bene a coloro che vi fanno del male, voi siete la dimora dello Spirito Santo. Ma se siete in dissensione col vostro prossimo, se seminate la discordia tra i vostri fratelli con i vostri cattivi rapporti, non è lo Spirito di Dio che vi conduce, è lo spirito del demonio, che non ama che la dissensione e la discordia. Si può forse dire che lo Spirito di Dio abiti in quelle case dove non s’odono che risse e contese, dove il marito e la moglie sono sempre in litigio, vomitando l’uno contro l’altra le ingiurie più atroci con grande scandalo dei figliuoli? No, questo divino Spirito non si trova nella discordia e nelle divisioni: non in commotione. Dominus (3 Reg. 19). Volete voi, fratelli miei, possederlo nelle vostre case, nei vostri cuori? Vivete in pace gli uni con gli altri, seguite in tutto gl’impulsi dello Spirito Santo; ch’Egli sia il principio ed il fine di tutti i vostri progetti e di tutte le vostre azioni; adempite con fervore tutti i vostri doveri: perché lo Spirito Santo non si compiace in un cuore che fa l’opera di Dio negligentemente: Egli richiede un cuore che agisca per amore, perché Egli è tutto amore. Egli è un fuoco che è sempre nell’azione e che comunica all’anima la sua attività: tosto che voi cesserete d’operare, l’estinguerete, lo soffocherete: siccome il fuoco si estingue da che si cessa di dargli materia, così lo Spirito Santo cesserà di essere in voi se non opererete con Lui. Quand’anche evitaste il male, la sola inazione, la negligenza a fare il bene saranno capaci d’allontanarlo da voi. Ma se ritrova in voi dei ministri che seguano la sua attività, Egli vi condurrà di virtù in virtù alla gloria eterna. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus – Ps LXVII: 29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja. [Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda.

[Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Acts II: 2; 4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet. [Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

TEMPO DI PENTECOSTE

TEMPO PASQUALE – 3.

I. — Commento dogmatico: Pentecoste.

Pasqua e Pentecoste, coi cinquanta giorni intermedi sono considerate come formanti una sola festa. In essa si celebra prima il trionfo di Cristo, poi il suo ingresso nella gloria e finalmente, al cinquantesimo giorno, l’anniversario della nascita della Chiesa. La Risurrezione. l’Ascensione e la Pentecoste appartengono al mistero pasquale. « Pasqua è stata il principio della grazia, la Pentecoste ne è il compimento », dice S. Agostino, poiché le Spirito Santo vi completa l’opera di Cristo. E l’Ascensione, posta al centro di questo trittico del Tempo pasquale, unisce queste due  feste. Con la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha reso i nostri diritti alla vita divina, e alla Pentecoste lì applica alle anime nostre comunicandoci il suo « Spirito Vivificatore ». Ma per fare ciò doveva prima prendere possesso del regno che aveva conquistato « Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora stato glorificato », dice S. Giovanni (VII, 39). L’Ascensione de’ Signore è infatti il riconoscimento ufficiale dei suoi titoli di vittoria; essa costituisce per la sua umanità la corona di tutta l’opera sua di redenzione e per la Chiesa il principio della sua esisterne e della sua santità. « L’Ascensione, scrive Dom Guéranger, è il mistero intermedio fra Pasqua e Pentecoste. Da una parte essa è il compimento della Pasqua, ponendo il Dio-Uomo vincitore della morte a capo della Chiesa e alla destra del Padre; dall’altra, determina l’invio dello Spirito Santo sulla terra ». « Il nostro bel mistero dell’Ascensione segna il limite fra i due regni divini quaggiù, il regno visibile del Figlio di Dio e il regno invisibile dello Spirito Santo. « Se io non me ne vado, il Paracleto non verrà a voi », dichiara Gesù ai suoi Apostoli: ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò (Giov. XVI, 7). II Verbo Incarnato ha finito la sua missione esterna presso gli uomini, lo Spirito Santo sta per cominciare la sua, poiché DioPadre ha non solo mandato il Suo Figlio incarnato per ricondurci a Lui, ma anche Io Spirito Santo, che « procede dal Padre e dal Figlio »  e che si rivelò al mondo con segni visibili: lingue di fuoco, vento impetuoso, ecc. — «II Padre fa tutto per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo », dice S. Atanasio. Cosi quando l’Onnipotenza di Dio Padre ci si manifesta nella creazione del mondo, leggiamo nella Genesi che « Io Spirito di Dio si muoveva sulle acque per renderle feconde (Benedizione del Fonte). Quando ci si manifesta la sapienza del Verbo, di nuovo lo dobbiamo allo Spirito Santo. Egli ha « parlato per mezzo dei profeti », è la sua virtù che ha coperto della sua ombra la Vergine Maria e l’ha resa Madre di Gesù. Lo stesso Spirito Santo sotto forma di colomba, scese su Gesù Cristo al momento del battesimo, lo condusse nel deserto e lo guidò in tutta la sua vita di apostolato. — Ma lo Spirito di santità inaugura l’impero sulle anime soprattutto colmando gli Apostoli di luce e di forza nel giorno della Pentecoste. – « Nello Spirito Santo la Chiesa è battezzata » nel Cenacolo « il soffio suo vivificante dà la vita al corpo mistico di Cristo, organizzato da Gesù dopo la sua Risurrezione ». Cosi il Redentore, soffiando sugli Apostoli aveva detto loro: «Ricevete lo Spirito Santo, saranno rimessi i peccati a quelli ai quali li rimetterete » e come è noto, lo Spirito Santo è chiamato «la remissione dei peccati (Postcomm. del martedì) e il battesimo che ha per iscopo di purificare le anime dai loro peccati è conferito « nell’acqua e nello Spirito Santo ». « Esci da quest’anima, spirito immondo », dice il sacerdote che battezza, cedi il posto allo Spirito Consolatore. Questo Spirito guarisce con la sua grazia le anime nostre e le eleva (la grazia è insieme sanans et elevans); sottrae quindi l’uomo dalla morte alla quale questi non era capace di sottrarsi da sé. In grazia sua, le anime sono soprannaturalizzate e l’influenza soprannaturale di questo Spirito può e deve vivificare tutti i loro pensieri e tutte le loro azioni, poiché, come la vita del corpo proviene dalla unione del corpo con l’anima, così pure la vita dell’anima proviene dall’unione dell’anima con lo Spirito di Dio per mezzo della grazia santificante, (S. Ireneo e S. Clemente di Alessandria). «L’uomo riceve la grazia mediante lo Spirito Santo », dice San Tommaso (S. Th. Ia IIæ, q. 112). La grazia è la soprannaturalizzazione di tutto il nostro essere, in quanto cheè «una certa partecipazione della Divinità nella creatura ragionevole » . Inoltre là dove è la grazia vi è pure Colui che ne è l’Artefice divino, e perciò la Chiesa chiama lo Spirito Santo « dolce ospite dell’anima nostra », Colui che feconda la nostra attività con « la sua intima azione ». Questo Spirito compie l’opera di formazione degli Apostoli. « Egli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che Io vi ho detto » dice Gesù (Giov. XIV, 26) . E ciò lo fa non solo illuminando l’intelligenza, ma anche purificando e riscaldando i cuori. La Chiesa lo chiama «luce dei cuori» e spesso durante questa settimana fa allusione a questa purificazione e a questo ritempramento della volontà, che permettono all’intelligenza di contemplare verità con maggior luce. «Chiunque fa il male, dice il Vangelo del lunedi, odia la luce e non viene alla luce per tema che le opere siano biasimate. Ma colui che compie la verità viene alla luce, in modo che le opere sue siano manifeste, perché sono state fatte in Dio ». Dimodoché lo Spirito Santo viene a render testimonianza a Cristo, come il Maestro lo aveva annunziato. E questa testimonianza Egli la rende non solo internamente con l’azione della sua grazia nei cuori, ma anche esteriormente servendosi della gerarchia visibile. E così nel corso della settimana di Pentecoste la liturgia parla costantemente dell’infusione della grazia dello Spirito Santo e insieme della predicazione della fede in Gesù. La testimonianza dello Spirito Santo nell’anima fa eco a quella che Gesù Cristo rende a se stesso per mezzo della Chiesa; negare, quindi la divinità di Gesù Cristo e la sua Risurrezione, che la Chiesa insegna, è un peccato contro lo Spirito Santo, peccato che porta già in sé una sentenza di riprovazione: « iam iudicatus est», dice Nostro Signore. Da  questo Spirito verrà, attraverso ai secoli, quella meravigliosa forza dottrinale e mistica, personificata nel Cenacolo dall’apostolo Pietro. Lo Spirito Santo, che ispirò gli autori sacri (2 Piet. I, 21), assicura al Papa e ai Vescovi, riuniti intorno a quest’ultimo, l’infallibilità dottrinale, che permette alla Chiesa docente di continuare la missione di Gesù. Lo Spirito Santo dà ai Sacramenti istituiti da Gesù la loro efficacia; lo Spirito Santo suscita anche, al di fuori dela gerarchia, anime fedeli che si prestano docilmente alla sua azione santificante; questa santità, è giustamente attribuita alla terza Persona della SS. Trinità, che è l’amore personale del Padre e del Figlio. La volontà è infatti santa quando non vuole se non il bene, ond’è che lo Spirito che procede eternamente dalla volontà divina identificata col bene, vien chiamato Santo e quindi Egli legando la nostra volontà alla volontà di Dio, è Colui che rende santi. – Così il Credo, dopo che dello Spirito Santo, ci parla della santa Chiesa, della Comunione dei Santi, della Risurrezione della carne che è il frutto della Santità e la sua manifestazione nei nostri corpi, e finalmente, della vita eterna che è la pienezza della Santità nelle anime nostre. Questa vita soprannaturale pervade i nostri cuori soprattutto nella festa della Pentecoste che ci ricorda la presa di possesso della Chiesa da parte dello Spirito Santo e che conferma, ogni anno più stabilmente, il suo regno divino nelle anime nostre. La Pentecoste celebra dunque non solo l’avvento dello Spirito Santo, ma anche l’ingresso della Chiesa nel mondo divino , dice San Paolo, « per Cristo abbiamo accesso presso il Padre nello Spirito Santo » (Ef. II, 18) . Questo anniversario della promulgazione della legge mosaica sul Sinai diventa per tutti i Cristiani quello della istituzione della nuova legge, nella quale riceviamo « non più lo spirito di servitù, ma lo spirito di adozione di figli, il che ci dà diritto a chiamare Dio nostro Padre ». La legge di Mosè mostrava quello che bisognava fare, ma non dava la forza dicompierlo, lo Spirito Santo al contrario fa conoscere la legge Evangelica e dà le grazie necessarie per metterla in pratica, poiché l’amore è il segreto della obbedienza. La Pentecoste non è quindi solamente un anniversario, ma è una vita, è la discesa dello Spirito Santo in noi; e la devozione allo Spirito Santo è il pegno della nostra santità.

II. Commento storico: Pentecoste.

Prima della sua Ascensione al cielo Gesù aveva comandato aglii Apostoli « di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendervi la promessa del Padre », cioè l’effusione dello Spirito Santo. Al ritorno dal Monte degli Ulivi, i discepoli, in numero di centoventi, ritornarono al Cenacolo « dove tutti perseverarono unanimi nella preghiera con le donne e Maria, madre di Gesù » (Act. I, 14) . Dopo questa novena, la più solenne di tutte, ebbe luogo l’avvenimento miracolosoche coincidette provvidenzialmente con la festa ebraica della Pentecoste. « Questo giorno grandissimo e santissimo (Lev. XXIII, 21) era per Israele l’anniversario della promulgazione della Legge sul Sinai.Così un gran numero di forestieri, accorsi da ogni parte a Gerusalemme, furono testimoni dell’avvento dello Spirito Santo. Circa le nove del mattino « venne all’improvviso dal cielo un rumorecome di vento gagliardo che riempì tutta la casa in cui erano gli Apostoli. E apparvero ad essi delle lingue distinte, come di fuoco, e si posarono sopra ciascuno di loro. E furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare linguaggi vari, secondo che lo Spirito Santo dava ad essi di favellare» (Act. II, 2-4). Cosi, la Chiesa, « rivestita della forza celeste » (S. Luc. XXIV, 49), comincia a Gerusalemme l’opera di Apostolato che Gesù le ha affidata. Pietro, capo degli Apostoli, prende la parola davanti alla moltitudine e, diventato « pescatore di uomini» (S. Marc. I, 17), porta, con una sola retata circa tremila neofiti alla Chiesa nascente. I giorni seguenti, i Dodici si riuniscono sotto il portico di Salomone e, come il Maestro divino, predicano il Vangelo e guariscono i malati. Così «presto aumentò la moltitudine di uomini e donne che credevano nel Signore».  Poi, recatisi fuori dalla Giudea, gli Apostoli andarono ad annunziare Cristo e a dare lo Spirito Santo ai Samaritani, e quindi a tutti i Gentili »

III. — Commento liturgico: Pentecoste.

Il cinquantesimo giorno che seguì il passaggio dell’Angelo sterminatore e la traversata del Mar Rosso, il popolo ebreo si accampò ai piedi del Sinai e Dio gli diede solennemente la sua legge. Le feste della Pasqua ebrea e della Pentecoste che ricordavano questo doppio avvenimento, erano le più importanti dell’anno. Milletrecento anni più tardi, la festa di Pasqua è segnata dalla morte e dalla risurrezione di Gesù e quella di Pentecoste (cinquanta giorni dopo, come lo indica la parola Pentecosles) dalla discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli. Queste due feste, divenute cristiane sono le più antiche del Ciclo liturgico che deve ad esse la sua origine. Esse portano rispettivamente i nomi di Pasqua «bianca «e di « Pasqua rossa ». Pentecoste è dunque la maggior festa dell’anno dopo quella di Pasqua, ed ha quindi la sua Vigilia e la sua Ottava privilegiata; vi si leggono gli Atti degli Apostoli, poiché è l’epoca della fondazione della Chiesa di cui questo libro sacro ci narra le origini, e con questo si imita quello che si osserva nella Settimana di Pasqua. Comincia una vita nuova e conviene da questo momento leggere le Nuove Scritture. Il Nuovo Testamento del resto mette l’Antico in piena luce, mostrando che in esso tutto era figura (vedi: Orazione della 2a Profezia) e nella Messa della Domenica di Pentecoste e in quella dell’Ottava, la Legge Antica e la Nuova, le Sacre Scritture e la Tradizione, i Profeti, i Padri della Chiesa e gli Apostoli fanno eco alla parola del Maestro. Tutte queste parti si combinano tra loro, come i vari pezzi di un mosaico, di modo che presentano davanti all’anima un quadro meraviglioso che sintetizza l’azione dello Spirito Santo nel mondo attraverso tutti i secoli. E per mettere ancor più in rilievo questo magnifico capolavoro, la liturgia lo incornicia, per cosi dire, di tutto l’apparato esterno delle sue sacre cerimonie dei suoi riti simbolici. Il sacerdote è rivestito di paramenti rossi, colore che ricorda le lingue di fuoco e simbolizza la testimonianza del sangue che gli uomini dovranno rendere al Vangelo per virtù dello Spirito Santo. Anticamente, in alcune chiese, si faceva piovere dall’alto della cupola, durante il canto del Veni sancte Spiritus, una pioggia di rose rosse, mentre una colomba svolazzava al disopra dei fedeli, donde il grazioso nome di Pasqua di rose dato alla Pentecoste nel XIII secolo. Qualche volta anche, per maggiormente marcare l’imitazione scenica, si suonava la tromba durante la Sequenza per ricordare la tromba del Sinai, o il fragore in mezzo a cui lo Spirito Santo discese sugli Apostoli. In questo modo il Cristiano era immerso nell’atmosfera speciale che caratterizza il tempo di Pentecoste e riceveva una novella effusione dello Spirito Santo. La liturgia celebra questo mistero ad esclusione di qualunque altra festa durante tutta l’Ottava, per impedirci di distrarne il pensiero. Il desiderio della Chiesa, dunque, è chiaramente espresso: vederci scegliere in questi otto giorni, per soggetto dì meditazione o di pie letture testi che si riferiscano alla Pentecoste. Quale migliore preparazione o ringraziamento per la comunione, per esempio, che il canto o la recita della Prosa o Sequenza di Pentecoste, uno degli esempi più belli di poesia cristiana? — Con l’ora del Nona del Sabato nell’Ottava della Pentecoste termina il Tempo Pasquale, cominciato alla Messa del Sabato Santo.

LO SCUDO DELLA FEDE (113)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIV.

L’astrologia giudiziale non ha ragione su cui si fondi.

I . Se i genetliaci hanno a risaper dalle stelle qualche poco degli eventi futuri, o liberi, o casuali, convien di necessità, che le stelle ne sieno, o segni, o cagioni; non avendo esso altre voci da palesarli. Ma le stelle non sono né cagioni, né segni di tali eventi; adunque è manifesto, che i genetliaci non possono dalle stelle risaper nulla degli eventi futuri, o liberi, o casuali, neppur da lungi. Tutta la difficoltà si riduce a mostrar per vera la minore proposizione; non si potendo contendere la maggiore, se non da chi non la intenda. Dunque mostriamola con levar prima alle stelle la virtù loro attribuita di sogni, giacché la godono a torto.

I.

II. E qui addimando: Se elleno sono segni delle vicissitudini umane, che segni sono i segni naturali, quale è l’iride della serenità, o segni, come dicono, a piacimento, quali sono la tromba e il tamburo della battaglia? Naturali non sono, perché, se fossero tali, non potrebbe non avvenire tutto ciò che da loro è significato. Ed ecco tolta in tal caso la contingenza, e con la contingenza il libero arbitrio, (mentre all’uomo tanto sarebbe il divertire ciò che di lui dicono i cieli, quanto il distogliere i cieli da’ loro corsi); eccovi l’uomo, non più uomo, ma bruto, e bruto guidato con freno d’oro bensì, ma però più forte: onde possa un puledro sperar di rompere quella cavezza che il priva di libertà, ma non lo possa già sperare un mortale, nato al comando: eccovi il destino funesto: eccovi il diamante fatale: eccovi tutte a terra le leggi più venerabili, come inette: ed eccovi alla giustizia cadute da una mano le bilance che ci ha, dall’altra la spada: le bilance, come inutili a pesare i meriti proceduti da forza; la spada, come iniqua a punire i falli. E però chiaro a chi ritiene scintilla ancor di discorso, che le stelle non possono essere segni naturali de’ fatti umani. E se non sono qual dubbio v’è, che non possono ne meno dirgli in confidenza agli astrologi, checché questi si vantino di saperli sì per minuto?

III. Saranno dunque segni imposti da libera istituzione: Sicché quel Dio, che antivede le cose prima che avvengano, abbia congegnati i pianeti con sì bell’arte, che questi col fuggirsi, coll’incontrarsi, coll’intrecciarsi, e col muoversi in tante guise, formino un’istoria del vivere di ciascuno in quel vasto cielo, che egli però distese a guisa di pelle: Extendens cælum sicut pellem (Ps. 103,2). Così le stelle non inducono alcuna necessità, ma sono meri interpreti del futuro, come sono i profeti: onde a saper ciò che dicano, basta intenderli.

IV. Un tal rispondere non può in prima valere per gli ateisti, perché essi negano la cura a Dio delle cose. Per quelli poi che l’ammettono, non può stare, perché se le stelle sono segni istituiti dalla provvidenza divina a farci antivedere sì il nostro male, come dunque Dio non c’invita a una scuola riguardevole di prudenza, con esortarci a leggere in quel suo libro continuamente, o a cercare chi vi legga per noi se non lo intendiamo? Anzi Egli non fa altro che ritirarci da tale studio, con metterlo in derisione. A chi sperava assai dalle stelle (e fu Babilonia) Stent, disse egli, stent, et salvent te augures cœli, qui contemplabantur siderei, et supputabant menses, ut ex eìs annuntiarent ventura tibi – si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà.(Is. XLVII. 13). Ed a chi ne temeva (ed era Gerusalemme) A signis, disse, a signis cæli nolite metuere, quæ timent gentes – … e non abbiate paura dei segni del cielo, (Ier. X, 2). Se dunque per avviso di Dio medesimo non dobbiamo noi regolarci da tali segni, né a sperar bene, né a temer male, che segni sono? Sicuramente non sono segni da Dio istituiti a significarcelo, ma segni finti dagli uomini a lor piacere; onde che resta a noi far più di quei libri, i quali ci dichiarano tali segni? Resta gettarli sul fuoco. Tanto fecero quei gentili, convertiti già in Efeso dall’Apostolo, e tanto abbiamo a far noi: Multi autem ex eis, qui fuerant curiosa sentati contulerunt libros, et combusserunt coram omnibus – … e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti.  (Act. XIX. 19). E che quei fossero libri di astrologia, ne fa fede sant’Agostino (In Ps. 61) . L’avere però Dio steso il cielo a guisa di pelle, fu solo per denotarci, averlo steso con tanta facilità con quanta da noi suole stendersi un padiglione (Bellar. i n Ps. 103. 2). Ma se egli è padiglione, conviene adunque, che qualcuno ce l’alzi, a volere entrarvi col guardo.

V. E vaglia la verità, se in cielo fosse cosi descritta l’istoria dell’ avvenire, come pur si divisano tali astrologi, chi mai di loro potrebbe aspirare ad intenderla, senza Dio che gli porgesse quasi in mano le chiavi di sì gran cifera? Potrebbe forse una chiave tale porgersi dall’inferno? Ma come dall’inferno, se quegli spiriti non l’hanno sicuramente nemmen per sé ? Quinci è, che negli antichi oracoli sì famosi di Delfo, di Didone, di Delo, aveano i demoni per uso di dare risposte sì artifiziose. sì ambigue, che del pari valessero ad ogni evento: Ibis redibis non morieris in bello. Che accadeva loro però lavorar questi, come specchietti a più facce, se le verità contingenti stanno là sui cieli descritte a sì chiare note? Non hanno i demoni all’ingegno più forti l’ale, di quelle che abbiavi verun astrologo sommo? Ora come dunque non potevano essi poggiar tant’alto da leggere quei caratteri i n vicinanza, ed esporli poi, con gloria tanto maggiore, alla vista de’ riguardanti in uno specchio pianissimo di parole sincere e schiette? So non lo fecero, segno dunque è, che non lo potevano fare: e posto ciò, convien dire, che il futuro accidentale e arbitrario non è da Dio registrato in que’ vasti fogli. E quando volessimo violentar la ragione a credere, che vi fosse, non v’è registrato di modo che possa leggersi da nessun occhio creato, se Dio non glielo discopra. Ma con chi Egli ciò fece mai, se piuttosto egli divietò qualunque spezie di auguri, con dichiararsi, che sue parti sono renderli tutti vani? Ego sum Dominus, irrita faciens signa divinorum – Io sono il Signore, … Io svento i presagi degli indovini (Is. XLIV, 25). Forse. Dio scrisse tali cose in cielo per gli Angeli dell’empireo, a cui le può tanto meglio mostrare in se medesimo quando voglia?

VI. Senonché i moti degli aspetti celesti ci danno chiaro a veder, che non ve lo scrisse. Perché tali moti sono uguali, uniformi, e regolatissimi, come moti ordinati dalla natura: laddove gli eventi umani, come dipendenti dalla libertà, sono irregolari, e tutti differenti fra loro, e tutti difformi. Come dunque è possibile, che questi eventi siano mai per quei moti significati, se quelli e questi sono quasi due linee che non han misura comune? Non l’hanno nella qualità pur ora accennata, non l’hanno nel numero; essendo i moti degli aspetti celesti, secondo sé, di numero certo, e gli eventi umani più e più sempre movibili in infinito: onde que’ moti potrebbero al più spiegare alcune universalità corrispondenti al numero che ebber essi dalla natura, ma non potrebbero discendere a mille individualità particolari e precise che non han fine.

II.

VII. Ed ecco tolto alle stelle l’essere segni degli eventi futuri, di cui si disse. Ma né  anche ne son cagioni, né possono essere, che è l’altra parte che rimane a provarsi. E prima è certo, che non sono esse cagioni necessitanti: altrimenti urteremmo di subito nello scoglio, da noi scorto di sopra per troppo infame, qual è, che l’arbitro riconosciuto nell’uomo da tutti i teologi, da tutti i filosofi, da tutti i fisici, da tutti i giureconsulti, anzi da tutti i popoli ad una voce, per padrone di sé, sia ristretto in ceppi. Eppure in ceppi egli saria più che mai, quando a lui si assegnasse una cagion necessaria, da cui dipenda. Ma appunto tali a lui sarebbon le stelle, che, a guisa di tutti gli altri agenti naturali, sono costantemente determinate agli stessi corsi: Omnis naturæ actio terminatur ad aliquid unum (S. Th. 1. p. q. 96. a. 1. in c). Così cesserebbe ogni considerazione, ogni consiglio, ogni elezione di mezzi, ogni politica, ogni prudenza; anzi cesserebbe ogni virtù fra gli uomini, ed ogni vizio; mentre non si dovrebbe ad un uomo più maggior lode, dì quella che si meriti il ferro, quando si lascia tirare dal polo amico della sua calamita; nè ad un uomo empio dovrebbesi maggior biasimo di quello che si meriti il ferro stesso, quando dal polo avverso della medesima calamita si lascia mandar lontano.

VIII. Che se, conforme abbiam già veduto, Dio è l’architetto di questo tutto, chiamato mondo, come può egli averne mai disposte le parti sì malamente, che la natura inferiore, qual è la materiale, regga la superiore, qual è l’intellettuale? quella che è cieca, guidi la veggente? quella che è insensata, governi la ragionevole? Ogni dominio naturale è fondato sulla eccellenza della natura, dice Aristotile; (L. 3. de anima tex. 57) che però l’uomo naturalmente comanda alla donna, perché dentro la medesima spezie egli è un individuo più perfetto di lei; e però molto più signoreggia anche gli animali, e gli sferza ritrosi, e li sottomette ribelli, perché è molto più perfetto di loro ancor nella spezie. Pertanto, come hanno i cieli a dominare le nostre menti, se quanto sono a noi superiori di sito, tanto sono inferiori di dignità? Se le loro combinazioni e i loro contrasti sono la cagiono del nostro operare, converrà che si disordini il tutto con ritornare nell’antico suo caos, mentre le sostanze perfette sono tiranneggiate dalle imperfette, le spirituali dalle corporali, le semplici dalle composte; e l’uomo, in una parola che è il fine dell’universo, vien sottoposto alla natura incapace di proprio bene (Arist. 1. 4 phys. test. 34).

IX. E notisi il dir che è fine: perché se l’uomo fosso soggetto alle stelle nell’operare, l’uomo dunque sarebbe fatto per le stelle, o non le stelle per l’uomo. Ma come ciò? Non è l’uomo quegli, in grazia di cui fu da Dio già creato tutto il visibile? Non ve ne ha dubbio: mercecchè l’uomo è l’ottimo che vi sia. Se però le stelle sono fatte anch’esse per l’uomo come dunque l’uomo ha da dipendere dalle stelle nelle opere che egli fa? Chi da un altro non è dipendente nell’essere, né anche n’è dipendente nell’operare, dice l’Angelico (Contra  gentes!.. 2. c. 8), perché l’operare seguita in tutti la condizione dell’essere.

X. Ma che stancarsi in tal cosa? Non prova ciascuno in sé, che la ragione domina il corpo e che il corpo non domina la ragione? Per quanto la fame mi stimoli, se io mi risolva di anteporre il diletto stabile della temperanza al diletto de’ cibi, che è sì fugace, la mano mia non si stende a prenderli da veruna mensa più lauta cui sia presente. Se mi sollecita l’appetito inferiore, non mi violenta: ed io ho la gloria di levarmi digiuno da quel convito, che darebbe alla gola si grato pascolo. Adunque la mente comanda al corpo, non il corpo alla mente. Onde, a conchiuderla, quantunque l’uomo non abbia podestà sopra i cieli, perché non li può volgere a suo talento; non però è loro soggetto in veruna azione, ma egli è padrone di sé, ed ha le redini in mano del suo volere, senza che tutti i moventi sì rapidi delle sfere possano violentarlo a dare neppure un passo se a lui non piace.

XI. Né sia chi dica, che non i corpi celesti ma le intelligenze motrici di tali corpi (Come ancora oggi ritengono i neo platonici cabalisti della massoneria mondiale, che adorano il sole e l’inventato assurdo sistema eliocentrico – ndr.-) son quelle, cui l’uom soggiace; perché le intelligenze, a muovere l’uomo, non possano valersi d’ogni istrumento, quantunque improporzionato. Come lo scultore non può mai col pennello far la sua statua, o come il dipintore non può mai fare il suo quadro con lo scalpello; così le intelligenze non possono muover mai l’arbitrio dell’uomo coi giri di verun corpo. Convien che il muovano con rappresentargli alla mente il bene che a lui ridondi dalla tal opera, che è quanto dire, convien che il muovano a modo di chi consiglia e di ehi conforta, non di chi trascina in catene. Ma ciò non ha che far punto col caso nostro: perché  i consigli e i conforti lasciano l’uomo indifferente ad ammettergli, o a ributtarli: e però da’ giri de’ cieli non sarà mai possibile antivedere di lui ciò che sia per farsi.

XII. Senonchè quanto si è divisato finora vale a provar, che le stelle non abbiano che far colle sorti umane, quali cagioni diretto (secondo che gli antichi le veneravano, fino ad adorarle però, come loro numi); ma non vale a provar, che non vi abbiano almeno a fare, quali cagioni indirette, che è il ricovero sotto il quale i moderni astrologi si fan forti, affermando, più cauti, se non più casti, che i cieli non influiscon nell’animo de’ mortali di primo lancio, ma di rimbalzo, in quanto alterando gli organi delle potenze sensitive, il temperamento, i fluidi, le flemme, e le qualità tanto a lui necessarie nell’operare, possono fare, che egli operi di un modo più che di un altro. E fin qui dicono bone: ma con ciò confessano insieme, che né sanno né possono saper nulla di quanto pronosticano intorno al tempo della vita e della morte dell’uomo, intorno alle ricchezze e alla povertà, intorno alla prosperità e alle disgrazie, che pur sono tutto quel fondo su cui lavorano i ricami delle loro fole. E che sia vero, osservate, che se nell’astrologia vi ha nulla di sodo, è questo discorso. Il temperamento dell’uomo dipende dalle stelle; l’indole, le inclinazioni, ed i costumi di lui dipendono dal temperamento; dunque altresì l’indole, le inclinazioni ed i costumi di lui dipendono dalle stelle, indirettamente, sì, ma pur quanto basti a formarne un giudizio retto. Ora un tale discorso è tutto fallace. Se però traballa sì forte la prima pietra, che sarà della mole, che su vi sorge?

XIII. Ma su, esca pure in luce il bambino sotto un oroscopo il più fortunato a dar buono il temperamento: se s’incontra in una balia mal atta a cooperarvi, io veggo le stelle in un labirinto grandissimo, senza filo da giungere a mantenere ciò che promisero. Conciossiachè tutti i filosofi e tutti i fisici son d’accordo, che il latte della nutrice, giovane o vecchia, gagliarda o vizza, porti al temperamento divario grande: e che il latte congenito della madre sia sempre migliore alla prole che quello di una straniera: la quale, ove pure ammettasi, vogliono che sia scelta anche di costumi, mentre le istorie romane tutt’ora piangono il loro Romolo, allattato da una lupa crudele, un Comodo ed un Caligola, abbeverati di sangue più che di latte; ed un Tiberio, allattato da una levatrice intemperantissima.

XIV. Spoppato quinci il bambino, ecco che egli incomincia a nutrirsi di cibo sodo, e con ciò cresce l’impegno alle stelle, e l’impossibilità di mantenersi veridiche, benché vogliano. Perciocché chi non sa quanto possa nel nostro corpo la qualità del nutrimento quotidiano? Basta leggere i trattati che ci hanno sopra ciò lasciati i medici più famosi, tanto benemeriti del genere umano, quanto ne sono traditori gli astrologi. Fino i poeti intesero questo vero: ond’è che Omero, formando nel suo Achille l’idea di un eroe magnanimo, lo finse nutrito colle midolle dei leoni, per figurarlo robusto di forze insieme e di cuore. Fate però, che il garzoncello, mirato sì benignamente da’ luminari celesti ne’ suoi natali, si dia tosto in preda ai banchetti, ai bagordi, all’intemperanza; con quale stame le stelle sue natalizie potranno allungargli la vita? Plures occidit gula, quam gladius. E il simile dite se egli nasca in luogo d’aria insalubre, o vada a soggiornare per accidente in valli palustri, umide, uliginose, e non dominate da venti, fuorché nocevoli. Vinceranno le stelle la qualità di quel suolo infausto? E finalmente, se egli, caduto infermo a cagione de’ suoi disordini, si abbatta in un di quei medici che si fanno pagare per ammazzarvi, con quale scudo il ripareranno da questo colpo i pianeti promettitori?

XV. Direte forse, che se egli nacque sotto buono ascendente, non ha da temere di quegli incontri sinistri da me accennati? Ma perché non ha da temerne? Perché le stelle che lo tolsero in cura gli abbiano per ventura a tenere indietro quali protettrici amorevoli? Ma ciò sarebbe altro che farle operare da cagioni particolari e parziali, influitrici nel solo temperamento. Sarebbe farle operare da cagioni universalissime, anzi vive, veggenti, e piene in sé di perfetta divinità, la qual disponesse dì tante varie creature a bacchetta per giungere al fine inteso. E poi, se le stelle potranno provvedere il lor caro allievo di medico ottimo, quando egli sarà in pericolo di morire: come potranno, quando egli ancora non nacque, provvederlo di ottimi genitori, se i genitori non poté veruno sortire fuorché nascendo? Non vedete voi, che coteste sono follie da contarsi per ridere in su le veglie? A voler però, che l’astrologo possa farci promessa di lunga vita a nome delle stelle, da lui considerate al nostro natale, converrà prima che egli conosca assai bene il temperamento di quei che ci generarono, e poi che da quelle stelle medesime egli risappia ad uno ad uno gl’innumerabili casi i quali, nel temperamento nostro influendo più da vicino, avranno sempre possanza somma a rifrangere e ripercuotere quegli influssi che sì da lungi mandino a noi le costellazioni celesti per nostro prò. Ma chi può ridir tali casi, se, come innumerabili, sono ignoti a qualsivoglia altra mente, che alla divina? Nè anche gli Angeli, motori dello stelle, potrian ridirli, se non fossero interrogati.

XVI. Certo è, che Sisto di Eminga, dopo di avere, in questa scuola de’ pianeti, consunti poco men che tutti i suoi giorni, confessa che gli astrologi, per quanto studio si facciano sopra l’oroscopo di un bambino nascente, non potranno mai risaper dalle pure stelle se egli sia nato vivo, o sia nato morto (In Genitura Caroli a Brimeu); giudicate poi se ne potran risapere (come si vantano), se egli sarà per vivere molto o per viver poco ? E forse che tal prova non è stata già fatta più d’una volta con gran piacere, chiedendo la natività di un bambino estinto, come s’egli fosse anche vivo, e ricevendola tuttavia dall’astrologo felicissima?

XVII. Mi giova riferire una beffa, anche più piacevole, che un principe italiano si fè di sì vana scienza, affine di schernire, come a lui parve giusto, frode con frode (Millet. prop. 19): Questi avvisato del nascimento di un mulo nelle sue stalle, ne fece dare all’astrologo il punto esatto, sotto un nome di un bastardo nato in palazzo. E l’astrologo di ciò ignaro, postosi lungamente a studiare su quell’oroscopo, per la speranza di ottener tanto più di vantaggio alla sua fortuna, quanto più egli ne presagisse all’altrui, trovò subito in cielo due luminari ne’ segni maschi, assistiti da cinque pianeti mattutini in riguardo al sole, e vespertini in riguardo alla luna; e conchiuse che il cielo non poteva essere mai più bello, e che però non potendo quel bambino essere re, come ad ogni patto volevate Tolomeo sotto quegli aspetti (L. 4. de iudic. c. 3), conveniva per necessità che fosse sollevato alle prime dignità, ancora sacre, di cui capaci si fossero i suoi natali. Questi furono i vaticini che, recati al principe e letti da lui pubblicamente a’ suoi cavalieri, empirono tanto il volto di rossore a quel valent’uomo, quanto credea che gli dovessero empire le mani d’oro. Pertanto converrà dire che se le stelle mandano su tutti i viventi gli stessi raggi, una bestia nata sotto i più favorevoli che vi sieno dovesse andar per lo meno libera da ogni soma per tutta la vita sua, o che se alcuna ne avesse pure a portar mai, come l’altre, dovesse puramente, qual mulo illustre, sottoporgli omeri a qualche lettiga reale.

XVIII. Non è di poi meno falsa, l’altra proposizione, su cui si appoggia l’astrologia giudiziaria per tenersi in piedi, ed è, che le volontà degli uomini seguano per lo più il temperamento de’ corpi subordinato alle stelle: ond’è, che per esso può verisimilmente congetturarsi ciò che quegli sian per volere. Sì, se null’altro ostasse a tal congettura.  Conciossiachè quanto importa primieramente a variar l’indole, l’inclinazione, i costumi, la buona e rea educazione che sortisca? Su ciò si fonda principalmente la stima in che tutte le genti han tenuta sempre la nobiltà de’ natali: su la presunzione, che reca seco di andar congiunta con educazione più onorevole, attesi gli stimoli che di più lo porgono al fianco le operazioni degli antenati, in virtù di cui, quasi a generoso corsiere, se le raddoppi la necessità  di portarsi più risoluta in cima alla gloria. Onde in ordine ad un allevamento tale (stimato da’ legislatori la base potissima dell’umana felicità), che parte hanno le stelle? Se non vogliam delirare, nessuna affatto: mentre ciò non dipende da alcuna qualità corporea, cui solo può stendersi l’efficienza de’ cieli. Tanto più, che questa medesima educazione riceve gran vantaggi e gran varietà dal governo de’ dominanti, dalle pene, da’ premi e dalle leggi da loro tenute in vigore. Vogliamo noi credere, che le stelle influissero diversamente in Atene, in Sibari, in Sparta, situate in distanza nulla considerabile quanto agli astri? Eppure gli ateniesi erano sì ingegnosi di spirito, i sibariti sì femminili, gli spartani sì forti. La diversità non veniva però dal cielo, ma dal governo. Quel bracco di buona razza, che, se da piccolo fosse stato avvezzato a latrare intorno alla morta pelle di un orso, avrebbe animo di sfidar le fieranche vive nella lor tana; perché all’incontro fu avvezzato in cucina da un guattero poltroncello a covar la cenere, appena da lontano lo mira, che fugge in salvo.

XIX. Medesimamente il vivere in compagnia de’ cattivi, chi non sa, forse anche a suo costo, quanto pregiudichi alla sincerità de’ costumi? Un cedro marcio è men abile ad ammorbare quel sano, cui sta vicino, che un reo compagno quel buono: Sumuntur a conversantibus mores, diceva Seneca (De ira 1. 3. c. 8), et ut quædam in contactos. corporis vitia transiliunt. ita animus mala sua proximistradit.

XX. Cosi anche il rimprovero interno della coscienza, quanto vale a ridurci sul buon sentiero? quanto l’avviso di un consigliere fedele? quanto l’ambizion di una carica fruttuosa? Il timore di non rovinare i figliuoli, non è bastante a rattenere da più vendette anche un animo pronto all’ira? Quanti disordini viene a distornar nelle case una moglie saggia, coll’autorità che le danno le sue maniere? quanti raffrena la dignità del suo grado? quanti ritiene il detto delle sue genti? E con ciò, che hanno a fare giammai le stello? Anzi tanto meno vagliono queste di tutto ciò, che non v’è tra’ saggi chi esse chiami più volentieri a consulta sui propri affari, con persuadersi, che esse li guidino meglio. Ne’ matrimoni, ne’ cambi, nelle compere, ne’ litigi da imprendersi che si fa? Si pesano le ragioni, non si va di notte, neppur dagli astrologi, a interrogare i pianeti apparsi.

XXI. Però, quando ben per via delle stelle potesse risapersi il temperamento di verun uomo (che neppur si può risapere), il volere tuttavia dal temperamento raccorre in altri le propensioni che egli abbia, e dalle propensioni indovinare le operazioni libere che abbia a fare, è molto più temerario, che se entrando nelle stanze di Apelle, volessero altri indovinar le figure ch’egli formerà sulla tela che ha quivi all’ordine. Perché in fino né Apelle, né Protogene, né Parrasio, né Raffaello, indettati insieme, sapranno mai rimenare sì variamente, e rimescolare le loro tinte, che non sia sempre più varia la combinazion che può fare l’arbitrio umano de’ suoi pensieri, nelle risoluzioni a cui vuole apprendersi.

XXII. Replicheranno gli astrologi che essi non pronosticano ciò che assolutamente sia per succedere dalle volontà de’ mortali, ma ciò che succederebbe, se le inclinazioni impresse dalle stelle nel temperamento de’ corpi non fossero disturbate. Bellissimo sotterfugio. Ma se è cosi, pronosticano dunque essi ciò che non sanno, né possono sapere, se sarà mai. Perciocché queste inclinazioni verranno sempre variate dalle cagioni mentovate di sopra, che sono inescogitabili; ed affinché non si varino, converrà ritrovare un uomo, che viva fuori del mondo o non v’entri mai. Che se, al detto dell’Angelico (1. p. q. 57. art. 5), quelle verità contingenti, che accadono rade volte, non possono mai sapersi da verun uomo prima che accadano, bisognerà pure confessar, che l’astrologia giudiziale non è scienza, ma ciurmeria.

XXIII. E che sia così, non ha dubbio, che ad arrivare le inclinazioni degli uomini molto più dovrebbon valere le regole della fisonomia, la quale si fonda sul temperamento già lavorato dalla natura nel corpo umano, di quelle che ci porga l’astrologia, la quale si fonda sul temperamento che ancora ha da lavorarsi (Arist. Prior, 1. 2. e ult. phys. c. 1. etc.). Il curatore de’ cani, all’aspetto sa riconoscere il cane ardito: il cozzon de’ cavalli, all’aspetto sa ravvisare il cavallo altero. Così il fisonomista, all’aspetto sa raffigurare se l’uomo sia forte o timido, verecondo o sfacciato, umile o superbo, ingegnoso o goffo; mercecché convenendo in quei segni tutti gli animali sottoposti a tali affezioni, e non vi convenendo alcuno degli altri non sottoposti, giustamente egli ne deduce, che siano segni da poterle indicare al pari negli uomini anch’essi, benché superiori agli altri per la ragione. Eppure da que’ segni di forte, di timido di verecondo, di sfacciato, di umile, di superbo d’ingegnoso, di goffo, anzi neppure dalle inclinazioni già comprovate per tali segni, può mai sapersi, come Aristotile afferma (Physon. c. 2. n. 11), se uno sia soldato, sia musico, sia medico, sia architetto, e per aggiungere ancora ciò, sia prelato di santa chiesa. E come dunque da’ segni di quelle inclinazioni, anzi da quelle inclinazioni medesime può dedursi che egli sarà? E la ragione fondamentale si è, perché ad essere, a cagion d’esempio, prelato di santa chiesa, non basta l’inclinazione della natura data allo studio, alla pietà, alla prudenza, alla rettitudine, ci vuole di più chi ti ammaestri a proposito, chi ti porti, chi ti promuova, e chi al confronto di mille competitori, non meno di te meritevoli, elegga te. E ciò si può inferir dalla inclinazione che in te prevalga?

XXIV. Divinamente insegnò Aristotile (L . 2. phys. c. 7. text. 53), esser la fortuna, sì prospera come avversa, ignota ad ogni uomo, perché gli effetti, separati e sconnessi, a cui ella può stendersi, non han fine: e l’infinito, come infinito, non abita nella mente di alcun mortale. Eppure la fortuna, sì prospera come avversa, è quella che si arrogan gli astrologi di mettere alla tortura tra le lor sèste, perché confessi loro tutto ciò che ella sia per fare.