UN’ENCICICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO X – “VEHEMENTER NOS”

L’azione delle sette infernali, così lucidamente, ma vanamente illustrata e svergognata dai Sommi Pontefici Romani – Leone XIII, in prima fila – dà i suoi frutti infernali di corruzione e demolizione dei principi morali cristiani con diversi effetti nefasti ed abominevoli, che il Santo Padre Pio X denuncia chiaramente in questa nuova lettera. Eccone un passaggio chiave: « … Voi conoscete lo scopo delle empie sètte [massoniche – ndr. -] che curvano le vostre teste sotto il loro giogo, poiché tale scopo esse stesse l’han dichiarato con cinica audacia: decattolicizzare la Francia. Esse vogliono sradicare completamente dai vostri cuori la fede che ha coperti di gloria i vostri padri, che ha fatto grande e prospera la vostra Patria fra le altre Nazioni, che vi sostiene nella prova, che conserva la tranquillità e la pace del vostro focolare e che vi apre la strada verso l’eterna felicità…». Decattolicizzare, ecco la parolina demoniaca che gli adepti di satana hanno alimentato e diffuso con tutto i lori velenosi inganni, in Francia, nell’epoca di Papa Sarto, ma oggi praticamente in tutti gli Stati un tempo Cattolici, in tutta l’Europa e nelle Americhe, portando alla rovina eterna milioni di anime colpevolmente ignare e stupidamente compiacenti. Questa decattolicizzazione ormai è pressoché completa, anche perché la setta si è radicata profondamente nei palazzi del “sacro colle” romano e praticamente in ogni sede diocesana mondiale, favorendo una laicizzazione, cioè un paganesimo ateo-gnostico pratico ed un luciferismo spavaldo seminato attraverso mezzi di diffusione di massa, che spiritualmente si dimostrano veri e potenti “mezzi di distruzione” di masse incalcolabili di anime, ridotte ad una schiavitù bestiale dei sensi e alla mercé del potere élitario-finanziario mondiale, in mano totalmente alle sette, tentacoli spesso inconsapevoli gestiti dalla piovra infernale dei “nemici di Dio e di tutti gli uomini”, dalla “razza di vipere” che crede non dover mai pagare i crimini di cui si macchia, pensando anzi di avere un potere illimitato su tutta l’umanità. Poveri illusi, non sanno che un’eterna dannazione li attende a braccia aperte riservando loro un fuoco senza fine e la perdita di Dio, i mostri superbi che credono di essere scintille divine e di finire in un tutto universale, nel pleroma-ensof “gnostico-cabalistico”, magari riciclati in reincarnazioni purificatrici. Poverini, preghiamo affinché il Signore possa accendere in loro il lume della grazia per poterne salvare quanti più è possibile. Nell’attesa meditiamo questa accorata e “veemente” lettera enciclica:

San Pio X

Vehementer nos

Lettera Enciclica

Protesta solenne contro la legislazione antireligiosa in Francia e conforto per il popolo Cattolico esortato a resistere con mezzi legali, onde conservare al Paese la sua tradizione cattolica.

Siamo pieni d’inquietitudine e d’angoscia quando soffermiamo il pensiero su di voi. E come potrebbe essere diversamente, dopo la promulgazione della legge che, spezzando violentemente i legami secolari, con i quali la vostra Nazione era unita alla Sede Apostolica, crea alla Chiesa cattolica in Francia una situazione indegna di lei e quanto mai lamentevole? È questo un avvenimento gravissimo; e tutte le anime buone devono deplorarlo perché è tanto funesto alla società civile, quanto alla religione; ma non deve aver sorpreso nessuno che abbia seguito con un po’ d’attenzione la politica religiosa della Francia in questi ultimi anni. Per voi, Venerabili Fratelli, non sarà stato né una novità, né una sorpresa, dal momento che siete stati testimoni delle ferite così terribili e numerose inflitte a volta a volta dall’autorità pubblica alla Religione. Avete visto violare la santità e l’inviolabilità del Matrimonio Cristiano con disposizioni legislative formalmente in contraddizione con esse; laicizzare le scuole e gli ospedali; strappare i chierici ai loro studi e alla disciplina ecclesiastica per costringerli al servizio militare; disperdere e spogliare le congregazioni religiose e ridurre la maggior parte dei loro membri all’estrema miseria. Poi sono sopravvenute altre misure legali che voi tutti conoscete: fu abrogata la legge che ordinava delle preghiere pubbliche al principio di ogni sessione parlamentare e giudiziaria; furono soppressi i tradizionali segni di lutto a bordo delle navi il Venerdì Santo; eliminato dal giuramento giudiziario ciò che gli dava il carattere religioso; bandito dai tribunali, dalle scuole, dall’armata, dalla marina, infine da tutte le istituzioni pubbliche, ogni atto o simbolo che potesse in qualche modo ricordare la Religione. Queste misure ed altre ancora che a poco a poco separavano di fatto la Chiesa dallo Stato non erano niente altro che dei gradini posti allo scopo di arrivare alla separazione completa ed ufficiale: persino coloro che le hanno promosse, non hanno esitato a riconoscere questo, apertamente e frequentemente. Per rimediare alla disgrazia così grande, la Sede Apostolica non ha risparmiato nulla. Mentre da un lato non si stancava di ammonire coloro che presiedevano gli affari francesi e li scongiurava a parecchie riprese di considerare a fondo l’immensità dei mali che infallibilmente avrebbe apportato la loro politica separatista, d’altra parte moltiplicava di fronte alla Francia le splendenti testimonianze del suo indulgente affetto. Aveva il diritto di sperare così, in grazia dei vincoli della riconoscenza, di poter trattenere quegli uomini politici che erano sull’orlo del precipizio e di condurli alla fine a rinunciare ai loro progetti. Ma attenzioni, sforzi, buoni uffici, tanto da parte del Nostro Predecessore che da parte Nostra, sono rimasti senza effetto. E la violenza dei nemici della religione ha finito per vincere a forza ciò a cui avevano aspirato per tanto tempo, contro i diritti di quella nazione cattolica e di tutto ciò che potevano desiderare gli spiriti che pensano saggiamente. Perciò, in quest’ora così grave per la Chiesa, nella coscienza della Nostra carica Apostolica abbiamo considerato come un dovere far udire la Nostra voce e aprire la Nostra anima a voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, a tutti voi che Noi abbiamo sempre circondato di una tenerezza particolare, ma che in questo momento, come è giusto, amiamo più teneramente che mai. È una tesi assolutamente falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa. Questa opinione si basa infatti sul principio che lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso: ed è assolutamente ingiuriosa verso Dio, poiché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane e conserva nella vita tanto loro che noi, individui isolati. Perciò noi gli dobbiamo non soltanto un culto privato, ma anche un culto sociale e onori pubblici. – Inoltre questa tesi è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale. Essa limita infatti l’azione dello Stato alla sola ricerca della prosperità pubblica in questa vita, cioè alla causa prossima delle società politiche; e non si occupa in nessun modo, come di cose estranee, della loro causa più profonda che è la beatitudine eterna, preparata per l’uomo alla fine di questa vita così breve. E pertanto, poiché l’ordine presente delle cose è subordinato alla conquista di quel bene supremo e assoluto, non soltanto il potere civile non dovrebbe ostacolare questa conquista, ma anzi dovrebbe aiutarci a compierla. – Questa tesi sconvolge pure l’ordine saggiamente stabilito da Dio nel mondo, ordine che esige un’armoniosa concordia tra le due società. Queste due società, la religiosa e la civile, hanno infatti i medesimi sudditi, sebbene ciascuna di esse eserciti su di loro la propria autorità nella sua sfera particolare. La conseguenza logica è che vi sono molte cose che dovranno conoscere sia l’una che l’altra, poiché sono di competenza di tutt’e due. Ora, se scompare l’accordo fra Stato e Chiesa, da queste materie comuni sorgeranno facilmente semi di discordia che diverranno molto acri da ambo le parti; la nozione della verità ne sarà turbata e le anime saranno inquiete. – Infine, questa tesi danneggia gravemente la stessa società civile, che non può essere né prospera né duratura quando non vi è posto per la religione, regolatrice suprema e sovrana maestra allorché si tratta dei diritti e dei doveri dell’uomo. – Così i Pontefici Romani non hanno tralasciato, secondo i tempi e le circostanze, di rifiutare, di condannare la dottrina di separazione della Chiesa e dello Stato. E notorio che il Nostro illustre Predecessore Leone XIII ha ripetutamente e chiaramente esposto quelli che dovrebbero essere, secondo la dottrina cattolica, i rapporti fra le due società. Fra esse, ha detto, “bisogna per forza che intercorra una saggia unione, unione che si può giustamente paragonare a quella che riunisce nell’uomo l’anima e il corpo“.Egli aggiunse ancora: “Le società umane non possono senza delitto comportarsi come se Dio non esistesse, o rifiutare di preoccuparsi della religione come se questa fosse cosa per loro estranea o inutile… Quanto alla Chiesa, fondata da Dio stesso, escluderla dalla vita attiva della Nazione, dalle leggi, dall’educazione dei giovani, dalla società domestica, significa commettere un gronde e pericoloso errore“. Se poi un qualsiasi Stato cristiano che si separi dalla Chiesa commette un’azione essenzialmente funesta e biasimevole, quanto si deve deplorare che la Francia si sia messa per questa strada, quando avrebbe dovuto entrarvi meno ancora di tutte le altre nazioni! La Francia, che nel corso dei secoli è stata l’oggetto di una così grande e singolare predilezione da parte di questa Sede Apostolica; la Francia della quale la fortuna e la gloria sono sempre state intimamente unite all’osservanza dei costumi cristiani e al rispetto della religione! Il medesimo Pontefice Leone XIII aveva dunque molta ragione di dire: “La Francia non saprebbe dimenticare che il suo provvidenziale destino l’ha unita alla Santa Sede con legami troppo stretti e troppo antichi perché essa voglia mai spezzarli. Da questa unione infatti sono uscite le sue vere grandezze e la sua gloria più pura… Turbare questa unione tradizionale significherebbe togliere alla Nazione stessa una porte della sua forza morale e della sua alto influenza nel mondo“.I legami che consacravano questa unione dovevano essere tanto più inviolabili in quanto così esigeva la fede giurata dei trattati. Il Concordato stretto tra il Sovrano Pontefice e il governo francese, come del resto tutti i trattati dello stesso genere che gli Stati concludono fra loro, era un contratto bilaterale che obbligava ambe le parti. – Il Pontefice Romano da una parte, il capo della Nazione francese dall’altra si impegnarono dunque solennemente, tanto per loro stessi che per i loro successori, a mantenere inviolabilmente il patto che firmavano. Ne risultava che il Concordato regolava tutti i trattati internazionali, cioè i diritti delle genti, e non poteva in nessun modo essere annullato con l’azione di una sola delle parti Contraenti. La Santa Sede ha sempre osservato con fedeltà scrupolosa gli impegni che aveva sottoscritti, e in ogni tempo ha reclamato che lo Stato desse prova della stessa fedeltà. Nessuno che giudichi imparzialmente può negare questa verità. Ora, oggi lo Stato annulla con la sua sola autorità il patto solenne che aveva concluso, e trasgredisce così alla fede giurata. E, non indietreggiando davanti a nulla per rompere con la Chiesa e liberarsi dalla sua amicizia, non esita a infliggere alla Sede Apostolica l’oltraggio che deriva da tale violazione del diritto delle genti, più di quel che esiti a turbare l’ordine sociale e politico, poiché, per la sicurezza reciproca dei loro mutui rapporti, niente interessa le nazioni quanto una fedeltà inviolabile nel sacro rispetto dei trattati. – La grande ingiuria inflitta alla Sede Apostolica con l’abrogazione del Concordato, aumenta ancora, e in modo eccezionale, se si considera la forma con la quale lo Stato ha operata l’abrogazione. È un principio ammesso senza discussioni nel diritto delle genti e osservato da tutte le nazioni, che la rottura di un trattato debba essere preventivamente e regolarmente notificata, in maniera chiara ed esplicita, all’altra parte contraente da quella che ha intenzione di denunciare il trattato. Ora, non solo nessuna denuncia di questo genere è stata fatta alla Santa Sede, ma neppure le è stata data alcuna indicazione in proposito. Di modo che il governo francese ha mancato di fronte alla Sede Apostolica dei riguardi ordinari e della cortesia che si usa anche agli Stati più piccoli. – E i suoi mandatari, che pure rappresentavano una Nazione cattolica, non hanno paura di disprezzare la dignità e il potere del Pontefice, Capo Supremo della Chiesa, quando avrebbero dovuto avere per quest’autorità un rispetto superiore a quello che ispirano tutte le altre Potenze politiche, e tanto più grande in quanto da un lato questa Potenza ha a che fare col bene eterno delle anime, e dall’altro si estende senza limiti ovunque. – Se esaminiamo in se stessa la legge che è stata promulgata, vi troviamo un’altra ragione di lamentarCi ancora più energicamente. Poiché lo Stato si separava dalla Chiesa spezzando i legami del Concordato, avrebbe dovuto, come logica conseguenza, lasciarle la sua indipendenza e permetterle di godersi in parte il diritto comune, nella libertà che lo Stato pretendeva di averle concesso. In realtà, niente di tutto questo è avvenuto: riscontriamo infatti nella legge parecchie eccezionali misure restrittive che mettono odiosamente la Chiesa sotto il dominio del potere civile. – Quanto a Noi, abbiamo provato grande amarezza nel vedere lo Stato invadere così delle materie che sono di competenza esclusiva del potere ecclesiastico; e ne piangiamo tanto più dolorosamente in quanto, dimentico dell’equità e della giustizia, ha creato in questo modo alla Chiesa di Francia una situazione crudelmente deprimente e opprimente per quel che riguarda i suoi sacri diritti. – Le disposizioni della nuova legge sono infatti contrarie alla Costituzione secondo la quale la Chiesa è stata fondata da Gesù Cristo. La Sacra Scrittura ci insegna, e la tradizione dei Padri ci conferma, che la Chiesa è il Corpo mistico di Gesù Cristo, Corpo retto da Pastori e da Dottori; cioè una società di uomini in seno alla quale si trovano dei capi che hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e per giudicare (Matt. XXVIII, 18-20; XVI, 18-19; XVIII, 18; Tit. II, 15; II Cor. X, 6; XIII, 10). Ne risulta che la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori. – San Cipriano Martire 3 esprime ammirevolmente questa verità, scrivendo: “Nostro Signore, i cui precetti dobbiamo riverire e osservare, regolando la dignità vescovile e la disciplina della sua Chiesa, disse nel Vangelo, rivolgendosi a Pietro: – Io dico a te, perché tu sei Pietro… – ecc. Così attraverso le vicende dei secoli e degli avvenimenti, l’ordinamento del Vescovado e la Costituzione della Chiesa si svolgono in modo tale che la Chiesa riposa sui Vescovi, i quali governano tutta la sua attività“. – San Cipriano sostiene che tutto ciò si fonda su una legge divina. Contrariamente a questi principi, la legge di separazione attribuisce la tutela e l’amministrazione del culto pubblico, non al corpo gerarchico divinamente istituito da Nostro Signore, ma ad un’associazione di laici. A questa associazione poi impone una forma, una personalità giuridica e per tutto quel che riguarda il culto religioso la considera come la sola che abbia dei diritti civili e delle responsabilità. Così, a questa associazione spetterà l’uso dei templi e degli edifici sacri e il possesso di tutti i beni ecclesiastici mobiliari e immobiliari; disporrà, per quanto in modo solo temporale, dei vescovati, dei presbiteri e dei seminari; amministrerà i beni, regolerà le questue e riceverà le elemosine e i legati destinati al culto religioso. Quanto al corpo gerarchico dei Pastori, se ne tace assolutamente. E se la legge prescrive che tali associazioni debbono essere costituite conformemente alle regole di organizzazione generale del culto del quale si propongono di assicurare l’esercizio, d’altra parte si ha paura di dichiarare che in tutte le contestazioni che potranno sorgere relative ai loro beni, solo il Consiglio di Stato sarà competente. Queste stesse associazioni saranno dunque, rispetto all’autorità civile, in una situazione di subordinazione; l’autorità ecclesiastica, è evidente, non avrà più su di loro alcun potere. Tutti si rendono conto alla prima occhiata di quanto tutte queste disposizioni siano offensive per la Chiesa e contrarie ai suoi diritti e alla sua costituzione divina. Senza contare che la legge non è formulata su questo punto in termini netti e precisi, si esprime in un modo vago e che può essere inteso arbitrariamente; e quindi si può temere di veder sorgere, dalla sua stessa interpretazione, le sciagure più grandi. – Inoltre questa legge è più che mai contraria alla libertà della Chiesa. Infatti, poiché, date le Associazioni di Culto, la legge di separazione impedisce ai Pastori di esercitare la piena autorità della loro carica sul popolo dei fedeli; poiché attribuisce al Consiglio di Stato la giurisdizione suprema su queste associazioni e le sottomette a tutta una serie di prescrizioni fuori del diritto comune, che rendono difficile la loro formazione e più difficile ancora la loro durata; poiché, dopo aver proclamata la libertà di culto, ne restringe l’esercizio con una quantità di eccezioni; poiché spoglia la Chiesa dell’amministrazione dei templi per investirne lo Stato; poiché impedisce la predicazione della fede e della morale cattolica e indice contro i chierici un regime penale severo e eccezionale; poiché sanziona tali disposizioni e molte altre simili, estremamente arbitrarie; che cosa fa, se non mettere la Chiesa in una soggezione umiliante e, sotto il pretesto di tutelare l’ordine pubblico, togliere a dei pacifici cittadini, che formano tuttora la grande maggioranza in Francia, il sacro diritto di praticare la loro religione? Lo Stato così offende la Chiesa, non soltanto restringendo l’esercizio del culto (al quale la legge di separazione riduce falsamente tutta l’essenziale natura della religione), ma anche ostacolando la sua influenza sempre così benefica sul popolo, e paralizzandone in mille modi l’attività. Per esempio, fra l’altro, non gli è bastato strappare alla Chiesa gli Ordini religiosi (i suoi preziosi collaboratori nel sacro ministero, nell’insegnamento, nell’educazione, nelle opere di carità cristiana), ma la priva anche delle risorse, dei mezzi umanamente necessarî alla sua esistenza e al compimento della sua missione. Oltre ai danni e alle ingiurie che abbiamo fin qui posti in rilievo, la legge di separazione compie ancora la violazione del diritto di proprietà della Chiesa e lo calpesta. Contrariamente a tutto ciò ch’è giusto, spoglia la Chiesa di gran parte di quel patrimonio che pure le appartiene a molti e sacri titoli; sopprime e annulla tutte le pie fondazioni legalmente consacrate al culto divino o alle preghiere per i morti. Quanto ai fondi che la generosità cattolica aveva istituiti per il mantenimento delle scuole cristiane e per il funzionamento di varie opere di beneficenza e di culto, li trasferisce a delle istituzioni laiche, nelle quali invano si cercherebbe la minima traccia di religione. In questo essa non commette violazione solo dei diritti della Chiesa, ma anche della volontà formale ed esplicita dei donatori e dei testatori. Inoltre è per Noi molto doloroso che, disprezzando tutti i diritti, la legge dichiari proprietà dello Stato, dei dipartimenti o dei comuni, tutti gli edifici ecclesiastici anteriori al Concordato. E se la legge ne concede l’uso indefinito e gratuito alle Associazioni di Culto, pone a tale concessione tante e tali riserve, che in realtà lascia al potere pubblico la libertà di disporne. – Abbiamo inoltre molte apprensioni per quel che riguarda la santità di quei templi, augusti asili della Maestà Divina, luoghi mille volte cari alla devozione del popolo francese, grazie ai loro ricordi. Poiché essi sono certamente in pericolo di essere profanati, se cadono in mani laiche. – La legge, sopprimendo la spesa del culto, esonera logicamente lo Stato dall’obbligo di provvedervi; e nello stesso tempo viola un impegno contratto in una convenzione diplomatica e offende gravemente la giustizia. Su questo punto non è possibile nessun dubbio, e i documenti storici stessi offrono la più limpida delle testimonianze: se il governo francese ha assunto nel Concordato l’incarico di assicurare ai membri del clero un trattamento che permettesse loro di provvedere convenientemente al loro mantenimento e a quello del culto religioso, non ha fatto certo tutto questo a titolo di gratuita concessione: vi si obbligò per risarcire almeno in parte i beni della Chiesa, dei quali lo Stato si era appropriato durante la prima Rivoluzione. D’altra parte, quando in quello stesso Concordato, per amor di pace, il Pontefice Romano s’impegnò, in nome Suo e dei Suoi successori, a non molestare i detentori dei beni che erano stati sottratti alla Chiesa, è certo che fece questa promessa solo alla condizione che il governo francese si impegnasse per sempre a dotare il clero in modo conveniente e a provvedere alle spese del culto divino. Infine (e come potremmo tacere su questo punto?), al di fuori dei danni che porta agli interessi della Chiesa, la nuova legge sarà anche molto funesta al vostro Paese. Non c’è da dubitare infatti ch’essa rovina dolorosamente l’unione e la concordia delle anime senza la quale unione e concordia nessuna nazione può vivere e prosperare. Ecco perché, soprattutto nella situazione presente dell’Europa, quest’armonia perfetta è l’oggetto dei desideri più ardenti di tutti i francesi che amano veramente il loro Paese e hanno a cuore la salvezza della patria. Quanto a Noi, seguendo l’esempio del Nostro Predecessore ed ereditando il suo particolare affetto per la vostra nazione, Ci siamo naturalmente sforzati in tutti i modi per mantenere alla religione dei vostri avi l’integrale possesso di tutti i suoi diritti fra voi: ma nello stesso tempo abbiamo sempre lavorato per rafforzarvi tutti nell’unione, mirando a quella pace fraterna della quale il vincolo più stretto è certamente la religione. Così con la più viva angoscia abbiamo visto il governo francese compiere un atto che, suscitando sul terreno religioso passioni già funestamente eccitate, sembra destinato a sconvolgere tutto il vostro Paese. – Perciò, ricordandoCi del Nostro ufficio Apostolico, e coscienti dell’imperioso dovere che Ci comanda di difendere contro ogni attacco e di mantenere nella loro integrità assoluta i diritti inviolabili e sacri della Chiesa, in virtù dell’autorità assoluta che Iddio Ci ha conferito, Noi, per i motivi sopra esposti, riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa e dello Stato, come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente ponendo il principio che la Repubblica non riconosce nessun culto. La riproviamo e la condanniamo come votata in violazione del diritto naturale, del diritto delle genti e della fede pubblica dovuta ai trattati; come contraria alla costituzione divina della Chiesa, ai suoi diritti essenziali e alla sua libertà; come rovesciante la giustizia e calpestante i diritti di proprietà della Chiesa, acquistati per molti titoli e per di più in virtù del Concordato. La riproviamo e la condanniamo come gravemente offensiva per la dignità di questa Sede Apostolica, per la Nostra persona, per il Vescovato, per il clero e per tutti i Cattolici francesi. Di conseguenza, Noi protestiamo solennemente e con tutte le Nostre forze contro la proposta, l’approvazione e la promulgazione di quella legge, dichiarando che non potrà mai essere allegata per far crollare i diritti imprescrittibili e immutabili della Chiesa. – Noi dobbiamo rivolgere e fare intendere queste gravi parole a voi, Venerabili Fratelli, al popolo francese e a tutto il mondo cristiano, per denunciare quanto è accaduto. Come abbiamo già detto, profonda è la Nostra tristezza, se misuriamo con lo sguardo i mali che questa legge sta per scatenare su un popolo cosi teneramente amato da Noi. E ancora più profondamente Ci turba il pensiero delle pene, delle sofferenze, delle tribolazioni di ogni genere che incalzano anche voi, Venerabili Fratelli, e tutto il vostro clero. Ma per evitare, in mezzo a tante inquietudini, eccessi di tristezza e momenti di scoraggiamento, abbiamo il ricordo della Provvidenza Divina, sempre misericordiosa, e la speranza mille volte realizzata che Gesù non abbandonerà la Sua Chiesa, che non la priverà mai del Suo forte appoggio. Così, Noi non abbiamo alcun timore per la Chiesa. La sua forza, come la sua immutabile stabilità, è divina: l’esperienza dei secoli lo attesta gloriosamente. Tutti conoscono infatti le innumerevoli sciagure, una più tremenda dell’altra, che si sono riversate su di lei in tutta la sua lunga storia: e là dove ogni istituzione puramente umana avrebbe dovuto soccombere, la Chiesa ha sempre acquistato nelle prove una forza più vigorosa e una più feconda opulenza. – Quanto alle leggi dirette a perseguitarla, la storia insegna, e la Francia stessa in tempi abbastanza recenti ha attestato che tali leggi, nate dall’odio, finiscono sempre per essere saggiamente abrogate, quando diviene palese il danno che ne deriva agli Stati. Piaccia a Dio che coloro che in questo momento sono al potere in Francia, seguano presto a tale riguardo l’esempio di coloro che in questo li precedettero! Piaccia a Dio che, applauditi da tutti i buoni, essi non tardino a rendere alla religione, sorgente di civiltà e di prosperità per i popoli, gli onori che le sono dovuti e la libertà. – In attesa, e per tutto il tempo della persecuzione, i figli della Chiesa “rivestiti con armi di luce” (Rom. XIII, 12),dovranno agire con tutte le loro forze per la verità e la giustizia; è il loro dovere sempre, e oggi più che mai. – In queste sante lotte, o Venerabili Fratelli, voi che dovete essere i maestri e i duci di tutti gli altri, apporterete tutto l’ardore di quello zelo vigile e infaticabile del quale in ogni tempo i Vescovi francesi hanno fornito a loro lode prove così ben conosciute da tutti. Ma soprattutto Noi vogliamo (poiché è cosa di suprema importanza) che in tutto ciò che intraprenderete per la difesa della Chiesa, vi sforziate di realizzare una perfetta unione di cuore e di volontà. – Siamo fermamente decisi a darvi a tempo opportuno delle istruzioni pratiche, perché vi servano di regola di condotta sicura, in mezzo alle grandi difficoltà del momento attuale; e siamo sicuri fin da ora che ad esse vi conformerete fedelmente. Proseguite ciononostante la vostra opera salutare; ravvivate il più possibile la pietà tra i fedeli; promuovete e divulgate sempre di più l’insegnamento della dottrina Cristiana; preservate tutte le anime Che vi so no affidate dagli errori e dalle seduzioni che oggi s’incontrano dappertutto: istruite, prevenite, incoraggiate, consolate il vostro gregge, adempite infine, rispetto a questo, tutti i doveri che vi impone la vostra carica pastorale. In quest’opera, il vostro clero vi sarà certamente collaboratore infaticabile; è ricco di uomini notevoli per devozione, scienza, attaccamento alla Sede Apostolica, e sappiamo che è sempre pronto a dedicarsi completamente, sotto la vostra guida, al trionfo della Chiesa e alla salvezza eterna del prossimo. – Inoltre i membri del vostro clero comprenderanno di certo che in questa bufera debbono essere animati dagli stessi sentimenti che furono un tempo nel cuore degli Apostoli; saranno felici di essere stati ritenuti degni di soffrire persecuzioni per il nome di Gesù (Act. V, 41).Rivendicheranno dunque valorosamente i diritti e la libertà della Chiesa, ma senza offendere alcuno. Inoltre, badando a conservare la carità, come è dovere soprattutto dei ministri di Gesù Cristo risponderanno all’iniquità con la giustizia, agli oltraggi con la dolcezza e ai maltrattamenti con le buone azioni. – E ora Ci rivolgiamo a voi, Cattolici di Francia; che la Nostra parola giunga a voi tutti come testimonianza della tenera benevolenza con la quale Noi continuiamo ad amare il vostro Paese, e come un conforto in mezzo alle terribili sciagure che dovrete subire. Voi conoscete lo scopo delle empie sètte che curvano le vostre teste sotto il loro giogo, poiché tale scopo esse stesse l’han dichiarato con cinica audacia: decattolicizzare la Francia. Esse vogliono sradicare completamente dai vostri cuori la fede che ha coperti di gloria i vostri padri, che ha fatto grande e prospera la vostra patria fra le altre nazioni, che vi sostiene nella prova, che conserva la tranquillità e la pace del vostro focolare e che vi apre la strada verso l’eterna felicità. Con tutta la vostra anima, voi lo capite, dovete difendere questa fede: ma siate persuasi che ogni fatica, ogni sforzo sarà vano se voi tenterete di respingere gli assalti senza essere fortemente uniti. Abolite dunque tutti i germi di discordia, se fra voi ve ne sono. E fate in modo, che, sia nel pensiero come nell’azione, la vostra unione sia cosi salda, quale dev’essere fra uomini che combattono per la medesima causa, soprattutto se questa causa è di quelle per il trionfo delle quali ciascuno deve sacrificare volentieri una parte delle proprie opinioni. Se volete, nel limite delle vostre forze, e come è vostro imperioso dovere, salvare la religione dei vostri padri dai pericoli che corre, bisogna assolutamente che spieghiate grande valore e generosità. Noi siamo sicuri che voi avete tale generosità; e mostrandovi generosi verso i ministri di Dio, indurrete Dio a mostrarsi sempre più generoso verso di voi. – Quanto alla difesa della Religione, se volete intraprenderla in modo degno di lei e proseguirla bene e utilmente, due cose soprattutto importano dovete prima di tutto conformarvi così fedelmente ai precetti della legge cristiana che le vostre azioni e tutta la vostra vita onorino la fede che professate; inoltre dovete restare strettamente uniti a coloro che hanno il dovere di vegliare quaggiù sulla religione, ai vostri sacerdoti, ai Vescovi e soprattutto alla Sede Apostolica, che è il centro della fede cattolica e di tutto ciò che si può fare in nome di questa. Così armati per la lotta, marciate senza timore alla difesa della Chiesa; ma abbiate cura che la vostra fiducia sia tutta in Dio, in quel Dio del quale andrete a sostenere la causa, e pregatelo senza stancarvi perché vi aiuti – Quanto a Noi, saremo uniti a voi col cuore e con l’animo per tutto il tempo in cui dovrete lottare contro il pericolo; divideremo con voi tutto: fatiche, pene, sofferenze; e mentre rivolgeremo a Dio, fondatore e protettore della Chiesa, le più umili e insistenti preghiere, lo supplicheremo di chinare sulla Francia uno sguardo misericordioso, di strapparla alla burrasca scatenata attorno a lei, e di renderla presto, per intercessione di Maria Immacolata, alla pace e alla tranquillità. Come augurio di queste grazie Celesti e per testimoniarvi il Nostro particolare affetto, con tutto il cuore impartiamo l’Apostolica Benedizione a voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero e a tutto il popolo francese.

Roma, presso San Pietro, l’11 febbraio 1906, anno III del Nostro Pontificato.

DOMENICA DELLA FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA (2020)

DOMENICA DELLA FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA (2020)

Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

« Non conviene forse – dice Leone XIII – celebrare la nascita regale del Figlio del Padre Supremo? Non forse la casa di David, e i nomi gloriosi di questa antica stirpe? È più dolce per noi ricordare la piccola casa di Nazaret e l’umile esistenza che vi si conduce: è più dolce celebrare la vita oscura di Gesù. Lì il Fanciullo Divino imparò l’umile mestiere di Giuseppe e nell’ombra crebbe e fu felice di essere compagno nei lavori del falegname. Il sudore – egli dice – scorra sulle mie membra, prima che il Sangue le bagni; che questa fatica del lavoro serva d’espiazione per il genere umano. Vicino al divino Fanciullo è la tenera Madre; vicino allo Sposo, la Sposa devota, felice di poter sollevare le pene agli affaticati con cura affettuosa. O voi, che non foste esenti dalle pene e dal lavoro, che avete conosciuto la sventura, assistete gl’infelici che l’indigenza affligge e che lottano contro le difficoltà della vita  » (Inno di Mattutino). – In questa umile casa di Nazaret Gesù, Maria e Giuseppe consacrarono, con l’esercizio delle virtù domestiche, la vita familiare (Or.). Possa la grande Famiglia che è la Chiesa ed ogni focolare cristiano esercitare in terra le virtù che esercitò la Sacra Famiglia, per meritare di vivere nella sua santa compagnia in cielo (Or.). – Benedetto XV, volendo assicurare alle anime il beneficio della meditazione e dell’imitazione delle virtù della Sacra Famiglia, ne estese la solennità alla Chiesa universale e la fissò alla Domenica fra l’Ottava dell’Epifania o al sabato che la precede.

Sanctae Familiae Jesu Mariae Joseph

Incipit

In nómine Patris, ✝ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Prov XXIII: 24; 25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Ps LXXXIII: 2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.

 [Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore]

Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Oratio

Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cónsequi sempitérnum: [O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col III: 12-17
Fratres: Indúite vos sicut elécti Dei, sancti et dilécti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum.
 [Fratelli: Come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza, sopportandovi e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno ha da dolersi di un altro: come il Signore vi ha perdonato, così anche voi. Ma al di sopra di tutto questo rivestitevi della carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché siete stati chiamati a questa pace come un solo corpo: siate riconoscenti. La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, istruitevi e avvisatevi gli uni gli altri con ogni sapienza, e, ispirati dalla grazia, levate canti a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali. E qualsiasi cosa facciate in parole e in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesú Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui].

Graduale

Ps XXVI: 2
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ.
Ps LXXXIII: 5. Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.

Alleluja

Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in sǽcula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja, Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia,
Isa XLV: 15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja. Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
S. Luc II: 42-52
Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.

[Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini].

OMELIA

 [A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VI.

“E quando Egli (Gesù) fu arrivato all’età di dodici anni, essendo essi andati a Gerusalemme, secondo il solito di quella solennità, allorché, passati quei giorni, se ne ritornavano, rimase il fanciullo Gesù in Gerusalemme; e non se ne accorsero i suoi genitori. E pensandosi ch’Egli fosse coi compagni, camminarono una giornata, e lo andavano cercando tra i parenti e conoscenti. Né avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme a ricercarlo. E avvenne, che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, che sedeva in mezzo ai dottori, e li ascoltava, e li interrogava. E tutti quei, che l’udivano, restavano attoniti della sua’ sapienza e delle sue risposte. E vedutolo (i genitori) ne fecer le meraviglie. E la Madre sua gli disse: Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre e io addolorati andavamo di te in cerca. Ed Egli disse loro: Perché mi cercavate voi? Non sapevate come nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? Ed eglino non compresero quel che aveva lor detto. E se n’andò con essi, e fe’ ritorno a Nazareth, ed era ad essi soggetto. E la Madre sua di tutte queste cose faceva conserva in cuor suo. E Gesù avanzava in sapienza, in età, in grazia appresso a Dio e appresso agli uomini” (S. Luc. II, 42-52). Dopo che nostro Signor Gesù Cristo per scampare ai furori di Erode era stato portato in Egitto ed ivi aveva dimorato alquanto tempo, cessato il pericolo per la morte di quel barbaro re, fu ricondotto nella Palestina, e con Maria e Giuseppe andò in Galilea ad abitare nella città di Nazareth. E fu in questa piccola città, dagli Ebrei tenuta in nessun conto, che Gesù passò d’allora fino ai trent’anni la sua vita privata. Ma come il Vangelo circondò di misterioso silenzio gli anni, che Gesù passò esule in Egitto, così di silenzio anche più misterioso circondò gli anni da Lui passati nella vita privata a Nazareth. Un solo fatto di questa vita ci narra, il quale è come uno splendido raggio di luce in mezzo ad una completa oscurità. Ed è questo fatto, che ci invita a considerare la Chiesa nel Vangelo di oggi. In esso noi potremo prendere varie lezioni, e tutte di grandissima importanza.

1. Gesù era arrivato all’età di dodici anni, ed essendo giunta la festa di Pasqua, Maria e Giuseppe recandosi secondo il solito a Gerusalemme per celebrarla, condussero con loro Gesù. E quando furono passati i giorni di quella solennità, ripresero a fare il viaggio di ritorno. Ma senza che Maria e Giuseppe se ne avvedessero, Gesù rimase in Gerusalemme. Camminarono adunque i Santi Sposi per tutta una giornata, pensandosi che fosse coi compagni di viaggio. – Il che non ci deve recar meraviglia, giacché era costume fra gli Ebrei, che, sia nell’andare, come nel ritornare da Gerusalemme, formassero tanti gruppi separati di uomini e di donne, andando i fanciulli indifferentemente con gli uni o con le altre. È dunque verisimilissimo, che Maria credesse Gesù essere con Giuseppe, e dal canto suo Giuseppe immaginasse, che Gesù fosse con Maria. Ma come giunsero ad un punto del viaggio, in cui forse si faceva una fermata e gli uomini si riunivano alle loro donne per prendere insieme qualche po’ di ristoro, ecco che Maria e Giuseppe riscontratisi, si avvedono che Gesù non era con loro. Lo cercano subito tra i parenti e gli amici, ma non lo trovano. Chi può dire allora il dolore che venne a colpire il cuor di Maria e quello di S. Giuseppe? Perdere Gesù!… e poteva loro capitare una disgrazia più grande? Con la loro immaginazione così viva e fatta più accesa dalla sventura, andavano congetturando mille cose diverse di Lui, e tutte tristi. Sapevano che Gesù prendendo l’umana natura, ne aveva accettato altresì tutti i bisogni, tutte le prove, tutta la miseria. Epperò non poteva essere, che essendosi smarrito, ora si trovasse a patire la fame, la sete, il freddo, i disagi della vita? Pertanto, prontamente ritornarono indietro a Gerusalemme a ricercarlo. E chi sa dire le sollecitudini, che a tal fine adoperarono? È certo che ad ogni persona che incontravano, andavano domandando: Avete visto Gesù? un giovane di dodici anni, bello come il Paradiso? È certo, che di tanto in tanto, massime nei luoghi boscosi, facevano ripetutamente risuonare la voce gridando: Gesù! Gesù! È certo, che passando vicino a qualche luogo dirupato gettavano ansiosamente lo sguardo giù nei burroni, se caso mai vi fosse caduto. E quando poi rientrarono in Gerusalemme non vi furono strade, non vi furono piazze, che essi non percorressero da capo a fondo, in largo e in lungo; e non vedendolo in nessun luogo cominciarono a battere alle porte di quelle case, dove potevano supporre, che Gesù fosse stato raccolto. E ciò per tre giorni senza darsi pace mai, sempre con le lagrime agli occhi. Che desolante contrasto tra il dolore di Maria e di Giuseppe nell’avere perduto Gesù, la loro sollecitudine per ritrovarlo e il niun affanno, che provano certi Cristiani, i quali pure lo hanno perduto. Le Sacre Scritture ci insegnano, che noi per la grazia di Dio possediamo Gesù dentro i nostri cuori. Ma quando si commette il peccato mortale, questo caro Gesù si perde. E sapete che vuol dire perdere Gesù? Vuol dire perdere Iddio, che pur siamo destinati a possedere eternamente, vuol dire perdere la sua grazia e la sua amicizia, vuol dire perdere il merito di tutte le opere buone compiute pel passato, vuol dire chiudersi le porte del Paradiso e spalancarsi quelle dell’inferno, vuol dire diventare con l’anima brutta, nera, schifosa, vuol dire cadere nella schiavitù e sotto il potere del demonio, vuol dire infine rendersi inabile ad operare qualsiasi cosa, che giovi per la vita eterna; vuol dire tutto questo. Eppure vi hanno degli insensati, i quali vanno burbanzosi ripetendo: Peccavi et quid mihi accidit triste? (Eccl. V, 4). Ho peccato, e che cosa mi è accaduto di triste? Ah se quando si commette il peccato mortale si perdesse la sanità, l’onore degli uomini, una gran somma di danaro, che dico una gran somma? si perdesse anche solo uno scudo, lo si riterrebbe per una gran disgrazia e gli si piangerebbe sopra e si farebbe di tutto per ritrovarlo; ma perché col peccato mortale si è perduto Gesù, non solo non si piange, non lo si ricerca, ma talvolta si continua forsennatamente a ridere e a stare allegri. Quale stoltezza e quale audacia! Eppure come concepire anche solo un Cristiano, che s’addormenta la sera senza pensar neppure a fare un atto di contrizione, sapendo che nel giorno ha offeso Iddio mortalmente ed ha perduto la sua grazia? Come comprendere coloro, che, pur credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Dio per ridonare la sua grazia a chi l’ha perduta, amano meglio rimanere e sprofondarsi nell’abisso della colpa per i giorni, per le settimane, per i mesi, e talvolta anche per gli anni? Ah, miei cari! non vogliate mai mettervi nel numero di questi sventurati. E se per disgrazia vi è accaduto di perdere Gesù e la sua grazia, ricercatela tosto col pentirvi del vostro peccato e col fare una santa confessione.

2. Infine Giuseppe e Maria, dopo di avere inutilmente cercato Gesù per tre giorni e tre notti intere nelle vie e nelle case di Gerusalemme, si recarono a ricercarlo nel tempio. E là propriamente lo ritrovarono, che sedeva in mezzo ai dottori della legge, udendo ed interrogando i medesimi e tutti facendo stupire per la sapienza delle sue risposte. Al vederlo restarono presi da meraviglia. E Maria subito gli disse: « Figlio, perché ci hai fatto tu questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo in cerca di te ». Con le quali parole Maria non intendeva già di muovere a Gesù un rimprovero, ma bensì di fare nient’altro che un lamento di tenerezza e nel tempo stesso manifestare la gioia immensa, che essa e Giuseppe, a cui essa dà qui l’onorifico nome di padre di Gesù, provavano nell’averlo ritrovato. Ora qual è la risposta che diede Gesù al tenero lamento di Maria? Uditela: Egli disse: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che io debbo occuparmi in ciò che spetta al Padre mio? In questa risposta era racchiuso un ammaestramento così grande che lì per lì, come osserva il Vangelo, Maria e Giuseppe non compresero ciò che Gesù aveva lor detto. Difatti con tali parole nostro Signor Gesù Cristo volle dettarci la gran legge, che noi dobbiamo seguire nelle nostre relazioni con gli uomini, di fronte a Dio. Molte sono le relazioni, che noi possiamo avere quaggiù con gli altri uomini: relazioni di superiorità coi nostri inferiori, di sudditanza coi nostri superiori, di parentela col nostro padre, con la nostra madre, coi nostri fratelli, con gli altri parenti, di amicizia con gli amici, di benevolenza con tutto il prossimo, ed altre simili. In tutte queste relazioni Iddio stesso con la sua santa legge ci impone dei rispettivi doveri, quelli cioè di governare saviamente gl’inferiori, di stare sottomessi ai superiori, di obbedire e rispettare i genitori, di far volentieri qualche sacrifizio per gli amici, di non negare al nostro prossimo quei piaceri, che gli possiamo fare, ed altri ancora di questo genere. Ma sebbene sia vero, che lo stesso Dio ci imponga questi doveri, di modo che non li possiamo trasgredire senza colpa, è pur verissimo, che anzitutto dobbiamo obbedire a Dio ed occuparci di quelle cose, che riguardano Lui, e che per obbedire a Dio ed occuparci delle cose sue dobbiamo, in caso che ciò sia richiesto, lasciare di contentare gli uomini e ben anche opporsi alle loro esigenze. Or ecco la gran legge che Gesù volle farci conoscere con quelle parole rivolte a Maria e Giuseppe: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose spettanti al Padre mio? E quanto sia importante questa legge è facile a capirsi da ciò, che è la prima legge, che Gesù Cristo nel Santo Vangelo con la sua parola divina promulga. Perché sebbene dovessero essere grandi le cose, che Gesù aveva dette ai dottori, tuttavia il Vangelo non le nota; e invece nota con precisione e narra per disteso ciò, che Egli disse a Maria, precisamente perché si trattava d’una cosa di massima importanza. Ecco dunque ciò, che dobbiamo imprimere nella nostra mente secondo l’insegnamento, che ci dà Gesù in quest’oggi: che Iddio deve andare innanzi a tutti, innanzi alle autorità della terra, innanzi ai padroni e superiori, innanzi agli amici e conoscenti, innanzi agli stessi autori dei nostri giorni. Quando perciò accadesse che le autorità della terra, i padroni, i superiori, gli amici, e ben anche il nostro padre e la nostra madre volessero impedirci di adempiere i nostri doveri verso Dio e non permetterci, ad esempio, di essere veri Cristiani Cattolici, ossequenti al Papa ed ai Vescovi, di andare alla domenica ad ascoltare la S. Messa e di accostarci di tratto in tratto ai SS. Sacramenti, di seguire la vocazione, con la quale il Signore ci ha chiamati a servirlo da vicino nel Santuario o nello stato religioso, noi dobbiamo essere pronti a somiglianza di Gesù a rispondere con le parole e più ancora coi fatti: Prima devo occuparmi delle cose che riguardano a Dio: più che agli uomini devo studiarmi piacere a Lui. Non cercatemi adunque, vale a dire non tentatemi, non distoglietemi dal mio primo dovere. È così appunto, che hanno risposto gli Apostoli a coloro, che volevano loro impedire di predicare Gesù Cristo; è così, che hanno risposto i martiri a quelli, che li volevano costringere a rinnegare la fede; è così, che hanno risposto i Vescovi e i Papi ai potenti della terra, che volevano da loro concessioni dannose alla causa di Dio; è così, che hanno risposto tanti uomini grandi, come un Tommaso Moro, a coloro, che pretendevano di essere accontentati nelle loro ingiuste voglie; è così ancora, che hanno risposto tanti giovani e tante donzelle, quali un S. Luigi Gonzaga, un S. Stanislao Kostka, un S. Francesco di Sales, una S. Teresa, una S. Francesca Chantal e cento e mille altri, a quei parenti, che loro volevano impedire di seguire la loro vocazione e di farsi religiosi. Sappiamo pertanto, nel caso che fosse necessario, seguire anche noi questi sì nobili esempi, e dire anche noi a chicchessia le parole di Gesù: In his quæ Patris mei sunt oportet me esse!

3. Ma ecco che dopo averci dato questo grande ammaestramento con la sua parola, Gesù, secondochè si chiude il Vangelo d’oggi, ce ne dà ancora un altro con l’esempio. E ciò, che più dobbiamo notare si è, che trattasi di un ammaestramento qui al tutto impensato. Giacché il Vangelo dopo averci riferita la risposta di Gesù a Maria e Giuseppe, con la quale Egli dice, che non dovevano cercarlo, dovendo occuparsi delle cose di Dio, soggiunge poi, che tornò con essi a Nazaret, e stava a loro soggetto: Descendit cum eis et venit Nazareth; et erat subditus illis. Ora questo non è un dirci chiaramente, che dopo la sudditanza, che dobbiamo a Dio, la prima, che le tien dietro, è quella, che dobbiamo ai nostri genitori? Sì, senza alcun dubbio. Perciocché bisogna riflettere bene a che cosa significa questa semplice espressione et erat subditus illis, che tutta compendia la vita di Gesù Cristo dai dodici ai trent’anni. Benché in apparenza dica una cosa di poco momento, in realtà tuttavia ne dice cose grandi assai. Ed invero: Ed era loro soggetto vuol dire, come osservano S. Agostino e S. Bernardo, che Egli, Gesù Cristo, il quale con tutta verità si dichiarò uguale a Dio, ed è Dio Egli stesso, Colui, che fabbricò il cielo e la terra, era soggetto ai parenti, agli uomini, alle creature della terra con quella sudditanza, che si immedesima con la più pronta, più umile e più affettuosa obbedienza. Immaginatelo adunque quel caro Gesù sempre intento a fare la volontà di Maria e di Giuseppe, a prevenirla anzi, ed aiutarli in tutte le loro faccende con una grazia e un’allegrezza mirabile. Epperò eccolo talvolta, per obbedire a Maria ed aiutarla nelle fatiche più pesanti della casa, ora accendere il fuoco, ora lavare con le sue mani divine le povere stoviglie, ora prendere con dolce violenza la scopa di mano a Maria e mettersi Egli a pulire la casa, ora correre sollecito al pozzo, che ancora presentemente si fa vedere presso di Nazaret, per attingere l’acqua. Eccolo, per obbedire a Giuseppe ed aiutarlo ne’ suoi lavori, ora segar qualche trave, ora piallar qualche tavola, ora verniciare quel mobile, ora uscire a far delle compere, ora a prendere delle misure, ed ora attendere ad altre cose somiglianti. – Ma, perché mai in Gesù Cristo una sì umile sudditanza? La ragione è manifesta. Se Gesù, dice Origene, volle onorare Maria e Giuseppe con quell’onore di star loro soggetto, si fu propriamente per dare a tutti i figliuoli l’esempio, affinché stiano sottomessi ai loro genitori e ricordino bene, che questo, dopo i comandamenti che riguardano Dio, è il primo che riguarda gli nomini. Importa adunque, che tutti i figliuoli prendano da Gesù questa importante lezione. E notate bene, o carissimi, che ho detto tutti i figliuoli a bello studio, perché non si pensi che questa lezione si convenga solamente ai bambini, ai fanciulli ed a coloro, che vivono in famiglia, ma perché si ritenga che essa conviene, e assai assai, anche agli adulti, anche a quelli che per ragione della loro educazione si trovano in qualche istituto, perché anzi tutto devono compiere in esso verso dei loro maestri e superiori i doveri, che hanno coi genitori, poscia perché la loro condotta riferita ai genitori può esser loro causa di consolazione e di dolore, da ultimo perché i doveri, che hanno coi genitori, continueranno in tutta la loro forza, anche allora che saranno usciti dall’istituto. Guai a coloro, i quali perché sono giunti ad una certa età e si sentono pieni di vigoria e di vita, non vogliono più sottostare al padre ed alla madre, ne sdegnano gli avvisi, le raccomandazioni ed i comandi, vivono come loro piace, vogliono insomma farla essi da padroni! La mano del Signore non tarderà a farsi pesante sopra il loro capo per castigarli terribilmente anche in questa vita. Nella Sacra Scrittura (Eccl. III, 18) è chiamato infame colui, che abbandona suo padre ed è dichiarato maledetto da Dio colui, che esaspera la sua madre. E nell’antica legge dettata da Dio a Mosè era ordinata la punizione di morte non solo contro di quel figlio snaturato, che alzasse la mano a percuotere i genitori, ma eziandio verso di chi mancava loro di rispetto col proferire ingiurie e maledizioni contro di essi: Qui maledixerit patri suo, vel matri, morte moriatur (Esod. XXI, 19). E con quali terribili esempi ha dimostrato Iddio quanto lo irriti la mancanza di rispetto verso i genitori! Cam mancò di rispetto al suo vecchio padre Noè, e Dio maledisse alla sua discendenza: maledictus Chanaan (Gen. IX, 25), e il segno di quella tremenda maledizione sta tuttora scolpito sopra di essa. Ofni e Finees sprezzarono gli avvisi del loro padre Eli, e tutti e due morirono nello stesso giorno uccisi in battaglia. Assalonne si ribellò al suo padre Davide, e finì di mala morte, appeso ad una quercia e trapassato il cuore dalla lancia di Gioabbo. E quanti altri fatti somiglianti si potrebbero citare! – Io so bene, che taluni vorrebbero esimersi dal dovere di rispettosa sudditanza verso dei loro genitori e superiori col dire, che sono troppo esigenti e noiosi! Ma a costoro io vorrei chiedere: È possibile ricordare le esigenze e le noie della nostra prima educazione e poi non sopportare in pace qualche po’ di esigenza e di noia da parte dei nostri genitori e superiori? O figlio, che mi ascolti, riduciti un po’ alla mente quando eri debole, impotente, senza forza, senza l’uso della ragione, senza parola. Che sarebbe stato di te, se allora la tua madre col pretesto, che le davi noia e fastidio, ti avesse abbandonato? Povera madre! Tutt’altro che abbandonarti! Essa dopo di averti ricevuto dalle mani di Dio nei più acerbi dolori, ti ha dato il suo latte, ti ha nutrito, ti ha cullato, ti ha vegliato di giorno, di notte, rompendo tante volte i suoi sonni, ha guidato i tuoi primi passi, ti ha insegnato le prime parole, ha sopportato i tuoi capricci e quando poi ti ha incolto una grave malattia, si è piantata lì al tuo letticciuolo e non ti ha più abbandonato un istante; ed a questa madre tu ora ardisci pretendi mancar di rispetto? Va là, sciagurato, che non hai cuore. E tuo padre? Sai tu, figliuolo, quel che gli hai costato? Seduto da mane a sera intrisichiva nell’ufficio, nei campi bagnava di sudore i solchi, tra il fumo di un’officina logorava la vita sempre tra le ansietà, tra le sollecitudini e persino tra gli stenti e le privazioni, e tutto, tutto per te, per tirarti su, per metterti all’onor del mondo, per procacciarti anche un po’ di fortuna. E dopo tutto ciò, perché ora tu sei in forze e puoi fare da te, non vuoi più riconoscere per superiore tuo padre e vuoi comandargli tu? E i tuoi superiori? i tuoi maestri? Per educarti alle scienze, alle arti e alla virtù, consacrano il loro tempo, sacrificano la loro libertà, si riducono quasi in ischiavitù, pazientemente tollerano il disgusto e la noia di spesso ripetere le stesse cose, gli stessi insegnamenti e le stesse raccomandazioni; e tu non vorresti farne caso, e fors’anche mancar loro di gratitudine e di rispetto, deriderli, disprezzarli? Ahimè! temi e trema! Eadem mensura qua mensi fueritis, remetietur et vóbis (S. Luc. VI, 34). Quella misura, che adoperi adesso verso di tuo padre e di tua madre, e de’ tuoi superiori, Dio permetterà che altri un giorno l’usino verso di te. Ah! carissimi miei, a somiglianza di Gesù, rispettiamo, obbediamo, amiamo i nostri genitori e quelli che ne tengono le veci. Se noi compiremo esattamente questo dovere, potremo anche noi meritare il bell’elogio, che, terminando, fa di Gesù il Vangelo di questa mattina: E Gesù avanzava in sapienza, in età, in grazia appresso a Dio e appresso agli uomini. Sì, lo star soggetti ai genitori e superiori, tutt’altro che avvilirci e farci comparire da poco, ci mostrerà veri sapienti e ci farà crescere nella stima sia presso a Dio, come presso agli uomini.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i doveri de genitori verso i loro figliuoli.

Jesu proficiebat sapientia, ætate et gratia apud Deum et homines. Luc. II.

Ah! quanto, sarebbe mai a desiderare fratelli miei, che si potesse in un senso rendere la stessa testimonianza dei fanciulli dei nostri giorni che il santo Vangelo rende del bambino Gesù allorché ci dice che questo divin fanciullo cresceva in sapienza ed in grazia a misura che cresceva in età!, Quanto pochi sono quelli che meritano questo elogio! Non possiamo forse dire all’opposto che i più, a misura che crescono in età, crescono altresì in malizia? Oimè! Oimè! appena conservano la loro innocenza sino all’età di ragione! Ma appena giunti sono a questa età che, allettati dal cattivo esempio dei loro simili, s’impegnano nelle strade dell’iniquità. D’onde proviene questa disgrazia? Da due cagioni, che rendono genitori e figliuoli ugualmente colpevoli: i genitori non hanno cura di dare ai loro figli una convenevole educazione; trascurano di coltivare queste giovani piante che il Signore ha loro confidate: o se i genitori virtuosi impiegano le loro attenzioni per ben allevare i loro figliuoli, questi le rendono inutili con la indocilità e mancanza di sommissione ai propri genitori. Tali sono le cagioni ordinarie dei disordini che regnano fra gli uomini. È dunque molto a proposito apprendere agli uni e agli altri le loro obbligazioni, proponendo loro per modello la santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. Era si santa questa famiglia che il tutto in essa facevasi nella più alta perfezione. Oltre le sublimi virtù che praticavano al di dentro, le quali non erano conosciute che da Dio solo, essi ne praticavano ancora al di fuori per edificar il prossimo; e per questo andavano ogni anno in Gerusalemme, secondo quel che praticavasi, alla festa della pasqua, per rendere a Dio i loro doveri nel suo santo tempio. Il santo fanciullo Gesù era anche sommesso ai suoi genitori: Erat subditus illis (Luc. II). Oh quanto sante e felici sarebbero le famiglie, se formate esse fossero sul modello di questa; se i genitori imitassero le virtù della santa Vergine e di S. Giuseppe, e se i figliuoli si proponessero per modello la vita del santo fanciullo Gesù! Se i genitori adempissero ai loro obblighi a riguardo dei loro figliuoli , il Cristianesimo non sarebbe più che una società di santi: si vedrebbe fiorire la Religione, la pace e la felicità regnare in tutti gli stati. Egli è dunque un soggetto dei più importanti a trattare, cioè i doveri dei genitori riguardo ai loro figliuoli e i doveri dei figliuoli riguardo ai loro genitori; il che farà la materia di due istruzioni. Noi cominceremo in quest’oggi dai doveri dei genitori. Per apprendere ai padri e alle madri, quali sono i loro doveri riguardo ai loro figliuoli: convien distinguere in questi figliuoli due sorta di bisogni cui i padri e le madri sono obbligati di provvedere; cioè i bisogni temporali e  i bisogni spirituali: i primi riguardano la vita del corpo, e gli altri la salute dell’anima. I padri e le madri sono dunque obbligati di provvedere alla vita dei loro figliuoli con l’alimento, la sussistenza ed un convenevole impiego; lo vedrete nel primo punto. Devono altresì procurare la salute delle loro anime con l’istruzione, la correzione ed il buon esempio; ve lo dimostrerò nel mio secondo punto. Tale è, padri e madri, l’estensione dei vostri doveri; ed è per adempierli che Dio  vi ha conferita la sua autorità nelle vostre famiglie evi ha stabiliti in esse i ministri della sua provvidenza.

I . Punto. Non mi tratterrò io qui a provare ai padri e alle madri l’attenzione e la cura che essi debbono alla vita naturale dei  loro figliuoli. È questo un sentimento che la natura ispira alle nazioni le più barbare, alle bestie le più feroci. Mi contenterò solo di prescrivere alcune regole di prudenza che debbono seguire per evitare due estremi egualmente pericolosi in cui cade un gran numero di persone, le quali o non hanno abbastanza ovvero hanno troppo amore pei loro figliuoli. Comincio subito dai primi momenti in cui sono formati i figliuoli nel seno della loro madre. Si è in quel tempo critico che devono i genitori prendere tutte le precauzioni possibili per conservare la vita dei propri figliuoli, schivando tutto ciò che loro può nuocere, come opere troppo faticose, pesi troppo gravi, cibi dannosi, e soprattutto eccessi di passioni capaci di soffocare quei frutti ancor teneri, come sono gli affanni, la collera, i trasporti, cui non debbono le madri abbandonarsi, né i loro mariti dare occasione. Le disgrazie di questi figliuoli, che non vedranno mai Dio, perché saranno stati privi della grazia del Battesimo, non sono sempre gli effetti del caso, ma piuttosto della negligenza dei genitori a prendere le misure necessarie per evitare quella disgrazia; siccome questi figliuoli hanno contratta la macchia del peccato per una volontà che non è loro propria, dire si può che Dio vuole altresì salvarli con lo stesso mezzo, cioè per via della volontà dei loro genitori; di modo che se questi genitori usano tutte le precauzioni necessarie per conservar la vita ai loro figliuoli, sia schivando ciò che può loro nuocere, sia menando una vita santa e cristiana, questi figliuoli avranno la bella sorte di vedere non solo la luce del giorno, ma ancora di nascere a quella della grazia. – Guardatevi dunque, padri e madri, di privare coi vostri peccati i vostri figliuoli d’un sì gran bene: ma vivete pel timor di Dio; siate sempre in grazia con Lui, affine di comunicare a quei frutti nascenti i semi di virtù che trarranno sopra di loro la benedizione del Signore. Pregatelo spesso per essi, raccomandateli ai vostri Angeli custodi per difenderli dalla potenza del demonio sempre pronto a portar loro i suoi colpi mortali, e subito nati affrettatevi di farli rigenerare nelle acque del Battesimo: oltreché la vita dei fanciulli in questo stato è oltre modo delicata, non si potrebbe avere troppa sollecitudine per cavarli dalla funesta schiavitù del peccato in cui sono ridotti. Voi dovete di poi nutrirli, mantenerli sin tanto che siano in istato di procacciarsi la loro vita o di prendere uno stabilimento; al che impiegare dovete le vostre cure e diligenze, secondo le regole che v’ispirerà la cristiana prudenza. Se non avete beni a lasciar loro, apprendete ad essi a procacciarsi la vita con una professione onesta, e vivere non li lasciate nell’ozio, come fanno tanti e tanti genitori che si contentano di mettere al mondo figliuoli che di poi abbandonano e a cui non lasciano altra eredità che la miseria, sia per la lor negligenza nel farli lavorare, sia dissipando in dissolutezze ed in spese inutili quel che per essi risparmiare dovrebbero. – Oh crudeltà inaudita! Qual bene, o piuttosto qual male, non fate voi ai vostri figliuoli, padri barbari, dando loro una vita che gli sarà a carico? Ma guardatevi altresì di lasciarvi acciecare dall’amor disordinato, come fanno certi genitori che per stabilire i loro figliuoli con vantaggio si servono d’ogni sorta di mezzi; se buoni poi siano o cattivi, poco loro importa, purché accumulino del bene, sono contenti: ma non vedono i ciechi che, ammassando quel bene con mezzi ingiusti, accumulano su di essi e sui figliuoli tesori di collera, e un diluvio di disgrazie, che li farà tutti perire? Irruet super te calamitas (Isai. XLVII). Guardatevi ancora che 1′ amore pei vostri figliuoli non sia alterato per certe preferenze che si danno agli uni sopra gli altri; il che cagiona tra essi gelosie, odi, rancori, contrasti, i quali non finiscono che con la morte. L’innocente Giuseppe, per aver ricevuto più carezze da suo padre Giacobbe che gli altri suoi fratelli, divenne l’oggetto della loro gelosia e la vittima del loro furore. Se qualcheduno dei vostri figliuoli ha maggior parte nel vostro affetto, fate in modo che non sia ciò dagli altri conosciuto , o se appare, fate loro comprendere che il merito e la virtù saranno sempre i titoli i più sicuri per ottenere i vostri favori.

II.° Punto, Veniamo adesso alla cura che i genitori prender debbono della salute dei loro figliuoli per via di una santa educazione. Quest’obbligo è sì grande che l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà alcuna di dire che quelli che non l’adempiono han rinegata la lor fede e sono peggiori degli infedeli. Ed invero dalla buona educazione dei figliuoli dipende il buon ordine della vita, siccome all’opposto dal difetto d’educazione nascono tutti i disordini. Se i figliuoli sono bene allevati, saranno buoni Cristiani, e quando diverranno anch’essi padri e madri, alleveranno santamente i loro figliuoli; e così la virtù si perpetuerà di generazione in. generazione; se all’opposto sono mal allevati, daranno ai loro figliuoli una cattiva educazione, e questi ad altri; e così il vizio si perpetuerà di secolo in secolo, Ricordatevi dunque, padri e madri, che non basta per voi mettere figliuoli al mondo, che non basta amarli con un amor tenero e naturale, ma dovete amarli secondo Dio. Voi generati li avete non tanto per il tempo, che per l’eternità; non è solamente per popolare la terra, ma di più ancora per popolare il cielo, che Dio ve li ha dati, e per farne degli eredi del suo regno. Ecco dove tender debbono le vostre cure tutte la vostra vigilanza. Ma di quali mezzi dovete voi servirvi per condurli nella strada del cielo? io l’ho già detto: dell’istruzione, della correzione e del buon esempio. Che i genitori obbligati siano d’istruire i loro figliuoli, egli è un dovere che la religione loro impone, e dalla cui osservanza dipende la salute di questi figliuoli. Non è che per mezzo dell’ istruzione che la Religione si perpetua nel mondo: senza l’istruzione le tenebre dell’errore e della menzogna sarebbero ben tosto sparse sopra la faccia della terra. Che cosa c’insegna questa santa Religione? A conoscere, ad amare e a servire Dio e con queste mezzo meritare una felicità eterna. Or come mai i fanciulli conosceranno Dio loro Creatore, Gesù Cristo loro Salvatore? Come l’ameranno e lo serviranno? Come meriteranno le ricompense ch’Egli promette a quelli che fedelmente lo servono, se non sono essi istruiti? Ma a chi tocca istruire i vostri figliuoli, se non a voi, padri e madri, che Iddio ha incaricati della loro condotta e della loro salute? Ve lo comanda espressamente nelle sue sante Scritture: Doce filium tuum et operare in illo (Eccli. 50). Insegnate, istruite vostro figliuolo e fate in modo con le vostre diligenze che producano le vostre istruzioni il loro effetto. Voi siete, dice S. Agostino, i pastori nelle vostre case, con questa differenza ancora che voi avete sempre i vostri figliuoli sotto degli occhi, ma i pastori delle vostre anime non vi vedono sempre: dovete voi dunque farne le funzioni, insegnando loro la scienza della salute. Invano loro apprendereste qualunqu’altra arte; invano loro insegnereste il mezzo d’innalzarsi, di fare fortuna nel mondo; tutto sarà loro inutile, se l’arte non imparano di divenir santi. Ora saper non si può un’arte, senza aver un maestro che ne dia le regole: bisogna dunque, se volete che i vostri figliuoli siano buoni Cristiani, che in qualità di maestri voi insegniate loro l’arte di divenirlo. – Ma sopra di che debbono i genitori istruire i loro figliuoli? Ah! fratelli miei, questa materia è immensa. Sin dal momento che la loro debole ragione comincia a svilupparsi dalle tenebre dell’infanzia, voi far dovete in guisa che i primi movimenti dei loro cuori si portino verso Dio con atti di amore, che le loro prime parole pronunzino i santi nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, che la loro prima libera azione sia il segno della croce. Quando poi hanno bastante cognizione, dovete loro insegnare i primi elementi della nostra santa Religione, il mistero della Santissima Trinità, dell’incarnazione del Verbo, della morte di un Dio sofferta per la salvezza degli uomini, facendo loro produrre atti di fede sopra questi misteri, siccome sono obbligati tosto che hanno l’uso di ragione. A misura che avanzano in età ed in conoscenza, dovete altresì aumentare le vostre istruzioni, apprendendo loro le preghiere della mattina e della sera, l’orazione domenicale, la salutazione angelica, il simbolo degli Apostoli, i comandamenti di Dio e della Chiesa, la maniera d’udire la santa Messa, di accostarsi ai Sacramenti, al che dovete voi indurli con il vostro esempio ancora più che con le vostre parole. Ispirate loro soprattutto un grande orrore al peccato, ripetendo ad essi sovente quelle belle parole della regina Bianca al suo figliuolo s. Luigi: Mio figlio, benché mi siate caro, amerei meglio vedervi privo del vostro regno, ed anche della vita, che vedervi offendere il vostro Dio con un solo peccato. Oppure quelle del santo Tobia al suo figliuolo: Mio figlio, dicevagli, noi abbiamo pochi beni, ma siamo assai ricchi, purché abbiamo il timor di Dio. Questa è, fratelli miei, la miglior eredità che lasciar possiate ai vostri figliuoli, cioè il timor di Dio ed una santa educazione. Ma ed è così che i genitori istruiscono al giorno d’oggi i loro figliuoli? S’insegna loro benissimo la scienza del mondo, l’arte di parlar al mondo, d’innalzarsi, d’arricchirsi nel mondo: nulla si risparmia per renderli abili in tutt’altra professione, e si lascian poi vivere in una profonda ignoranza di tutto ciò che riguarda la salute. Ah! come mai apprender possono certi genitori ai loro figliuoli una scienza di cui hanno essi medesimi appena una leggiera tintura? Un cieco può egli condurne un altro? Questi genitori sono essi stessi ignoranti; come comunicheranno una scienza che non hanno? – Imperciocché tale si è la temerità di molti che mettonsi presentemente nel matrimonio, i quali si addossano di condurre gli altri, mentre non sanno condursi essi medesimi; perché hanno passata la loro gioventù nell’ignoranza e nel libertinaggio, non hanno mai assistito ad alcuna istruzione, hanno sempre avuto in orrore gli esercizi della vita cristiana. Ah! qual conto questi genitori ignoranti non renderanno a Dio dell’ignoranza dei loro figliuoli, che non sono capaci d’istruire! Oimè! Quantunque non foste colpevoli, che di questo solo peccato, esso basta, padri e madri, per dannarvi. Strana illusione! Sono sulla strada della perdizione, e si credono sicuri in coscienza! Quali sono i padri e le madri che si accusino nelle loro confessioni di aver tralasciata l’istruzione dei loro figliuoli? Ma, diranno essi, noi li facciamo istruire da altri, noi li mandiamo al catechismo, alle scuole cristiane. Voi fate in ciò quel che dovete; è il mezzo questo di supplire a quel che voi non potete. Ma ciò non basta ancora; voi dovete informarvi se i vostri figliuoli profittino delle istruzioni altrui, e perciò fargliene ripetere quando sono a casa, o far loro leggere i libri della dottrina cristiana; con questo mezzo v’istruite voi medesimi; vegliate soprattutto che siano assidui alle istruzioni che si fanno in chiesa, che siano sotto gli occhi vostri ai divini uffizi; ese mancano, puniteli severamente, mentre anche la correzione è un mezzo di cui dovete servirvi per dare ai vostri figliuoli una santa educazione, è altresì il mezzo che l’Apostolo espressamente raccomanda per rendere efficaci le vostre istruzioni: impiegate, dice egli, nell’educazione dei figliuoli l’istruzione e la correzione secondo il Signore: Educate illos in disciplina et correptione Domini (Eph. VI). Per questo appunto vi ha Iddio data la sua autorità, e le leggi umane vi porgono il loro aiuto, quando si tratta di punire certi mancamenti dei figliuoli ribelli ai vostri voleri. Valetevi dunque di quest’autorità per riprendere i loro difetti; ese le vostre riprensioni non bastano, impiegate il mezzo dei castighi. Chi ben ama, dicesi ordinariamente, ben castiga: Quos amo, castigo ( Apoc. III). Se voi amate i vostri figliuoli da Cristiani, se volete lor bene davvero, si è correggendo i loro vizi, raffrenando gl’impeti delle loro passioni, che veder farete la vostra tenerezza ed affetto. – Sono i fanciulli come le piante giovani, le quali facilmente raddrizzare si possono quando prendono una cattiva piega; ma se voi li lasciate vivere e crescere nel vizio, rassomigliano a quei grossi alberi difformi i quali non si possono in alcun modo raddrizzare. Un giovane, dice il Savio, seguirà nella sua vecchiezza la medesima strada che avrà seguita nella sua gioventù: Adolescens juxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea (Prov. XXII). E perché l’uomo di sua natura ha maggior propensione per il vizio che per la virtù, segue piuttosto l’uno che l’altra, perciò ha bisogno di essere con salutevoli correzioni raddrizzato. La mancanza di correzione è altresì la sorgente dei disordini cui i più dei giovani si abbandonano: quanti figliuoli si perdono vivendo a grado delle loro passioni, perché alcuno non li riprende né li corregge! D’onde proviene che quel giovane è un dissoluto, uno scandaloso nella sua parrocchia? Perché caduto egli è in mancamenti che la desolazione cagionano in tutta la sua famiglia, per difetto dei genitori troppo indolenti, che l’hanno troppo tollerato, che l’hanno lasciato vivere a suo capriccio, né ritenuto l’hanno presso di sé per impedirgli di frequentare le cattive compagnie che l’hanno perduto. D’onde viene che quella giovane si è abbandonata al libertinaggio ed è divenuta l’obbrobrio del pubblico? Per la negligenza di una madre che ha sopportate le sue vanità, che non ha raffrenata la licenza che essa si prendeva; di vedere, di frequentare persone il cui commercio è stato lo scoglio fatale della sua innocenza. Giudicate da questo, padri e madri, quanto importi il reprimere colle correzioni i disordini dei vostri figliuoli. Guai dunque a voi, se per tema di perdere la loro amicizia co le vostre riprensioni, amate meglio incorrere l’inimicizia di Dio con la vostra indulgenza! Benché non foste colpevoli di altro peccato, quei dei vostri figliuoli che corretti non avrete basteranno per farvi condannare al giudizio di Dio. Ah! è pur medio trattarli con severità che provare con essi la severità della giustizia del Signore. Se la severità che usate a loro riguardo non è al presente di loro gusto, ve ne sapranno un giorno buon grado, siccome voi medesimi sapete grado ai vostri genitori che serviti si sono di questo mezzo per rendervi virtuosi; laddove quei figliuoli vi malediranno un giorno della troppo grande indulgenza che avrete avuta per essi. – Ma come convien correggere i figliuoli? La correzione deve essere regolata dalla prudenza, temperata dalla dolcezza, sostenuta dalla costanza. La correzione deve esser prudente, cioè fatta opportunamente, secondo i diversi mancamenti che i figliuoli commettono. Quelli che provengono da malizia, debbono esser puniti con più rigore che quei di fragilità. Si perdona qualche cosa alla leggerezza della gioventù, si differisce talvolta il castigo per renderlo più salutevole. La privazione di certe cose che fanno piacere ai fanciulli, fa sovente più impressione su di essi che i cattivi trattamenti i quali hanno funeste conseguenze. Ma quanto mai sono lontani i genitori dal seguire le regole della prudenza nella correzione dei figliuoli! Si puniscono con rigore per qualche leggero mancamento, per qualche perdita, per qualche danno da loro cagionato nella famiglia, e non si dice parola per mancamenti considerabili che commettono; non si riprendono delle bestemmie, delle parole disoneste, dei ladronecci e delle ingiustizie; Dio voglia che non si applaudisca ancora e non si prenda la loro difesa nei disordini a cui si abbandonano! Si risparmiano quelli per cui si ha maggior inclinazione, benché soggetti a vizi enormi, e si scarica tutto il peso della collera su gli altri che veder non si possono né soffrire, sebbene siano men viziosi ed abbiano maggior merito. – Dissi inoltre che la correzione che si fa ai figliuoli deve esser temperata dalla dolcezza, facendo loro conoscere che se li punite, egli è per affetto che loro portate, e che non cercate se non il loro bene e la loro salute. Questa dolcezza deve tener lontani quei trasporti e quelle maledizioni di cui servesi la maggior parte dei padri e delle madri per correggere i loro figliuoli, che, ben lungi dal guarir il male, non fanno che inasprirlo, rendendo quei figliuoli più discoli con lo scandalo che loro danno. No, non sono le bestemmie che correggono i figliuoli, queste non fanno che pervertirli. V’ha esempi terribili delle maledizioni dei padri e delle madri che si sono verificate sui loro figliuoli Correggete i vostri figliuoli, o padri e madri; ma correggeteli secondo il Signore, dice l’Apostolo, in correptione Domini; cioè in maniera che la vostra correzione non renda voi medesimi colpevoli innanzi a Dio. La dolcezza nulla dimeno che deve accompagnarla non è incompatibile con un sano sdegno, cui abbandonar vi potete senza peccato, come dice il reale profeta: Irascimini et nolite peccare (Psal. IV). Necessaria è la fermezza per distrugger il vizio, per sradicare i cattivi abiti dei figliuoli, per opporsi alle loro inclinazioni perverse. Non basta riprenderli né anche minacciarli: si avvezzano alle parole, alle minacce: ma bisogna venire agli effetti, bisogna applicare il ferro ed il fuoco sul male quando non si può in altro modo guarire. Il gran sacerdote Eli, che aveva due figliuoli immersi nei disordini più scandalosi, dava loro bensì degli avvisi per correggerli, rappresentava ad essi l’enormità del loro mancamento per impedirli di ricadérvi: ma perché non li riprendeva che debolmente né valevasi della sua autorità per punirli con rigore, provò egli stesso la severità della giustizia di Dio con una morte tragica, che fu la pena della sua troppa condiscendenza verso i figliuoli. Esempio terribile il quale deve far tremare i padri e le madri che non correggono i loro figliuoli con quella severità che essi meritano. Ma invano, fratelli miei, correggereste i vostri figliuoli, invano l’istruireste, se non sostenete poi le vostre istruzioni e le vostre correzioni con l’esempio. Se all’opposto li scandalizzate con la vostra cattiva condotta, voi distruggete con una mano ciò che edificate con l’altra. Imperciocché siccome il buon esempio è la strada più sicura per persuadere la virtù, così il cattivo esempio è un potente mobile che strascina nel vizio; tanto più ancora che l’uomo essendo più inclinato al male che al bene, riceve molto più facilmente le impressioni del vizio che quelle della virtù. Usate dunque attenzione, padri e madri, a quanto direte e farete alla presenza dei vostri figliuoli; ponetevi mente ed evitate anche ciò che vi sembra permesso e che potrebbe scandalizzarli: la vostra condotta serva loro di specchio, per così dire, in cui vedano quel che far debbono. Volete voi che i vostri figliuoli siano assidui all’orazione, ai divini uffizi, a frequentare i Sacramenti? Siatevi assidui voi medesimi: cominciate a far voi ciò che loro insegnate. Volete che siano sobri, casti, pazienti, temperanti, caritatevoli verso il prossimo, misericordiosi verso i poveri? Siate voi medesimi tali quali desiderate che siano essi. I vostri esempi renderanno molto più efficaci le istruzioni che loro darete. Imperciocché come mai saranno i figliuoli esatti ad adempier i doveri di Cristiano quando vedono mancarvi i genitori? Come apprenderanno a pregare, a frequentar i Sacramenti da padri lontani dalla preghiera e dai Sacramenti? In qual modo saranno i figliuoli sobri e pazienti con padri dissoluti e dati alle crapule o che vedono sempre in collera? In qual modo rispetteranno una madre che trattata vien dal marito con estremo disprezzo, con parole oltraggianti? Come volete voi che questi figliuoli imparino a compiere i doveri di giustizia e di carità a riguardo del prossimo, al veder genitori che non solo mancano di carità, ma rapiscono la roba altrui, che si servono anche (dirollo?) della autorità che hanno sopra i figliuoli per far loro commettere ingiustizie? – Ah! fratelli miei, convenite con altrettanto di dolore che di sincerità essere gli scandali da voi dati ai vostri figliuoli quelli che li pervertono. Voi vi dolete che i vostri figliuoli vi cagionano mille affanni coi loro sregolamenti: ma imputate a voi medesimi questi disordini che vi fan gemere e che forse anticiperanno la vostra morte. Se voi foste nelle vostre famiglie modelli di virtù, i vostri figliuoli camminerebbero sulle vostre tracce e vi darebbero molte contentezze. Egli è vero che si vedono alle volte figliuoli libertini e dissoluti, benché abbiano avanti gli occhi i buoni esempi di genitori virtuosi; ma egli è vero altresì che i vizi dei genitori sono come il tronco  fatale donde pullulano quelli dei figliuoli, il che fa dire ordinariamente qualis pater, talis filìus, qualis mater, talis filia. Domandate a quel giovine chi appreso gli ha a proferire quelle bestemmie, quelle maledizioni, quelle parole ingiuriose e sconce che gli sfuggono sì di frequente: vi dirà che le ha intese pronunziare dal padre e dalla madre. Quando anch’egli avrà figliuoli, pronunzierà alla loro presenza quelle medesime parole. Cosi il vizio si perpetua nelle famiglie sino al fine dei secoli, perché i genitori non sanno contenersi innanzi ai loro figliuoli. Domandate a quella giovane chi le ha appreso la vanità, la maldicenza, lo scherno, le parole contumeliose; essa vi dirà alla scuola di una madre soggetta a quei difetti; tanto è vero che il cattivo esempio dei padri e delle madri fa impressioni fortissime sullo spirito dei figliuoli! Ah! padri barbari, madri crudeli, qual conto non dovrete rendere a Dio della perdita di questi figliuoli! Dati Ei ve li aveva per farne gli eredi del suo regno, e voi ne fate tante vittime delle sue vendette. Non sarebbe forse meglio per quei figliuoli che soffocati li aveste nella culla anzi che perderli con i vostri cattivi esempi? Voi non ne siete i padri ma i parricidi, perché date alla loro anima una morte mille volte più funesta di quella del corpo. Sarebbe meglio per voi, dice Gesù Cristo, che vi legaste una macina di mulino al collo e vi gettaste in mare che scandalizzare in tal modo i vostri figliuoli, perché voi li dannate e vi dannate con essi. Quali rimproveri non avrete voi a sopportare da parte di questi riprovati, che nell’inferno vi grideranno: Voi siete, perfidi padri e madri, si, siete voi la cagion della nostra dannazione; conveniva forse darci la vita per essere seguita da una morte Eterna?Maledetto sia il giorno in cui messi ci avete al mondo! E perché non ci deste piuttosto la morte che lasciarci vivere per renderci eternamente infelici? – Ecco, fratelli miei, ciò che accrescerà i tormenti dei padri e delle madri nell’inferno; la disgrazia dei loro figliuoli li renderà più disgraziati. Procurate dunque di evitare una sorte sì funesta, vivendo nelle vostre famiglie in un modo esemplare, allevando i vostri figliuoli alla virtù con le vostre istruzioni, con le vostre correzioni e con i vostri buoni esempi. Nulla tanto paventate quanto di scandalizzarli con le vostre parole e con le vostre azioni; ma edificateli con la vostra esattezza nel compiere i doveri tutti di buon Cristiano. Aggiungete a quanto ho detto finora una vigilanza continua sopra la condotta dei vostri figliuoli. Vegliate su di essi in ogni tempo ed in ogni luogo. In ogni tempo, la notte cioè come il giorno, perché al favor delle tenebre si trattengono in corrispondenze e fanno molte cose che non sapete. Non è forse nella notte, come dice il Vangelo, e durante il sonno del padrone di casa che l’uomo nemico semina la zizzania nel suo campo? Usate attenzione principalmente alla troppo grande familiarità dei figliuoli con servi; nulla di più pericoloso per essi che un cattivo servo. Vegliate in ogni luogo, informatevi delle case, delle persone che frequentano, per separarli da quelle la cui compagnia è fatale alla loro virtù. Se qualcheduno di essi non abita con voi, non siete perciò sgravati dall’obbligo di vegliare sopra di lui. Abbiate cura soprattutto che non abitino in case oal servizio di padroni dove esposta sarebbe a rischi la loro virtù, ma che servano persone presso cui siano in sicurezza. Finalmente, fratelli miei, per nulla dimenticare di quanto concerne i vostri doveri riguardo ai vostri figliuoli, ricorrete all’orazione; mentre pur troppo accade spesso che, malgrado le cure e le attenzioni che un padre ed una madre si danno per l’educazione dei loro figliuoli, l’indocilità di questi renda inutili le istruzioni più sagge, le correzioni più severe, gli esempi più efficaci. Che far dovete per essi o padri e madri? Pregate per essi, per la loro conversione; il Signore l’accorderà alle vostre preghiere, come altre volte accordò quella di s. Agostino alle preghiere di s. Monica sua madre.

Pratiche. La salute dei figliuoli molto dipende dalle preghiere dei loro genitori: chiedete ogni mattina a Dio la sua santa benedizione per essi; raccomandateli sovente assistendo al santo sacrificio della Messa e fate di tempo in tempo qualche comunione per la loro santificazione. Metteteli sotto la protezione dei loro Angeli custodi, fate per essi alcune limosine ai poveri e servitevi dei vostri figliuoli medesimi per distribuirle loro quando si presentano alle vostre porte, è questo un mezzo di avvezzarli alla pratica di tale virtù. Conduceteli con voi negli spedali, nelle prigioni, nelle chiese, e non già nelle brigate mondane, ai giuochi, agli spettacoli, di cui insinuare lor dovete un grande orrore; ma abbiate cura principalmente di attirare con le vostre virtù la rugiada celeste sopra queste giovani piante che Dio vi ha date a coltivare. Chiedete per essi e per voi le grazie e gli aiuti che necessari sono per vivere cristianamente, morir santamente, affine di ritrovarvi un giorno tutti insieme riuniti nella beata eternità. Così sia.

Credo.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
S. Luc II: 22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino. [I suoi parenti condussero Gesú a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta

Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas. [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

Comunione spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

S. Luc. II: 51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis. [E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]

Postcommunio

Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctæ Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur:

[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

Preghiere leonine: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA FRA L’OTTAVA DELL’EPIFANIA (2020)

DOMENICA fra L’OTTAVA DELL’EPIFANIA.

Semidoppio – Paramenti bianchi.

Dall’età di dodici anni, i Giudei dovevano celebrare ogni anno, a Gerusalemme, le tre feste: di Pasqua, della Pentecoste, e dei Tabernacoli. La liturgia del tempo di Natale, che ci ripete tutta la fanciullezza di Gesù, ce lo mostra oggi al Tempio. Per la prima volta Egli dichiara ai Giudei che Dio è «Suo Padre « (Vang). Non è senza un motivo – dice S. Ambrogio – che, dimenticando i suoi genitori secondo la carne, questo Fanciullo il quale, anche secondo la carne era pieno di sapienza e di grazia, volle esser ritrovato nei Tempio dopo tre giorni: egli significava con ciò che, tre giorni dopo il trionfo della Passione, Colui che si credeva morto sarebbe risuscitato e sarebbe stato allora l’oggetto della nostra fede, seduto sopra un trono celeste nella gloria celeste. In Lui infatti, ci sono due nascite: l’una per la quale è generato dal Padre e l’altra per la quale nasce da una madre. La prima è del tutto divina, con la seconda Egli si abbassa fino a prendere la nostra natura » (3° Nott.).

L’Ufficio di questa Domenica è ridotto alla semplice commemorazione nella festa della Sacra Famiglia. La Messa può essere tuttavia celebrata al primo giorno libero della settimana che segue.

Incipit

In nómine Patris, ✝ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

In excelso throno vidi sedere virum quem adorat multitude Angelorum, psallentes in unum: ecce cujus imperii nomen est in æternum.

 [Sopra un eccelso trono vidi sedere un uomo che una moltitudine di Angeli, cantando inni e salmi, adorava: ecco colui il cui nome è da tutta l’eternità]  

Ps XCIX, 1 Jubilate Deo, omnis terra; servite Domino in lætitia. Introite in conspectu ejus in exsultatione. [Acclamate con gioiaa Dio da tutta la terra: servite al Signore con allegrezza]

Oratio

Orémus.
Vota, quæsumus, Domine, supplicantis populi cœlestis pietate prosequere: ut et quæ agenda sunt, videant, et ad implenda quæ viderint, convalescant. Per Dominum …

[Ascolta, Signore, con divina bontà, i voti del tuo popolo supplicante affinché e veda il suo dovere e di compierlo abbia la forza. Per nostro ….]

Lectio

Obsecro itaque vos fratres per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum. Et nolite conformari huic saeculo, sed reformamini in novitate sensus vestri : ut probetis quae sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta. Dico enim per gratiam quae data est mihi, omnibus qui sunt inter vos, non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem: et unicuique sicut Deus divisit mensuram fidei. Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eumdem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra.

OMELIA I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vesc. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL CULTO SPIRITUALE

“Fratelli: Vi scongiuro per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come ostia viva, santa, accetta a Dio, quale vostro culto razionale. E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma trasformatevi col rinnovamento del vostro spirito, affinché possiate discernere quale sia la volontà di Dio buona, gradevole e perfetta. In virtù della grazia che mi è stata data dico, dunque, a ciascuno di voi di non voler stimar se stesso più di quanto convenga, ma di stimarsi con moderazione, secondo la misura della fede distribuita da Dio a ciascuno. Infatti, come nel corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa funzione; così tutti insieme siamo un sol corpo in Cristo; individualmente siamo membra gli uni degli altri in Gesù Cristo nostro Signore.” (Rom. XII, 1-5).

S. Paolo, nella sua lettera ai Romani, dopo aver dimostrato che l’uomo ottiene la salute mediante la fede in Gesù Cristo, passa a dire quale dev’essere il tenore di vita d’un Cristiano. L’Epistola di quest’oggi è il principio di questa seconda parte della lettera. L’uomo che è entrato a far parte della Chiesa di Gesù Cristo deve offrire a Dio un culto spirituale, servendolo col corpo e con l’anima; rinunciando allo spirito del secolo, e seguendo la volontà di Dio. Deve inoltre aver sentimento di modestia nell’adempimento dei doveri reciproci tra i Cristiani. Parliamo del culto spirituale, col quale:

1 Offriamo noi stessi a Dio,

2 All’opposto di quel che fa il mondo;

3 Prendendo a norma la volontà divina.

1.

Fratelli, vi scongiuro per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come ostia viva, santa, accetta a Dio.

I Cristiani, chiamati dalla misericordia di Dio alla grazia del Vangelo, devono dimostrargli la loro riconoscenza con rendergli un omaggio degno di lui. Gli Ebrei gli offrivano ostie mute, corpi morti, incapaci di dare a Dio la dovuta lode. I Cristiani, al contrario, offriranno a Dio un’ostia a Dio viva e santa, che gli riesca gradita. Noi offriamo a Dio un’ostia viva, e quindi un culto ragionevole e spirituale, quando il nostro corpo non sarà schiavo del peccato; quando, con la mortificazione, gli impediremo di servire alle passioni. Il nostro corpo è il tempio dello Spirito Santo. «Non sapete voi — dice l’Apostolo — che siete tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi?» (I Cor. VI, 19) Il nostro corpo non va pertanto, riguardato come cosa nostra, ma come proprietà di Dio a cui è consacrato e, per conseguenza, non deve servire che per usi santi e degni di Dio, in modo da renderlo come sua gradita dimora. Tutte le nostre azioni esterne devono rendere omaggio a Dio. «Presentate voi stessi come risorti da morte a vita, e le vostre membra qual arma di giustizia a Dio», ci dice ancora l’Apostolo (Rom. VI, 13). Noi siamo liberi di scegliere tra il bene e il male: tra il servir Dio e il servir le passioni; tra il militare per la giustizia e il militare per l’iniquità. – Quando ci serviamo del corpo per compiere azioni conformi agli insegnamenti divini, noi militiamo per la giustizia, facendo a Dio l’offerta di noi stessi. – È poi necessario che questa immolazione mistica del nostro corpo con tutte le sue azioni sia vivificata dallo spirito interno. Allora solamente sarà un culto ragionevole e spirituale. Nel Levitico era prescritto che sull’altare dell’olocausto il fuoco dovesse ardere sempre. «Questo è il fuoco perpetuo che non mancherà mai sull’altare» (Lev. VI, 13). La carità è precisamente il fuoco che consuma il sacrificio delle nostre azioni. Ove questa, fiamma interna venisse a mancare, le nostre azioni, fossero anche eroiche, perderebbero del loro pregio in merito al sacrificio spirituale che noi dobbiamo compiere. Per i sacrifici, che si offrivano a Dio nel tempio di Gerusalemme, c’erano determinati giorni e ore. Noi invece, dobbiamo offrire il nostro sacrificio spirituale, il sacrificio di noi stessi, in qualunque luogo e in qualunque ora del giorno. E sempre dobbiamo compiere questo sacrificio con prontezza d’animo, poiché è troppo giusto « che noi dobbiamo rendere a Dio ciò che è suo: il corpo, l’anima, la volontà, avendo avuti da Lui questi doni » (S. Ilario, Comm., in Matth, cap. XXIII, 2). –

2.

E non vogliate conformarvi a questo secolo.

Il secolo è il mondo che non segue gli insegnamenti di Gesù Cristo. Esso tiene, naturalmente, un contegno tutto opposto a quello raccomandato dall’Apostolo. Invece di fare del proprio corpo una vittima accettevole a Dio, ne fa un idolo a cui tutto deve sacrificarsi. I sacrifici per il cielo sono cose prive di senso per i seguaci del secolo. I loro pensieri, le cure, le azioni sono per il godimento di questo mondo: piaceri sensuali, accumulamento e abuso delle ricchezze, mania di voler comparire a ogni costo. Si schiveranno, magari, certi vizi più gravi, che troppo esporrebbero al disonore o ad altre non piacevoli conseguenze; ma, quanto al resto, nessun ostacolo lo trattiene. Si capisce che non possono essere diversi dalla pratica gli insegnamenti. Chi pone lo spirito di sacrificio a norma della propria condotta, è un illuso. Chi mortifica le passioni, è uno squilibrato. Chi fugge i pericoli, è un uomo senza spirito. «Il timor di Dio vien chiamato semplicità, per non dir sciocchezza» (S. Bernardo. De Cons. L. 4. c. 2). – Quindi, certe ingiustizie non sono che questione di interesse. Tanti individui e tante famiglie spogliate non sono che la conseguenza degli affari. Se uno resta vittima, peggio per lui. Gli atti di prepotenza e di vendetta, pel mondo, sono un nobile puntiglio. Certi soprusi sono un diritto per salire in alto, e via di questo passo. Contro il secolo corrotto e corruttore ammoniva S. Agostino con quelle accorate parole: «Guai a te, o fiumana dell’umano costume. Chi ti potrà resistere? Fino a quando non ti seccherai? Fino a quando travolgerai i figliuoli d’Eva nel mare grande e pauroso che appena può solcarsi da coloro che sono saliti sulla nave?» (Conf. L. 1, c. 16). La Venerabile Teresa Eustochio Verzieri aveva appena cinque anni, quando, un giorno di festa, caduta in terra e infangatasi tutta la veste nuova che indossava, si dice che uscisse in queste gravissime parole: — Ecco che sono le vanità del mondo — (Decreto sulla causa di Beat, e Canoni, ecc. 2 Aprile 1922). Non mancano, come si vede, i privilegiati che, fin dagli anni più teneri, sanno giudicare che cosa sia il mondo, e, con l’aiuto della grazia, non si lasciano trascinare dalla sua corrente. Ma i più, ma il gran numero, o presto o tardi, ne sono miseramente travolti. E tu resisti al corso travolgente del secolo? Se ami ciò che il mondo ama e stima: se approvi ciò che il mondo approva; se ti dai ai piaceri terreni, invece di attendere all’acquisto della virtù: se ti occupi dei tuoi affari in modo da dimenticare il cielo: se odi la povertà, le umiliazioni; se ti rifiuti di portare la croce che ogni Cristiano deve portare in questa vita: tu ti conformi, più o meno a questo secolo, anche se non arrivi a certi eccessi, che nel secolo si commettono. Compirai. mettiamo pure, delle buone opere; ma. forse, è il caso del proverbio: Non è oro tutto quel che luce. Per quanto esternamente lodevoli, se sono basate sulla vanità, sull’amor proprio, non sono diverse dalle opere dei Farisei, tante volte condannate da Gesù Cristo; non sono diverse da tante opere del mondo, compiute, non per render omaggio a Dio, ma per appagare il proprio egoismo.

3.

Il Cristiano, mediante il Battesimo, è diventato una nuova creatura. Nuove devono essere ora le massime su cui regolare la propria condotta. Se per il passato aveva seguito le massime del mondo ora deve seguire le massime del Vangelo. Prima faceva la volontà del secolo, ora faccia la volontà di Dio. S’inganna gravemente il Cristiano che crede di attingere le norme della propria condotta da altra sorgente che dalla volontà di Lui. Egli solo può direi quello che è meglio per noi, quello che è gradito a Lui. Ed è chiaro che chi vuol conoscere la volontà di Dio deve prima liberar se stesso dalle passioni, e rinnovare in questo modo il suo spirito, affinché possa distinguere chiaramente ciò che Dio vuole da lui. Quando un’ondata di vento ci porta fumo e polvere negli occhi, non si possono scorger bene le cose che ci stanno attorno. Quando dall’anima non si è tolta la polvere del peccato, e vi si lascia innalzare il fumo delle passioni, quando, insomma, rimane l’uomo vecchio, non si è capaci e disposti al ascoltare ciò che Dio vuole da noi. – Non è pure il caso di osservare che la volontà di Dio va conosciuta per essere praticata. Una cognizione sterile della volontà di Dio, non seguita dalle opere, non completa il nostro rinnovamento. La nostra cognizione della volontà di Dio dev’essere così esattamente seguita dalle opere da poter essere una scuola efficace per i seguaci del mondo. I seguaci del mondo non si curano di conoscere la volontà di Dio direttamente, meditandola con spirito di umiltà. Ebbene, la conoscano indirettamente. Le nostre opere, così diverse dalle loro, volere o no, sono un richiamo. Quest’opere, che sono la conseguenza dell’esecuzione della volontà di Dio, insegnano, con linguaggio muto, ma eloquente, ciò che secondo la volontà di Dio è buono, lodevole, perfetto. – L’Apostolo esorta i Romani a stimarsi con moderazione, secondo la misura della fede distribuita da Dio a ciascuno. L’abbondanza dei doni, onde erano stati arricchiti, poteva esser loro cagione d’orgoglio. Non cedano a questa tentazione; ma ciascuno si stimi per quello che è in realtà; non si attribuisca doni e poteri che a lui non furono concessi: si accontenti, invece, di compire  quell’ufficio che da Dio gli fu affidato. Si dice che il  contentarsi del poco, è un boccone mal conosciuto. Pure, per far la volontà di Dio ed andare in Paradiso, non è scritto che dobbiamo essere in  una condizione privilegiata, che dobbiamo sovrastare gli altri per potere e ricchezze, che dobbiamo emergere per coltura e per ingegno. Basta che ci accontentiamo di fare la via crucis giornaliera del nostro stato. E quanto più la faremo senza lamenti, senza rincrescimenti, tanto più daremo la dimostrazione pratica di fare la volontà di Dio. Dio vuole che ciascuno si dimostri fedele nel compire l’ufficio affidatogli; sia esso un ufficio di grande importanza, sia mi ufficio stimato da poco. Tanto al servo che, avendo ricevuto cinque talenti, ne consegna dieci, quanto a quello che, ricevuti due, ne consegna quattro, viene detto: «Bene, o servo fedele, entra alla festa dei tuo padrone» (Matth. XXV, 21-23). Ognuno ha da fare nel grado suo. L’importante è di fare la volontà di Dio contenti, sereni, perché «Dio ama chi dà con gioia » (2 Cor. IX, 7). Questo è anche l’invito che ci fa la Chiesa quest’oggi, ammonendoci ripetutamente col Salmista: « Servite il Signore con gioia » (Ps. IC, 1).

Graduale

Ps LXXI: 1-8 et 3
Benedictus Dominus, Deus Israel, qui facit mirabilia magna solus a sæcula. Suscipiant montes pacem populo tuo et colles justitiam. [Sia benedetto il Signore Dio di Israele, il solo che fa cose mirabili. Recheranno i monti pace al popolo tuo e i colli la giustizia.]

Alleluja

Ps XCIX, 1 Jubilate Deo, omnis terra; servite Domino in lætitia. Introite in conspectu ejus in exsultatione: [Acclamate con gioiaa Dio da tutta la terra: servite al Signore con allegrezza: entrate alla sua presenza con esultanza:]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Luca
S. Luc II: 42-52
Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.

[Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini].

OMELIA II

 [A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VI.

“E quando Egli (Gesù) fu arrivato all’età di dodici anni, essendo essi andati a Gerusalemme, secondo il solito di quella solennità, allorché, passati quei giorni, so ne ritornavano, rimase il fanciullo Gesù in Gerusalemme; e non se ne accorsero i suoi genitori. E pensandosi ch’Egli fosse coi compagni, camminarono una giornata, e lo andavano cercando tra i parenti e conoscenti. Né avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme a ricercarlo. E avvenne, che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, che sedeva in mezzo ai dottori, e li ascoltava, e li interrogava. E tutti quei, che l’udivano, restavano attoniti della sua’ sapienza e delle sue risposte. E vedutolo (i genitori) ne fecer le meraviglie. E la Madre sua gli disse: Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre e io addolorati andavamo di te in cerca. Ed Egli disse loro: Perché mi cercavate voi? Non sapevate come nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? Ed eglino non compresero quel che aveva lor detto. E se n’andò con essi, e fe’ ritorno a Nazareth, ed era ad essi soggetto. E la madre sua di tutte queste cose faceva conserva in cuor suo. E Gesù avanzava in sapienza, in età, in grazia appresso a Dio e appresso agli uomini” (S. Luc. II, 42-52).

Dopo che nostro Signor Gesù Cristo per scampare ai furori di Erode era stato portato in Egitto ed ivi aveva dimorato alquanto tempo, cessato il pericolo per la morte di quel barbaro re, fu ricondotto nella Palestina, e con Maria e Giuseppe andò in Galilea ad abitare nella città di Nazareth. E fu in questa piccola città, dagli Ebrei tenuta in nessun conto, che Gesù passò d’allora fino ai trent’anni la sua vita privata. Ma come il Vangelo circondò di misterioso silenzio gli anni, che Gesù passò esule in Egitto, così di silenzio anche più misterioso circondò gli anni da Lui passati nella vita privata a Nazareth. Un solo fatto di questa vita ci narra, il quale è come uno splendido raggio di luce in mezzo ad una completa oscurità. Ed è questo fatto, che ci invita a considerare la Chiesa nel Vangelo di oggi. In esso noi potremo prendere varie lezioni, e tutte di grandissima importanza.

1. Gesù era arrivato all’età di dodici anni, ed essendo giunta la festa di Pasqua, Maria e Giuseppe recandosi secondo il solito a Gerusalemme per celebrarla, condussero con loro Gesù. E quando furono passati i giorni di quella solennità, ripresero a fare il viaggio di ritorno. Ma senza che Maria e Giuseppe se ne avvedessero, Gesù rimase in Gerusalemme. Camminarono adunque i Santi Sposi per tutta una giornata, pensandosi die fosse coi compagni di viaggio. – Il che non ci deve recar meraviglia, giacché era costume fra gli Ebrei, che, sia nell’andare, come nel ritornare da Gerusalemme, formassero tanti gruppi separati di uomini e di donne, andando i fanciulli indifferentemente con gli uni o con le altre. È dunque verisimilissimo, che Maria credesse Gesù essere con Giuseppe, e dal canto suo Giuseppe immaginasse, che Gesù fosse con Maria. Ma come giunsero ad un punto del viaggio, in cui forse si faceva una fermata e gli uomini si riunivano alle loro donne per prendere insieme qualche po’ di ristoro, ecco che Maria e Giuseppe riscontratisi, si avvedono che Gesù non era con loro. Lo cercano subito tra i parenti e gli amici, ma non lo trovano. Chi può dire allora il dolore che venne a colpire il cuor di Maria e quello di S. Giuseppe? Perdere Gesù!… e poteva loro capitare una disgrazia più grande? Con la loro immaginazione così viva e fatta più accesa dalla sventura andavano congetturando mille cose diverse di Lui, e tutte tristi. Sapevano che Gesù prendendo l’umana natura, ne aveva accettato altresì tutti i bisogni, tutte le prove, tutta la miseria. Epperò non poteva essere, che essendosi smarrito, ora si trovasse a patire la fame, la sete, il freddo, i disagi della vita? Pertanto, prontamente ritornarono indietro a Gerusalemme a ricercarlo. E chi sa dire le sollecitudini, che a tal fine adoperarono? È certo che ad ogni persona che incontravano, andavano domandando: Avete visto Gesù? un giovane di dodici anni, bello come il Paradiso? È certo, che di tanto in tanto, massime nei luoghi boscosi, facevano ripetutamente risuonare la voce gridando: Gesù! Gesù! È certo, che passando vicino a qualche luogo dirupato gettavano ansiosamente lo sguardo giù nei burroni, se caso mai vi fosse caduto. E quando poi rientrarono in Gerusalemme non vi furono strade, non vi furono piazze, che essi non percorressero da capo a fondo, in largo e in lungo; e non vedendolo in nessun luogo cominciarono a battere alle porte di quelle case, dove potevano supporre, che Gesù fosse stato raccolto. E ciò per tre giorni senza darsi pace mai, sempre con le lagrime agli occhi. Che desolante contrasto tra il dolore di Maria e di Giuseppe nell’avere perduto Gesù, la loro sollecitudine per ritrovarlo e il niun affanno, che provano certi Cristiani, i quali pure lo hanno perduto. Le Sacre Scritture ci insegnano, che noi per la grazia di Dio possediamo Gesù dentro i nostri cuori. Ma quando si commette il peccato mortale, questo caro Gesù si perde. E sapete che vuol dire perdere Gesù! Vuol dire perdere Iddio, che pur siamo destinati a possedere eternamente, vuol dire perdere la sua grazia e la sua amicizia, vuol dire perdere il merito di tutte le opere buone compiute pel passato, vuol dire chiudersi le porte del Paradiso e spalancarsi quelle dell’inferno, vuol dire diventare con l’anima brutta, nera, schifosa, vuol dire cadere nella schiavitù e sotto il potere del demonio, vuol dire infine rendersi inabile ad operare qualsiasi cosa, che giovi per la vita eterna; vuol dire tutto questo. Eppure vi hanno degli insensati, i quali vanno burbanzosi ripetendo: Peccavi et quid mihi accidit triste? (Eccl. V, 4). Ho peccato, e che cosa miè accaduto di triste? Ah se quando si commette il peccato mortale si perdesse la sanità, l’onore degli uomini, una gran somma di danaro, che dico una gran somma? si perdesse anche solo uno scudo, lo si riterrebbe per una gran disgrazia e gli si piangerebbe sopra e si farebbe di tutto per ritrovarlo; ma perché col peccato mortale si è perduto Gesù, non solo non si piange, non lo si ricerca, ma talvolta si continua forsennatamente a ridere e a stare allegri. Quale stoltezza e quale audacia! Eppure come concepire anche solo un Cristiano, che s’addormenta la sera senza pensar neppure a fare un atto di contrizione, sapendo che nel giorno ha offeso Iddio mortalmente ed ha perduto la sua grazia? Come comprendere coloro, che, pur credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Dio per ridonare la sua grazia a chi l’ha perduta, amano meglio rimanere e sprofondarsi nell’abisso della colpa per i giorni, per le settimane, per i mesi, e talvolta anche per gli anni? Ah, miei cari! non vogliate mai mettervi nel numero di questi sventurati. E se per disgrazia vi è accaduto di perdere Gesù e la sua grazia, ricercatela tosto col pentirvi del vostro peccato e col fare una santa confessione.

2. Infine Giuseppe e Maria, dopo di avere inutilmente cercato Gesù per tre giorni e tre notti intere nelle vie e nelle case di Gerusalemme, si recarono a ricercarlo nel tempio. E là propriamente lo ritrovarono, che sedeva in mezzo ai dottori della legge, udendo ed interrogando i medesimi e tutti facendo stupire per la sapienza delle sue risposte. Al vederlo restarono presi da meraviglia. E Maria subito gli disse: « Figlio, perché ci hai fatto tu questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo in cerca di te ». Con le quali parole Maria non intendeva già di muovere a Gesù un rimprovero, ma bensì di fare nient’altro che un lamento di tenerezza e nel tempo stesso manifestare la gioia immensa, che essa e Giuseppe, a cui essa dà qui l’onorifico nome di padre di Gesù, provavano nell’averlo ritrovato. Ora qual èla risposta che diede Gesù al tenero lamento di Maria? Uditela: Egli disse: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che io debbo occuparmi in ciò che spetta al Padre mio? In questa risposta era racchiuso un ammaestramento così grande che lì per lì, come osserva il Vangelo, Maria e Giuseppe non compresero ciò che Gesù aveva lor detto. Difatti con tali parole nostro Signor Gesù Cristo volle dettarci la gran legge, che noi dobbiamo seguire nelle nostre relazioni con gli uomini, di fronte a Dio. Molte sono le relazioni, che noi possiamo avere quaggiù con gli altri uomini: relazioni di superiorità coi nostri inferiori, di sudditanza coi nostri superiori, di parentela col nostro padre, con la nostra madre, coi nostri fratelli, con gli altri parenti, di amicizia con gli amici, di benevolenza con tutto il prossimo, ed altre simili. In tutte queste relazioni Iddio stesso con la sua santa legge ci impone dei rispettivi doveri, quelli cioè di governare saviamente gl’inferiori, di stare sottomessi ai superiori, di obbedire e rispettare i genitori, di far volentieri qualche sacrifizio per gli amici, di non negare al nostro prossimo quei piaceri, che gli possiamo fare, ed altri ancora di questo genere. Ma sebbene sia vero, che lo stesso Dio ci imponga questi doveri, di modo che non li possiamo trasgredire senza colpa, è pur verissimo, che anzitutto dobbiamo obbedire a Dio ed occuparci di quelle cose, che riguardano Lui, e che per obbedire a Dio ed occuparci delle cose sue dobbiamo, in caso che ciò sia richiesto, lasciare di contentare gli uomini e ben anche opporsi alle loro esigenze. Or ecco la gran legge che Gesù volle farci conoscere con quelle parole rivolte a Maria e Giuseppe: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose spettanti al Padre mio?E quanto sia importante questa legge è facile a capirsi da ciò, che è la prima legge, che Gesù Cristo nel Santo Vangelo con la sua parola divina promulga. Perché sebbene dovessero essere grandi le cose, che Gesù aveva dette ai dottori, tuttavia il Vangelo non le nota; e invece nota con precisione e narra per disteso ciò, che Egli disse a Maria, precisamente perché si trattava d’una cosa di massima importanza. Ecco dunque ciò, che dobbiamo imprimere nella nostra mente secondo l’insegnamento, che ci dà Gesù in quest’oggi: che Iddio deve andare innanzi a tutti, innanzi alle autorità della terra, innanzi ai padroni e superiori, innanzi agli amici e conoscenti, innanzi agli stessi autori dei nostri giorni. Quando perciò accadesse che le autorità della terra, i padroni, i superiori, gli amici, e ben anche il nostro padre e la nostra madre volessero impedirci di adempiere i nostri doveri verso Dio e non permetterci, ad esempio, di essere veri Cristiani Cattolici, ossequenti al Papa ed ai Vescovi, di andare alla domenica ad ascoltare la S. Messa e di accostarci di tratto in tratto ai SS. Sacramenti, di seguire la vocazione, con la quale il Signore ci ha chiamati a servirlo da vicino nel Santuario o nello stato religioso, noi dobbiamo essere pronti a somiglianza di Gesù a rispondere con le parole e più ancora coi fatti: Prima devo occuparmi delle cose che riguardano a Dio: più che agli uomini devo studiarmi piacere a Lui. Non cercatemi adunque, vale a dire non tentatemi, non distoglietemi dal mio primo dovere. È così appunto, che hanno risposto gli Apostoli a coloro, che volevano loro impedire di predicare Gesù Cristo; è così, che hanno risposto i martiri a quelli, che li volevano costringere a rinnegare la fede; è così, che hanno risposto i Vescovi e i Papi ai potenti della terra, che volevano da loro concessioni dannose alla causa di Dio; è così, che hanno risposto tanti uomini grandi, come un Tommaso Moro, a coloro, che pretendevano di essere accontentati nelle loro ingiuste voglie; è così ancora, che hanno risposto tanti giovani e tante donzelle, quali un S. Luigi Gonzaga, un S. Stanislao Kostka, un S. Francesco di Sales, una S. Teresa, una S. Francesca Chantal e cento e mille altri, a quei parenti, che loro volevano impedire di seguire la loro vocazione e di farsi religiosi. Sappiamo pertanto, nel caso che fosse necessario, seguire anche noi questi sì nobili esempi, e dire anche noi a chicchessia le parole di Gesù: In his quæ Patris mei sunt oportet me esse!

3. Ma ecco che dopo averci dato questo grande ammaestramento con la sua parola, Gesù, secondochè si chiude il Vangelo d’oggi, ce ne dà ancora un altro con l’esempio. E ciò, che più dobbiamo notare si è, che trattasi di un ammaestramento qui al tutto impensato. Giacché il Vangelo dopo averci riferita la risposta di Gesù a Maria e Giuseppe, con la quale Egli dice, che non dovevano cercarlo, dovendo occuparsi delle cose di Dio, soggiunge poi, che tornò con essi a Nazaret, e stava a loro soggetto: Descendit cum eis et venit Nazareth; et erat subditus illis. Ora questo non è undirci chiaramente, che dopo la sudditanza, chedobbiamo a Dio, la prima, che le tien dietro, èquella, che dobbiamo ai nostri genitori? Sì, senzaalcun dubbio. Perciocché bisogna riflettere benea che cosa significa questa semplice espressione et erat subditus illis, che tutta compendia la vitadi Gesù Cristo dai dodici ai trent’anni. Benchéin apparenza dica una cosa di poco momento,in realtà tuttavia ne dice cose grandi assai. Edinvero: Ed era loro soggetto vuol dire, come osservano S. Agostino e S. Bernardo, che Egli, Gesù Cristo, il quale con tutta verità si dichiarò uguale a Dio, ed è Dio Egli stesso, Colui, che fabbricò il cielo e la terra, era soggetto ai parenti, agli uomini, alle creature della terra con quella sudditanza, che si immedesima con la più pronta, più umile e più affettuosa obbedienza. Immaginatelo adunque quel caro Gesù sempre intento a fare la volontà di Maria e di Giuseppe, a prevenirla anzi, ed aiutarli in tutte le loro faccende con una grazia e un’allegrezza mirabile. Epperò eccolo talvolta, per obbedire a Maria ed aiutarla nelle fatiche più pesanti della casa, ora accendere il fuoco, ora lavare con le sue mani divine le povere stoviglie, ora prendere con dolce violenza la scopa di mano a Maria e mettersi Egli a pulire la casa, ora correre sollecito al pozzo, che ancora presentemente si fa vedere presso di Nazaret, per attingere l’acqua. Eccolo, per obbedire a Giuseppe ed aiutarlo ne’ suoi lavori, ora segar qualche trave, ora piallar qualche tavola, ora verniciare quel mobile, ora uscire a far delle compere, ora a prendere delle misure, ed ora attendere ad altre cose somiglianti. – Ma, perché mai in Gesù Cristo una sì umile sudditanza? La ragione è manifesta. Se Gesù, dice Origene, volle onorare Maria e Giuseppe con quell’onore di star loro soggetto, si fu propriamente per dare a tutti i figliuoli l’esempio, affinché stiano sottomessi ai loro genitori e ricordino bene, che questo, dopo i comandamenti che riguardano Dio, è il primo che riguarda gli nomini. Importa adunque, che tutti i figliuoli prendano da Gesù questa importante lezione. E notate bene, o carissimi, che ho detto tutti i figliuoli a bello studio, perché non si pensi che questa lezione si convenga solamente ai bambini, ai fanciulli ed a coloro, che vivono in famiglia, ma perché si ritenga che essa conviene, e assai assai, anche agli adulti, anche a quelli che per ragione della loro educazione si trovano in qualche istituto, perché anzi tutto devono compiere in esso verso dei loro maestri e superiori i doveri, che hanno coi genitori, poscia perché la loro condotta riferita ai genitori può esser loro causa di consolazione e di dolore, da ultimo perché i doveri, che hanno coi genitori, continueranno in tutta la loro forza, anche allora che saranno usciti dall’istituto. Guai a coloro, i quali perché sono giunti ad una certa età e si sentono pieni di vigoria e di vita, non vogliono più sottostare al padre ed alla madre, ne sdegnano gli avvisi, le raccomandazioni ed i comandi, vivono come loro piace, vogliono insomma farla essi da padroni! La mano del Signore non tarderà a farsi pesante sopra il loro capo per castigarli terribilmente anche in questa vita. Nella Sacra Scrittura (Eccl. III, 18) è chiamato infame colui, che abbandona suo padre ed è dichiarato maledetto da Dio colui, che esaspera la sua madre. E nell’antica legge dettata da Dio a Mosè era ordinata la punizione di morte non solo contro di quel figlio snaturato, che alzasse la mano a percuotere i genitori, ma eziandio verso di chi mancava loro di rispetto col proferire ingiurie e maledizioni contro di essi: Qui maledixerit patri suo, vel matri, morte moriatur (Esod. XXI, 19). E con quali terribili esempi ha dimostrato Iddio quanto lo irriti la mancanza di rispetto verso i genitori! Cam mancò di rispetto al suo vecchio padre Noè, e Dio maledisse alla sua discendenza: maledictus Chanaan(Gen. IX, 25), e il segno di quella tremenda maledizione sta tuttora scolpito sopra di essa. Ofni e Finees sprezzarono gli avvisi del loro padre Eli, e tutti e due morirono nello stesso giorno uccisi in battaglia. Assalonne si ribellò al suo padre Davide, e finì di mala morte, appeso ad una quercia e trapassato il cuore dalla lancia di Gioabbo. E quanti altri fatti somiglianti si potrebbero citare! – Io so bene, che taluni vorrebbero esimersi dal dovere di rispettosa sudditanza verso dei loro genitori e superiori col dire, che sono troppo esigenti e noiosi! Ma a costoro io vorrei chiedere: È possibile ricordare le esigenze e le noie della nostra prima educazione e poi non sopportare in pace qualche po’ di esigenza e di noia da parte dei nostri genitori e superiori? O figlio, che mi ascolti, riduciti un po’ alla mente quando eri debole, impotente, senza forza, senza l’uso della ragione, senza parola. Che sarebbe stato di te, se allora la tua madre col pretesto, che le davi noia e fastidio, ti avesse abbandonato? Povera madre! Tutt’altro che abbandonarti! Essa dopo di averti ricevuto dalle mani di Dio nei più acerbi dolori, ti ha dato il suo latte, ti ha nutrito, ti ha cullato, ti ha vegliato di giorno, di notte, rompendo tante volte i suoi sonni, ha guidato i tuoi primi passi, ti ha insegnato le prime parole, ha sopportato i tuoi capricci e quando poi ti ha incolto una grave malattia, si è piantata lì al tuo letticciuolo e non ti ha più abbandonato un istante; ed a questa madre tu ora ardisci pretendi mancar di rispetto? Va là, sciagurato, che non hai cuore. E tuo padre? Sai tu, figliuolo, quel che gli hai costato? Seduto da mane a sera intisichiva nell’ufficio, nei campi bagnava di sudore i solchi, tra il fumo di un’officina logorava la vita sempre tra le ansietà, tra le sollecitudini e persino tra gli stenti e le privazioni, e tutto, tutto per te, per tirarti su, per metterti all’onor del mondo, per procacciarti anche un po’ di fortuna. E dopo tutto ciò, perché ora tu sei in forze e puoi fare da te, non vuoi più riconoscere per superiore tuo padre e vuoi comandargli tu? E i tuoi superiori? i tuoi maestri? Per educarti alle scienze, alle arti e alla virtù, consacrano il loro tempo, sacrificano la loro libertà, si riducono quasi in ischiavitù, pazientemente tollerano il disgusto e la noia di spesso ripetere le stesse cose, gli stessi insegnamenti e le stesse raccomandazioni; e tu non vorresti farne caso, e fors’anche mancar loro di gratitudine e di rispetto, deriderli, disprezzarli? Ahimè! temi e trema! Eadem mensura qua mensi fueritis, remetietur et vóbis (S. Luc. VI, 34). Quella misura, che adoperi adesso verso di tuo padre e di tua madre, e de’ tuoi superiori, Dio permetterà che altri un giorno l’usino verso di te. Ah! carissimi miei, a somiglianza di Gesù, rispettiamo, obbediamo, amiamo i nostri genitori equelli che ne tengono le veci. Se noi compiremo esattamente questo dovere, potremo anche noi meritare il bell’elogio, che, terminando, fa di Gesù il Vangelo di questa mattina: E Gesù avanzava in sapienza, in età, in grazia appresso a Dio e appresso agli uomini.Sì, lo star soggetti ai genitori e superiori, tutt’altro che avvilirci e farci comparire da poco, ci mostrerà veri sapienti e ci farà crescere nella stima sia presso a Dio, come presso agli uomini.

Altra OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

PER LA I DOM. DOPO L’EPIFANIA

– Sopra i doveri dei figliuoli verso i loro Genitori –

“Erat subditus illis”. Luc. II.

Eccovi tutto ciò che il Vangelo ci fa apprende della vita di Gesù Cristo dall’età di anni dodici sino a quella di trenta, che egli passò a Nazaret in casa dei suoi genitori: erat subditus illis, era sottomesso ad essi. Quanti misteri ed istruzioni racchiudono, fratelli miei, queste poche parole! Quanto l’amore che ci dimostra il Salvatore avere per la vita privata degno è della nostra ammirazione! Non vi pare che avrebbe fatto un gran bene, se addirittura si fosse consacrato al pubblico ministero? Qual bene non avrebbe fatto in una vita pubblica? Qual gloria non avrebbe procurata al suo celeste Padre? Quanti peccatori convertiti non avrebbe con le sue prediche e con i suoi miracoli? Perché dunque ha Egli menata sì lungo tempo una vita privata e sconosciuta agli occhi degli uomini? Aveva forse bisogno di tutto quel tempo per prepararsi alla predicazione del suo Vangelo, dove non impiegò che tre anni della sua vita? No, senza dubbio; poteva subito annunziare questo Vangelo, perché aveva la scienza tutta e la capacità che necessaria gli era per adempiere la sua missione. Ma questo adorabile Salvatore ha voluto prima praticare ciò che doveva in appresso insegnare: Cœpit Jesus facere et docere (Act. 1). Ha voluto osservar il silenzio prima di parlare, ubbidire prima di comandare. Dato ci ha l’esempio dell’umiltà e dell’ubbidienza che voleva insegnarci colle sue parole. Esempio ammirabile, fratelli miei, che deve persuaderci in un modo molto eloquente la sommissione e l’ubbidienza che dobbiamo a coloro che hanno da Dio ricevuta l’autorità per condurci e comandarci. Un Dio di una maestà suprema si sottomette a creature, e la creatura ricuserà di sottomettersi a Dio, obbedendo a quelli che tengono le sue veci? A voi, o figliuoli, indirizzo io quest’oggi particolarmente la parola: venite alla scuola di Gesù sottomesso ai suoi genitori, ad apprendere il rispetto, l’ubbidienza che voi dovete ai vostri. Quali siano i doveri dei figliuoli a riguardo dei loro genitori, sarà il soggetto del mio discorso. Noi non possiamo, fratelli miei, apprendere da un miglior fonte i doveri dei figliuoli verso i loro genitori che dallo Spirito Santo medesimo, il quale ce li ha spiegati con quelle parole dell’Ecclesiaste. Onorate, dice egli ai figliuoli, vostro padre, e dimostrategli il vostro rispetto con le opere, con le parole e con la pazienza: In opere et sermone et patientia honora patrem tuum (Eccl. III). Questi doveri suppongono un amore tenero e filiale che esser deve nel cuore dei figliuoli, ma amore che deve farsi conoscere con il rispetto, con l’ubbidienza e coi servigi ch’essi debbono rendere ai loro genitori. Ecco, o figliuoli, quali sono le vostre obbligazioni. Amate i vostri genitori con un amor tenero e rispettoso: primo punto. Amateli con un amor efficace e compassionevole; secondo punto. Vi chiedo su di ciò tutta la vostra attenzione.

I. Punto. Che i figliuoli obbligati siano ad amare i loro genitori, egli è un dovere che la natura di concerto con la Religione ispira a ciascheduno di noi. Imperciocché se noi siamo obbligati di amare il nostro prossimo non solamente perché Dio ce lo comanda, ma ancora pei legami e per la conformità di natura che abbiamo gli uni con gli altri, qual deve essere il nostro amore pei genitori, con cui siamo sì strettamente congiunti? Mentre, se noi godiamo della vita, ad essi ne siamo, dopo Dio, debitori: l’esistenza che data ci hanno non dà loro diritto di dire che noi siamo una parte di essi medesimi, la carne della lor carne, il sangue del loro sangue, le ossa delle loro ossa? Hoc nunc os ex ossibus meis et caro de carne mea (Gen. II). Quale amore non dobbiamo noi avere pei genitori che si son presa tanta cura per conservarci la vita, che han tollerato tante fatiche e travagli, che esposti si sono a tanti pericoli, e privati di ciò che poteva loro far piacere ed anche del loro necessario per sovvenire ai nostri bisogni? Quante attenzioni, quante pene, quante inquietudini non ha avuto quella tenera madre, allorché portava quel figliuolo nel suo seno? Quanti dolori non ha ella sofferti, mettendolo al mondo? E dopo averlovi messo, qual vigilanza per provvedere ai suoi bisogni? Quante veglie non ha sopportate? Quali carezzi usati non ha per acchetare le lagrime di lui? Quante precauzioni per difenderlo dagli incomodi delle stagioni, per preservarlo dai rischi della morte? Quanti spaventi al minimo segno di dolore e di malattia, che pativa quel figliuolo? Quanti affanni, quante pene di spirito, quanti travagli di corpo non ha tollerati quel padre per trovar ai suoi figliuoli di che provvedere al loro mantenimento, alla loro sussistenza? Quanti passi per procurar loro qualche stabilimento? Non sono questi tanti motivi di amar un padre ed una madre, e di usare verso di essi una giusta gratitudine? Queste sono anche le ragioni per cui Dio nel comandamento che ci fa di amare il nostro prossimo, propone i nostri genitori per primo oggetto del nostro amore, perché ci toccano più da vicino e noi siamo loro debitori più che ad alcun’altra persona. Sappiate, o figliuoli, che, qualunque cosa voi facciate per dimostrare il vostro amore e la vostra gratitudine ai vostri padri e madri, voi non adempirete giammai perfettamente all’obbligo che ve ne corre; saranno essi sempre vostri creditori, e voi sempre sarete i loro debitori. Di qual durezza, di qual ingratitudine non si rendono dunque colpevoli quei figliuoli disumani, che ben lungi d’avere per i loro padri e loro madri l’amore e la riconoscenza che gli devono, li odiano, li disprezzano, non possono vederli né soffrirli? che giungono a tal seguo di crudeltà di far loro cattivi trattamenti, allorché quei poveri genitori non hanno forza bastante o per punirli, o per loro resistere? che sono sì barbari di desiderare la morte a quelli che hanno dato loro la vita, per possedere i loro beni e vivere a seconda delle loro passioni senza soggezione e senza contrasto? – Figli ingrati, che non meritate di vedere il giorno, voi siete parricidi, voi meritate che la terra apra i suoi abissi sotto i vostri piedi per ingoiarvi, che le bestie feroci vi divorino e che i corvi, per servirmi dell’espressione della Scrittura, vi strappino gli occhi, vi squarcino il cuore e vi rodano le viscere. Ma tosto o tardi voi sentirete la maledizione del Signore: le minacce che ve ne fa nelle sue divine scritture, i castighi terribili che ha praticati sopra figliuoli del vostro carattere, ne sono prove convincenti. Ne abbiamo esempio molto sensibile nella persona del perfido Assalonne, cui l’odio e l’ambizione prender fecero l’armi contro suo padre Davide per torgli ad uno stesso tempo e la corona e la vita. Ma qual fu la sua trista sorte? Il Signore rovesciò i suoi ambiziosi disegni: la sua armata fu sconfitta da quella del re Davide, e nel mentre che Assalonne prese la fuga per evitare la morte che meritava; restò sospeso per li capelli ad un albero sotto cui passava; ricevette in quello stato il colpo della morte dal generale dell’armata di Davide, che lo trafisse con tre colpi di lancia; ed invece del sepolcro magnifico che aveva fatto costruire per porvi il suo corpo dopo sua morte, fu posto in una fossa, che si ritrovò nella foresta, dove si gettò una quantità di pietre: il che continuarono a fare in appresso i viandanti, in esecrazione della sua perfidia, dicendo: Ecco il figlio ribelle che ha perseguitato suo padre e che ha voluto levargli la vita. Esempio terribile, fratelli miei, che deve far tremare i figliuoli del carattere di Assalonne, i quali odiano i loro padri e madri, e loro desiderano la morte! Essi temer devono che Dio morir non li faccia prima di essi di una morte tragica: felici ancora, se puniti non fossero che in questa vita; ma i castighi che sono loro riserbati nell’altra sono molto più terribili, e lo sono tanto più, quanto che l’odio e l’avversione dei figliuoli pei loro genitori è un più gran male di quello che essi avrebbero contro altre persone. – Amate dunque, o figli, i vostri padri e le madri vostre; egli è questo un dovere da cui dispensar non vi potete. Ma come conoscerete voi di avere per essi questo amore, che Dio da voi richiede? Ciò sarà allorché voi vorrete loro tanto bene quanto a voi medesimi: loro desidererete una sanità così perfetta, una vita così lunga, una fortuna così favorevole, come a voi medesimi; ciò sarà allorché voi amerete la loro compagnia, poiché si sta volentieri con le persone che si amano; e quando si fuggono, come fanno un gran numero di figliuoli, i quali non credono giammai di star più male che quando sono coi propri genitori, è segno che non li amano troppo. Finalmente voi conoscerete se avete questo amore pei vostri genitori, quando loro dimostriate il rispetto che ad essi dovete. E ancora il Signore che ve lo comanda. Onorate, vi dice, vostro padre e vostra madre: Honora patrem tuum et matrem tnam (Exod. 20). Non vi contentate di avere in cuore per essi sentimenti di tenereza e di benevolenza, ma date ancora prove esteriori del rispetto che loro portate. Per indurvi a ciò, riflettete che il padre, e la madre tengono a vostro riguardo le veci di Dio, che ne sono le immagini, e che dopo Dio sono i primi oggetti del vostro amore e del vostro rispetto. Voi dovete tutto a Dio, come alla causa prima, che vi ha dato l’essere, voi dovete tutto ai vostri genitori, come a cause seconde, a cui Dio ha data la fecondità per generarvi. Onorare i vostri genitori si è onorare Dio medesimo, di cui rappresentano la paternità, all’opposto disprezzarli è disprezzar Dio medesimo che ha comunicato loro il suo potere: e mancare di rispetto a Dio il mancarne verso i vostri genitori: Qui timet Dominum honorat parentes (Eccl. III). Chi teme il Signore, onora i suoi genitori, dice lo Spirito Santo, chi dunque manca a questo dovere non ha questo timor di Dio, che è il principio della sapienza. Per impegnarvi ancora ad usar questo rispetto; riflettete ai premi che il Signore promette ai figliuoli che adempiono questo dovere. Ne promette anche in questa vita: perocché dovete notare una prerogativa annessa a questo comandamento che non lo è agli altri. Infatti, tra tutti i comandamenti che Dio ci ha lasciati nel decalogo non avvenne alcuno alla cui osservanza destinato abbia un premio temporale, come a quello di onorar i nostri genitori: Onorate vostro padre evostra madre affine di vivere lunga vita sulla terra: ut sis longaevus super terram; cioè una vita ripiena di benedizioni del Signore, spirituali e temporali, una vita i cui dolori ed affanni verranno da grazie interiori raddolciti: l’bbidienza e il rispetto che userete verso i vostri genitori vi meriteranno la consolazione di essere voi medesimi obbediti erispettati dai vostri figliuoli. Ora in che consiste quest’onore, e questo rispetto che i figliuoli debbono mostrare ai loro genitori? Manifestare lo debbono nelle loro parole e con la loro ubbidienza. Debbono i figliuoli parlare ai loro genitori sempre con modestia ed umiltà dar loro, in tutte le occasioni che si presentano, segni della profonda venerazione di cui sono per essi penetrati, sia salutandoli, alzandoci in piedi per onore quando entrano in casa oppure n’escono, cedendo loro il passo, tutto l’onore che da un servo esigere può un padrone. Questo rispetto consiste ancora nel sopportare i loro difetti, nell’ascoltare con sommissione i loro rimproveri, le loro riprensioni, nel chiedere e nel seguire i loro buoni avvertimenti. – Che diremo noi dunque di quei figliuoli insolenti che prendono cert’aria d’arroganza col padre e la madre loro, che li contristano con parole ingiuriose e sprezzanti, che li trattano con disdegno, che li sbeffano a cagione dei loro difetti, li insultano, fan loro amari rimproveri sulle loro debolezze ed imperfezioni, che hanno talvolta meno di condiscendenza per loro che per un servo od uno straniero? Ah! di quali delitti non si rendono colpevoli quei figliuoli che in tal modo trattano i loro genitori, e qual diluvio di disgrazie non si tirano addosso! Imperciocché, se Dio minaccia severi castighi a chi tratterà suo fratello con parole ingiuriose, con qual rigore punirà poi i figliuoli che parlano al padre alla madre in una maniera aspra e orgogliosa, che li caricano d’ingiurie e di villanie e che giungono alcune volte (dirollo?) a tal segno di petulanza, di vomitar contro di essi maledizioni ed imprecazioni? Maledizioni però che ricadranno su di voi, figli inumani, non solo nel gran giorno delle vendette del Signore, ma in questa vita ancora; mentre maledetto è quel figliuolo, dice lo Spirito Santo, il quale non onora suo padre e sua madre: maledetto in sé stesso per le miserie che l’opprimeranno: maledetto nei suoi beni, che periranno: maledetto nei suoi figliuoli, che lo faran gemere e farangli passare i giorni nell’afflizione e nella tristezza. – La Santa Scrittura ce ne fornisce un memorabil esempio in un figliuolo di Noè, il quale per essersi beffato di suo padre, ne fu maledetto con tutta la sua posterità: Maledictus Canaan (Gen. IX). Canaan nipote di Noè provò questa maledizione, che il Signore confermò, condannando lui e i suoi figliuoli ad una vergognosa e lunga servitù: maledizione che vediamo ancora verificata in un gran numero di padri e di madri che sono stati figli ribelli ed indocili, e che nei propri figliuoli soffrono la pena delle loro ribellioni. Imparate dunque, o figliuoli, ad onorare il padre e la madre in qualunque stato voi siate, poveri o ricchi; se voi vi trovate in più alta fortuna che essi non dovete perciò dispregiarli, come certi figliuoli che sembrano non conoscere i poveri genitori e che si crederebbero disonorati a dar loro segni pubblici del loro rispetto, e che paiono vergognarsi di loro appartenere. In qualsivoglia stato siano i vostri genitori, poveri o ricchi, sani o infermi, sono sempre le immagini di Dio, sempre degni in conseguenza del vostro rispetto, vi sien utili o no, voglio anche che vi siano a carico per le loro malattie, la loro vecchiaia, la loro fiacchezza, voglio ancora che siano fastidiosi, di cattivo umore, che si mettano in collera per cose da nulla, che trovino da biasimare in tutto, che necessaria sia una grande pazienza per sopportarli: non importa, ritorno sempre al mio principio, tengono essi sempre le veci di Dio, voi dovete sempre onorarli. Se voi li mettete in collera e in cattivo umore per i vostri difetti, correggetevi, se vi si mettono essi senza ragione, niun diritto voi avete di resister loro; convien sopportare i loro difetti con pazienza, dice lo Spirito Santo: Honora in omni patientia (Eccl. III). – Questa pazienza sarà per voi di un gran merito innanzi a Dio, perché essa è una prova del rispetto che avete pei vostri genitori; dimostrate loro ancora questo rispetto con la vostra ubbidienza alla loro volontà. Vuole il buon ordine e la giustizia che ogni inferiore sia sottomesso al suo superiore: ora i genitori, per l’autorità che hanno ricevuta da Dio, sono i superiori dei figliuoli; questi conseguentemente loro debbono una pronta ed intera ubbidienza. Ubbidienza sì necessaria ai figliuoli che ne fa il carattere essenziale; di modo che siccome un raggio separato dal sole più non risplende, un ruscello separato dal fonte divien secco, un ramo tagliato dall’albero diventa arido; così, dice s. Pier Crisologo un figlio cessa di esser figlio, da che manca di ubbidienza ai suoi genitori; è un mostro nella natura, indegno di occuparvi un posto. Per la qual cosa l’Apostolo S. Paolo raccomandava sì caldamente quest’ubbidienza ai figliuoli come un dovere essenziale al suo stato: Filli, obedite parentibus per omnia (Col. V). Qual dunque esser dee quest’ubbidienza? Ella deve essere pronta ed universale, pronta per allontanare tutte quelle dilazioni che i più dei figliuoli apportano ad eseguire gli ordini dei loro genitori, cui non ubbidiscono, se non dopo molti comandi reiterati, brontolando, a forza di rigore e di castighi, il che fa loro perdere il merito dell’ubbidienza. L’ubbidienza forzata rassomiglia a quella dei demoni, che eseguiscono, malgrado loro, gli ordini di Dio. Bisogna dunque per esser grata ed accetta a Dio, che sia volontaria, pronta, senza doglianza e senza dilazione. L’ubbidienza deve ancora essere universale nei figliuoli per ubbidire in tutto ciò che vien loro comandato, sia pel temporale, sia per lo spirituale; pel temporale, lavorando, rendendo ai genitori tutti i servigi che domandano pel buon ordine ed il bene della famiglia. Per lo spirituale, sia fuggendo le cattive compagnie, i giuochi, le persone, la cui società è pericolosa per la salute, sia adempiendo i doveri di Cristiano: tali sono l’orazione, la frequenza dei sacramenti, l’assiduità alla santa Messa, ai divini uffizi, alle istruzioni ed altre buone opere. Ma è forse così che ubbidisce la maggior parte dei figliuoli, che far non vogliono se non ciò che loro piace; che dimostrano con certi segni di far poco caso di quanto loro si dice; che capaci si credono di condursi da se stessi, che a dispetto dei loro genitori mantengono relazioni pericolose, vanno nelle veglie, nei balli, nelle osterie, nelle case sospette; che, malgrado gli avvisi caritatevoli del padre e della madre, non frequentano i Sacramenti, vengono alla chiesa quando loro piace, vivono in una parola, come se non avessero né fede né  Religione? Non è questo il ritratto di un gran numero di giovani che con la loro condotta sregolata danno mille motivi di affanno ai loro genitori, accorciano i loro giorni e fanno anch’essi una fine infelice? Perché tosto o tardi il Signore, di cui dispregiano l’autorità in quella dei loro genitori, fa loro sentire i rigori della sua giustizia. Ubbidite dunque, o figliuoli, ai vostri genitori, in tutto ciò che vi comandano secondo il Signore, come dice l’Apostolo, in Domino; poiché se vi comandano cosa contro la sua santa legge, come l’ingiustizia, la vendetta od altra qualsiasi azione proibita, allora, dovete loro rispondere, con piacevolezza per altro  che voi dovete a Dio ubbidire e non agli uomini. Tralasciare qui non devo un articolo essenziale, su cui dovete consultare i vostri genitori ed anche loro ubbidire: cioè nella scelta che far dovete di uno stato. Io so benissimo che essi non debbono vincolare la vostra libertà; ma Dio ve li ha dati per guida e per maestri; essi hanno maggiori lumi e più di esperienza che voi; conoscono meglio quel che vi conviene. Voi dovete dunque seguir piuttosto i loro avvisi che una passione cieca che vi farà fare dei passi falsi. Ricompenserà Iddio la vostra ubbidienza con le benedizioni che spargerà sopra un matrimonio che fatto avrete di loro consenso. Né vi diate già a credere che, quando siete in questo stato, voi più non dobbiate loro né rispetto, né ubbidienza, come s’immaginano certuni che si credono padroni di se stessi; voi dovete sempre rispettarli, loro ubbidire, consultarli e seguire i loro avvertimenti. L’edificazione che voi dovete alla vostra famiglia nascente ve ne fa ancora un obbligo stretto; e che cosa pensar potrebbero i vostri propri figliuoli, se vi vedessero disubbidire e mancar di rispetto ai vostri padri e alle vostre madri?

II. Punto. Finiamo, fratelli miei, di spiegare i doveri dei figliuoli riguardo ai loro padri e madri, che consistono a render loro nel bisogno tutti i servigi di cui sono capaci. No, non basta per voi, o figliuoli che mi ascoltate, amare i vostri padri e le vostre madri con amor tenero e filiale, non basta portar loro rispetto; voi dovete ancora assisterli in tutti i loro bisogni del Corpo e dall’anima; i medesimi motivi che vi obbligano d’amarli vi obbligano altresì a soccorrerli. Richiamate per un momento i motivi che vi ho di già proposti al principio di questo discorso. I benefizi di cui siete debitori ai vostri genitori, vi faranno comprendere che, soccorrendoli, voi non fate che render loro quanto vi hanno prestato; e tuttavia non farete giammai quanto essi hanno fatto per voi; i vostri servigi saranno sempre minori di quel che loro dovete. Cessate dunque di dire che questi genitori non vi sono al presente di alcun vantaggio, che vi sono anche a carico per la loro età avanzata, per la vecchiezza, per le malattie: voglio accordare che sia così; ma non è ancor vero che non sono sempre stati tali? Senza le loro attenzioni e fatiche, voi non avreste quel che possedete, voi non sareste ciò che siete. Né stiate pure a dire che voi nulla loro dovete di quanto possedete, che è il frutto delle vostre fatiche e della vostra industria. Ve l’accordo ancora: ma non dovete voi loro la vita, la forza, la sanità, di cui godete? Nutriti non vi hanno e mantenuti nel tempo in cui non eravate in istato di procurarvi da voi medesimi quanto vi era necessario? Non è egli giusto che voi al presente facciate lo stesso a loro riguardo? Gli incomodi che han sofferto, le malattie che hanno contratte, sono gli effetti delle inquietudini, dei travagli che hanno sopportati per allevarvi; potete voi dunque senza ingratitudine ricusar loro i soccorsi di cui hanno bisogno? Nulla vi avanza, mi direte, che necessario non sia per voi e pei vostri figliuoli. Ma quante volte i vostri genitori privati si sono del necessario per darlo a voi? Se voi aveste più figliuoli, lo lascereste loro mancare? La vostra industria troverebbe i mezzi di provveder alla loro sussistenza: mettete i vostri padri e madri nel numero dei vostri figliuoli: fate per essi quel che fareste per li vostri figliuoli; Dio spargerà le sue benedizioni sopra le vostre fatiche, e la sua provvidenza supplirà a tutti i vostri bisogni. Se vitrovate nella miseria, non è questo un castigo della durezza che avete per li vostri genitori, cui non solamente ricusate ciò che loro è necessario, ma forse ancora con barbara crudeltà lo rapite? Siate più pietosi a loro riguardo, e Dio sarà pietoso verso di voi altrimenti mancherebbe alla promessa che vi ha fatto di ricompensare anche in questa vita l’amore ai vostri genitori; il che pensare non si può di un Dio sì buono e sì fedele alla sua parola come il Dio cui noi serviamo. – Ma in che i figliuoli sono obbligati di soccorrere i loro genitori? Dissi, fratelli miei, nei bisogni del corpo ed in quelli dell’anima. Nei bisogni del corpo assistendoli nella povertà, dividendo con loro il vostro pane, somministrando loro quanto è necessario per mantenerli e nutrirli. Se hanno bisogno dei vostri servizi, voi render glieli dovete a preferenza di qualunque altro; o se voi servite qualche altro padrone, impiegar bisogna per soccorrerli quel che guadagnate. Se sono infermi, allora è che raddoppiar dovete tutte le vostre attenzioni per procurar loro ì rimedi necessari ed un buon nutrimento. Oimè! se qualche bestia da carico che vi appartiene è assalita da malattia, voi nulla risparmiate per guarirla; e sovente morire si lascia un padre, una madre per mancanza di qualche soccorso che si potrebbe e si dovrebbe loro dare; e piaccia al cielo che loro anche non si ricusino questi soccorsi per accelerarne la morte! – Finalmente provveder voi dovete ai bisogni spirituali dei vostri genitori, sia consolandoli nelle loro afflizioni, sia facendo loro amministrare i Sacramenti quando sono infermi, più presto che è possibile; mentre basta una malattia di qualche giorno ed anche di alcune ore per mandare alla sepoltura corpi infermi cui la morte ha già portato i suoi colpi col peso degli anni che li opprime. Bisogna altresì in quei critici momenti pregar molto e far pregare per essi. Questo è dar loro il segno più certo di un amore veramente filiale, l’indirizzarsi al cielo per chiedere con istanza quanto è necessario per la loro salute. Figliuoli ben nati, amate i vostri genitori e a misura che il rischio della malattia aumenta, raddoppiate le vostre cure: domandate per essi una morte preziosa agli occhi del Signore, se ottener loro non potete una più lunga vita: vi lasciano quanto posseduto hanno sulla terra, ottenete loro il cielo; mentre il vostro amore dee stendersi ancora più in là del sepolcro, pregando pel riposo delle loro anime, eseguendo al più presto le pie intenzioni che significate vi hanno nei loro testamenti, adempiendo le restituzioni di cui vi hanno incaricati. Ma oimè! quanti pochi figliuoli si vedono al giorno d’oggi fedeli ad adempiere questi doveri a riguardo dei loro genitori defunti! Avidi, premurosi d’impadronirsi dei beni che hanno loro lasciato, non pensano che a dividerne le spoglie, a profittare della successione, senza mettersi in pena del tristo stato a cui ridotti sono questi padri e madri, forse pel troppo grande affetto che hanno avuto per essi: simili in ciò ai barbari fratelli di Giuseppe, i quali, dopo averlo messo in una cisterna, si divertivano sul luogo medesimo che serviva di teatro alla loro crudeltà. – Quanti anche si vedono figliuoli ingrati che perdono sino la memoria dei loro padri e madri, e fanno della conseguita eredità materia di dispute, divisioni e liti che suscitano gli uni contro gli altri? Divisioni, liti che si perpetuano di generazione in generazione, senza che si possano estinguere. Quanti altri che fanno di queste eredità materia delle loro dissolutezze, o non se ne servono che per contentare passioni peccaminose, senza riserbare una sola porzione dei beni che hanno ricevuto per soccorrere i genitori che soffrono crudeli pene nel fuoco del purgatorio? Ecco, poveri genitori, qual è il frutto del vostro faticare e soffrire. Ah figli ingrati, voi sarete misurati con la stessa misura che misurati avrete i vostri genitori; vi tratteranno col medesimo rigore con cui trattati avrete loro; e se continuate a fare un cattivo uso dei beni che avete acquistati, voi morrete nel peccato, e diverrete vittima non delle fiamme del purgatorio. ma di quelle dell’inferno.

Pratiche. Procurate di evitare questa disgrazia; istruiti come ora siete dei vostri doveri a riguardo dei vostri padri e madri, siate fedeli nell’adempierli: amateli, rispettateli, rispondete e non parlate loro che con rispetto; amatela loro compagnia, né fate cosa alcuna senza consultarli; ubbidite loro, come a Dio, quando vi comandano; pregate per essi, rendete loro tutti i servigi di cui siete capaci, e Dio vi ricompenserà non solo con una lunga vita sulla terra ma ancora con una vita eterna nel cielo. Così sia.

Credo.

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Offertorium

Orémus
Ps XCIX, 1 Jubilate Deo, omnis terra; servite Domino in lætitia. Introite in conspectu ejus in exsultatione: quia Dominus ipse est Deus.

 [Acclamate con gioia a Dio da tutta la terra: servite al Signore con allegrezza: entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. ]

Secreta

Oblatum tibi, Domine, sacrificium vivificet nos semper, et muniat. Per Dominum … [L’offerto sacrificio o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca. Per … ]

Comunione spirituale

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Communio

S. Luc. II: 48 et 49

Fili, quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te. Quid est quod me quærebatis? nesciebatis quia in his quæ Patris mei sunt, oportet me esse? [Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo – E perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio?]

Postcommunio

Orémus.
Suèplices te rogamus, omnipotens Deus: ut quos tuis reficis sacramentis, tibi etiam placitis moribus dignanter deservire concedes. Per Dominum nostrum J. C.
[Ti supplichiamo, Dio onnipotente, affinché quelli che nutria con I tuoi sacramenti, ti servano degnamente con una condotta a te gradita. Per nostro Signore …]

Preghiere leonine https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (93)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (4)

CAPO IV.

Dagli effètti dimostrasi che v’è  Dio.

I. Difficilissimo, non vel nego, è provar dalla sua cagione, che Dio vi sia: anzi è del tutto impossibile, perché la prima cagione non può avere cagione da cui provenga (L’autore giustamente rigetta, siccome insussistente la dimostrazione dell’esistenza reale di Dio derivata dalla sua cagione e denominata perciò a priori. Nel che egli ha dalla sua non solo la ragione, ma altresì la forte autorità di s. Tommaso, il quale nella sua Summa contro gentiles, lib. I. cap. 10 ed il pone in chiaro,come muovendo dall’idea di Dio non si riesca se nonall’esistenza meramente ideale di Dio). Ma che rileva? Quanto nascoso è il Nilo all’Egitto nella sua fonte, tanto egli è manifesto nella sua piena. Basta però, che la cagion prima dimostrisi dagli effetti che sono a lei sì proporzionati: non già con proporzione di dignità, quale hanno le cose generato col generante; ma con proporzione di dipendenza, quale hanno le cose fatte col facitore. Che se tali effetti, in riguardo alla loro fonte inesausta, non sono più che una stilla; in riguardo a noi sono una piena bastevole ad assorbire ogni gran considerazione. Prima però ch’ella ci giunga a sorprendere, date mente.

I.

II. E indubitato, che al tutto non poté precedere il nulla. Perché, se il nulla fosse tanto antico di età, che avesse preceduto il tutto, possibile cosa alcuna. Conciossiachè, da chi potrebbe sortir mai questa il natale, cioè il passaggio dal non essere all’essere? Sicuramente lo dovrebbe sortire, o da sé, o dal nulla, anteriore a lei. Ma il nulla non può dare ciò che non ha voglio dire l’esser reale. Ed ella, se in questo punto comincia ad essere, come poté fare sé, quando ancor non era?

III. Vedete dunque, doversi a forza concedere, che ab eterno vi fu qualche essere necessariamente esistente, il quale donò l’essere a ciò che non lo godea. Ed un tal essere, necessariamente esistente, padre, produttore, fattore di quanto v’è fuori di lui stesso, è quello che noi chiamiamo la cagion prima, precedente ab eterno tutto il creato (Più in breve, esiste qualche cosa, dunque esiste un essere necessario).

IV. Ma gli ateisti sono certe bestie restie, che impuntano ad ogni passo. E però quantunque sia questo un lume sì chiaro, ricusano di guardarlo. E anzi di concedere quella eterna cagion del tutto che io vi dicea, o concedono infiniti effetti ed infinite cagioni, senza che mai si giunga a trovar la prima, e danno in altri spropositi che poi verremo a ribattere ad uno ad uno, come più folli. Però, se a questi voi non temete aderire, preparatevi pure a riportare anche voi dal braccio della ragione percosse orribili, quali appunto si sogliono scaricare su i mentecatti.

II.

V. E, per rifarci da quelle che si convengono al primo assurdo, non vedete voi, che il volere nell’assegnamento delle cagioni procedere in infinito, altro non è che atterrare il discorso umano da’ fondamenti? Innanzi a qualsisia moltitudine è necessario, come disse Platone, premettere l’unità: Necesse est ante omnem multitudinem ponere unitatem.(S.Thom): mercecchè l’uno è quello che alla fine dà legge al tutto. Se la galea, a onta della bonaccia, si muove in mare, perché ella è mossa dai remi; i remi, perché sono mossi da’ galeotti; i galeotti perché sono mossi dal comito; il comito, perché è mosso dal capitano; il capitano, perché è mosso dall’ammiraglio; l’ammiraglio, porche egli è mosso dal re: bisogna pure pervenire una volta a quell’uno primo, da cui provenga, che tal galea sia da tanti sospinta al corso; altrimenti ella si starebbe ancora oziosa nell’ arsenale. Vedete dunque, che a questa moltitudine di motori subordinati necessariamente ha da darsi il subordinante, da cui dipendano tutti, come gli strumenti dipendono dall’artefice. Ora ciò che in questa moltitudine avviene, avviene in ogni altra che sappiate voi divisare nel nostro mondo, dove nulla è di stabile, tutto è in moto. Conviene a ciascuna dare il primo motore, non mosso nelle sue opere da alcun altro: e per conseguente conviene darlo anche più a tutta la moltitudine universale delle creature, la quale come non può costare di cagioni puramente strumentali, forza è, che a queste abbia unita la principale. E tale è la cagion prima.

III.

VI. E vaglia la verità; non vegliamo noi tuttogiorno cogli occhi propri venire al mondo più cose nove, a guisa di personaggi che compariscono la prima volta in scena, su tanto palco, a fare la loro parte? A cagion di esempio. Veggiamo ogni ora nuovi uomini che seguitamento derivano l’un dall’altro per nascimento. Ora andiam col pensiero, se così è, navigando sempre a ritroso, e contra la corrente di tante generazioni, ascendiamo di padre in padre a osservar ciascuno. Converrà di certo arrivar ad un padre primo, il quale sia formato immediatamente da questa prima cagione sì necessaria che chiamiam Dio, se non vogliamo, negandolo, urtar di colpo nell’impossibile sommo, qual è – secondo Agostino – che un effetto novello produca sé. Né il ricorrere ad infiniti uomini, generati gli uni dagli altri, sopisce la difficoltà, ma la fa più viva. Perocché vi chieggo: Tra questi infiniti uomini da voi detti, evvene alcuno, il quale possegga una tal virtù, di generar se medesimo, o pur non v’è? Se direte esservi, voi dunque concedete l’assurdo massimo, dileggiato pur ora. E se voi lo negherete, dunque è di necessità assegnare a ciascuno di quella schiera (ove niuno a sé può dar l’essere da se stesso) qualcuno che glielo dia. E tal è la prima cagione, da cui dipende tutto ciò che da sé non può veder luce (Ammettere il processo all’infinito degli uomini e delle cose torna allo stesso, che ammettere e negare ad un tempo il principio di causalità. Posciachè mentre si conviene, che gli uomini sono gli uni cagione degli altri, si nega una cagion prima, che sola merita il nome di cagione, perché non è prodotta da altro essere, ma sta da sé).

VII. Figuratevi con l’immaginazione una catena smisurata di anelli sospesi in aria. Se, a sostenersi, l’ultimo di loro ha bisogno del susseguente cui sta connesso, l’altro dell’ altro, e l’altro dell’altro; converrà pure giungere ad un anello, che non sia labile come gli antecedenti, ma sia tenuto da qualche mano invisibile che non ceda, altrimenti tutta la catena composta di tali anelli cadrà a terra. Né vale, che tali anelli siano infiniti, e che perciò falli in essi questa supposizion di arrivare al primo; perché se sono infiniti, che importa ciò? Quanto più si aggiunge agli anelli di numero, tanto più si accresce alla catena di peso, non di fermezza: mentre è certissimo, che niuno però si ritrova fra tanti anelli che non sia labile; e questo basta a far che cadano tutti, ove niun li tiene. Dunque all’istessa maniera fingete uomini più e più, quanto piace a voi. Se ciascuno per essere ha bisogno di un altro che gli sia padre, converrà pure costituire un principio che dia saldezza a sì gran concatenazione, e non sia parimente un anello simile agli altri, cioè non sia bisognoso di alcuno che gli sia padre, ma sussista da sé medesimo, e possa reggere altri, senza esser retto, o, a parlar più chiaro, possa cagionare altri, senza essere cagionato, ch’è quello in che consiste al fine esser Dio. E ciò che io dissi di ciascuno individuo compreso in quella interminabile schiera di generati e di generanti, dite voi di tutta la schiera pigliata insieme, a modo di moltitudine. Come nessuno de’ suoi individui poté essere da se stesso, così né anche la schiera; non costando la schiera alfin d’altro più (comunque ella piglisi) che di quei tanti figliuoli e di quei tanti padri che andammo in essa a trascendere col pensiero per linea retta. E con ciò resta messa totalmente a sbaraglio la infinità dello cagioni efficienti al tutto chimerica, ove se ne escluda la prima.

IV.

VIII. Né perché io vi abbia qui favellato di queste cagioni sole che fanno più al caso nostro, dovete credere, che ciò in lor sole succeda. Succede in tutte. Tanto che, se nell’assegnarle, ove ci sia d’uopo, si dovesse procedere in infinito, miseri noi! che sapremmo noi mai di nulla? Il saper vero, è saper ciò che si sa dalle sue cagioni: Scire rem per causam (Arist. Metaph.). Questo è il saper di pittura, saper di musica, saper di marinaresca, sapere di agricoltura. Onde chi non sa le cagioni per cui si debba in alcun mestiere procedere di una forma, più che di un’altra, non ne sa nulla. Ma chi potrebbe tutte le cagioni trascorrere ad una ad una, per apprendere l’arte da sé bramata, se non avessero fine?

IX. Quindi, se si favelli di cagione finale, vi vuole il termine. Perché, se quel giovane indirizza l’esercizio alla sanità, la sanità allo studio, lo studio alla scienza, la scienza al dottorato, il dottorato alla cattedra più lucrosa, conviene arrivare a un limite in cui si posi l’intenzione dell’operante: altrimenti, senza un tal fine che sia qual meta, nessuno mai spiccherebbesi dalle mosse.

X. Se si favelli di cagion materiale, vi vuole il termine. Perché se la statua è fatta di stucco, lo stucco di carta, la carta di cenci, i cenci di tela, la tela di lin tessuto, convien ridursi ad una materia certa, ove alfin si resti: altrimenti mai non saprebbesi di che tale statua si avesse da fabbricare.

XI. E se si favelli altresì di cagion formale (ch’è quella da cui si prende la difinizion della cosa), vi vuole egualmente il termine, come all’altre. Onde, se si asserisce, che l’uomo è animal ragionevole, l’animale è vivente sensitivo, il vivente è quello che è atto in qualche modo a operar da sé, conviene similmente ridursi ad un costitutivo final dell’uomo, ove si compisca: altrimenti non si potrebbe da nessuno mai dimostrare ciò che egli siasi, mentre da nessuno si potrebbe mai difinire.

XII. Ora, se in tutti gli altri generi di cagioni possibili a ritrovarsi vi vuole quella prima che dia quasi il moto all’opera; come può stare, che non vi voglia anche in questo di cui si tratta, cioè nel genere delle cagioni effettive, da cui dipendono gli altri? Tolta che siasi la cagione facitrice di alcuna cosa, come di un palazzo, di un panno, di una pittura, né vi è più la finale per la qual tacciasi, né vi è la materiale costitutiva di cosa fatta, né la formale. E però vedete, come il tutto cospira a volervi di filo condurre a Dio, che è la prima cagione altissima, condannando ad un’ora la scioccheria di chi vuole anzi procedere in infinito per assicurarsi così di non dovere mai giungere a trovar nulla: che è il termine dove aspirano gli ateisti, massimamente in andarsene all’altra vita.

V.

XIII. Però, se voi, necessitato da tanti lati ad ammettere tal cagione, mi direte forse con Plinio che questa è il mondo, eccovi all’altro assurdo non meno degno di pubblica derisione, nel quale urtano addirittura coloro che vogliono, come scoglio già troppo enorme, scansare il primo: urtano in asserire (Giova notare, oltre questi due scogli, un terzo assurdo, contro il quale rompono gli atei, ed esso è che l’ammettere del mondo una cagione, e riporla ad un tempo nel mondo stesso, e solenne contraddizione. Niuna cosa è cagione di sé, perché essere cagione val quanto dare a se medesimo l’esistenza, e per darsi l’esistenza, cioè operare, bisogna già esistere. II nulla non opera, non è cagione di veruna cosa), che il mondo non sia fatto, ma sia da sé, e da sé sia stato ab eterno. Vcdiam però quanto vadano di là dal vero.

SALMI BIBLICI: “BENEDIXISTI, DOMINE, TERRAM TUAM” (LXXXIV)

SALMO 84: “Benedixisti, Domine, terram tuam”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 84

In finem, filiis Core. Psalmus.

[1] Benedixisti, Domine, terram tuam;

avertisti captivitatem Jacob.

[2] Remisisti iniquitatem plebis tuae, operuisti omnia peccata eorum.

[3] Mitigasti omnem iram tuam, avertisti ab ira indignationis tuae.

[4] Converte nos, Deus salutaris noster, et averte iram tuam a nobis.

[6] Numquid in aeternum irasceris nobis? aut extendes iram tuam a generatione in generationem?

[6] Deus, tu conversus vivificabis nos, et plebs tua laetabitur in te.

[7] Ostende nobis, Domine, misericordiam tuam, et salutare tuum da nobis.

[8] Audiam quid loquatur in me Dominus Deus, quoniam loquetur pacem in plebem suam,

[9] et super sanctos suos, et in eos qui convertuntur ad cor.

[10] Verumtamen prope timentes eum salutare ipsius, ut inhabitet gloria in terra nostra.

[11] Misericordia et veritas obviaverunt sibi; justitia et pax osculatae sunt.

[12] Veritas de terra orta est, et justitia de caelo prospexit.

[13] Etenim Dominus dabit benignitatem, et terra nostra dabit fructum suum.

[14] Justitia ante eum ambulabit, et ponet in via gressus suos.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXIV

Si predice la liberazione dalla schiavitù del demonio per Cristo; e poi si prega per il compimento della predizione.

Per la fine; a’ figliuoli di Core, salmo.

1. Signore tu hai voluto bene alla tua terra. Mi hai tolta la schiavitù di Giacobbe.

2. Tu hai rimessi i peccati del popol tuo; hai ricoperti tutti i loro peccati.

3. Hai raddolcito tutto il tuo sdegno; hai sedato il furore di tua indignazione.

4. Convertici, o Dio nostro Salvatore, e rimuovi da noi l’ira tua.

5. Sarai tu irato con noi in eterno? o prolungherai l’ira tua di generazione in generazione?

6. O Dio, tu volgendoti a noi ci renderai la vita; e il popol tuo in te si rallegrerà.

7. Fa’ vedere a noi, o Signore, la tua misericordia, e dà a noi la tua salute.

8. Fa ch’io ascolti quello che meco parlerà il Signore Dio, perocché egli parlerà di pace col popol suo,

9. E co’ suoi santi e con quelli che al cuor loro ritornano.

10. Certamente la salute di lui è vicina a color che lo temono; e abiterà nella nostra terra la gloria.

11. La misericordia e la verità si sono incontrate insieme; si son dato il bacio la giustizia e la pace.

12. La verità spuntò dalla terra; e dal cielo ci ha mirati la giustizia.

13. Perocché darà il Signore la sua benignità, e la nostra terra produrrà il suo frutto.

14. La giustizia camminerà dinanzi a lui, e porrà nella retta strada i suoi passi.

Sommario analitico

In questo salmo, il Profeta domanda a Dio con istanza il ritorno degli Israeliti e dei Giudei, condotti in cattività. E contempla in spirito la grande liberazione degli uomini dalla cattività del demonio, con l’incarnazione di Gesù-Cristo. È una preghiera eccellente per ottenere la grazia della santità, dopo essere stato liberati dalla schiavitù del peccato (1).

(1) Rosen-Muller e qualche altro con lui riconducono la composizione di questo salmo al tempo che seguì immediatamente il ritorno della cattività. Altri lo considerano come una preghiera, per il ritorno dei prigionieri condotti da Salmanasar e Sennacherib.

I. – Espone il decreto divino con il quale Dio si è resoluto:

1° a dare alla Chiesa la benedizione mediante il Cristo;

2° la liberazione degli eletti dalla cattività del demonio (1);

3° la remissione dell’offesa contratta con il peccato;

4° la distruzione del peccato nell’anima (2);

5° la moderazione della pena, dovuta al fatto che Dio si è degnato di moderare la sua collera ed arrestare gli effetti della sua indignazione (3). 

II. – le disposizione che gli uomini devono osservare perché siano loro applicati gli effetti dell’Incarnazione:

1° La conversione interiore del peccatore verso Dio Salvatore, conversione che viene da Dio come principio;

2° La preghiera fatta al giusto giudice, perché si allontani la sua collera da lui e dalle generazioni avvenire (4, 5).

III. Gli effetti prodotti negli uomini dall’incarnazione:

1° La vita delle anime;

2° la gioia che ne deriva (6);

3° La misericordia di dio;

4° La vita ed il possesso di Dio Salvatore (7);

5° L’intelligenza delle parole di Dio soprattutto nei santi ed in coloro che sono convertiti con il cuore (8);

6° La pace;

7° La gloria (9).

IV. Gli attributi di Dio che si sono manifestati nel compimento dell’incarnazione:

1° La misericordia e la verità si incontrano;

2° La giustizia e la pace si baciano (10).

3° Egli fa vedere da dove è uscita ciascuna di queste virtù: a) la verità è uscita dalla terra; b) la giustizia si mostra dal cielo; c) la misericordia è venuta da Dio, d) la pace è venuta dalla terra, nella Persona di Gesù-Cristo che ha soddisfatto alla giustizia di Dio (12, 13).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1 – 3.

ff. 1-3. – All’inizio di questo salmo, il Profeta ci fa conoscere il piano di liberazione del genere umano, e ce ne dice la causa ed il termine. La causa è l’amore divino: « Prerchè Iddio ha tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio » (Giov. III), e benedirci con ogni specie di benedizioni (Ephes. I). Non si può dare altra ragione che la volontà divina, della sua benevolenza della sua misericordia. L’ultimo termine di questa misericordia divina è la nostra liberazione dal giogo del demonio, parziale in questa vita, ma completa e perfetta alla resurrezione generale, quando parteciperemo alla libertà della gloria dei figli di Dio (Rom. VIII, 21) – (Bellarm.). –  Come applicare al popolo giudeo queste parole del salmo: « Voi avete fatto cessare la cattività di Giacobbe? » Questo popolo dopo qualche tempo di schiavitù, recuperava la sua libertà, e più volte lo si vide successivamente ridotto in cattività e liberato; oggi esso è sotto il giogo, per punizione della mancanza commessa nel crocifiggere il suo Signore. Noi dobbiamo dunque intendere queste parole come riferite ad un’altra cattività, dalla quale tutti desideriamo essere liberati, perché noi tutti apparteniamo alla posterità di Giacobbe, se apparteniamo alla razza di Abramo, imitando la sua fede. Quale è dunque questa cattività da cui abbiamo il desiderio di essere liberati? Ecco che il beato Apostolo Paolo s’avanza e ce la indica: egli sia il nostro specchio, parli e ci vedremo nelle sue parole; poiché non c’è nessuno che non ci riconosca qui, egli dunque dice: « io mi compiaccio nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore; » la legge di Dio riposa nel mio cuore; « … ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra » (Rom. VII, 23). Ecco qual è questa cattività; chi di noi non ne vorrebbe essere liberato? E come fare per esserne liberato? A chi il Profeta indirizza queste parole: « Voi avete fatto cessare la cattività di Giacobbe? » Al Cristo! Ascoltate ancora, come confessato dalla bocca di San Paolo, che sotto il peso di questa cattività esclama: « Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo di morte? » Egli lo cercava e ben presto si è presentato al suo spirito la grazia di Dio, con Nostro Signore Gesù-Cristo (Rom. VII, 20). È di questa stessa grazia di Dio che il Profeta dice allo stesso Signore Gesù-Cristo. « Voi avete fatto cessare la cattività di Giacobbe » (S. Agost.). – Come Dio fa cessare la cattività di Giacobbe? Rimettendo l’iniquità! L’iniquità vi teneva prigionieri; l’iniquità è rimessa, e voi siete liberati. Com’è in effetti che colui che non conosce il suo nemico invoca il suo liberatore? « Voi avete coperto tutti i miei peccati. »  Che vuol dire « Voi avete coperto? » Per non vederli. Che vuol dire: per non vederli? Per non doverli punire. Voi non avete voluto vedere i mei peccati, e non li avete visti, perché non avete voluto vederli (S. Agost.). Voi avete coperto i loro peccati con le virtù, come se dicesse: Voi avete coperto l’iniquità con la giustizia, l’impurità con la castità, l’oscurità del peccato con il candore dell’innocenza (S. Gerol.). – Ecco dunque l’ordine di questa redenzione divina dell’uomo: la benedizione o la buona volontà di Dio ci ha dato il Redentore, il Redentore ha soddisfatto per i nostri peccati, placando la collera di Dio; la giustizia ha soddisfatto per i nostri peccati, placando la collera di Dio; soddisfatta la giustizia Egli ce li ha perdonati; il perdono dei nostri peccati è stata la fine della nostra prigionia (Bellarm).     

II. — 4-5.

ff. 4-5. – Il primo effetto della collera di Dio pacificato, è l’inizio della nostra salvezza, cioè del nostro ritorno a Dio. Questo ritorno è possibile quando Dio si rivolge per primo a noi, come si rivolse a Pietro dopo che questi disconobbe il suo Maestro divino, per ispirargli lo spirito di penitenza e di lacrime. Anche voi, uomini, a cui è dato convertirvi a Dio, meriterete la sua misericordia, mentre coloro che non si convertiranno a Dio non otterranno misericordia e non troveranno che collera da parte di Dio? E cosa potreste voi per la vostra conversione se non foste chiamati? Colui che vi chiama nel momento in cui voi non avete che avversione per Lui, non è l’Autore della vostra conversione? Guardatevi bene dall’attribuirvi la vostra conversione, perché se Dio non vi avesse chiamato quando lo foste, voi non avreste potuto convertirvi. Ecco perché il Profeta, riconducendo a Dio il beneficio della sua conversione, lo prega in questi termini: « O Dio, convertendoci a Voi, Voi ci vivificherete » (S. Agost.). –  Questa collera di Dio, che il peccato del nostro primo padre aveva attirato su tutti gli uomini, sarebbe stata in effetti eterna; sarebbe durata nella sequenza delle età se Dio, con una misericordia che sorpassa tutto ciò che noi possiamo concepire, non ci avesse dato una potente diga per arrestarne il corso, cioè il proprio Figlio (Duguet).

III. – 6-9.

ff. 6-9. – « Il vostro popolo si rallegrerà in Voi » Cattiva sarà la gioia che prenderà da se stesso, buona la gioia che prenderà in Voi. Quando ha voluto in effetti cercare la gioia in se stesso, non ha trovato che una causa di gemiti. Ma ora che ogni nostra gioia è in Dio, colui che voglia gioire con certezza, gioisca in Lui che non può perire. Perché, ad esempio, quale gioia trovare nel denaro? Il denaro perisce ed anche voi, e nessuno sa quale dei due perirà per primo. Una cosa è certa: è che entrambi periranno: chi per primo? Ecco ciò che è incerto; perché né l’uomo può restare eternamente quaggiù, né il denaro può durare per sempre; lo stesso è dell’oro, degli abiti, delle casse, ed anche della fortuna stessa. Non mettete dunque la vostra gioia in tutte queste cose, ma riponetela in questa luce che non si spegne mai. Gioite in questa luce che non ha preceduto il giorno di ieri, e che non seguirà il giorno di domani. « Io sono, ha detto il Signore, la luce del mondo, vi chiamo a lui. Chiamandovi Egli vi converte; e convertendovi vi guarisce; quando vi avrà guarito, voi vedrete Colui che vi avrà convertito e a cui il Profeta dice: « … e il vostro popolo gioirà in Voi » (S. Agost.). – Il Profeta  ha già domandato che la collera di Dio faccia posto alla grazia che deve vivificarci, dopo aver cancellato i nostri peccati; ora, questa non è la misericordia ordinaria di Dio, è la sorgente di tutte le misericordie, è la rivelazione della misericordia incarnata, la manifestazione del Figlio suo, di cui S. Paolo ha detto: « la grazia di Dio è apparsa tra gli uomini; » (Tit. II) « è apparsa a noi la bontà e l’umanità del nostro Salvatore Gesù-Cristo; » (Tit. III); – « Mostrateci la vostra misericordia, e dateci la vostra salvezza. » Beato colui a cui Dio mostra la sua misericordia; egli non può inorgoglirsi, perché mostrando a lui la sua misericordia, lo persuade che tutto ciò che l’uomo possiede di bene non può venire che da Colui che è tutto il nostro Bene … « e dateci la vostra salvezza, il vostro Salvatore. » Dateci il vostro Cristo, è in Lui che risiede la vostra misericordia. Diciamogli anche noi: dateci il vostro Cristo. È vero che Egli ci ha già dato il suo Cristo, tuttavia, Gli diciamo ancora: dateci il vostro Cristo, perché Gli diciamo: « Dateci oggi il nostro pane quotidiano. » (Matth. VI, 2). E il nostro pane qual è? Se non Colui che ha detto: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo » (Giov. VI, 41). Diciamogli: dateci il vostro Cristo; perché Egli ce lo ha dato, ma nella sua umanità; dopo avercelo dato nella sua umanità, ce lo darà nella sua divinità. In effetti Egli ha dato un Uomo agli uomini, perché lo ha donato agli uomini come gli uomini potevano comprendere. Nessun uomo era capace di comprendere il Cristo senza la sua divinità. Il Cristo si è fatto uomo per gli uomini; si è riservato Dio per gli dei … Egli stesso ha detto nel Vangelo: « colui che mi ama osserva i miei comandamenti, ed Io lo amerò e mi manifesterò a lui. » (Giov. XIV, 9, 21). Egli parlava agli Apostoli e diceva loro « Io mi manifesterò a lui. » Perché? Non era lui che parlava? Si, ma là lo vedeva la carne, il cuore non vedeva la divinità. Ora, la carne ha visto la carne, affinché il cuore fosse purificato dalla fede (Att. XV, 9) e meritasse di vedere la divinità. La luce che ci sarà mostrata, deve trovarci puri, ciò che fa in noi la fede. Ecco dunque ciò che noi diciamo con queste parole: « Dateci il vostro Salvatore, » dateci il vostro Cristo, che noi conosciamo il vostro Cristo, che vediamo il vostro Cristo, non come lo hanno visto i Giudei che lo hanno crocifisso, ma come Lo vedono gli Angeli che si rallegrano in Lui. (San. Agost.). – « Io ascolterò ciò che il Signore dirà dentro di me ». – Dio parla interiormente al Profeta, ed il mondo circostante lo importunava con i suoi rumori. Egli allontana allora un po’ questo brusio del mondo, se ne allontana per ritrovarsi con se stesso e passare da se stesso a Colui del quale ascolta interiormente la voce; egli si tappa in qualche modo le orecchie contro le agitazioni di questa vita, contro la sua anima appesantita dal corpo che si corrompe, contro il suo spirito represso dalla sua abitazione terrestre e preso da numerosi pensieri, e dice: « Io ascolterò ciò che il Signore dirà dentro di me » (S. Agost.). – C’è una voce che ci parla interiormente e come nel fondo dell’anima quando, chiudendo l’orecchio al rumore delle creature, noi non vogliamo più ascoltare che Dio solo, e Lo chiamiamo in noi con tutto l’ardore dei nostri desideri. È quella voce che, lontano dagli uomini, deliziava i Paolo, gli Antonio, i Pacomio, e rivelava loro, senza oscurità, i segreti della scienza divina; è questa voce che istruisce i Santi, li infiamma, li consola e li inebria, per così dire, della sua celeste dolcezza e di una pace che sorpassa ogni intelligenza. – Dio parla un linguaggio di pace, non agli empi, che vogliono sempre perseverare nella loro empietà, ma al suo popolo, ai suoi santi ed anche ai peccatori che rientrano nel proprio cuore per convertirsi. – « … perché Egli porgerà un linguaggio di pace al suo popolo ». La voce del Cristo, la voce di Dio è dunque la voce della pace; essa ci chiama alla pace. Andiamo – essa dice – voi che sapete di non avere ancora la pace: amate la pace. Cosa potreste ricevere da me che valga più della pace? Cos’è la pace? L’assenza di ogni guerra, cioè l’assenza di ogni contraddizione, di ogni resistenza, di ogni opposizione. Vedete se siamo già in questo stato; vedete se non abbiamo più conflitti con il demonio; vedete se tutti i santi e tutti i fedeli non lottano ancora contro il principe dei demoni, contro i loro piaceri, attraverso i quali suggerisce il peccato … Non c’è dunque la pace, perché c’è combattimento. Quale pace possono trovare quaggiù degli uomini obbligati a resistere costantemente a tante importunità, a tante cupidigie, a tanti bisogni, a tanti scoraggiamenti? Questa non è la vera pace, non è la pace perfetta. Quando dunque ci sarà la pace perfetta? Quando la morte sarà assorbita nella vittoria, tutte queste debolezze non esisteranno più, e la pace sarà completa ed eterna. Noi saremo allora gli abitanti di una città di cui io vorrei parlare senza fine, una volta nominata, soprattutto in un tempo in cui gli scandali divengono sempre più frequenti. Che non desidererebbe questa città, da cui non uscirà nessun amico, dove non entrerà alcun nemico, e non vi sarà né tentatore né sedizioso, ove nessuno dividerà il popolo di Dio … ci sarà dunque una pace purificata da ogni imperfezione per i figli di Dio che si ameranno tutti tra loro e vorranno riempirsi di Dio, mentre Dio sarà in tutti (1 Cor, XV, 28). Noi avremo Dio come comune spettacolo, avremo Dio in possesso comune, avremo Dio nella pace comune. Qualunque bene ci dia ora, allora ci sarà posto per tutto ciò che ci dà oggi: questa sarà la pace piena e perfetta. È questa pace che fa intendere al suo popolo e che voleva provare colui che diceva: « io ascolterò ciò che il Signore dirà in me ». Volete possedere questa pace di cui Dio fa intendere le parole? Rivolgete il vostro cuore verso di Lui, non lo girate né verso di me, né verso l’uomo, né verso chicchessia; perché ogni uomo che vuole attirare a sé i cuori degli uomini, cade con essi. Cosa val più il cadere con colui verso il quale vi sarete rivolti invece che a Dio? La nostra gioia, la nostra pace, il nostro riposo, la fine di tutte i nostri dolori è Dio e Dio solo: beati « coloro che si convertono e rivolgono il loro cuore a Lui » (S. Agost.). – Rientrare nel proprio cuore, significa cominciare a riflettere sulla vanità delle cose temporali, sulla breve durata e sulla falsità del piacere che si trova nel peccato; e d’altra parte quanto amabile è la virtù, e quanto grande la ricompensa che l’attende nel cielo. – Rientrare nel suo cuore è ancor più il non esporrsi al giudizio degli uomini né ai discorsi dei figli del secolo, bensì il consultare in tutte le cose la retta ragione, la fede e la verità stessa, che è Dio (Duguet). – « … Tuttavia la sua salvezza è vicina a coloro che lo temono ». Non è per la distanza dei luoghi che un uomo è lontano da Dio, ma per i sentimenti. Amate Dio, e siete a Lui vicino; odiate Dio, e voi siete da Lui lontano. Nello stesso luogo voi siete vicino o lontano da Lui. Da tutte le parti del pianeta verranno coloro che volgeranno il loro cuore a Lui; « ma senza dubbio, la salvezza che Egli dona è vicina a coloro che Lo temono, e questo affinché  la sua gloria abiti, con uno splendore particolare, nella terra ove è nato il Profeta. È là in effetti che il Cristo è stato dapprima predicato; è di là che provenivano gli Apostoli, ed è di là che furono primariamente inviati; là vi erano i Profeti; là fu costruito in un primo tempo il tempio; là venivano offerti i sacrifici a Dio; là vissero i Patriarchi; là il Cristo stesso è nato dalla razza di Abramo e si è manifestato; è là la terra che il Cristo ha calpestato con i suoi piedi, la terra in cui ha operato i suoi miracoli (S. Agost.). 

IV. — 10-13.

ff. 10-13. – Praticate la giustizia ed avrete la pace, affinché la giustizia e la pace si diano in voi un bacio scambievole; perché se non amate la giustizia, non avrete nemmeno la pace. La giustizia e la pace si amano e si abbracciano; di modo che colui che avrà praticato la giustizia troverà sempre la pace dando un bacio alla giustizia. Esse tra loro sono come due amiche; forse vorreste l’una senza praticare l’altra, perché non c’è nessuno che non voglia la pace, ma non tutti vogliono praticare la giustizia. Domandate a tutti gli uomini; volete la pace? Tutto il genere umano vi risponderà all’unisono: Sì, io la bramo, la  desidero, la voglio, io l’amo. Amate allora anche la giustizia, perché la giustizia e la pace sono due amiche; esse si danno uno scambievole bacio. Se non amate l’amica della pace, la pace non vi amerà e non verrà a voi. Cosa c’è in effetti di straordinario nell’amare la pace? Chiunque sia, anche il malvagio desidera la pace, perché la pace è una buona cosa. Ma praticate la giustizia, perché la giustizia e la pace si scambiano baci e non sono mai tra esse in lotta. Perché vi mettete in lotta con la giustizia? Ecco che la giustizia vi dice:  non rubate, … e voi non l’ascoltate; non commettete adulterio, … e vi rifiutate di ascoltare; non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi; non dite agli altri quel che non volete che si dica a voi. Voi siete il nemico della mia amica, vi dice la pace: perché mi cercate? Io sono l’amica della giustizia, se qualcuno è nemico della mia amica, io non mi avvicino a lui. Volete allora arrivare alla pace? Praticate la giustizia (S. Agost.). – Cos’è questa verità che è uscita dalla terra, se non il Figlio di Dio? E che cos’è la terra dalla quale è uscita, se non la carne della Santa Vergine? Perché la giustizia guardasse dall’alto del cielo, cioè perché gli uomini fossero giustificati dalla grazia divina, è stato necessario che la verità uscisse dalla terra, che il Cristo nascesse da Maria. E come in effetti. perché fossimo giustificati dei nostri peccati, non ha Egli offerto per noi il Sacrificio della sua passione e della sua croce? E come ha compiuto il suo Sacrificio se non con la morte? E come sarebbe morto se non avesse preso prima una carne simile alla nostra? E come infine si è rivestito di carne mortale se la verità non fosse uscita dalla terra? (S. Agost.). –  Noi possiamo ancora dare un altro senso a questo versetto: « … la verità è uscita dalla terra »; la confessione è uscita dall’uomo. In effetti voi non eravate che un uomo peccatore. O terra che al momento del tuo peccato, hai inteso queste parole: « Tu sei terra e nella terra tornerai, » (Gen. III, 19), la verità esca da te, affinché la giustizia ti guardi dall’alto del cielo. Ma come la verità può uscire da te, che non sei che peccato, che non sei che ingiustizia? Confessa i tuoi peccati e la verità uscirà da te (S. Agost.). – « Perché Dio darà la dolcezza e la nostra terra darà il suo frutto. » Voi potete avere in voi i vostri peccati, ma non potete portare dei buoni frutti, se colui che vi ha confessato  non lo produce in voi. È perché il peccato, dopo aver detto: « La verità è uscita dalla terra, e la giustizia ha guardato dall’alto del cielo, » risponde per così dire a questa questione che gli verrebbe fatta e continua così: « … perché il Signore darà la sua dolcezza e la nostra terra darà i suoi frutti. « Esaminiamoci dunque e se non troviamo in noi che peccati, detestiamoli, e desideriamo la giustizia; perché quando cominciamo ad odiare i nostri peccati, questo solo odio del peccato comincia già a renderci già simili a Dio, perché odiamo ciò che Dio odia. Quando voi avrete iniziato ad odiare i vostri peccati ed a confessarli a Dio, se qualche diletto colpevole vi coinvolge e vi conduce a cose funeste, indirizzate a Dio i vostri gemiti confessando a Lui i vostri peccati, e meriterete di ricevere la ripugnanza che viene da Lui e vi darà la dolcezza che accompagna le opere della giustizia, affinché la giustizia cominci ad affascinarvi, voi che amavate un tempo l’iniquità. Da dove vi è venuta questa nuova dolcezza, se non dal Signore, che darà la sua dolcezza affinché la nostra terra produca il suo frutto? – « La giustizia camminerà davanti a Lui, e metterà i suoi passi nella via ». Questa giustizia è quella che viene dalla confessione dei peccati, perché essa stessa è verità. In effetti, voi dovete essere giusto contro di voi, per punire voi stesso. La prima giustizia dell’uomo è che si punisca quando ancora è malvagio, affinché Dio lo renda buono. Se dunque v’è prima la giustizia dell’uomo, questa giustizia apre a Dio una via perché venga a voi; preparateGli allora la via nel vostro cuore con la confessione dei peccati. « Preparate la via al Signore » (Matth. III, 9); che questa giustizia  prenda il sopravvento, affinché confessiate i vostri peccati. Egli verrà, vi visiterà, « perché metterà i suoi passi  sulla retta via. » In effetti Egli avrà ora dove posare i suoi piedi, avrà un cammino per venire in voi, e per formar voi stessi con le tracce che lascerà in voi.  

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (4)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (4)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

4. La morte

La tabella di marcia degli Esercizi Spirituali prescrive tradizionalmente che, dopo aver fatto la meditazione sul peccato, si faccia la meditazione sulla sua conseguenza che è la morte. Come facciamo questa meditazione? La facciamo così: la morte che noi consideriamo questa sera deve essere per noi la conclusione dell’iter terreno con Gesù Cristo, la conclusione di un cammino fatto con Lui. Certo, è la conclusione di un cammino fatto con Lui, se il cammino è stato fatto con Lui. Perché se il cammino non fosse stato fatto con Gesù Cristo, allora le cose dovrebbero essere poste diversamente. E questo io debbo dire subito a scanso di equivoci e anche di pericolose illusioni. Io suppongo che voi e io intendiamo veramente e fino in fondo camminare con Gesù Cristo. Se non fosse così, la meditazione di questa sera dovrebbe essere cambiata. – Voi sapete che la morte, ontologicamente parlando, è il distacco dell’anima dal corpo, per cui il corpo se ne ritorna alla terra e rientra nel giro delle cose dal quale un giorno Iddio lo ricaverà fuori per restituirlo nuovamente all’anima nella risurrezione finale. L’anima se ne va in un altro ordine ed entra finalmente nello stato di termine, mentre ora è nello stato di via. Entra cioè nello stato che è all’anima abituale, mentre l’essere in questo mondo non è lo stato abituale. Insomma lo stato ordinario è quello là, è quello che viene dopo, non quello che è prima. Quello che è prima è un esperimento, fatto così, a titolo di poter decorare gli uomini del merito personale e che una volta finito si manterrà nel ricordo e nel merito che ha fissato il suo valore. Ma è stato di via, non stato di termine. Questo voi lo sapete. Sapete anche l’altra definizione che può essere data della morte, che non è altro che l’intestazione di una grande tesi teologica: la morte è la fine della prova, o meglio: il tempo della prova finisce con la morte. E questo modo di annunciare, che in altri Esercizi antecedenti abbiamo lungamente meditato, è un modo che mette veramente il segno sulla terribilità della morte, perché se fosse soltanto separazione dell’anima dal corpo, ci sarebbe un distacco, una dolenza, sì, qualche cosa di contrario all’attuale nostro istinto di conservazione. Invece la terribilità della morte sta in questo, che chiude, e si rimane per tutta l’eternità al punto in cui si è al momento della morte. Tempus probationis morte finitur: è la tesi teologica, la formula teologica di porre la questione della morte. – Ma in questa meditazione io parlo a voi in modo più concreto e dico: badate che la morte può essere considerata così, giustamente, specialmente da coloro che hanno intenzione di camminare con Cristo: è la conclusione dell’ iter della vita fatto insieme a Gesù Cristo. Badate bene che la conclusione vuol dire un rapporto di causalità. Non è parte finale, non dico parte finale dell’iter, dico conclusione. La conclusione suppone una premessa, suppone il legame alle premesse e pertanto suppone quella tale rotazione che c’è nel sillogismo delle cose, nella logica delle cose. E dunque a questo modo cercheremo, rimanendo nello spirito e nella linea che vi ho annunciato di questi Esercizi, di studiare l’iter con Cristo. L’iter con Cristo va fatto dove si è messo Lui, e siccome si è messo soprattutto nell’Eucaristia, è chiaro che l’iter cum Christo va fatto soprattutto, primamente e con assoluto carattere sostanziale, con Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. Allora facciamo le considerazioni che vengono ovvie quando si tratta di parlare della conclusione di questo iter della vita, di questo viaggio con Gesù Cristo. La prima considerazione che deve metterci estremamente in guardia è questa: della morte a noi interessa la perseveranza finale, la grazia della perseveranza finale. Perché il carattere macabro della morte lasciamolo alla paura, anche opportuna; il carattere drammatico della morte lasciamolo alla suggestione, all’emotività, al sentimento. Intanto guardate: la grazia di ben morire viene al momento di morire, non prima. E pertanto vi do un consiglio: cercate di procurarvela, e poi lasciate fare, perché non potete pretendere che la grazia della buona morte vi sia data adesso, vi sia anticipata e ve la possiate gustare come se fosse una liquirizia da tenere in bocca per tutta la vita. Adesso c’è da fare dell’altro. La grazia della buona morte verrà allora, e Dio è molto preciso: non arriva né cinque minuti prima né cinque minuti dopo; quando Dio intende fare una cosa, la fa al momento in cui occorre farla. La grazia di sopportare certi dolori Iddio non la manda per esperimento un anno prima, perché non si sentano più i dolori; la grazia di sopportare certi dolori la dà quando arrivano i dolori. E non ci sono ritardi in queste spedizioni dal cielo, non c’è pericolo: tutto arriva a tempo, basta che noi facciamo la nostra parte. La prima considerazione da fare è quella della grazia della perseveranza finale. Voi sapete che la grazia della perseveranza finale, che è veramente il nocciolo della questione di cui dobbiamo preoccuparci a proposito di morte, consiste nel fatto della coincidenza tra il momento della morte e lo stato di grazia santificante. E questa coincidenza tra la morte e la grazia santificante nell’anima nostra si chiama grazia della perseveranza finale. La questione sta qui perché la grazia della perseveranza finale è una grazia speciale. E questo vuol dire che non è una grazia comune. E questo è detto in una proposizione che si studia in teologia dogmatica, nel trattato De gratia actuali. È una proposizione certa, intendiamoci, non è una opinione di qualche spiritello teologale. È una proposizione certa. È una grazia speciale. E chi osserva bene scorge che la divina sapienza sta in questo; perché non ci si può scherzare con la vita, con la creazione e con Dio Autore del dramma. La soluzione della vita di un uomo non è logico lasciarla legata a una specie di macchina che automaticamente si muove, non può essere legata a qualche cosa che si rassomiglia alla Lotteria di Merano che chi tira su il numero buono, lo tiene e chi tira su il numero cattivo, lo tira ugualmente e se lo tiene. Capite? Ecco perché c’è una saggezza divina in questo. È una grazia speciale. Ma se si leggono i testi tolti dalla Sacra Scrittura, dalla divina tradizione e dai documenti della Chiesa e del Magistero, anche del Magistero solenne, se si vanno a guardare i testi, si capisce che esprimono quest’altra verità, che è logica come quella di cui ho parlato ora: che è grazia speciale da chiedersi a Dio instantemente. La grazia della perseveranza finale sta legata con questo instante richiederla, ma sta anche nei modi e nelle proporzioni che ci sfuggono. Non possiamo dire di più: sta legata quindi con l’insieme di quello che ha preceduto nella vita. E questa grazia della perseveranza finale ce la stiamo guadagnando adesso, perché è facendo qualche cosa nella vita che si mette insieme quel quantum per cui Iddio ce la darà. È chiedendola ora che noi possiamo sperare di averla. Noi non possiamo andare avanti nella immobilità, nella insensibilità, nella tiepidezza o addirittura nella freddezza a causa di una volontà che non sa scattare. Non possiamo: il pericolo è troppo grave. La misericordia di Dio è infinita. Quelli che erano qui l’anno scorso si ricorderanno che ho parlato delle tre vie della misericordia di Dio per salvare gli uomini: la prima è quella della pazzia: tanti sono matti, così si salveranno, non hanno responsabilità. La seconda è quella dell’ignoranza, e ce ne passano molti. Non capiscono niente, il buon Dio li piglierà come sono. La terza è quella della santità, per cui passano i meno. La misericordia di Dio si vede dalle tre vie per arrivare in cielo. Ma badate bene che se la misericordia di Dio è infinita, Dio non è scemo. Scusate se uso questa parola: la posso usare perché dico che non lo è. Ma combinare su un modo di guardare verso la nostra vita, verso l’eternità, verso il mistero dell’eternità come se il nostro Creatore e Signore — che i pittori, chissà perché, rappresentano sempre come se fosse vecchio — sia una intelligenza addormentata con la quale si possano fare i più grandi sonnambulismi, questo no. Perché c’è la divina misericordia di Dio, e c’è il Crocifisso, eccolo il documento, per far capire fin dove è arrivata e far capire fin dove può arrivare; ma la giustizia di Dio non viene rinnegata. Affatto. Il punto a proposito della morte è questo. Quando vado in visita pastorale, il libro che faccio scartabellare di più è quello dei morti. E ho l’abitudine di tirar fuori tutte le statistiche di lì, tra l’una e l’altra visita pastorale, quindi un certo periodo di anni. E generalmente nella predica di chiusura della sacra visita, tra le altre cose che dico al popolo, per trattare, come deve fare un padre di famiglia, delle questioni correnti delle singole comunità cristiane, soprattutto porto le cifre dei morti: quelli che sono morti con tutti i Sacramenti; quelli che sono morti con qualche Sacramento, (e quando c’ è confessione e estrema unzione si può stare tranquilli perché è segno che la Comunione non l’hanno potuta fare per impedimento fisico); quelli che sono morti con la sola estrema unzione (e qui cominciamo le dolenti note, perché la sola estrema unzione generalmente, nella maggior parte dei casi, è un segno di vigliaccheria di quelli che circondano il malato, che non chiamano il prete e te lo lasciano morire nei suoi pasticci. (Lo amano a questo modo!), e allora si comincia a tremare. Poi ci sono quelli che hanno rifiutato i Sacramenti o dei quali nessuno si è curato di dargliene qualcuno. E voi capite che queste cifre mettono davanti a delle dure realtà. Tra una settimana o poco più concluderò la seconda visita pastorale della mia diocesi e posso fare questa conclusione: che il 30% dei fedeli muore senza sufficiente assistenza e senza Sacramenti. – Questi qui dove li mettiamo? Mi capite? Vedete il commento alla grazia della perseveranza finale? Guardate che uno degli impegni più gravi che si deve avere in vita è quello di prepararsi coloro che, al momento in cui ce ne fosse bisogno, ci dicano per tempo che dobbiamo partire e ce lo dicano senza tante storie. È una delle precauzioni più grandi, anzi la più saggia. Perché siamo a questo punto di imbecillità mondiale, che quando uno sta male, è talmente una questione medica, clinica, dite quel che volete, che tutto il resto non si vede più. Mentre la prima cosa è quella. Oh, intanto cominciamo a chiamare il prete e con buon modo, è sempre meglio evitare il malo modo; ma quando è necessario, si deve usare il malo modo perché si tratta poi di non lasciar andare uno con dei pasticci davanti al Padre eterno e non è il caso di usargli dei buoni modi pericolosi di qua che poi se li trovi brutti di là. Badate che è impressionante. Vedete come le cose si fanno brutte quando c’ è un immobilismo. Direte: ma certa povera gente che si vede andare qua e là, che sì e no evita di ammazzare, e anche qualche volta evita di rubare ma, tutti gli altri peccati poi… più o meno, li fanno… rispetto a quelli io sono al sesto piano. Ah cari, ma voi avete avuto delle grazie che quelli non hanno avuto! Tutto è proporzionale. Chi ha avuto un talento, deve rispondere per un talento: chi ne ha avuto due, deve rispondere per due. Noi che siamo qui dentro, che tutti quanti abbiamo avuto, in diversa misura e ordine, una vocazione, noi che siamo stati chiamati da Gesù Cristo, non possiamo credere di essere trattali, canto ad assoluzioni generali, come quelli che non hanno avuto una particolare chiamata da Gesù Cristo. Rispettiamo la giustizia di Dio e non portiamo dei criteri sciocchi in questioni che debbono determinare della nostra eternità. – Ora veniamo a un secondo punto. Perché, in fin dei conti, bisogna essere umani. E la morte non ha mai avuto per nessuno, che non avesse superato certi traguardi di virtù, di serenità, di doni, di eroismi, non ha avuto mai una faccia che si diversificasse dalle occhiaie vuote dei teschi. La morte è la morte. A nessuno è venuto mai in mente di raffigurare la morte come una splendida dama con un bel diadema e un mazzolino di fiori in mano da offrire a chi si fa innanzi. No. La morte è una cosa che violenta la unione naturale tra l’anima e il corpo e pertanto il senso della conservazione nella linea della natura, che è quella di conservazione di tale unione tra anima e corpo — l’anima è fatta per il corpo e il corpo è fatto per l’anima — e dà un carattere sempre violento a questo passo estremo. Soltanto un dono preternaturale, che era stato concesso ai nostri progenitori e mai applicato, li avrebbe esentati da questo passaggio, da questo distacco violento e innaturale. Essi sarebbero passati alla gloria senza conoscere la umiliazione della tomba e senza dover abbandonare, per chissà quanto tempo, alla corruzione e al giro degli elementi cosmici quel tanto di materia che aveva formato il loro corpo. Pertanto non si può prescindere da questo aspetto umano nella meditazione della morte. – Il carattere violento, macabro, orripilante della morte, aumentato dal mistero di ciò che viene dopo — perché quel che viene dopo lo conosciamo solo attraverso la fede, non l’abbiamo sperimentato in modo diretto, e pertanto racchiude per noi un ordine di cui sappiamo con certezza assoluta che è totalmente diverso da quello che sperimentiamo ora — fa fremere. Ma la morte che si rappresenta così violenta e così drammatica, ha due grandi lenimenti. E i due grandi lenimenti messi insieme la possono rendere una funzione stupenda, senza che a renderla stupenda c’entri, beninteso, un esistenzialistico e sciocco odio alla vita. Due cose. La prima è la grazia di Dio, di cui ho già parlato ripetutamente, che arriva al momento opportuno. La seconda è — e su di questa seconda scende grande la grazia di Dio — quando il distacco dalla terra è già stato operato prima. Ecco il segreto. Se noi moriamo adesso — e vi dirò in che cosa consiste il morire adesso — è certo che ci troviamo dinanzi alla morte in una forma completamente diversa. Ma bisogna morire durante la vita. Bisogna che quel distacco supremo, violento di allora, sia già stato spiritualmente realizzato prima, con forza ma non senza serenità. Ora mi direte: E che cos’è questo distacco realizzato prima, talché componendosi la morte antecedente, voluta da noi, e la grazia del Signore, si può sperare di avere parte coi santi e si può accogliere l’invito della Chiesa che ha chiamato il giorno della morte il giorno del natale: dies obitus, dies natalis; che ha chiamato dormitori, cæmeteria, i luoghi dove si vanno a seppellire imorti? Cos’è questo distacco per cui spiritualmente,morendo prima, si toglie molto della forza alla falce che dovrà un giorno coglierci? È questo, e lo dico in poche parole, semplici. Vedete, quando tutte le cose che abbiamo e che siamo, noi le consideriamo soltanto strumenti di un bene superiore ed eterno, solo quello, e le usiamo soltanto come strumenti, niente più che strumenti, noi abbiamo operato il distacco per tempo, siamo già morti prima a taluni effetti, mentre saremo stati vivacissimi e vitalissimi a tutti gli altri effetti, beninteso. Questa è la saggezza della morte. Quando già prima si è realizzato il distacco del cuore, allora non rimane altro che la morte positiva e cioè l’unione con Nostro Signore, con l’eterno Amore, con l’eterna Verità, con la infinita Pace: l’ingresso nella Vita.- Ora veniamo un po’ al pratico. Abbiamo queste quattro ossa, quelle alle quali faranno il funerale. Questo corpo noi possiamo considerarlo come una sede di piacere e possiamo considerarlo come uno strumento di un bene superiore. Se io lo considero come una sede di piacere, questo corpo, poveretto, prima è elastico, vivacissimo, poi diventa piuttosto statico, poi diventa greve. Prima fa inorgoglire e poi fa rammaricare. Se lo si considera come una sede di piacere, è tutto un continuo rinnegamento al quale si va incontro, perché se la parte peggiore la si avesse prima e poi si andasse avanti…. allora non si avrebbero le delusioni…. Invece la parte migliore la si ha subito e poi è sempre peggio. Questo corpo che ci ha dato Iddio lo si deve considerare come uno strumento di un bene superiore, come un grappolo d’uva dal quale può essere spremuto il vino per il convito eterno, strumento di fatica, strumento per sopportare le emozioni dell’anima e dare forza, oltre che alle emozioni, all’attività dell’intelletto. Voi sapete che occorre un apporto di salute per la piena attività intellettuale. È strumento. Strumento di qualche cosa. S. Giovanni Bosco, quando era ragazzo, ha fatto anche il saltimbanco ed era bravissimo. A modo suo e come usava in quei paesi là, che non erano molto esperti in fatto di sport, sapeva fare dell’atletica. Ma la faceva per tenere lì i ragazzi, perché non andassero a fare del male. Quando questo corpo è uno strumento al quale si può domandare e col quale e attraverso il quale si può offrire costantemente a Dio un sacrificio purissimo d’amore nella rinuncia e nella chiarezza; quando questo corpo, con tutti i sentimenti che quasi pare lo travalichino e arrivano alla sfera superiore della psiche e può creare tanti guai e può portare con sé tante storture, è invece reso strumento, e reso anche nei suoi istinti e sentimenti ed emozioni legna da ardere per una fiamma d’amore, allora voi capite che non ci sono più distinzioni, allora non parliamo più di vecchiaia, perché non esiste più: quella barriera è già passata nel trionfo perfetto e vivacissimo dell’anima. Tutte le età sono bellissime, tutte, tutte. Alcuni dicono che di età bella ve n’è una sola; non è vero: le età della vita, come le stagioni dell’anno, sono tutte bellissime. Se fosse sempre primavera, ci annoieremmo mortalmente; se fosse sempre estate, ci annoieremmo mortalmente; se fosse sempre autunno lo stesso; se fosse sempre inverno, lo stesso. L’inverno ha delle bellezze incredibili. Certo, si parla con entusiasmo della primavera, soprattutto perché ha la fortuna di venire dopo l’inverno. Ma tutte le stagioni sono belle. Dio ha fatto bene tutto. E tutte le età della vita possono essere bellissime, quando si serve Iddio. Ma sono certamente migliori quando le potenze, le capacità per le quali si differenziano, soprattutto in base a un procedimento biologico, le diverse età della vita sono superate dal fatto che questo corpo, bello o brutto che sia, che pesi tanto o che pesi poco, che abbia salute o che non ne abbia, che abbia sentimenti degni o che sia invece fautore di sentimenti indegni ma contenuti, viene usato soltanto come strumento di un bene superiore. Allora la vita è un’ altra e anche la morte. – Ricordiamo bene. Quando tutte le cose che fanno ala intorno a noi, tutte, in cielo e in terra, nella natura e nella storia, e tutte quelle altre che dai colori cangiantissimi, stemperati in una gamma infinita, risultano dall’intrecciarsi delle une e delle altre; quando tutte queste cose noi le abbiamo prese e portate al livello di strumenti di beni superiori, allora si può morire in pace. Chiediamo dunque a Dio questa purificazione di ogni giorno, cari; alla morte bisogna pensarci ogni giorno. E bisogna cominciare da giovani a pensare alla morte, perché è la sola strada per rendere strumentali le grandezze e le bellezze della vita, sicché non servano mai a noi, ma a Dio. Direte: E con questo, tutto diventa un chiodo da succhiare! Cosa? Il chiodo da succhiare è se si fa in modo diverso. Credete voi che le cose, diventando strumenti, cioè viste e usate soltanto come strumenti, perdano la loro bellezza? Chi l’ha detto? Se io considero strumenti i miei vestiti, credete che per questo perdano lo splendore purpureo? Non lo perdono affatto. Ma l’importante è che io li consideri strumenti e basta. Credete voi che il canto degli uccelli perderà il suo incanto? No. Serviranno per Iddio, serviranno per elevare, per purificare: non perderanno niente. Non è vero che quando tutte le cose di questo mondo si portano con verità al loro punto, cioè a essere strumentali, perdano qualche cosa. Non perdono niente. Perdono il male, acquistano la destinazione del bene e a noi lasciano la pace, anche in mezzo alle vicissitudini della vita. Mentre a fare diversamente ci si rimette la pace e poi ci si rimettono quelle e si rimane con niente in mano. – Veniamo al terzo punto. Morte. Ritorniamo in tema eucaristico: c’è il Viatico. Il Viatico è l’ultima Comunione. Avete mai riflettuto al fatto che l’ultima o almeno quella che si presume ultima — anche se poi di fatto non lo è, perché uno può anche guarire dopo aver ricevuto il Viatico — ma quella che, giuridicamente parlando, la si considera ultima, avete mai riflettuto perché la si chiama Viatico? E il termine è canonico, consacrato nel Codice di Diritto Canonico, quindi nella legge della Chiesa: ha la maestà di una verità infallibile che si protende. Non ci avete mai pensato? E perché la legislazione canonica della Comunione è diversa dalla legislazione canonica del Viatico? Pensate che, se vi fosse necessità, potrebbe amministrare il Viatico anche un uomo non sacerdote. In certi casi potrebbe arrivare a darlo una donna, in certi casi soltanto! La disciplina canonica del Viatico è diversa da quella della S. Comunione. Perché? Non ve lo siete mai domandato? Se da sempre la Chiesa ha considerato in modo tutto speciale, diverso, la Comunione ultima e ha dato ad essa un nome speciale, così chiaro, così significativo, ci deve essere evidentemente una ragione. Questa Madre nostra, che ha con sé e sopra di sé lo Spirito Santo e che nelle sue persistenze secolari, anche quando i singoli uomini che la incarnano non se ne accorgono, traduce sempre una indicazione divina, questa Madre nostra ha veduto nel Viatico qualche cosa di diverso dalle altre Comunioni. L’ha chiamato rifornimento per la via, per l’ultimo tratto della via: Viatico. Vuol dire che ha visto in questa ultima Comunione qualche cosa che è proprio dell’ultimo passo e del passo estremo. Qualcosa che è collegato alla possibile sfiducia di quel momento e alla tranquillità d’abbandono non meno desiderata allora. La diversità del nome, così tradizionale nella Chiesa, la diversità della disciplina canonica, la indicazione costantemente tenuta parlano. Dio ha fatto cose mirabili coi suoi santi. Riempie l’anima di commozione quando si legge del santo Padre Benedetto che si fa portare nella piccola basilica di S. Giovanni Battista, da lui eretta e di cui i bombardamenti hanno avuto il merito di mettere nuovamente in vista le fondazioni che non si conoscevano. Nel centro aveva fatto scavare la sua tomba, anzi una duplice tomba: in una stava già la salma della sorella Scolastica che 1’aveva preceduto, l’altra era per sé. La fece scoperchiare, si fece portare lì, e lì ricevette il Corpo del Signore. Se lo fece posare sul petto e poi dormì in Dio. – Ricordiamo anche la morte dei più grandi abati benedettini: Ugo, che fu il più grande degli Abati di Cluny, istituzione che parve miracolo ai suoi tempi. Lui pure, un giovedì santo, ed era morente, si fece portare in chiesa, volle che si facesse la grande funzione del giovedì santo mentre era morente, si comunicò solennemente al momento in cui la liturgia lo portava, e dopo, stando steso accanto alla sua fossa aperta, s’addormentò in Domino. Grande anche in quel momento. S. Raimondo, detto il non nato, di cui si fa la festa il 31 di agosto, al principio del XIII secolo morì per la strada mentre faceva un viaggio in Catalogna. In quel momento non c’era possibilità di dargli l’Eucaristia, la chiesa che custodiva la Eucaristia era lontana. E allora furono gli Angeli che portarono il Viatico a questo santo cardinale. Quando a S. Giuliana de’ Falconieri, fiorentina, portarono il Viatico, ma essa non poteva riceverlo perché il suo stato fisico impediva la deglutizione di qualunque cosa, disse : « Posatelo qui, sul cuore ». E la particola scomparve. La Comunione la fece senza deglutire. Quando sistemarono il sacro corpo di questa vergine, s’accorsero che sul cuore era rimasta incisa nella carne la forma dell’ostia. Per il Viatico Dio ha una provvidenza speciale. Ma lo volete ricevere? Preparatevelo per tutta la vita. Noi non sappiamo chi avremo intorno allora. Ma se il Viatico lo si prepara per tutta la vita, si fa sempre in modo che l’ambiente che è intorno a noi sia favorevole e propizio allo splendore del nostro Viatico. Ed è opportuno che tutti noi impariamo, quando ci viene anche solo un mal di testa, a non far subito mirabolanti esercizi di allucinazione. Per prima cosa cominciamo sempre a dire: ora mettiamo a posto l’anima. Poi, se rimarremo di qua, ci staremo. Ma per prima cosa, non cominciamo dalle mirabolanti esercitazioni di inganno di sé stessi; per prima cosa quello. La meditazione della morte non sta nel far venir fredda la schiena. Avete visto. Abbiamo potuto anche sorridere, e più d’una volta, durante la meditazione della morte. È questione che, da questo momento, ci si prepari a morir bene.

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (3)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (3)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

3. Il peccato contro la SS. Eucaristia

Parliamo del peccato contro la SS. Eucaristia. È un discorso che mi pare necessario fare, non perché esista nel catalogo dei peccati secondo la teologia morale un peccato contro la SS. Eucaristia; specificamente parlando non esiste. Esisterà un peccato contro la Religione, esisterà insomma il peccato di empietà, il peccato di sacrilegio. Tuttavia può esistere nella vita di un uomo, e non solo nella vita di un uomo ma nella vita della comunità cristiana — io bado sempre a quella — può esistere un tale modo di contenersi e di pensare che potrebbe benissimo essere anche chiamato così: peccato contro l’Eucaristia. – C’è anche un altro motivo. Voi vivete in un certo modo, a un certo livello culturale. Ci sono dei peccati che si fanno facilmente al livello della vita comune, al livello della vita piena di necessità e d’istinti; ma ci sono dei peccati che è facile commettere al livello della cosiddetta cultura. E bisogna un po’ occuparsi di quelli. Io sto incontrando tanta gente che, si direbbe, è bravissima, si direbbe che è una lampada accesa davanti a Dio e della quale invece sono convinto che mi fa un sacco di peccati, di peccatacci culturali. Vengo ora a dipanare il primo punto. Perché ci sia un peccato bisogna che ci sia una legge, perché se non c’è una legge contro la quale si va a cozzare, non si fanno peccati. Se non ci fosse un’obbligazione portata dalla legge, non sarebbe ragionevole parlare di peccato, o per lo meno parlare di cosa che non sia perfetta e che non possa essere secondo Dio. Vi prego di osservare che continua il criterio della meditazione precedente: noi ci preoccupiamo molto degli atti, e dobbiamo farlo. Ma attenti bene: non si risolve il problema della vita e della propria santificazione guardando soltanto agli atti singoli. Bisogna arrivare agli stati d’animo abituali, alle abitudini e a tutto quello che in noi potrebbe essere anche, fino a un certo punto, subcosciente. Bisogna dilatare la preoccupazione morale a questi piani dell’attività interiore, se si vuole veramente andare verso Dio. Dunque ci vuole una legge. E la legge qual è? La legge ve l’ho già detta in poche parole facendo il discorso sull’iter cum Christo. La legge è questa: Gesù Cristo ci ha detto che noi dobbiamo essere con Lui. Ha detto chiaramente: « Voi in me e Io in voi » (cap. VI dell’Evangelo di S. Giovanni). E questa è parola eterna e dirimente. Noi dunque dobbiamo essere con Gesù Cristo in questa forma intima, in questa forma profonda. Ma con quale Gesù Cristo noi dobbiamo essere? Con un Gesù Cristo soltanto dipinto, con un Gesù Cristo creato dalla nostra fantasia o creato dal nostro più o meno vero o falso culturalismo? No. Noi dobbiamo essere con Lui, figlio di Maria Vergine e soprattutto Figlio del Padre, cioè con Lui Dio e Uomo, che ha Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Stiamo attenti! Non abbiamo un coltello in mano per fare delle recisioni: dobbiamo essere con Gesù Cristo, Corpo Sangue Anima e Divinità. Stiamo attenti a non lasciar entrare nell’anima nostra qualche cosa di gnostico o qualche cosa di manicheo. Con Gesù Cristo, non con certe ombre slavate e lontane che talvolta qualcuno, anche scrittore moderno, cristianissimo, vorrebbe scambiare con Gesù Cristo. Siamo d’accordo, vero? La legge è questa: dobbiamo essere con Gesù Cristo e fino all’intimità, ma dobbiamo essere con quello che è Lui, e Lui così: Corpo Sangue Anima e Divinità. Nel momento del tempo, cioè prima che si passi questa barriera, che si entri nell’eternità, che si plani in un altro ordine, dove sta Gesù Cristo? È lì, nel tabernacolo. Perché con Gesù Cristo, Corpo Sangue e Anima in cielo finora non ci siamo; ci saremo, a Dio piacendo. Egli è lì, nel tabernacolo. Dunque la vita del Cristiano deve vivere accanto e secondo l’Eucaristia: questa è la legge che è evidente nell’Evangelo. Bisogna leggersi e rileggersi forse per tutta la vita la narrazione che i sinottici fanno della istituzione dell’Eucaristia, l’ambientazione che danno a questa istituzione, e leggersi sempre quel divino commento che è il discorso che sta ai capp. V e VI del Vangelo di S. Giovanni, e poi tutto il discorso che Gesù ha fatto nell’Ultima Cena dove Giovanni, fedele al suo principio di non ripetere, non parla dell’istituzione ma ci dà lo sfondo intellettuale e lo sfondo d’amore di questa istituzione; ed è tutto il discorso fatto da Gesù Cristo e che si completa al cap. XVII dello stesso Evangelo nella famosa grande orazione sacerdotale che Gesù rivolge al Padre perché la sentano i discepoli, mentre sta andando « trans torrentem Cedron », mentre va a cominciare il patimento definitivo all’orto di Getsemani. Allora si capisce; si capisce che l’Evangelo continua, e continua perché è rimasto Gesù Cristo in terra, in modo invisibile d’accordo. Il fatto della visibilità l’ha ceduto alla sua Chiesa, ed è per questo che la Chiesa ha un Capo visibile in terra, Vicario di Gesù Cristo, che è il Papa. E ha ceduto tutti gli strumenti della visibilità alla sua Chiesa, che sono il Sacrificio, i Sacramenti e tutti gli altri poteri, cioè ha ceduto tutti quegli strumenti della visibilità per la parte materiale che involgono, per la parte soprannaturale divina di grazia che involgono e in quanto sono legati con la visibilità. – Ma Lui è rimasto quaggiù. È la profezia di Malachia, che il Sacrificio sarebbe stato offerto dall’alba al tramonto, dall’Oriente all’Occidente, sempre. Non più Sacrificio momentaneo, ma Sacrificio eterno, concetto ripreso da S. Paolo nella Lettera agli Ebrei. E pertanto — dirò una cosa che forse può far sorridere — in questo mondo c’è Kennedy, c’è Crusciov, ci sono tutti gli altri, che nel giro di pochissimi anni non ci saranno più. Vi prego di ricordarvi che in questo mondo c’è Nostro Signore Gesù Cristo: con questo ho detto tutto; e che Nostro Signore Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto Uomo, cioè Egli è l’infinito ed è il più umano di tutti, l’unico veramente umano perché, a un modo che è stato suo e a un modo che non è ripetibile dagli altri, è andato in croce per tutti gli uomini. Voi sapete che a questo mondo c’è l’anno geofisico; ma se c’è l’anno geofisico, i missili, i polaris ecc., a questo mondo c’è qualche cosa di molto più grande, di molto più interessante, di molto più dirimente, di molto più necessario, e si chiama Gesù Cristo. C’è Lui in Corpo Sangue Anima e Divinità. E allora? E allora bisogna tirare le conseguenze. Non c’è altro da fare: altrimenti sbagliamo tutto e sbagliamo tutti. Questa è la legge. Ecco perché ho potuto parlare del peccato contro l’Eucaristia. E questo peccato contro l’Eucaristia noi lo commettiamo a tre piani diversi. – Il primo è il piano del culto divino. Cominciate a guardare le nostre chiese. In quante di esse, ditemi, il popolo va a fare la visita al SS. Sacramento? E quanti sono talvolta i sacri pastori, i Sacerdoti, i parroci che si impegnano a creare la corte permanente a Gesù Cristo? Perché Gesù Cristo sta in chiesa anche se chiusa; se ce lo mettiamo, ci sta. Si è messo nelle nostre mani: rispetta la consegna, non fugge mai. C’è una fiammella che rimane lì. Ma quante sono le chiese intorno alle quali c’è un popolo che viene educato a ricordarsi che c’è il Signore, e che questa è la cosa più grande che si possa dire, che si possa fare, che si possa pensare in questo mondo? Vi prego di guardare tanti tabernacoli e certi altari come sono ridotti! Ecco il peccato contro l’Eucaristia! La Chiesa nel can. 1289 C. D. C. ha disposto come deve essere il tabernacolo. La Chiesa nel decreto della Congregazione dei Riti del 1° luglio del 1958 ha ripreso tutte le disposizioni canoniche circa il tabernacolo e in un certo senso le ha ampliate. È evidente che la Chiesa si preoccupa della consuetudine di taluni, protestanti di fatto mentre agiscono nella Chiesa Cattolica, di far scomparire il tabernacolo e di considerare l’altare come puro soltanto quando è privo del tabernacolo. Come se il tabernacolo fosse una mostruosità o un grande incomodo, da sopportarsi proprio unicamente per lo scopo che, se viene un accidente a qualcheduno, bisogna dargli il viatico! – State attenti a queste forme culturalistiche che si insinuano! Si vuol mettere in rilievo soltanto l’atto comunitario, che sarebbe la S. Messa cantata, parlando sempre di quello, solo di quello, e ostentando il più fiero disprezzo per tutto il resto. E si dimentica l’aspetto sostanziale della pietà cattolica, che il culto della Chiesa continua giorno e notte perché giorno e notte c’è Nostro Signore Gesù Cristo presente e pertanto ci deve essere l’atto di adorazione. E ci deve essere un divino colloquio tra Lui e le anime. E così, spennando da una parte, spennando dall’altra, si cerca di far passare sotto banco un certo qual ritorno alla negazione di Lutero. Perché questa è la via, quella di spennare. E per quella via si arriva esattamente al 1517. – Vedete, su questo punto io mi fermo, perché, ripeto, il parlarne ha precisamente lo scopo di creare in voi un senso di difesa contro certe infiltrazioni che hanno anche apparenza culturalistica e che sono, di fatto, ben altra cosa. Ben altra cosa! Vi prego di aprire gli occhi. Molte cose che certe persone accettano, ben intenzionate certo, io non voglio mettere in dubbio le buone intenzioni, danno l’impressione che non s’accorgano più che c’è Gesù Cristo, che è qui. Non se ne accorgono più. Vi fanno anche, con tutta comodità, un concerto in chiesa. Naturalmente all’ultimo momento se ne ricordano e allora un prete, molto alla svelta, con un po’ di cotta e stola e di velo omerale, va a prendere Nostro Signore Gesù Cristo e lo porta via perché non incomodi e si possa fare il concerto. – Dacché sono Vescovo, non ho mai permesso un affare del genere, mai! A Gesù Cristo non si va a dire: « Levati di lì, che adesso facciamo i nostri comodi ». E se, Lui presente, certi comodi non si possono fare, non si fanno. Nei momenti grandi bisogna ritornare lì. La salvezza della Chiesa dopo il Concilio di Trento è stata fuori dalla stia. È chiaro questo. Ma che si debba ancora stare lì a dire: la vera carità è questa! Guastano tutto. La libertà! Dio, prima della libertà! Capite? La parola libertà ha un valore subordinatamente a Dio che l’ha creata e ce l’ha data. La parola personalità ha certamente un valore e l’ha perché l’ha avuto da Dio, che se l’avessero data gli uomini, non ne avrebbe nessuno di valore, e rimane pertanto cosa subordinata a Dio. Vedete, si lascia accantonare Gesù Cristo con questa tolleranza. Tolleranza! Sì, certo, pazienza. Non diciamo tolleranza, che è un’altra cosa. Pazienza sì. Pazienza senza fine. Ma la parola tolleranza è una parola molto equivoca; e non diciamo di più. Pazienza, sì. Non dico: tolleranza no; dico che tolleranza è una parola molto equivoca e può essere presa bene e male, a seconda dei casi, a seconda della chiarezza teologica che si ha in testa e a seconda del giudizio obiettivo dei valori che si ha nella propria anima. – L’umanesimo. C’è l’umanesimo. Se ne parla molto adesso. Quando uno vuol fare una cosa per cui gli sembra di diventare una persona per bene, scrive un articolo sull’umanesimo. Ora lasciamo stare le divagazioni letterarie sull’umanesimo. Vi dico solo questo: quando si parla di umanesimo in una casa cristiana, s’intende aduggiare un certo modo di pensare le cose che è semipelagiano. Attenti bene, che è semipelagiano. Perché il senso non capito per mancanza di conoscenza teologica, ma inconsapevolmente in fondo accettato, quando si fa troppo questo discorso, che nei suoi termini esatti può essere fatto ma nei suoi termini equivoci no, quando lo si fa troppo questo discorso, s’intende dire che ad arrancare fino al porto della vita possiamo farcela con le nostre forze; che esistono forze umane, date da Dio, certo, oh, sì! in natura, da poter portare: civiltà, umanità, pace, ordine, giusti ritmi fino al porto e cioè fino a una situazione soddisfacente, decorosa, morale, senza proprio estremo bisogno che c’entri la grazia di Dio. Il che è manifestamente falso se lo si dice chiaro come l’ho detto io; ma talvolta si tratta di quelle cose dette a tre quarti, dette a metà, dette a un centesimo, così che non sono mai errori, che non sono mai chiare, che non affondano mai radici in un humus di chiarezza e di sicurezza teologica, per cui si finisce alle volte ad avere delle impostazioni mentali ad angoli che sono completamente sbagliate. – Perché Gesù Cristo sta lì sempre? Perché ha istituito l’Eucaristia sacramentum permanens, perché? Non bastava il Sacrificio offerto una volta al mese, una volta all’anno, tanto più che il Sacrificio ha valore divino? I frutti sono applicati limitatamente, ma il valore è infinito. Bastava una volta all’anno, a Pasqua, una volta al mese, tutte le domeniche, via. No! Il Sacrificio realizza la profezia di Malachia: «dall’alba al tramonto, dall’Oriente all’Occidente », continuo. È il sacramentum permanens, perché l’Eucaristia non è soltanto Sacrificio, è anche Sacramento. Perché Dio ha voluto che il Sacrificio sia continuo e che, non bastando la continuità del Sacrificio, nella divina mente, alla necessità degli uomini, Iddio ha voluto che fosse per di più sacramentum e che fosse permanens? È chiara tutta la mentalità dell’Evangelo: Voi ne avete bisogno. « Se non ci sono Io, ha detto Gesù, sine me nihil potestis facere ». E la vita adombrata da Lui nella parabola della vite ha le sue sorgenti nel tronco della vite, che è Lui (Gv. cap. XV).La spiritualità qualche volta può essere compromessa dal modo con cui s’intende la vita comunitaria. Badate che la parola « comunitario» può essere la parola più onesta di questo mondo, perché se dice che dobbiamo andare a braccetto tutti e vivere in comunità, liturgia in comunità, niente da dire. Quello che c’è da dire è che, come mai l’abbiamo dovuta inventare noi adesso, da quindici anni, perché prima non se ne parlava? Ne ha parlato qualcuno rarissimamente,ma nessuno vi faceva caso, nel decennio fra il trenta e il quaranta. Poi dopo la guerra è saltata fuori. Adesso tutto è comunitario. E prima cosa eravamo? Quando eravamo in chiesa, quando si cantava la Messa, quando cantavamo l’Ufficio insieme, quando facevamo le processioni, le feste, quando facevamo le associazioni, quando tentavamo di mettere insieme la gente per fare la carità, che cos’era?Abbiamo visto prima la tolleranza: s’aggiusti da sé, noi non ci abbiamo a far niente; poi l’umanesimo: facciamo a meno di Lui. Vediamo adesso che cosa è questo « comunitarismo » quando la parola diventa equivoca. – Ci sono state delle fondazioni, delle forme associative quanto mai equivoche, spiritualissime, santissime, mistiche, impregnate di mistica per tutti i versi, in cui si è arrivati a questo punto, per dirvi dove il senso comunitario può andare a finire. In esse la direzione spirituale la si faceva in comune. Vi piacerebbe? Spero di no, perché dovrei credere che foste ammalati. In comune, così: è la comunità degli iniziati che giudica il caso del singolo e dice: « Tu, per camminare verso Dio, devi fare così… ». Con questa conclusione che le donne facevano la direzione spirituale agli uomini e persino ai preti. Ho portato questo esempio per dire fin dove si può arrivare. Ora è chiaro che Gesù Cristo il Sacramento della Penitenza l’ha messo in mano al Sacramento dell’Ordine e alla autorità giurisdizionale della Chiesa, perché per assolvere ci vogliono due cose: bisogna che uno sia prete validamente ordinato e per di più bisogna che abbia la giurisdizione dall’autorità della Chiesa; perché non l’ha di per sé. La giurisdizione di per sé, di natura sua, per diritto divino, l’hanno soltanto i Vescovi e il Papa. I sacerdoti non l’hanno. Con l’aver istituito il Sacramento della Penitenza, Nostro Signore ha fatto capire che la questione del bene e del male nelle anime e la direzione delle anime è affidata al Sacramento dell’Ordine, e non soltanto al sacramento dell’Ordine, intendiamoci, ma al sacramento dell’Ordine quando è unito al crisma di una delegazione dell’autorità gerarchica della Chiesa. – E il concetto comunitario può arrivare a delle sfumature che possono camminare tanto da andare a finire anche in Russia. E sfumature alle volte che finiscono con l’eliminare tutto il contatto diretto, immediato tra le anime e Dio. Perché esiste una pietà pubblica nella Santa Chiesa Cattolica, ma ne esiste anche una privata. E la pietà privata è quella che prepara il materiale alla pietà pubblica. – Il concetto comunitario, quando diventa equivoco nella spiritualità, a che cosa tende? Tende a sovrapporre la comunità a Gesù Cristo. È la comunità che conta, non è più Gesù Cristo. È la stessa sfasatura che succede su altri piani: è la collettività che conta, più che la legge, mentre è vero il rovescio, perché la comunità non sta in piedi se non c’è la legge, oltre tutto: perché se non esiste l’autorità, la collettività non ha il principio per cui diventa unita: è anarchica e pertanto non è più comunità. – Il peccato, il peccato contro l’Eucaristia può farsi dunque sul piano teologico. Io vi ho voluto dire questo: guardate che per stare stretti intorno a Nostro Signore Gesù Cristo che è lì — è anche in cielo, certo, come Dio è dappertutto, certo, ed è per questo che potreste parlare con Lui dappertutto, ma il punto qualificato, il punto massimo del Sacrificio, del Sacramento permanente è lì — per poterci stringere, per adeguarci a questo fatto del Sacrificio Sacramento continuo e del Sacramento permanente e che diventa nel pensiero di Gesù Cristo l’asse proposto agli uomini per la loro salute., per stare con Lui, abbiamo bisogno di difenderci da una quantità di forme di maleducazione nei suoi confronti, di mancanza d’amore, di tenerezza, di affetto, e dall’infiltrazione di molte mode e di molti errori che costituiscono sempre, in modo certamente da nanerottoli e ridicolo, il gesto del capo degli angeli ribelli: « Sarò simile a Dio », e pretenderebbero di sbalzare Dio dal suo trono. Intendiamoci, l’ho detto perché vi difendiate da una serie di infiltrazioni che non arriveranno mai a quella forma, lo so, ma che in realtà partono dallo stesso principio e che a Gesù Cristo, che deve essere la nostra vita, la nostra anima, il nostro tutto, l’oggetto del nostro amore, tendono a sostituire qualche altra cosa, magari noi stessi, quella piccola cosa, povera cosa, che siamo noi. Guardate che il male proveniente da certe radici, le suggestioni date da certe sorgenti tendono a questo: sostituire noi stessi a Lui, il che sarebbe il rovesciamento di tutto.

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SALMI BIBLICI: “QUAM DILECTA TABERNACULA TUA” (LXXXIII)

SALMO 83: “QUAM DILECTA TABERNACULA TUA”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 83

In finem, pro torcularibus filiis Core. Psalmus.

[1] Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!

[2] Concupiscit, et deficit anima mea in atria Domini; cor meum et caro mea exsultaverunt in Deum vivum.

[3] Etenim passer invenit sibi domum, et turtur nidum sibi, ubi ponat pullos suos. Altaria tua, Domine virtutum, rex meus, et Deus meus.

[4] Beati qui habitant in domo tua, Domine; in sæcula sæculorum laudabunt te.

[5] Beatus vir cujus est auxilium abs te, ascensiones in corde suo disposuit,

[6] in valle lacrimarum, in loco quem posuit.

[7] Etenim benedictionem dabit legislator; ibunt de virtute in virtutem, videbitur Deus deorum in Sion.

[8] Domine Deus virtutum, exaudi orationem meam; auribus percipe, Deus Jacob. [9] Protector noster, aspice, Deus, et respice in faciem christi tui.

[10] Quia melior est dies una in atriis tuis super millia; elegi abjectus esse in domo Dei mei magis quam habitare in tabernaculis peccatorum.

[11] Quia misericordiam et veritatem diligit Deus, gratiam et gloriam dabit Dominus.

[12] Non privabit bonis eos qui ambulant in innocentia. Domine virtutum, beatus homo qui sperat in te.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXIII.

Ardente desiderio della visione di Dio nei tabernacoli celesti. É quasi lo stesso argomento del Salmo 41.

Per la fine: per li strettoi; salmo a’ figliuoli di Core.

1. Quanto amabili sono i tuoi tabernacoli, o Signor degli eserciti! L’anima mia si consuma pel desiderio di tua magione.

2. Il cuor mio e la mia carne esultano in Dio vivo.

2. Perocché la passera si trova una casa, e la tortorella un nido dove deporre i suoi parti.

3. I tuoi altari, Signor degli eserciti, mio Re e mio Dio.

4. Beali coloro che abitano nella tua casa, o Signore; te loderanno in perpetuo. (1)

5. Beato l’uomo, la fortezza del quale è in te; egli nella valle di lacrime ha disposte in cuor suo le ascensioni lino al luogo, cui egli si fece.

6. Perocché li benedirà il legislatore; andranno di virtù in virtù; (ad essi) si rivelerà il Dio degli dei in Sionne.

7. Signore Dio degli eserciti, esaudisci la mia orazione; porgi le tue orecchie, o Dio di Giacobbe.

8. Volgi il tuo sguardo, o Dio protettor nostro, e mira la faccia del tuo Cristo.

9. Imperocché vai più un sol giorno nella tua casa, che mille (altrove).

10. Mi sono eletto di essere abbietto nella casa del mio Dio, piuttosto che abitare nei padiglioni de’ peccatori.

11. Imperocché il Signore ama la misericordia e la verità; il Signore darà la grazia e la gloria.

12. Li non priverà dei beni coloro che camminano nell’innocenza; Signore degli eserciti, beato l’uomo che spera in te.].

(1) « In loco quem posuit, » può ricevere due spiegazioni: l’una se non si tenga conto che solo del latino, l’altra se si consideri il testo ebraico e la versione greca. 1° Felice l’uomo che mette in Voi la sua forza, mentre sarà in questa valle di lacrime, nel luogo ove è posto per sua colpa, per il suo peccato, perché Dio lo aveva posto originariamente in Paradiso; 2° felice colui che attende soccorso da Voi, ché da questa valle di lacrime sale un gradino dopo l’altro finché non sia giunto a questa eterna dimora che è il termine del suo pellegrinaggio.

Sommario analitico

In questo salmo, il Profeta, come rapito in estasi, esprime nel modo più toccante il suo amore per la casa di Dio, il rimpianto di vedersene allontanato, il desiderio di ritornarvi, fosse anche per occupare l’ultimo posto. – Secondo qualche interprete, questo salmo risale all’epoca che ha preceduto immediatamente la cattività, in cui i figli di Core furono obbligati a fuggire lontano dal tempio, verso la montagna dell’Ermon, per sfuggire a Sennacherib, ed i versetti 3, 4, 10, in cui è in questione il tempio, sembrano favorire questa opinione; ma il sentimento comune degli interpreti – nota a ragione Hengstenberg – è che il salmo fu composto durante la fuga di Davide  davanti ad Assalonne, quando questo re si trovava con coloro che gli erano rimasti fedeli al di la del Giordano, lontano dal santuario. In senso figurato è l’espressione del desiderio – nell’anima fedele – dei santi tabernacoli e soprattutto della patria celeste, alla quale solo può essere applicata la magnificenza delle espressioni di questo salmo.

I. – Il Profeta esprime il desiderio ardente di questa anima, desiderio che si manifesta:

1° nel suo amore per i santi tabernacoli (1);

2° nelle sua operazioni divine verso questo divino soggiorno;

3°nel languore che essa prova nella considerazione degli atri del Signore (2);

4° nei suoi trasporti di gioia, interiori ed esteriori, nella contemplazione del Dio vivente ed immortale (2).

II. – Egli compara la tranquillità dei beati in cielo con il riposo accordato agli uccelli sulla terra; giudica ed apprezza la loro felicità dalla sicurezza di cui essi godono, e dalle lodi che essi cantano continuamente a Dio (3, 4).

III. – Aspira alla perfezione cristiana come mezzo per giungere a questa felicità, perfezione:

1° che si comunica con la grazia di Dio e la risoluzione di avanzare nel cammino della virtù (5);

2° che si continua con una applicazione costante alla penitenza (6),

3° che si completa con l’aumento della grazia, l’esercizio delle virtù e l’unione con Dio. (7).

IV. – Egli indica i mezzi attraverso i quali Dio ci aiuta a pervenire a questa perfezione:

1° Una preghiera supplichevole, – a) al fine di ottenere il soccorso di Dio per compiere la volontà divina (8); – b) per applicare, mediante la grazia, all’anima fedele, i meriti di Gesù-Cristo (9); – c) per dirigere il grande affare della elezione (9).

2° La scelta che egli fa della via della perfezione cristiana, quantunque penosa, in luogo della vita comoda e facile dei peccatori (10); – a) a causa della misericordia di Dio, che promette il cielo; – b) della sua veridicità, che compie le sue promesse; – c) della sua liberalità, per cui dà la grazia a tutti, – d) della sua giustizia, che concede la gloria all’anima fedele (11); – e) a causa dei beni stessi di questa vita, che Dio non rifiuta affatto alle anime innocenti e che sperano in Lui (12).   

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – Ogni parola, in questi due versetti, è come un trattato di fuoco, e mai l’amore impiegò espressioni più vive: è il grido del desiderio di un uomo che si sente come straniero sulla terra, e che sospira alla sua patria che è il cielo. La vivacità di questo desiderio nasce da due cose: dalla bellezza e dalle attrattive della patria, e dalla durezza dell’esilio. – Il desiderio sì vivo, produce una sorta di debolezza in tutto il suo essere: è ciò che i Santi esprimono con i termini di fuoco, di ferita e di estasi, tre effetti che essi attribuiscono all’amore divino. Quando l’anima ne è penetrata in tutte le sue potenze, essa perde in qualche modo la sua attività, scivola nel seno di Dio, e si perde in questo oceano di tutte le beatitudini e di tutte le perfezioni (Berthier). – Il cuore trasale di gioia e si attacca la dove è il suo tesoro. Per quali beni sobbalza il cuore della maggior parte degli uomini? Gli uni desiderano i beni della terra, le ricchezze di questo secolo; altri i primi posti nella Chiesa, la gloria che viene dagli uomini. Quanto a me, il mio unico desiderio è quello di vedere i tabernacoli eterni ove io contemplerò non più la riunione dei vizi, ma la felice riunione di tutte le virtù. – L’amore del Dio vivente ha, per il cuore distaccato dalla terra, delle delizie infinitamente più pure, più veraci e più dolci di tutte quelle del secolo. « Il mio cuore e la mia carne hanno sussultato nel Dio vivente » È l’espressione di un amore portato al suo grado più alto, perché altrimenti il cuore e la carne non avrebbero questa santa unanimità di gioia e di desiderio (S. Ger.).

II — 3, 4.

ff. 3, 4. – Il Profeta giunge a dirci che il suo cuore si era slanciato così come la sua carne, e li designa sotto il nome di: passero e tortorella: il suo cuore è come il passerotto e la sua carne come la tortorella. Il passerotto ha trovato una casa: il mio cuore ha trovato una casa. Esso esercita le sue ali nelle virtù che si praticano in questa vita, nella fede, nella speranza e nella carità per mezzo delle quali esso vola verso la sua casa, e quando vi sarà giunto, vi resterà, e la voce del passerotto, che è lamentosa quaggiù, non lo sarà più qui, perché è egli stesso il passero lamentoso del quale dice in un altro salmo: « … come il passero solitario sul suo tetto. » (Ps. I, 8). Da questo tetto egli vola alla casa. Benché sia già sul tetto che calpesta come sua dimora carnale, egli avrà una casa celeste, una dimora eterna. Là, il passero metterà fine ai suoi lamenti (S. Agost.). – Quando il nostro cuore ha sussultato a lungo per Dio, quando i nostri desideri ci hanno portato verso di Lui, come l’uccello vola verso la casa; quando abbiamo per lungo tempo vegliato, pregato a lungo, sospirato, Dio ascolta i nostri pianti e mette fine ai nostri languori, Egli ci mostra il luogo ove ci si riposi, amandolo e contemplandolo. Egli ci apre la casa del passero, la casa del cielo (Mgr. De la Douillerie, Symbol. 2° par.). – Ma alla tortorella – la carne – il Profeta ha donato dei piccoli; al passero una casa; alla tortorella un nido, un nido per deporre i suoi piccoli. Si sceglie una casa per abitarvi sempre; un nido è fatto da un cumulo di detriti per un breve tempo. Con il cuore noi pensiamo a Dio come un passero che vola verso casa; con la carne, noi compiamo le nostre buone opere, perché è con esse che noi facciamo tutto ciò che ci viene prescritto e tutto ciò che ci viene in soccorso in questa vita: « e la tortorella  cerca un nido per deporvi i suoi piccoli » … non faccia un nido nel primo spazio trovato, per deporvi i suoi piccoli, ma che produca le sue opere nella vera fede, nella Fede cattolica, nella comunione dell’unità della Chiesa (S. Agost.). – Se perseverate nella fede, la fede stessa è il nido in cui la tortorella deporrà i suoi piccoli, perché a causa della debolezza dei piccoli della vostra tortorella, Dio vi ha concesso di che fare un nido, e per questo si è rivestito di una carne che non è che fieno, per venire a voi. Deponete dunque in questa fede i piccoli che sono nati da voi, ed operate le vostre buone opere in questo nido. Quali sono questi nidi o qual è questo nido? Il profeta lo dice subito dopo: « … i vostri altari, o Signore degli eserciti » (S. Agost.). – La cima di un albero che si perde tra le nuvole, lo spesso fogliame in fondo al ramo, il cono oscuro di una casa isolata, è lo stazionamento che il passero preferisce. Ma dato che ha costruito il suo nido, si considera in tutta verità come a casa sua. Egli ha preso possesso della sua dimora: sta per diventare il capo di una nuova famiglia. Voi direte che è molto fragile questo posizionamento aereo. E tuttavia la sacra Scrittura lo cita molto saggiamente per l’uomo, per dargli un’utile lezione: « Quale confidenza si avrà, essa dice, in Colui che non ha neanche un nido? » (Eccli. XXXVI, 28). C’è bisogno che un dato giorno l’uomo anche sappia fissare la sua vita e che si ponga con onore là dove Dio gli ha creato dei doveri. – Ma sì modesto che possa essere il nido dell’uccello, vi ospita tutta la sua felicità; egli non lo lascia che per un istante e vi torna sempre con gioia. La femmina vi depone le sue uova; con quale cura, con quale tenerezza essa le cova e le riscalda, e più tardi lo farà con i suoi piccoli, quando esse saranno dischiuse. Chi di noi nel nido in cui la provvidenza l’ha posto, non ha riscaldato con il suo alito l’uomo dove dormono le proprie speranze! Tuttavia consideriamo che le nostre speranze saranno vane se hanno come oggetto solo i beni di questa vita passeggera … Il sant’uomo Giobbe, ricordando con amarezza le sue speranze deluse, si esprimeva con questa parole: « Io mi sono detto, pieno di fiducia: io morirò nel riposo nel piccolo nido che mi sono fatto » … « il nido in cui il patriarca vuole morire – dice S. Gregorio – (Moral., 1. XIX, c. 27), è l’immagine della pace profonda che solo la Chiesa assicura ai suoi figli fedeli, facendoli crescere nella sua fede e riscaldandoli nel suo amore, fino a che le loro ali si siano ingrandite per prendere il volo verso la patria celeste ». – « La Chiesa è come la tortorella che sa trovare un nido per i suoi piccoli ». Ma Davide designa ancor più chiaramente il nido in cui voglio vivere e morire: « La tortorella – egli dice – trova un nido per i suoi piccoli; ed io, mio Dio delle virtù, io non domando che i vostri altari ». Si, i vostri altari, Signore, intorno ai quali ha gioito nella mia giovinezza; i vostri altari ove io mi nutro ogni giorno dell’Alimento dei forti; i vostri altari verso i quali si slancia il mio cuore, come l’uccello che esce dal suo nido, per elevarmi di virtù in virtù e salire fino a Voi; i vostri altari che io voglio abbracciare morendo; i vostri altari dai quali non mi allontanerò se non per unirmi a Voi nel cielo! (Symbol. Ibid.) – Il Profeta desidera con ardore la patria celeste; ma essendone lontano, trovando la sua più viva immagine nell’altare del Signore, vi riposa come un uccello nel suo nido. L’altare è in effetti l’immagine più vivente del cielo; è circondato da mille cose che ricordano questa celeste patria: è là che viene immolato tutti i giorni questo Agnello che ci ha aperto, con il suo sangue, l’atrio dell’eternità, è là che ci è dato il pegno dell’immortalità; là noi siamo più vicini a Dio, la preghiera è più intima, la lode più attenta e pia. Tutti gli uccelli si trovano nel luogo del riposo, ed anche il passero più piccolo ha la sua casa ed il suo nido. Non soltanto l’uccello attivo e vivace, come il passero, ma anche l’uccello amico della solitudine, come la tortorella, ha un nido per deporvi i suoi piccoli e per vivere in sicurezza, …ed io, Signore, che viva di una vita attiva, come il passero, o scelga la solitudine, come la tortorella, avrò il mio riposo ed il mio nido presso i vostri altari, e potrò venire a riposare di tempo in tempo, e deporvi, come dei piccoli nel nido della loro madre, la mie preghiere, le mie voci, i miei casti desideri, le mie meditazioni ed il tributo delle mie lodi (S. Girol. – Bellarm.). – Ciò che è l’anfratto per il passero, il nido per la tortorella, sia l’altare per il nostro cuore. Verso questo tabernacolo, rivolgiamo le invocazioni più penetranti e le più grandi tenerezze delle nostre anime, i sospiri più ardenti del nostro cuore: « … i vostri altari, Signore Dio delle virtù, i vostri altari », ecco il rifugio, la protezione, il bastione! – Perché coloro che abitano nella vostra dimora sono felici? Cosa possederanno, cosa faranno? Tutti coloro che si dicono felici sulla terra possiedono qualcosa e fanno qualcosa. Tale uomo è felice in ragione delle tante terre, dei tanti servitori, del tanto oro e del tanto denaro: lo si dice felice di ciò che possiede. Un altro è felice perché è giunto ad alte dignità, è un governatore, un prefetto; lo si dice felice di ciò che ha fatto. L’uomo è dunque felice in ragione di quanto possiede ed in ragione di quanto fa. Da dove verrà dunque la felicità per coloro che abitano nella dimora del Signore?  Cosa possiederanno? Cosa faranno? Quel che possederanno lo dice più avanti: « Felici coloro che abitano nella vostra dimora! » Se voi possedete la vostra casa, siete povero; se possedete la casa di Dio, allora siete ricco. Nella vostra casa, voi avete paura dei ladri; ma Dio stesso è il muro che protegge la casa di Dio: « felici dunque coloro che abitano nella vostra casa! » Essi possiederanno la Gerusalemme celeste, senza angosce, senza oppressioni, senza differenze, senza limite di possesso; tutti la possiedono ed ognuno la possiede interamente. Che ricchezze immense! Il fratello non mette più il fratello nella ristrettezza: in cielo non c’è indigenza. Ed ora cosa faranno? Perché quaggiù la necessità è la madre di tutte la azioni umane … diteci dunque, cosa faranno nel cielo poiché non vi è alcuna necessità che spinga ad agire: « … essi vi glorificheranno nei secoli dei secoli ». Questa sarà la nostra unica occupazione, un alleluia senza fine. E non crediate che ne possa derivare alcun disgusto, sotto pretesto che se oggi lo ripetete per molto tempo, non potreste perseverare, perché è la necessità che vi distoglie da questa gioia;  ebbene, noi non potremmo gioire di ciò che non vediamo, tuttavia in mezzo alla tribolazioni della vita e malgrado la fragilità della nostra carne, se noi lodiamo con ardore gioioso ciò che crediamo, con quale trasporto loderemo ciò che vedremo? Siamo senza inquietudine; la lode di Dio, l’amore di Dio non ci causerà sazietà! Se potreste cessare di amarlo, potreste cessare di lodarlo, ma se il nostro amore per Dio è eterno, la vostra vista non potrà saziarsi della sua beltà. Non temete di non poter lodare Colui che potrete amare sempre (S. Agost.). – Per troppo tempo, come passero solitario, mi sono tenuto lontano da Voi, mio Dio! Quando avrò alfine questo bene di abitare in Voi, o Gesù? Quando potrò alfine dire che il passero ha trovato una dimora? – È una dolce idea da meditare quella di una dimora. Io non so cosa ne penseranno gli uomini di oggi, perché non parrebbero comprendere qual bene sia l’avere una dimora. Nella nostra società agitata e mutevole, più simile – sotto i brillanti aspetti del lusso e del piacere – ad una tribù nomade, che ad un popolo di famiglie unite in una patria comune, ci si fa facilmente l’idea di non avere casa e di abitare là dove ci si trovi, senza luogo, perché si è senza affezione; senza casa, perché senza famiglia, o ben presto senza patria, perché si è senza ricordi e senza speranze… Una casa è una famiglia, e come la famiglia non è che l’estensione dell’uomo, una casa è un simbolo sviluppato e fecondo dell’uomo tutto intero. Una porta, delle entrate e delle uscite, è l’immagine della volontà con la quale l’anima si espande al di fuori o si raccoglie in se stessa; una finestra che riceve la luce dal cielo, come l’intelligenza rischiarata dalla luce di Dio; una tavola che si nutre di un pane comune, simbolo del vero nutrimento delle nostre anime; un focolare, immagine del principio stesso della vita, centro, luogo che unisce tutti i membri della famiglia. Quali delicati misteri espressi da questi segni volgari! Ma soprattutto, in questa casa, termine di una unità collettiva, quante dolci soddisfazioni per il cuore! È in essa che vi si trova un padre, una madre, una sposa, dei fratelli, dei servitori, degli amici, ed anche qualche straniero al quale si rende il viaggio più piacevole e sicuro. Una  casa per cui si può dire: io qui sono nato, qui ho ricevuto le prime tenerezze e gli ultimi addii da mio padre, e con essi le tradizioni da conservare e le speranze da trasmettere. – Il Cristiano, che non vive solo la vita della natura, ma pure la vita della grazia, ha anch’egli una casa, la casa di Dio. Là egli nasce, si nutre, là trova suo Padre, dei fratelli, tutta una famiglia. Santa casa, quali piacevoli rifugi, quante gioie intime e quali dolci trasporti rivivono i profughi che vi rientrano dopo averla lasciata! La sua porta è la porta del cielo; il giorno che riceve dall’alto è veramente la luce eterna del Dio che vi abita e che si degna di conversare con noi (Mgr Baudry, Le Sacre-Coeur, p. 54, 55.)

III. — 5-7.

ff. 5-7. – Il Profeta ci dà qui i motivi che devono eccitarci a tendere sempre più verso il cielo. – 1° Dio che ci aiuta in questo lavoro! « Felice l’uomo che attende da Voi il suo soccorso »; – 2° la natura del cuore dell’uomo che desidera sempre elevarsi più in alto, e che resta pieno di inquietudini finché non riposi in Dio; – 3° il luogo da dove bisogna salire « in questa valle di lacrime »; – 4° il luogo ove bisogna tendere « per elevarsi fino al luogo che si propone ». Cos’è dunque ciò che Dio dona a colui che pone in Lui tutta la speranza ed il soccorso che attende? « Dio ha disposto dei gradi nel suo cuore ». Egli ha fatto dei gradini che gli servono per salire. Dove ha fatto questi gradini?  Nel suo cuore. Dunque, più amerete, più salirete. « Egli ha disposto dei gradini nel suo cuore! » Chi li ha disposti? Colui che ha preso ed elevato: « Felice colui che Voi prendete ed elevate verso di Voi. »; siccome l’uomo non può nulla da se stesso, è necessario che la vostra grazia lo prenda. E che fa la vostra grazia? Essa dispone dei gradini. Dove dispone questi gradini? « nel suo cuore, nella valle del pianto ». In questa valle del pianto, potete riconoscere il torchio; le pie lacrime della tribolazione sono il vino dolce dell’amore. « Egli ha disposto dei gradini nel suo cuore! » Dove dunque li ha disposti?  « Nella valle di lacrime » Quaggiù dunque Egli ha disposto questi gradini; perché quaggiù … si piange dove si semina. « Essi andavano e camminavano, dice il Profeta, e piangevano gettando la semenza nella terra » (Ps. CXXV, 6). Dio ha dunque disposto per sua grazia dei gradini nel vostro cuore. Salite questi gradini con l’amore; perché da questo deriva che bisogna cantare il cantico dei gradini. E questi gradini, dove sono disposti per voi? « … nel vostro cuore, nella valle di lacrime ». Per salire dove? « Nel luogo che Egli ha preparato » (Ps. LXXVIII, 7). Cosa vuol dire fratelli miei: « Nel luogo che Egli ha preparato? » Questo luogo che Dio ha preparato, se era possibile dire, lo dirà il Profeta. Egli vi ha già detto: « Egli ha disposto dei gradini nel cuore, nella valle di lacrime ». Voi chiedete: per andare dove? Cosa egli vi dirà? « … verso ciò che l’occhio non ha mai visto, e l’orecchio mai inteso, verso ciò che non è salito nel cuore dell’uomo » (1 Cor. II, 9).  Questo luogo è una collina, è una montagna, è una terra, è un prato; questo luogo ha ricevuto tutti questi nomi; ma ciò che esso sia in realtà e non per comparazione, chi ce lo spiegherà? « Perché noi vediamo ora attraverso uno specchio ed in enigma ciò che è questo luogo, ma allora lo vedremo faccia a faccia (Ibid. XIII, 12). Non cercate dunque quale sia il luogo designato con queste parole: « … verso il luogo che Egli ha preparato ». Questo luogo è conosciuto da Colui che ha preparato il posto ove vi condurrà, attraverso i gradini disposti nei vostri cuori. Temete dunque di salire per timore che Colui che vi conduce non si inganni?  – Ecco che Egli ha disposto dei gradini nella valle del pianto per salire « … verso il luogo che Egli ha preparato ». Noi oggi piangiamo. Di qual luogo? Del luogo ove sono posti i suoi gradini (S. Agost.). –  « Perché il legislatore darà la sua benedizione. » È ciò che dice l’Evangelista S. Giovanni: « Noi tutti abbiamo ricevuto della sua pienezza, e grazia su grazia, perché la legge è stata data da Mosè, la grazia e la verità sono venute da Gesù-Cristo. » (Giov. I, 17, 18). La legge non dava la grazia necessaria al compimento dei suoi precetti, perché la grazia e la giustizia non sono per la sua legge; ma « ciò che era impossibile alla legge, Dio, questo divino Legislatore, l’ha fatto Egli stesso, inviando suo Figlio che ha diffuso nelle nostre anime lo spirito di grazia, affinché la giustizia della legge si compisse in noi (Rom. VIII, 3, 4). – Non bisogna mai fermarsi sulla via del cielo: non avanzare significa retrocedere. – Facendo l’opera della verità nella carità, cresciamo in ogni modo in Gesù-Cristo nostro Capo (Ephes. IV, 15). Ahimè per la maggior parte dei Cristiani, la vita è una discesa perpetua: essi scendono, o piuttosto rotolano su questa pendenza maledetta nella quale li trascinano le loro inclinazioni viziose. – San Gregorio vede nelle montagne l’insieme delle divine contemplazioni, e spiega così le elevazioni che Dio dispone nel nostro cuore dopo averci posto nella valle di lacrime: « più in effetti il Signore ci tiene abbassati nella tristezza e nell’umiltà, più ci porta in seguito verso di Lui sulle altezze della contemplazione. » (Moral. XXX, 19). – Oh! Quanto è consolante questo pensiero e quanto dolce è il fermarvisi. Noi non possiamo, ahimè compararci a queste alte montagne che sono gli Angeli, i santi i Profeti, gli Apostoli. In noi tutto è vile e basso, ed il peccato ci ha fatto scendere fino alle profondità degli abissi. Ma nella miseria nera, siamo umili. Dio disporrà in noi ammirabili altezze, Egli eleverà le nostre anime, i nostri cuori, i nostri spiriti, e sulle cime ove ci porterà, noi benediremo il Signore, che a suo piacere ha fatto sorgere le montagne e fatto discendere le pianure nei luoghi che ha scelto. (Mgr. De La Bouillerie, Symbol., p. 208). – « Nella valle delle lacrime ». Dopo la caduta di Adamo, quanti torrenti di lacrime sono colati in questa valle! Quante sofferenze! Quanti dolori amari! Quante angosce lamentevoli! Ma ciò che deve fare scorrere soprattutto le nostre lacrime, sono le nostre colpe … La terra sia per noi una valle in cui colino le lacrime del nostro pentimento. Dio verrà a visitarci, e nel nostro cuore penitente disporrà Egli stesso i gradini che ci faranno salire verso di Lui (idem, p. 218). Quale immagine quella dei gradini formati nel cuore per risalire da questa valle di lacrime fino al soggiorno ove esse saranno asciugate! « Dio disseccherà tutte le lacrime » (Apoc. VII, 17). È così che il cuore parla, e se gli si domanda quali siano questi gradini, dirà che esse sono le prove della pazienza sostenuta dall’amore e dalla speranza (La Harpe). – I legislatori umani non danno la forza necessaria per compiere le prescrizioni che essi impongono. La legge data da Mosè stesso, era impotente sotto questo aspetto: « La legge è stata data da Mosè, la grazia e la verità da Gesù-Cristo » (Giov. I, 17). – Noi abbiamo in questi due versetti tutta la scienza della vita spirituale. Dio è la forza e l’appoggio di coloro che aspirano a possederLo nella eterna felicità; nel loro cuore, si formano delle strade che si elevano sempre di più verso la patria celeste. Essi camminano verso la verità, in questo mondo che è una valle di lacrime; ma essi hanno sempre di vista il termine dei loro desideri. Dio li consola in questa marcia, e Gesù-Cristo, il divino Legislatore, di cui seguono le lezioni e gli esempi, li colma di benedizioni. Essi avanzano così sempre nel cammino della virtù, e si preparano l’entrata della santa Sion (Berthier). – Obbligo cristiano è il non essere mai soddisfatto dello stato di santità in cui ci si trova, ma l’avanzare sempre di virtù in virtù. – Non proferite dunque mai questa parola indegna di una bocca cristiana: io lascio la perfezione ai religiosi ed ai solitari, troppo felici di evitare la dannazione eterna. No, non vi illudete: chi non tende alla perfezione, cade ben presto nel vizio; chi sale ad un’altezza, se cessa di elevarsi con uno sforzo continuo, è spinto dalla stessa pendenza, ed il suo stesso peso lo precipita. Ecco perché la Scrittura ci interdice di arrestarci un solo momento. Se, secondo l’Apostolo San Paolo, la vita tortuosa è una corsa, occorre, come questo Apostolo, avanzare sempre, dimenticare ciò che si è fatto, correre senza risparmio, ed immaginare un riposo solo alla fine della carriera, ove ci aspetta il premio della corsa (Bossuet, IV Serm. p. Pâques). – I giusti vanno di forza in forza, sempre più forte, secondo il senso del testo ebraico, o di virtù in virtù, secondo la nostra versione latina, passando da una virtù imperfetta ad una virtù perfetta, dalla virtù dell’azione, a quella della contemplazione, dalle virtù necessarie in questo mondo per salvarsi, a quelle che fanno la felicità del cielo, là dove non ci sarà più bisogno di prudenza, perché non ci saranno pericoli, né di giustizia umana –  non esistendo più l’ingiustizia – né di forza, perché non ci sarà  nulla da temere, né infine di temperanza, perché le passioni saranno tutte cessate (Bellarm.). – I gentili avevano degli dei visibili, ma essi non erano veri dei, gli ebrei adoravano il vero Dio, ma non era visibile. Il Dio dei Cristiani è il vero Dio, e si è reso visibile mediante l’Incarnazione. « Egli è stato visto sulla terra, ed ha conversato con gli uomini » (Baruch, III, 38). – Ma è soprattutto nel cielo che Lo vedremo faccia a faccia, così com’è. La visione di Dio è la ricompensa, il fine ed il frutto di tutti i nostri lavori, di tutte le nostre virtù, di tutte le nostre pene. Chi non preferirebbe un frutto assai prezioso, del tutto incomparabile, a tutte le cose visibili ed invisibili? Quale cuore tanto freddo non sarebbe infiammato da questa visione di Dio? (S. Bernard.). 

IV — 8-12

ff. 8, 9. – Se noi vogliamo essere esauditi quando ci avviciniamo a Dio con la preghiera, bisogna che Egli ci consideri Gesù-Cristo suo Figlio, mediatore tra Dio e gli uomini. Noi dobbiamo metterLo sempre tra Dio e noi, affinché Dio non ci veda se non attraverso i suoi meriti, e come coperti dal suo sangue. – Dio non ascolta se non le preghiere di Gesù-Cristo, non guarda se non Gesù-Cristo, e non getta gli occhi se non sul volto di Gesù-Cristo. Nessuna protezione c’è fuori da Gesù-Cristo; nessuna salvezza se non attraverso Gesù-Cristo; nessun bene se non per grazia sua, nessuna grazia che non venga dai suoi meriti. – Il Sacerdote ha un diritto tutto particolare per offrire a Dio questa preghiera; sì, o Dio, dato che non si tratta solo della Persona del Figlio vostro, ma di tutto ciò che rappresenta, di tutto ciò che continua e prolunga, nella razza umana, questo Figlio divenuto il “Figlio dell’uomo”; sì, c’è di che attirare il vostro sguardo, c’è un legittimo oggetto dei vostri pensieri e delle vostre attenzioni. Il più piccolo tra i battezzati vi ha un diritto rigoroso: quanto di stupefacente Voi fate alla maggior parte dei vostri preti, ai vostri pontefici, a coloro in cui rivive il reale Sacerdozio, il Sacrificio supremo del vostro Figlio incarnato? Dimenticate, o Dio, dimenticate tutto ciò che è proprio e personale alla vostra mirabile creatura, e guardate in essa solo la faccia del vostro Cristo (Mgr. Pie, Disc. Etc. VIII, p. 244).

ff. 10. – La bellezza della giustizia è sì grande, la luce è eterna, cioè la verità, la saggezza immutabile hanno tante attrattiveche non ci sarebbe dato di gioirne in un solo giorno, negli anni di questa vita, benché numerosi e pieni possano essere di gioie e delizie, non ci parrebbero degni che di disprezzo (S. Agost.;  De liber arbitr. cap. ult.). – Gli uomini desiderano migliaia di giorni, vogliono vivere per lungo tempo su questa terra; disprezzino i migliaia di giorni e desiderino un giorno solo, il giorno eterno al quale il giorno della veglia non ha fatto posto e che il domani non fa cessare. Non desideriamo che questo solo giorno! Che avremo da fare di migliaia di giorni? Da questi mille giorni noi avanziamo verso un giorno solo (S. Agost.). – « Meglio un giorno nel vostro Paradiso che migliaia di altri, ecco perché io ho amato di più essere l’ultimo nella casa del mio Dio, che abitare nelle tende dei peccatori ».  L’orgoglio sale sempre, secondo l’espressione del salmista (Ps. LXXIII, 23), fino a perdersi nelle nubi; gli uomini ambiziosi non danno alcun limite alla loro elevazione; coloro che abitano i palazzi dei re non cessano di affrettarsi fino a quando non occupano i più alti palazzi: voi che scegliete per dimora la casa del vostro Dio, seguite un’altra condotta e non imitate queste alacrità. Se i re, se i grandi del mondo disprezzano coloro che essi vedono negli ultimi ranghi e non disdegnano di arrestare su di essi i loro sguardi superbi, è scritto al contrario che Dio, il solo grande, guardi da lontano e con alterigia tutti coloro che fanno i grandi davanti alla sua forza, e volge gli occhi favorevolmente su coloro che sono abbassati. Ecco perché il Re-Profeta discende dal suo trono e sceglie di essere l’ultimo nella casa del suo Dio, essendo così più sicuro di essere protetto nella sua umiliazione che se levasse la testa e si mettesse al di sopra degli altri (Bossuet, I Serm. de profession, Exord.).

ff. 11. – Nel mondo non si incontra che durezza, insensibilità, menzogna, vanità. Dio è misericordioso, è per questo che dà la grazia; Dio è verace nelle sue parole, è per questo che conferisce la gloria. La grazia precede la gloria e la gloria presuppone il buon uso della grazia. Quando Dio ci dona la gloria, corona i nostri meriti, che sono il frutto della sua grazia. La misericordia e la verità di Dio sono il fondamento e l’appoggio della nostra fiducia (Berthier). –  « Il Signore darà la grazia e la gloria ». a Dio solo appartiene dare la grazia, senza la quale noi non possiamo nulla, e con la quale possiamo tutto. Gesù-Cristo non ha detto: … senza di me, voi farete il bene più difficilmente, bensì: « … senza di me non potete far nulla » (Giov. XV, 5). È la grazia di Dio che effonde nel nostro spirito la prima luce che ci illumina su che cosa si debba fare: « … lo spirito è nell’uomo, e l’ispirazione dell’Altissimo dona la saggezza; » (Giob. XXXII, 8); è la grazia di Dio che eccita i movimenti pii della volontà, « è Dio che con la sua volontà, opera in voi il volere ed il fare; » (Filip. II, 13); è la grazia di Dio che è il principio e la causa di tutte le buone opere: « … io non faccio il bene che voglio, » (Rom. VII, 15); « … non io, ma la grazia di Dio con me.» (I Cor. XV, 10). A Dio solo appartiene darci la gloria e dirci: « … venite benedetti del Padre mio, possedete il reame che vi è stato preparato dall’inizio del mondo. » (Luc. XI, 50). La grazia è il principio della gloria, e la gloria è la consumazione e la ricompensa della grazia.

ff. 12. – Per qual motivo, o uomini, acconsentite a perdere la vostra innocenza se non per procurarvi dei beni? Un uomo acconsente a sacrificare la propria innocenza per non restituire il deposito che gli è stato affidato; egli vuol possedere l’oro: perde l’innocenza! Cosa guadagna? Cosa perde? Per guadagno ha l’oro, come perdita la sua innocenza. Vi è qualcosa di più prezioso dell’innocenza? Ma – si dirà – se conservo la mia innocenza, io sarò povero. L’innocenza dunque è una mancata ricchezza? E voi, se avete un forziere d’oro, siete forse ricco? E se avete un cuore pieno di innocenza, siete povero? Se desiderate i veri beni, conservate ora l’innocenza, nell’indigenza, nella tribolazione, nella valle di lacrime, nell’oppressione, nelle tentazioni; perché così voi avrete in seguito i beni che desiderate: il riposo, l’eternità, l’immortalità, l’impassibilità; ecco i beni che Dio riserva ai suoi giusti. Quanto ai beni ai quali aspirate attualmente, attendendovi un grande premio, e per il possesso dei quali accettate di essere colpevole e di perdere la vostra innocenza, considerate coloro che li hanno, che li possiedono in abbondanza. Voi vedete le ricchezze nelle mani di ladri, di empi, di scellerati, di infami, di uomini perduti in vizi e mancanze; Dio li dà loro in ragione dell’unione comune del genere umano, e dell’ineffabile abbondanza della sua bontà; perché Egli « … fa sorgere il sole egualmente sui giusti e sugli ingiusti » (Matt. V, 45). – Se Egli dà sì grandi beni ai malvagi, voi non riceverete nulla? Vi ha dunque fatto delle promesse menzognere? Rassicuratevi, è un grande bene che vi riserva. Colui che ha avuto pietà di voi quando eravate empi, vi abbandona ora che siete giusto? Egli che ha concesso al peccatore la morte di suo Figlio, cosa riserverà all’uomo salvato dalla morte di suo Figlio? Rassicuratevi dunque. Credete che si è fatto vostro debitore, perché voi avete creduto alla sua promessa di donatore: « Il Signore non priverà di beni coloro che camminano nell’innocenza. » Cosa ci resta dunque nell’oppressione, nell’afflizione, nell’avversità, nei pericoli della vita presente? Cosa ci resta per arrivare al cielo? « Signore, Dio degli eserciti, felice l’uomo che mette la speranza in Voi!» (S. Agost.).

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (2)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO.

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (2)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

2. Il peccato

Facciamo la meditazione sul peccato. Del peccato bisogna che consideriamo un aspetto particolare. Nella nostra condizione, se pecchiamo, noi pecchiamo mentre camminiamo con Cristo. Ecco tutto. Pertanto io non mi fermerò a insistere sulla nozione ben nota del peccato, che è la rottura volontaria, consapevole della legge di Dio. Non credo che voi abbiate bisogno di queste nozioni e di sapere le condizioni per commettere un peccato, almeno il peccato grave: la gravità della materia, la cognizione, la volontà. Queste sono nozioni scontate. È necessario che l’anima nostra venga invece a riflettere su questa circostanza: il Cristiano, quando pecca, pecca mentre cammina con Gesù Cristo. Sì, la cosa può avere diversità notevole; il Cristiano che non entra mai in chiesa, se pecca, ben poche volte s’incontrerà con Gesù Cristo; ma se là dove colui che pecca c’è una chiesa, c’è il tabernacolo, c’è Gesù Cristo presente, il rapporto tra lui e Gesù Cristo è molto più vivo, anche se lui non lo riconosce, anche se lui non ci pensa, non ne fa oggetto di meditazione e di richiamo e di pungolo di coscienza. Non importa, c’è. Questo Cristiano, se pecca, pecca mentre cammina con Gesù Cristo. Perché l’aria è impregnata di Gesù Cristo, anche dove non lo si vuole, anche dove non lo si ama, dove lo si bestemmia, dove non lo si cerca o lo si rinnega. Il peccato degli uomini ha questa caratteristica, che il peccato essi lo fanno camminando con Gesù Cristo. – Guardate che qui si tratta di noi, perché noi lo incontriamo tutti i giorni, molte volte al giorno; noi lo abbracciamo ogni giorno, perché ogni giorno riceviamo il Corpo del Signore, noi parliamo ogni giorno con Lui. Pertanto il fatto dell’iter non è soltanto un fatto obiettivo legato a cose imprescindibili, al carattere battesimale, al carattere della S. Cresima, elementi che, volere o non volere, ci legheranno per sempre con Gesù Cristo, per cui la vita dovrà essere tutta con Gesù Cristo. E questo accadrebbe per noi che camminiamo con Lui, sicché Egli può rivolgere a noi il suo sguardo e dire: « Et tu, notus meus, qui simul mecum dulces capiebas cibos, notus meus et contubernalis meus », « tu, mio familiare, che dividi la tua vita con me, che prendi insieme a me il tuo dolce cibo », anche tu! Questa è la grave circostanza sulla quale io voglio attirare la vostra attenzione perché sia limpida. Noi dobbiamo arrivare ad avere una vita cristiana guidata da una coscienza che sia netta, e lo scopo degli Esercizi è di fare chiaro negli angoli, quegli angoli che la consuetudine tende a rendere sempre più ampi, sempre più comodi e sempre più scuri, dove si nasconde tutto quello che si vuole, dove si può lasciare tutto in disordine, e che talvolta diventano così grandi che quasi non c’è più posto nella casa. Gli angoli. Gli Esercizi Spirituali sono fatti per folgorare questi angoli, angoli di dimenticanza, angoli di abitudine, angoli di incoscienza, dove noi lasciamo avvenire cose che possono anche avvicinarsi alla terribilità o dove confiniamo a marcire cose che possono rappresentare la salvezza. Cominciamo a riflettere dal punto di vista obiettivo: noi il peccato lo commettiamo mentre camminiamo con Gesù. Non so se voi per caso vi siate mai trovati da qualche antiquario dove talvolta è dato vedere lampade d’argento che hanno bruciato l’olio davanti al SS. Sacramento. Fan pena. Sono finite qui. Ma chi è stato quell’incosciente che ha permesso, o per essersi dimenticato o per aver venduto o per aver lasciato a parenti incoscienti, che sian finite qui? Talvolta si vedono pezzi di sacri parati, pianete che hanno servito per celebrare la S. Messa, piviali ricamati o di broccato che poi vanno a finire come dei postergali in qualche salotto; peggio, perfino dei calici, che furono e permangono consacrati, perché non è accaduto ancora qualcuno di quei fatti che tolgono ai calici la consacrazione. Che pena fanno! Ma dappertutto c’è la traccia di Gesù Cristo. Si fanno le processioni del Corpus Domini e Gesù Cristo passa per queste strade, passa accanto a quelle siepi, la processione costeggia case, boschi, giardini. C’è passato lui. Dove passa Dio, passa l’eternità, passano le cose infinite. Non è come il profumo di un fiore arrivato per un colpo di vento da un giardino, che passa per un momento e presto svanisce nell’aria. No. È Dio, e dovunque passa, passano cose eterne, passano cose infinite. In quasi tutte le case, credo, almeno nei paesi cristiani, è entrato Gesù Cristo, perché è andato a trovare qualche ammalato, è diventato il Viatico ultimo, il supremo sostegno al passo estremo. E qualche cosa di grande e di divino è passato ed è rimasto. Guardate se non è vero che la nostra vita, vogliamo o non vogliamo, cammina con Gesù Cristo. Lo trova dappertutto. Un sacerdote porta con sé Gesù Cristo, perché ogni mattina ha detto la S. Messa, lo ha toccato, lo ha dato. Esiste ancora nei fedeli, anche in quelli più slavati, a un certo momento il senso di rispetto per il sacerdote perché tocca le cose sacre. È inutile, dappertutto c’è la traccia del passaggio di Gesù Cristo. Ricordo un racconto inteso dai vecchi del paese di mio padre sulle montagne di Liguria. E ricordo ancora la piccola croce che ho ritrovato da bambino là dove si raccontava il fatto. Un secolo prima un sacerdote che d’inverno andava attraverso la neve per dire la Messa a quella povera gente, fu assalito dai lupi che lo hanno divorato, ma hanno lasciato intatte le quattro dita, quelle non le hanno toccate, le quattro dita che vengono consacrate dal Vescovo. È un fatto che ho sentito raccontare quando avevo tre anni e da allora mi ha accompagnato. Le quattro dita. E mi dicevano i vecchi: « Sai, non le hanno potute mangiare, quelle, perché sono le dita con le quali celebrava la Messa ». – C’è questa obiettiva presenza, dappertutto. Il peccato degli uomini ha per scenario ciò che, tutto, è stato dipinto per Gesù Cristo. Nella nostra vita noi parliamo talvolta male, potremmo averlo fatto se anche ora non lo facciamo più, ma la nostra lingua ha toccato Gesù Cristo. Questa nostra carne ha toccato Gesù Cristo. Sarebbe così logico che, avendo toccato Gesù Cristo, fosse trasumanata e che noi la considerassimo come trasumanata. Forse non l’abbiamo mai considerata così; ma ha toccato Gesù Cristo! E le mani sacerdotali toccano Gesù Cristo. Egli è dappertutto. E la vita, si voglia o non si voglia, cammina con Lui. Notate bene, con Lui non solo perché c’è la presenza di un pensiero cristiano, di un richiamo morale cristiano, di un pungolo di coscienza cristiana, non solo perché dovunque c’è la presenza dovuta alla divina ubiquità, ma perché positivamente, qualitativamente, in modo caratterizzato c’è dovunque la presenza della Eucaristia, ossia di Gesù Cristo. È questo il punto. Logicamente parlando — si dovrebbe dire così ma la logica non è il forte della morale degli uomini —, è possibile che il peccato possa entrare dove è entrato Gesù Cristo, dove questa divina presenza è scesa, dove questa divina munificenza si è attuata, dove c’è stato il tocco di questa divina carezza? Però il fatto è che quando si pecca, si pecca in questa situazione, ed è un fatto dal quale noi non possiamo assolutamente prescindere. Certamente occorre la conoscenza, perché ci sia il peccato mortale, e la pienezza del consenso; ma una conoscenza riesce a essere perfettamente sufficiente alla colpa anche dimenticando tutte queste cose, dimenticando l’elemento circostanziale che aggrava il giudizio del peccato nel mondo. Ah, se la conoscenza necessaria alla colpa, grave almeno, avesse bisogno di arrivare fino a questo punto! Ma allora forse non ce ne sarebbero più di peccati nel mondo. Eppure la stortura c’è: l’apprendimento che si viola la legge di Dio è sufficiente. Noi dobbiamo gettare la luce in quest’angolo affinché questo aspetto circostanziale del peccato, per noi che abbiamo scelto di vivere più vicini a Gesù Cristo, illumini e mostri che cosa in esso abbiamo confinato o che cosa contro di noi, in esso, sta in agguato. – Passiamo ora al secondo punto della meditazione. Il secondo punto vuole specificare questo: appunto perché quando abbiamo dei difetti, se non proprio dei peccati gravi, li abbiamo camminando con Gesù Cristo, allora non si tratta soltanto di considerare i peccati isolati, qualificati, caratterizzati, ma si tratta di qualificare degli stati d’animo che sono dovuti a una carenza, a un difetto. – Il discorso del peccato mortale a molte anime, forse a tutte le anime che mi stanno ad ascoltare, può sembrare un discorso lontano, distante, che può riguardare tutti gli altri che sono fuori di qui, ma che qui se ne parla per quella correttezza burocratica per cui negli Esercizi Spirituali si parla anche del peccato. Accostiamoci allora a quello che può essere invece di più il pane nostro quotidiano, ai nostri peccati più tipici; così almeno veniamo via dall’astratto e vediamo quello a cui noi dobbiamo applicare la presente meditazione, e cioè che il peccato nostro è fatto mentre camminiamo con Gesù Cristo. Per esempio il peccato dell’immobilismo. È un peccato che non si trova elencato nei libri di morale; sì e no lo si trova elencato nei libri di ascetica. Che cos’è il peccato dell’immobilismo? È questo: noi facciamo il cammino con Gesù Cristo; Lui va avanti e noi rimaniamo perennemente indietro. Cammina, si volge a guardarci quasi a dire « Vieni », e noi ci si siede, ci si addormenta, si dorme per dieci anni, vent’anni, trent’anni. Bel modo di camminare con Gesù Cristo! Ecco l’aspetto del peccato che diventa reale per noi. Quell’altro potrebbe anche essere meno reale per noi, per grazia di Dio, anzi io desidero e credo che sia affatto irreale. Questo no, questo potrebbe essere perfettamente reale. L’iter con Gesù Cristo a questo modo. Immaginatevelo: la fantasia qui ci aiuta stupendamente. Sedersi e dormire per vent’anni, trent’anni, e Lui che va e si gira continuamente indietro. « Ma vieni, ti muovi? ». Il peccato dell’immobilismo, che consiste nel fatto — scendiamo dalla metafora alla realtà — di non portare innanzi l’opera della purificazione propria e di non portare innanzi l’opera della propria perfezione. Ah, se voi mi dite: quanto all’altro peccato, non abbiamo niente da dire, potrebbe essere che su questo abbiate qualche cosa da segnare sul libro della vostra coscienza. Può essere che tutti noi, tutti, nessuno escluso, abbia qualche cosa da segnare e ne debba piangere. Se noi oggi ci troviamo ad avere lo stesso grado di orazione che avevamo l’anno scorso quando facevamo gli altri Esercizi… a questo proposito, che cosa abbiamo fatto in questo anno, per che cosa sono passati 365 giorni? Fanno tanto presto a passare, uno dopo l’altro, i giorni, e bisogna far presto, bisogna arrivare, non abbiamo tempo da perdere! Gli anni volano. Se noi abbiamo oggi delle reazioni di orgoglio, le stesse reazioni che potevamo avere l’anno scorso, miei cari amici, voi capite che è il caso che noi abbiamo a domandarci : « Ma allora quest’anno che cosa siamo stati a fare? ». Allora vuol dire che si è vegetato, non vissuto. Questi sono i peccati reali, che talvolta scandiscono in periodi lunghissimi e gravi e grevi la vita delle anime che pure fanno professione di religione e professione di apostolato. Il peccato dell’immobilismo. Notate bene che se noi quest’anno constatiamo di avere nei nostri rapporti con gli altri — i rapporti sono i giudizi che diamo, i giudizi che, se non diamo, sentiamo in fondo all’anima, gli atteggiamenti che emergono da questi giudizi, atteggiamenti che possono essere fatti in parte di simpatia e in parte di antipatia —; se noi in questi rapporti fatti di miserie come di piccole reazioni, del modo particolare di giudicare le azioni di questa determinata persona, di quell’altra, a seconda che è vibrata la corda della simpatia o la corda dell’antipatia, e gli atteggiamenti nostri che sono stati colorati da determinati punti del nostro temperamento, da nostri stati d’animo; se in questi rapporti siamo oggi allo stesso punto in cui eravamo l’anno scorso, allora è il caso di domandarci: Ma noi, che cosa abbiamo fatto? Per che cosa abbiamo vissuto un anno? La via della purificazione deve andare innanzi, portar via le scorie, le macchie, le deformità, le carenze, le anemie. So bene che la via della santità è una via lunga e non è una via facile, ma quello che importa è che non si rimanga fermi. Accompagnarsi con Gesù tutto il giorno, tutti i giorni, e lasciarlo camminare idealmente sotto il peso della croce che porta, che ha portato, atto divino ed eterno, per cui « sempiternum habet sacerdotium », e noi seduti lì, ai margini della strada a contemplare uno spettacolo o un panorama che soltanto la nostra fantasia compone e che il nostro sentimento aduggia! Ecco il peccato dell’immobilismo. – Faccio la conclusione. Voi vedete come, in tema di peccato, noi che facciamo una vita spirituale, che veniamo tutti i giorni in chiesa, che pretendiamo di parlare col Signore tutti i giorni, dobbiamo trasportare la nostra considerazione dagli atti alle abitudini, dagli atti positivi agli atti negativi che sono le carenze, dalla sostanza alle sfumature. E la conclusione è che gli esami di coscienza delle anime che vogliono veramente camminare con Gesù Cristo, perché sono sulla strada con Lui, non possono starsene soltanto su uno schema d’esame di coscienza degli atti qualificati. Ho ammazzato? No. Ho bestemmiato? No. Ho fornicato? No. Ho lasciato la Messa? No. Ho detto delle gravi bugie? No. Ho desiderato la roba, la donna d’altri? No. L’esame di coscienza deve portarsi alle sfumature, agli stati d’animo, alle abitudini contratte e perché contratte diventate incoscienti. È tutta una trasposizione che bisogna fare. Naturalmente non si debbono perdere di vista i peccati come atto, anche perché i peccati come atto sono oggetto del Sacramento della penitenza. Non sarebbe una confessione abbastanza specificata, e pertanto utile, se vado a confessarmi e dico: Sono stato un immobile. Voi mi avete inteso, vero? L’aver considerato che il peccato, qualunque peccato, noi lo facciamo mentre camminiamo con Gesù Cristo ha illuminato lati profondi, circostanziati del peccato e ha fatto capire che gli esami di coscienza nostri si debbono distaccare dagli atti; debbono contenerli, mantenerli gli schemi degli atti; ma se li vogliamo veramente proficui al profitto spirituale e alla maggiore dignità di questo nostro cammino con Gesù Cristo, debbono arrivare a quello che non è atto ma è abitudine comunque considerata: carenza, stato d’animo, stato negativo, tiepidezza.

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (1)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (1)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

1. La SS. Eucaristia

Qual è il tema sul quale io condurrò, attraverso questi SS. Esercizi, le vostre considerazioni? Il tema è la SS. Eucaristia, Gesù presente tra noi. Permettete che brevemente vi dia le ragioni della scelta di questo tema. Una ragione è esterna, l’altra è di carattere più intimo alla dottrina cristiana. La ragione esterna è questa: nei momenti difficili della vita della Chiesa, le cose si aggiustano sempre col ritorno a una intensificazione della vita eucaristica. La Santa Messa è sempre stata il centro di tutto, la sorgente di tutto, la vivificazione di tutto, e il « sacramentum permanens » che da essa scaturisce allo stesso modo. Nell’ultima grande universale burrasca conosciuta dalla storia della Chiesa, al tempo di quella rivolta che fu chiamata protestante, ma che in realtà era ben altro e ben più complessa, la grande medicina fu — sotto l’impulso del Concilio di Trento e di un certo numero di Santi che agirono in quell’orbita e realizzarono quell’impulso — il ritorno a una vita eucaristica più intensa. La Chiesa sta oggi combattendo una grande battaglia, una battaglia cruciale e dirimente per la storia del mondo, e deve far presto, non ha tempo da perdere, perché i popoli si sono svegliati, sono saltati tutti e violentemente nella storia, nella grande strada della storia: o saranno messi nella luce di Gesù Cristo o non faranno altro che baruffare con sé stessi, tra di loro e con tutti gli elementi che sono nel mondo, con le conseguenze che tutti possono facilmente intuire. Allora noi dobbiamo riprendere la stessa strada. E siccome è opportuno che voi impariate a vivere più la vita della Chiesa che la stessa vostra vita, mi pare che sia giustificato sufficientemente il motivo per cui gli Esercizi attuali io li condurrò su questo filo. Ho espresso la ragione esterna. Ora vengo alla ragione più interiore alla dottrina cristiana. C’è una cosa che noi dobbiamo capire, ed è che dobbiamo avanzare attraverso la vita presente camminando con Gesù Cristo. Come ci accompagniamo con Gesù Cristo? Cercando di forgiare noi il modo col quale dobbiamo accompagnarci con Lui? Se andargli a destra, a sinistra, davanti, dietro? No, cari. Dobbiamo andare con Lui nel modo in cui Egli vuole che andiamo con Lui. Perché noi non abbiamo da inventare proprio niente, non abbiamo da creare nulla: abbiamo da seguire. In questo seguire ci sarà una fecondità inaudita nella vita di ciascheduno secondo le sue capacità e secondo le sue doti, secondo le sue inclinazioni e le sue intenzioni; ma quanto al modo col quale noi ci dobbiamo accompagnare con Gesù Cristo, non c’è dubbio, la indicazione la dobbiamo lasciare a Lui. E come ci ha indicato che nella vita presente dobbiamo camminare con Lui? Ha lasciato sé stesso, perennemente. Ci sono dei veli che non permettono ai nostri sensi di avere la visione immediata della sua presenza reale, sacramentale, concreta, non simbolica, non meramente spirituale: concreta. È rimasto Lui. La diversità tra quello che accadde per i dodici, per i discepoli e per le folle allorché fu visibilmente in questo mondo e oggi, qual è? È questa: che allora gli occhi vedevano, le orecchie sentivano, le mani palpavano. Oggi noi non vediamo con gli occhi, non ascoltiamo con le orecchie la sua voce, la voce che ebbe l’umanità sua santissima; non possiamo fare come S. Tommaso: palparlo con queste mani. Quanto al rimanente, c’è Lui, esattamente Lui, Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Se è rimasto qui Lui, operando questo cambiamento che ha una ragione storica e che ha una ragione di Provvidenza universale dell’ essere e della vita, vuol dire che l’iter della nostra vita lo dobbiamo fare con Lui in questo modo. Noi non dobbiamo camminare accanto a un Gesù Cristo scritto nei libri, un Gesù Cristo che sia oggetto di rappresentazione cerebrale, no. Sbaglieremmo. Noi dobbiamo camminare con lui, che è qui. L’iter con Lui. Ma l’iter con Lui vuol dire l’iter con la SS. Eucaristia. – Osservate ora le caratteristiche fondamentali di questo cammino con Gesù Cristo. Le caratteristiche di questo iter con Gesù Cristo sono le seguenti e sono l’oggetto della presente meditazione. Anzitutto noi dobbiamo camminare accanto a Lui senza vederlo con gli occhi della carne, ossia dobbiamo camminare accanto a Lui con un continuo atto di fede. Perché con gli occhi della carne non lo vediamo, le nostre orecchie non possono ascoltare la voce che ebbe l’umanità sua santissima; le nostre mani non lo possono direttamente toccare. Noi tocchiamo Lui ma attraverso la dimensione quantitativa del pane che non c’è più, del vino che non c’è più: dovremo riparlare di questo quando il discorso su questa fede diventerà oggetto più immediato, più grave e più cogente dei nostri pensieri. Ma ora dobbiamo ricordare che la prima caratteristica dell’iter con Gesù Cristo, che è lì, è sempre lo stato di fede, perché accanto gli siamo, notate bene, anche fisicamente, perché tra noi e Lui c’è la indistanza, la non distanza fisica: in quel tabernacolo c’è il suo vero Corpo. È certo che noi gli siamo vicini, gli diamo la mano, ci appendiamo al suo braccio — lasciate che usi queste forme che non vorrebbero essere irriverenti, ma solo servirsi di un dato di fantasia per esprimere una verità che solo l’anima può intendere —, noi ci appendiamo al suo braccio. È un costante esercizio di fede. I Cristiani che non si ricordano di Gesù Cristo presente, quelli poi che lo fanno soltanto quando vanno a ricevere la benedizione col SS. Sacramento, dato che molti non si accorgono neppure (e qui siamo colpevoli anche noi) che Lui è presente quando si celebra la S. Messa, e che in tutto il rimanente della loro giornata e della loro vita non sanno di questa divina presenza, costoro, voi lo comprendete, avranno bisogno di una grande misericordia perché la dimenticanza e tale ingeneroso oblio possano essere loro abbonati invocando l’ignoranza invincibile o addirittura la buona fede! Questi uomini, che se arriva in una città un divo o una diva dello schermo, parlano per qualche tempo solo di quello, ombre effimere, assolutamente effimere e inconsistenti come tutte le ombre! Costoro, che non si ricordano che il loro Signore e Salvatore, quello che è andato in croce per loro, rimane lì, Lui, Dio e Uomo, non con la presenza spirituale ma con la presenza reale, sia pure sacramentalmente ottenuta, ma reale. Rimane lì ad aspettarli, giorno e notte. E gli uomini delegano tutto quello che dovrebbero fare a una piccola lampada che brilla. Povera, piccola lampada, che è tanto bella, che allunga certe ombre nella parte più sacra del tempio e che fa, tanto piccola, la parte del numero grande degli uomini dimentichi, insipienti e ingrati! Ecco il primo punto della meditazione. L’iter con Gesù Cristo lo si realizza con quell’elemento che permette di porre la nostra vita presente nel tempo, tra le vicissitudini umane, accanto continuamente a Lui, ma dove e come si è messo Lui, lì. E questo elemento è la fede. – La seconda grande caratteristica di questo iter con Nostro Signore Gesù Cristo è la grazia tipica dell’Eucaristia. Voi sapete che cos’è la grazia santificante abituale e che cos’è la grazia attuale. La grazia attuale data a noi attraverso l’Eucaristia è tipica, e nel suo essere tipica rivela la continuità con la quale la nostra vita deve essere nell’Eucaristia. Perché è tipica? È tipica perché assume il carattere del nutrimento, ossia perché è data onde sovvenire a quelle deficienze, stanchezze, esaurimenti, vuoti, carenze che nell’anima sono generate dalla fatica stessa della vita e sonogenerate necessariamente per il fatto che l’atto della vita non si può sospendere, altrimenti si muore. Ecco il carattere tipico della grazia attuale dell’Eucaristia. Vi ho detto che questo carattere tipico richiama la sua necessità. Sì, perché se non c’è un atto vitale, si muore. E allora il mantenimento della vita, l’infondere l’olio in questa lampada è cosa di sempre, di sempre. Il fedele lo deve fare. Lo farà prò modulo suo, a seconda dell’istruzione che ha, a seconda delle possibilità che gli sono offerte, a seconda della levatura, della maturazione, del merito, ma lo deve fare. – E’ forse necessario che in questo momento io stia a discorrere della stanchezza della vita umana? Non c’è nessuna cosa che abbia capacità di sorreggere, di sorridere sempre, di mantenere la freschezza primaverile e soprattutto di restar ferma; non c’è nessuna cosa. Perché anche se certe cose sembrano immobili come le montagne, cambiamo noi; quando quelle rimangono ferme, cambiamo noi. Io posso per tutta la vita stare a contemplare lo stesso sasso, ma dopo un anno la contemplazione mi darà un risultato diverso perché il sasso rimarrà lo stesso, dato che è un sasso abbastanza stabile e non una foglia al vento, ma avrò cambiato io qualche cosa. E ogni atto col quale si pensa, si vuole e si cammina fa perdere delle energie all’anima. Questo accade nell’ordine materiale ed è per questo che noi dobbiamo tutti i giorni prendere cibo. Lo stesso fatto, in un ordine ben diverso e in dimensioni che non sono affatto ragguagliabili a quella dalla quale sono partito, accade per l’anima. Ed ecco il secondo elemento dell’iter con Gesù Cristo. Noi non stiamo da noi sulle nostre gambe, noi non abbiamo col nostro solo braccio la forza di appenderci al suo braccio divino, noi non abbiamo la capacità, con quello che madre natura ci dà, di poter parlare a Lui che pure è tanto vicino a noi: abbiamo bisogno di questa grazia tipica. – E finalmente l’iter con Gesù Cristo. Questo iter non mette la figura nostra, attenti bene, accanto a quella di Gesù Cristo, mette Gesù Cristo dentro di noi, e non per una contiguità, la contiguità che può avere il gheriglio della noce rispetto alla scorza che gli sta intorno. No. È un’altra vicinanza, perché è una vicinanza che è data da un elemento trascendente, la cui natura ultima ci sfugge in modo assoluto perché appartiene all’ordine divino, ed è la grazia santificante. E della natura di quella riceve qualche cosa di particolare quell’altra grazia, che è diversa, che però ad essa consegue, e si chiama grazia attuale. – Sicché io ho parlato di iter con Gesù Cristo e tanto per introdurmi ho cominciato a parlare come se si trattasse del cammino fatto dai due discepoli di Emmaus, che se ne andavano per la strada accanto a Lui. Vi avverto che non è così. E’ accanto a Lui, sì, perché c’è una distanza tra noi e il tabernacolo. Ma ci sono dei momenti per cui quella distanza scompare ed Egli è in noi, sacramentalmente quando lo riceviamo, spiritualmente attraverso l’unione di grazia anche dopo che è cessata in noi la presenza sacramentale, ma che è tale ed è aumentata in funzione di quella e per causa di quella. Allora il carattere di questo iter con Gesù Cristo si chiama intimità con Lui. – Quando parliamo di intimità, pensiamo agli affetti, pensiamo alla vicinanza, alla consuetudine, alla conversazione, al passaggio delle nozioni: quello che sa uno sa l’altro, quello che è nell’anima dell’uno è nell’anima dell’altro. Noi pensiamo a tutte queste cose e potremmo continuare l’elenco. Tutte queste cose non danno assolutamente l’idea perfetta — la danno soltanto inesatta e come simbolo, rafforzato nella realtà che sta oltre — della intimità con la quale noi dobbiamo camminare con Gesù Cristo. Dovremo arrivare lassù, a Dio piacendo arriveremo lassù, lo speriamo, ma in questo mondo noi dobbiamo intendere di dovere coscientemente entrare in una divina compagnia. Chi ci ha detto questo? Lui. Come ce l’ha detto? Lasciandoci l’Eucaristia. Le nozioni che io vi ho detto non sono altro che conseguenze immediate e imprescindibili del fatto della istituzione, della realtà della divina presenza. La nostra vita deve camminare con Lui, e può camminare con Lui. La difficoltà maggiore sui tre punti: la fede, la grazia tipica, la intimità, dove sta? Vi rispondo subito che sta nel primo punto. È là dove si deve ricostruire, è là dove si deve fare, è là dove occorre la forza della volontà. Perché la grazia tipica, per coloro che hanno l’abitudine della Comunione come l’avete voi, non è difficile a trovarsi; perché la intimità, quando è realizzato il primo punto, viene di per sé stessa, è come un grave che cade e non si ferma più. Io vi avverto, la difficoltà sta nel primo punto: arrivare a creare una consuetudine volitiva, psicologica, per cui l’esercizio di fede nella reale presenza e l’impiego di tutti i sussidi e di tutti i mezzi anche esterni per poterla dall’esterno quasi dolcemente violentare; un attuale senso della divina presenza verrà effettuato soltanto se noi arriveremo a realizzare veramente questa fede. – La fede è una sola, una fides, d’accordo, e la definizione della fede è una sola e il motivo della fede è uno solo; ma guardate che la fede con la quale la divina presenza è attuale rispetto alla nostra vita interna, al nostro pensare e agire di ogni momento, anche in mezzo alle cose più comuni, questa fede è quella stessa per la quale Gesù Cristo ha fatto un discorso apposta. È noto a tutti voi che il discorso eucaristico Gesù l’ha fatto, ed è riportato al cap. VI di S. Giovanni, il grande discorso eucaristico. Ma vi è altrettanto noto — e bisogna cominciare allora dal capitolo V — che Gesù Cristo, prima di fare il discorso sull’Eucaristia, ne ha fatto uno a proposito della fede. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che ci vuole una fede granitica qui, che ci vuole una fede — lasciatemi dire una parola che forse non va, ma esprime — erculea, che ci vuole una fede che ha bisogno di raggiungere i toni della violenza. Voi capite che una fede di questo genere, alla quale Gesù Cristo ha dedicato un discorso apposito, non è una fede che si rimedia con qualche zuccherino. Eppure bisogna averla. – Sentite. Siete in gran parte giovani. Diventerete vecchi, se camperete. Volete che il cammino della vostra vita, dico una cosa molto grave, volete che il cammino della vostra vita non abbia a subire le vicissitudini dell’età — anche i metalli seguono le vicissitudini della temperatura nelle stagioni e si dilatano e si restringono, persino quelli! — volete voi sottrarre la vostra vita, m’intendete? alle vicissitudini dell’età? Quelli che sono giovani non sanno ancora che cosa sono le vicissitudini dell’età! Una strada c’è: camminate con Gesù Cristo e solo con Lui. State tranquilli: avrete non abolite ma superate a un piano più alto tutte le vicissitudini dell’età. Volete voi sottrarre la vostra vita agli impulsi, alle suggestioni e alle inclemenze opposte delle diverse stagioni? D’inverno si battono i denti per il freddo, d’estate si suda. Volete sottrarre la vostra vita — e intendete che parlo in modo figurato — alle caratteristiche suggestive e deprimenti delle diverse stagioni? Camminate con Gesù Cristo. Volete voi sufficientemente sottrarvi non al movimento oscillante che dà una sistole e una diastole ma all’effetto di questo movimento oscillante connaturato alla stessa nostra vita? Parlo di quella oscillazione di sistole e di diastole che vi può afferrare tutte le mattine quando vi alzate dal letto, in qualunque momento della giornata, dopo qualsiasi esperienza un poo’ raggelante o raffreddante della vita sociale, del contatto con gli altri, nella non rispondenza, nella non perfetta intonazione dei ritmi degli altri coi nostri ritmi. Sapete quanto è singolare e talvolta misera la nostra vita interiore, come siamo foglie secche. Volete non sottrarvi a questa oscillazione, a questo movimento ma all’effetto di questo movimento? Non c’è che una cosa: camminare con Gesù Cristo. La questione del fine. Quando si cammina con Gesù Cristo, il fine potenzialmente è già in mano. Non che lo si abbia con certezza, per carità — non vorrei che io e voi avessimo a cadere sotto l’anatema del canone XVII della VI sessione del Sacro Concilio Tridentino — ma, potenzialmente, il fine è già ottenuto. [Sess. VI, can.17: Se qualcuno afferma che la grazia della giustificazione viene concessa solo ai predestinati alla vita, e che tutti gli altri sono bensì chiamati, ma non ricevono la Grazia, in quanto predestinati al male per divino volere: sia anatema. – Ndr.-] La sicurezza si ha soltanto dopo l’ultimo momento, non prima, la sicurezza infallibile, ma quella fiducia tranquilla e serena si può avere subito quando si cammina con Gesù Cristo. Avete capito, vero? Eucaristia, cioè iter con Gesù Cristo.

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