Omelia della Domenica XVII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XVII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 34-46)

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Amore di Dio.

“Maestro, quale di tutti i comandamenti della legge è il più grande?!” Fu questa la maliziosa interrogazione che fece a Gesù Cristo un dottor della legge, come ci narra S. Matteo nel sacrosanto Evangelo della corrente Domenica. – La mira di quel dottor Fariseo, al dir di un interprete, era di costringere Gesù ad una dichiarazione della maggioranza di alcun dei precetti riguardanti l’esercizio del divin culto o di altro spettante alle leggi scritte da Mose, per aprirsi strada a questioni. Troncò il maligno suo disegno il Redentore col rispondere: “Ecco il massimo di tutti quanti i precetti: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuor tuo, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua: “Diliges Dominum Deum tuum ex loto corde tuo, et in tota anima tua, et in tota mente tua”. È questo il primo e massimo comandamento. Egli è il massimo per la sovrana autorità di un Dio che l’ha imposto, è il massimo per quel commercio che passa tra i più nobili movimenti del nostro cuore e il suo principio che è Dio, e il massimo pel suo fine; è ricompensa d’eterna vita per quei che l’osservano. Se desiderate conoscere i modi coi quali deve da noi osservarsi questo grande e massimo comandamento, due sono necessariamente richiesti. Fissateli bene, cristiani amatissimi. Siamo obbligati ad amare Dio con amore di “preferenza”, lo vedremo da prima: siamo obbligali ad amare Dio con amor di “operazione”, lo vedremo dappoi, se mi favorite di benigna attenzione.

I. – La prima indispensabile qualità del nostro amore verso Dio è la “preferenza”. Non siamo già tenuti ad amare Dio con un amor tenero e sensibile. La tenerezza e la sensibilità, onde talvolta cert’anime si sentono dilatare il cuore, e spargono dolci lacrime, non é da Dio comandata. Possono essere naturali effetti di un temperamento sensibile e facile al pianto. – Né pur ci vien imposto di amare Dio con un amore sforzato; ma con amor libero e volontario; onde riflette l’angelico dottor S. Tommaso che Iddio nell’intimarci questo suo precetto non si servì del verbo “Amabis”, ma del verbo “Diliges” per significarci che vuol essere amato con un amore, che seco porta una scelta ultronea, una spontanea elezione. – Non ci vien finalmente comandato con rigor di precetto un amore intenso, fervido e di sfera sublime. Il Signore ebbe riguardo alla nostra fiacchezza e non ci prescrisse il grado di questo amore, ma la sostanza soltanto. E qual è di quest’amor la sostanza? Ecco, la “preferenza”: vale a dire un amore di stima, di prelazione, di apprezzamento. Questi termini che hanno una sola significazione vogliono essere spiegati a favor de’ men colti. Iddio comanda d’esser amato da noi. Ora, siccome Dio è superiore a tutte le creature presenti e possibili, così dev’essere amato da noi sopra le creature tutte, presenti e possibili. E siccome da Dio portano e a Dio sono inferite tutte le cose create, così il nostro amore per le cose create deve da Dio discendere e riferirsi allo stesso Dio. Un cuore, un’anima che abbia questo amore, preferisce Iddio a sé stessa e ad ogni altra creatura: prepondera nel suo affetto più Dio, che qualunque altro bene creato: stima più Dio, che il mondo tutto: apprezza tanto Dio che non soffre che altr’oggetto venga con esso a paragone e competenza; e se l’umana, o diabolica tentazione forma un tal paragone e competenza, il cuore l’abbomina, l’odia, la distrugge e fa che in sé trionfi la stima e l’adesione, al suo Dio. – Dall’esempio e dalle parole dell’Apostolo Paolo meglio comprenderemo la qualità dell’amor di Dio a noi prescritto. Sfidava egli le creature tutte a separarlo, se era ad esse possibile, dalla carità dell’Uomo-Dio, dall’amor di Gesù Cristo. “Quis me separabit a charitate Christi(Ad Rom. VIII, 35)? “Forse la tribolazione, l’angustia, la fame, la nudità, la persecuzione, la spada? Eh no, che né la morte, né la vita, né l’altezza degli onori, né il profondo dell’avvilimento, né creatura alcuna potrà separarmi dalla carità di Dio, dall’amore di Gesù Cristo.” – Non crediate già, uditori, che qui S. Paolo abbia parlato con enfasi di fervore, come Apostolo disceso dal terzo cielo. No, egli qui parla da semplice cristiano, e dice il puro, il preciso a cui è obbligato qualunque privato fedele. Da ciò ne viene che ciascuno di noi è strettamente tenuto ad essere nelle medesime disposizioni di animo e di volontà, nelle quali protestava di essere il gran Dottor delle genti, onde ognun di noi è obbligato a dire in tutta osservanza e realtà: mediante l’aiuto di Dio, che mai non manca, non vi sarà creatura alcuna, che mi entri nel cuore fino ad escluderne Iddio. “Non altitudo”, non le cariche onorevoli e lucrose, se a quelle debbo ascendere per una via d’ingiustizia, o di simonia, o per altra strada obliqua. “Necque profundum”, non l’abbassamento e la depressione; e se da questa potesse togliermi la calunnia, o l’impostura, o la vendetta, io tutto sacrificherò all’Altissimo, e morrò nel profondo dell’abiezione piuttosto che trarmene con mezzi illeciti: non la fame coi suoi malvagi consigli, non la tribolazione coi suoi tentativi, non la persecuzione coi suoi pericoli, non finalmente la spada del tiranno, né qualunque altra creatura avrà forza in me di staccarmi da Dio, di farmi oltrepassare i suoi ordini e trasgredire i suoi comandi. Ecco l’amore solo, fermo, sostanziale di “preferenza”, di stima, che Dio rigorosamente c’impone nel primo precetto; perciocché Dio non sarebbe più Dio, se più di esso Lui, o al par di Lui, si potesse da noi amare lecitamente qualche altra cosa. Ma quest’amore di preferenza sarebbe un amor di semplice disposizione, se fosse disgiunto dall’opere: vi dissi perciò in secondo luogo, che deve essere amor di “operazione”.

II. – Dio, che si appella dall’Evangelista S. Giovanni, carità per essenza, “Deus charitas est” (Joan. IV, 16), si chiama altresì dall’Apostolo, fuoco consumatore, “Deus noster ignis consumens est” (Hebr. XII, 21). – Questo mistico fuoco, di cui Dio arde per noi, soggiunge il nostro divin Salvatore, “son venuto dal cielo a portarlo su questa terra; e qual altro è il mio desiderio, se non che si accenda in tutti i cuori?” “Ignem veni mittere in terram, et quid volo, nisi ut accendatur” (Luc. XII, 49)? – Osservate ora il fuoco, egli è il più attivo di tutti gli elementi. La terra quando produce e quando riposa: l’aria talora è agitata e talora tranquilla: l’acqua ora scorre, ora è stagnante. Solo il fuoco è sempre in moto, sempre agisce; e se cessa di agire, di accendere, di consumare, cessa altresì dall’esistere. Tal è appunto l’amore verso Dio, dice il Magno Gregorio, “operatur magna, si est, si autem renuit operari, amor non est” (Hom. 30 in Evan.). Vi son opere per Dio, per la sua gloria, pel suo servizio? Dunque vi è amore; non vi son opere? … non vi è amore. L’opera, prosegue lo stesso S. Pontefice, è la prova più autentica dell’amore. “Probatio dilectionis exhibitio est operis” (Ibid.). Infatti perché l’Eterno Padre amò il mondo ci diede il Figlio suo Unigenito per Salvatore. “Sic Deus dilexit mundum, ut filium suum Unigenitum daret” (Joan. III, 16). E suo Figlio stesso per dare la maggior prova al mondo di quanto amava il celeste suo Genitore, andiamo, disse ai suoi discepoli, a compiere quel sacrificio, che placherà la sua giustizia, che comproverà la sua gloria, “ut cognoscat mundus quia diligo Patrem … surgite, eamus” (Joan. XIV, 31). Persuasi ora che le opere sono i veridici contrassegni dell’amore, se mi chiedete quali debbano da noi praticarsi, vi risponderà Gesù Cristo nel Vangelo di S. Giovanni: “Se voi amate, dice Egli, fatemelo conoscere coll’osservanza dei miei comandamenti, “si diligitis me, mandata mea servate” (Joan, XIV, 15). Invano vi lusingate di amarmi, se non mi ubbidite. Così è: i comandamenti della natura, del Decalogo, del Vangelo, della Chiesa, de’ legittimi superiori, son tutti comandamenti di Dio. Se da noi sono osservati, possiamo avere una morale certezza, che regna in noi l’amor di Dio, un solo però che venga trasgredito basta ad estinguere questo amore e dar morte all’anima nostra. “Qui non diligit, manet in morte” (Jo. III, 14). – Ad agevolare poi l’osservanza de’ divini precetti è espediente mettere in pratica i mezzi opportuni all’intento. Scelgo fra tanti, quei che ci suggerisce S. Lorenzo Giustiniani, e sono “Libenter de Deo cogitare, libenter Deo dare, libenter pro Deo pati” (Lib. De L. vitae c. 11). Riandiamo i sensi di questo gran Santo, che forse avremo da confonderci. “Libenter de Deo cogitare”. Un cuore che ama ha sempre presente al pensiero l’oggetto amato. Corre questo costume riguardo agli oggetti terreni, non corre per nostra sventura rapporto a Dio. Ditemi in grazia, fedeli amatissimi: il vostro primo pensiero nello svegliarvi lo date a Dio? Fra giorno vi occupate mai della memoria di Dio? Pensate mai che Iddio vi è presente, che è testimonio di ogni vostra azione? Vi tornano a mente i benefizi da Lui ricevuti, le grazie, che ogni dì vi comparte? Oh Dio! Si pensa al negozio, al lucro, alla lite, al divertimento, alla campagna, al lavoro, alla famiglia, insomma a tutto, ma non a Dio. Io già non vi condanno se pensate alla casa, ai figli, ai campi, alle officine, agli affari, e a tanti altri vostri giusti interessi. Possono essere questi pensieri una parte delle obbligazioni del vostro stato. Ma di grazia fra tanti e tanti pensieri non vi potrebbe aver luogo un pensiero per Dio? Possibile che Egli debba essere escluso dalla vostra mente per modo, che in tutto il dì non si trovino in essa neppur alcune reliquie di pensieri per Dio, “reliquiae cogitationum”, giusta la frase del re Profeta! O sconoscenza della creatura dimenticata di quel Dio, in cui vive, in cui si muove, per cui esiste! – In secondo luogo , “libenter Deo dare”. L’amore è liberale. Chi ama Dio dà a Lui volentieri il suo tempo per onorarLo, per supplicarLo. Gli fa di buon grado parte di sue sostanze nella persona dei poveri. Dava più volte al giorno il suo tempo a Dio il Profeta Daniele; dava di sue sostanze ai bisognosi il buon Tobia. I cristiani moderni san fare miglior uso del tempo e delle sostanze? Le ore della notte alla veglia e al riposo: le ore del giorno se le dividono il pranzo, la cena, la conversazione, le visite, il giuoco, il passeggio; e a Dio che resta? … e a Dio che si dà? Una Messa alle Domeniche, chissà come sentita, qualche volta un rosario detto tra il sonno e l’accidia, una predica per curiosità, una confessione all’anno, una comunione alla Pasqua. Caino non è più solo, che a Dio offriva le spighe più smunte del proprio campo. – Ora chi nega a Dio il tempo al suo culto, come gli sarà liberale in sovvenire i suoi poverelli? Il ricco Epulone neghittoso verso Dio, crudele verso Lazzaro ha i suoi successori. Altro che amor di Dio! Finalmente, “libenter pro Deo pati”. Ella è questa una gran prova di amore, patir volentieri per l’oggetto amato. Voi avete in casa quella suocera incontentabile, quella nuora arrogante, quel marito collerico, quella moglie fastidiosa, quel figliuolo che v’inquieta il giorno, che vi disturba la notte, quell’infermo che vi cruccia, quel vicino che vi molesta, e per che non farvi merito colla pazienza, perché non dare a Dio un segno del vostro amore col patir qualche poco per Chi ha tanto patito per voi? – Tanto si soffre per le creature, tanto si stenta pel mondo, e nulla si vuol soffrire per Dio! Deh! non sia più così. Il nostro amore verso Dio sia da qui innanzi amor di “preferenza”, di prelazione, di stima; ed acciò non resti sterile nella pura immaginativa si porti alla pratica, si dimostri colle opere, “non diligamus verbo, neque lingua, sed in opere et veritate” (I Jo. IV). Allora sì che il nostro amore sarà come l’oro fra i metalli, come il sole tra i pianeti, come il fuoco fra gli elementi. Questo mistico fuoco non si estinguerà per morte, passerà anzi ad accrescere la sua fiamma nella celeste sfera, ove si vive di puro amore, e ove Iddio ci conduca.