CORPUS DOMINI : Messa – LAUDA SION, Letture ed Omelia di S. S. GREGORIO XVII

Messa

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios 1 Cor XI:23-29

Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo e dat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, judícium sibi mánducat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini.”

[Fratelli: Io stesso ho appreso dal Signore quello che ho insegnato a voi: il Signore Gesú, nella stessa notte nella quale veniva tradito: prese il pane, e rendendo grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà immolato per voi: fate questo in memoria di me. Similmente, dopo cena, prese il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me. Infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà. Chiunque perciò avrà mangiato questo pane e bevuto questo calice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Dunque, l’uomo esamini sé stesso e poi mangi di quel pane e beva di quel calice: chi infatti mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non riconoscendo il corpo del Signore.]

Sequentia [Thomæ de Aquino]

Lauda, Sion, Salvatórem,

lauda ducem et pastórem

in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:

quia major omni laude,

nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,

panis vivus et vitális

hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ

turbæ fratrum duodénæ

datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,

sit jucúnda, sit decóra

mentis jubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,

in qua mensæ prima recólitur

hujus institútio.

In hac mensa novi Regis,

novum Pascha novæ legis

Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,

umbram fugat véritas,

noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,

faciéndum hoc expréssit

in sui memóriam.

Docti sacris institútis,

panem, vinum in salútis

consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,

quod in carnem transit panis

et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,

animosa fírmat fides,

præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,

signis tantum, et non rebus,

latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:

manet tamen Christus totus

sub utráque spécie.

A suménte non concísus,

non confráctus, non divísus:

ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:

quantum isti, tantum ille:

nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali

sorte tamen inæquáli,

vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:

vide, paris sumptiónis

quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,

ne vacílles, sed meménto,

tantum esse sub fragménto,

quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:

signi tantum fit fractúra:

qua nec status nec statúra

signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,

factus cibus viatórum:

vere panis filiórum,

non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,

cum Isaac immolátur:

agnus paschæ deputátur:

datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,

Jesu, nostri miserére:

tu nos pasce, nos tuére:

tu nos bona fac vidére

in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:

qui nos pascis hic mortáles:

tuos ibi commensáles,

coherédes et sodáles

fac sanctórum cívium. Amen. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine! – Joann VI:51-59

“In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cælo descendi. Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum : et panis quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigabant ergo Judaei ad invicem, dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen dico vobis : nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis ejus sanguinem, non habebitis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, habet vitam aeternam : et ego resuscitabo eum in novissimo die. Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem e bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicu misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qu mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qu de coelo descéndit. Non sicu manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.[ Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.]

Omelia di

S. S. GREGORIO XVII (1975)

Avete sentito leggere un tratto (Gv VI, 51-58) di quello che è accaduto a Cafarnao un anno prima dell’istituzione dell’Eucaristia, quando Gesù cioè tenne il celebre e lungo discorso sull’Eucaristia. Il tratto che avete sentito leggere vi ha presentato la difficoltà degli uditori ad accettare una simile verità. Gli uditori avevano questo torto: non si ricordavano che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, dimostrando con questo di essere padrone tanto della sostanza che della quantità e di poterne disporre da Creatore a Suo piacimento. Questo era il loro torto. In questo torto non sarebbe caduto Pietro, – questo non l’abbiamo lettolo -, che terminò l’incidente, non comprendendo nulla anche lui, ma dicendo a Gesù: “Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv VI, 68). – Pur avendo torto, c’era un motivo d’interrogazione, non di contestazione, e il motivo d’interrogazione era questo: “Ma, Signore, come mai ti metti sotto apparenze così semplici come quelle di un pane, di una ostia, niente di più umile, di più comune, Signore?”. La domanda, non la contestazione, la domanda poteva essere ragionevole. In noi la stessa domanda, che potrebbe essere ragionevole, fa questo effetto purtroppo, e io sono qui a protestare fortemente contro questo effetto: che, non interpretando l’umiltà con la quale Dio si manifesta a noi e la delicatezza suprema, noi usiamo il massimo di irriverenza verso la Santissima Eucaristia, il massimo. E io sono qui a protestare con tutta l’anima contro questo. Non con voi che siete qui, cari, ma potrebbe essere che anche voi abbiate bisogno di sentire questa protesta. In altri termini, l’umiltà e la delicatezza divina nel trattare con noi uomini ci fa da dimenticare la maestà di Dio, perché nell’Eucaristia è presente Gesù Cristo Dio. E pertanto accanto all’umiltà e alla delicatezza della manifestazione e del sacro segno va ricordata la Maestà divina per trarre tutte le conseguenze. – Perché questa umiltà divina? E tutto uno stile di Dio che meriterebbe un lungo e interessantissimo discorso, perché è una delle linee principali della Provvidenza Divina nel trattare con gli uomini. Dio ci parla continuamente attraverso la creazione: il sole che sorge, l’alba rosata, la primavera che esplode, l’estate che matura, l’autunno che dà i suoi frutti, l’inverno che dà il suo raccoglimento e, per via dei contrasti, fa amare quello che è caldo, tutto, ma dolcemente, parla del Creatore. Non si arriva di conseguenza del Creatore se non si mette un’attenzione volontaria, libera, e Dio è delicato proprio per lasciare a noi il merito di questa iniziativa, di questo non primo, ma secondo passo (il primo lo fa sempre la Grazia Sua all’interno di noi), il merito di questo secondo passo. Dio non vuole con impressioni cogenti, violente, diminuire il valore del nostro atto libero e del nostro merito: questa è la ragione. Ho detto che meriterebbe un ben lungo discorso, e forse in altre occasioni lo faremo. Ma mi importa proseguire nel tema che propongo a voi questa mattina. – Sì, l’Eucaristia si presenta dolcissimamente umile, cosa comune all’esterno, segno che non viola nessuno dei limiti della nostra debolezza, ma c’è la maestà di Dio lì e dobbiamo rispettarla! La maestà: che cos’è? E una parola che è nella testa degli uomini generalmente confusa da un’idea di grandezza, di impotenza da parte nostra, di superiorità e basta, un’idea che sconvolge, che noi ricordiamo unicamente per darla alle cose che riteniamo massime in questo mondo, ma è difficile che se ne abbia una idea precisa. Ora, la maestà è quella qualità per cui Dio si alza all’infinito sopra delle Sue creature; questa è la maestà. Noi abbiamo degli elementi per parlarne, certamente, ma sempre come quando si parte da una riva e si cerca di solcare un mare che va all’infinito. Noi vediamo il sole, le altre stelle, le vediamo – in genere non le guardiamo, almeno per quanto mi consta -, però, se si osservano, si sente una grandezza tale, la grandezza dataci dall’idea di spazio, e l’idea di spazio lancia verso l’immenso. Noi siamo oppressi dal rotare degli anni, dei giorni, dei mesi, delle ore, del tempo; la storia in fondo dà questa impressione, è la prima che essa dà: che tutto quanto passa, che tutto quanto incalza, che tutto quanto ha fretta e tutto quanto lascia nella polvere, nel silenzio e, quaggiù, nella morte; ma il tempo è la sponda dalla quale si parte per avere l’idea dell’eternità. Le cose a noi sembrano mirabili, grandi; i colori si prestano, le forme, tutte le forme si prestano a questo, congegnando così l’impressione esterna della bellezza della quale è ripieno il mondo: e tutto questo costituisce una sponda che ci spinge un’altra volta sul mare infinito, quello dell’eterna bellezza. – Quando tuona il fulmine, quando il terremoto scuote, quando l’alluvione irrompe, noi abbiamo impressioni orribili e orrende, ma sentiamo la grandezza: sono le piccole rivelazioni della presenza di Dio; qualche volta sono anche un castigo, ma sono delle rivelazioni con le quali Dio, non presentando un elemento cogente all’intelligenza, perché deve rimanere libera, ma al sentimento esterno, a quel sentimento fisico che hanno anche gli animali, comune con noi, che è di fuga – e noi lo chiamiamo anche spavento -: ed è una sponda anche questa dalla quale si può partire come per un mare immenso per vedere di quanto Iddio stia al di sopra di noi. Fratelli miei, potrei continuare, ma il tempo limimitato. Dio ci dà gli elementi per la maestà, ce la richiama. – Parliamo di noi che la dimentichiamo. Quando io vedo gente che contesta d’inchinarsi davanti al Santissimo Sacramento, mi chiedo fino a che punto sia decaduta la potenza intellettuale e logica degli uomini, fino a che punto! Quando io devo constatare che bisogna proteggere il culto alla Santissima Eucaristia anche contro coloro che lo dovrebbero promuovere, piangerei. Ma siamo diventati così ciechi, siamo diventati così poveri di spirito nel senso deteriore, da non ricordarci di intendere almeno qualche volta in vita questo supremo richiamo che ci viene da tutto il creato? Se questa cattedrale crollasse e desse a noi, schiacciandoci, un segno della potenza che ha la forza di gravità o dell’attrazione della terra, sarebbe piccola e futile cosa davanti all’onnipotenza di Dio: ma abbiamo bisogno che ci cadano le cattedrali sulla testa per capire che dobbiamo adorare Colui che si degna di stare nei piccoli, umili tabernacoli – che spesso cerchiamo di rendere più spogli e miserabili -, che si degna di restare per amore nostro? A questo punto mi par di sentire una voce che dice: “Ma il senso della maestà ci opprime”. E credete che sia un male? Non è affatto un male! Se dobbiamo essere anche e fortemente richiamati al più elementare senso di giustizia verso Chi ci ha creato e redento, ben venga. Però non è questa la risposta. – Ho detto che Dio si manifesta a noi in modo umile e dolce per amore. L’Eucaristia è un atto d’amore di Dio, che ha voluto scegliere il pane e il segno della manducazione, dell’assimilazione, che è la forma più grande con la quale una creatura si può inverare nell’altra, per indicare fino a che punto Dio vuole essere unito a noi e noi uniti a Lui. E per amore! – E concludo col dire che l’amore, quando è tale, è un amore adorazione alla maestà di Dio. E non c’è da scomporsi; la logica va perfettamente a posto: in Dio, perfezione eterna ed assoluta, amore e maestà si identificano. Se s’identificano in Lui, non c’è affatto difficoltà che l’atto di adorazione in noi sia amore e l’atto di amore sia adorazione.

 

 

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.