LO SCUDO DELLA FEDE (234)

LO SCUDO DELLA FEDE (234)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

Art. IV.

L’Istruzione e la Fede.

La Fede è la radice della giustificazione, perché senza la fede non si e piacere a Dio (Hebr. X, Conc. Trid. Sess. 6, c. 8). Ma per avere la fede è necessaria l’istruzione, cioè la lettura dei libri santi e la predicazione del santo Vangelo, coi lumi della grazia del Signore. Ora essendo l’altare, come la mensa sopra la quale il Signore dispensa con abbondanza il pane della vita a’ suoi figliuoli nella santa Messa, prima di ammetterli alla sacra mensa, loro parlando come in famigliare confidenza, li mette a parte dei suoi secreti, loro rivela i suoi giudizi e coll’istruirli li dispone a ricevere e gustare il dono, che prepara a vita eterna. Ond’è che prima di incominciare l’oblazione, la Chiesa alle preghiere fa seguire la lettura dell’Epistola e poi dell’Evangelo, affinché ammaestrati e confermati nella fede, i Cristiani siano resi degni di presentare le loro offerte all’Altissimo, e dall’Altissimo ricevere la più grande misericordia. Eccoci adunque alla lettura dell’Epistola.

Epistola.

S. Giovanni Grisostomo (Hom. 2 in Gen.) e dopo lui san Gregorio Magno (2) con tutti i Padri, guardavano le sacre Scritture, come lettere mandateci da Dio. Dalle sacre Scritture sono appunto tratte le Epistole, che si leggono nella Messa, e sono capitoli dell’antico e nuovo Testamento. E perché per lo più sono tratte dall’Epistole di s. Paolo, credono alcuni, che per questo siano chiamate generalmente Epistole. – Antichissimo è l’uso di leggere nelle sante adunanze le sacre Scritture. Anche gli Ebrei le leggevano nelle loro sinagoghe; e Gesù Cristo prese occasione (Luc, IV) di farsi conoscere pel Redentore mandato a salvare gli uomini, nel fare la lettura di esso. Entrata nella sinagoga di Nazaret un sabato, si alzò per dar principio alla lezione, ed essendoli porto il libro, dispose in provvidenza che il Profeta, di cui occorreva in quel giorno la lettura, fosse Isaia, Evangelista, più che Profeta, di Gesù Cristo, come lo chiamò Gerolamo; perché ciò che predice di Gesù, è così chiaro e preciso, che par ne scriva la storia tanti secoli prima. Appunto il passo, di cui si doveva fare lettura, era una magnifica profezia risguardante il Salvatore stesso, che si aspettava. Lesse e chiuse il libro, e cominciò a dire loro: « Oggi colle vostre orecchie di questa scrittura avete udito l’adempimento. » Spiegò la profezia, e l’applicò a se stesso in modo, che non sapendosi che rispondere sì dovette ammirarlo. ll santo Martire Giustino prendendo a difendere i Cristiani accusati di commettere orribili delitti nelle loro adunanze, (in cui si diceva che mangiassero le carni dei bambini involti nella farina e nelle paste, così travisando indegnamente la consacrazione e comunione del SS. Corpo di Gesù Cristo, per ragion di difesa, come abbiam già detto, esponendo i riti della santa Messa, fa cenno della lettura, che vi si faceva delle sante Scritture, per preparare i fedeli al Sacrificio. Nella Chiesa Greca ai tempi di s. Giovanni Grisostomo (Hom. 36 in 1 Cor.), il diacono imponeva silenzio, e leggevasi prima un capitolo dell’antico e poi del nuovo Testamento: costume ritenuto nella Chiesa Ambrosiana della diocesi di Milano, e di cui nella Chiesa Romana si conserva una reliquia ancora nelle quattro Tempora, nelle Ferie, nella quarta domenica di Quaresima e nella Settimana Santa. Per confortare nella fede i Cristiani si vanno così esponendo le figure e le profezie del vecchio Testamento; e, riscontrandole coi fatti e misteri del Testamento nuovo, si vedono avverate nella vita di Gesù, e si mostrano sì esattamente in Lui stesso adempiute e nella Chiesa da Lui istituita. – Nel sabato delle Ordinazioni ancora se ne leggono cinque del vecchio Testamento, una poi in fine del nuovo, per significare (Gav. in Rub. Missal. p. 4, lib. 2, n.2.), che nelle cinque età del mondo in varie occasioni e in vari modi avendo Iddio parlato per bocca dei profeti, finalmente nella sesta parlò per mezzo del suo Figliuolo, che apparve fatto uomo (Hebr. I, I.). – Il lettore, che leggeva anticamente, e poi il suddiacono, che ora la legge innanzi al Vangelo, figurano s. Giovanni Battista Precursore, e i discepoli, che andavano innanzi a preparare la via nelle terre, per cui passava in seguito Gesù, ad istruire il popolo di propria bocca (Onor. Aug. Gem. Anim. et Innocent. IIL Mist. NT. lib. 2, cap. 3 et 29 De ep.).. – Vogliamo ancora notare, che, quando celebra il sommo Pontefice, si legge un’Epistola in greco e l’altra in latino dai rispettivi suddiaconi dell’uno e dell’altro rito. Perché Principe degli Apostoli, sommo Vicario di Cristo in terra, Capo universale e Padre comune, il sommo Pontefice, quando celebra, istruisce l’una e l’altra porzione di una sola Chiesa, la latina e la greca. Talvolta si leggeva pure ai fedeli nelle Chiese le lettere del sommo Pontefice, e pareva loro di ascoltare lo stesso beato Apostolo Pietro (Baronius Annal. Chr. 173, n. II.), e di sentirsi abbracciare dalla carità del Padre comune, conoscendo nelle lettere a loro lette la cura amorosa, che egli in tutti i tempi è solito prendersi di tutta la Chiesa sparsa in ogni parte della terra. – Si leggevano talvolta gli atti dei santi Martiri; e, mentre gli esempi di quegli eroi facevano intendere quali si potessero anche da femmine imbelli e fino dai fanciullini operare prodigi di valore colla grazia di Gesù Cristo, quei buoni fedeli nell’ascoltarli si stringevano la mano a vicenda, s’incoraggiavano alle battaglie imminenti; e rendendo grazie a Dio per la vittoria concessa ai fratelli, che li precedettero nell’arena, speravano, e pregavano l’assistenza ed il trionfo per sé medesimi. Talvolta poi erano lettere, che i martiri spedivan loro dalle carceri e dai patiboli, come pietosi ricordi, e come l’addio, che mandavano quei santi in procinto di essere gettati in mezzo alle fiamme o sotto la mannaia; che già pendeva sul capo, e alle fiere frementi per brama di divorarli, come avvenne ai due Vescovi e padri s. Policarpo e s. Ignazio. S. Policarpo scriveva ai Romani: « Io sono in guardia a tali soldati, che dire li posso tigri e leopardi; » e veniva poi subito abbruciato. Già l’aere risuonava del ruggito delle feroci belve frementi nelle gabbie di ferro, e s. Ignazio scriveva ancora una lettera alla Chiesa di Roma, in cui diceva: « Sono frumento di Cristo, cari fratelli; a momenti sarò macinato dai denti di queste fiere per divenire pane mondo. » Nel leggere queste lettere calde del sangue di que’ santi, non è a dire come s’infervoravano al martirio i fedeli. – Questa lettura si faceva in un luogo eminente detto tribunale; nella Chiesa di S. Clemente in Roma (una delle più conservate in tutte le sue parti tutt’ora intatte, come servivano all’antica liturgia) ancor si vede questo tribunale, da cui uscivano gli oracoli celesti. Il lettore leggeva forte, il popolo ascoltava: si domandavano schiarimenti sopra certi punti di cristiana dottrina; il lettore rispondeva, ed i fedeli così venivano soddisfatti ed illuminati. Queste letture erano come il latte, che in tutte le Messe, comunicato con amore, e succhiato con avidità, faceva nel popolo buon sangue cristiano, restandone assai bene istruito. Allora uomini ripieni dello Spirito del Signore, dottissimi in religione e scienze umane, stavano taciti ad ascoltare con umiltà; e s. Ambrogio sotto la clamide di governatore civile, s. Alessandro sotto le vesti d’un povero carbonaio, e s. Martino sotto l’usbergo del guerriero, tenevano celati i tesori d’una sapienza più che umana. Quando poi il buon senno dei fedeli li veniva a scoprire, e li proponeva per sacerdoti, e colla missione, che loro dava nell’ordinazione la Chiesa, li costituiva maestri; allora si facevano innanzi, e consolavano il popolo con meravigliosa dottrina; infondendo nel cuore degli uditori con carità ciò, che prima avevano nel proprio assorbito con umiltà. Ora eccoti invece missionari di nuovo conio, dal proprio capriccio costituiti: uomini vergini della scienza dei Santi e della religione, trattano e bistrattano le cose più sacrosante, più profonde; con troppo grande orgoglio e non minor tristizia, si vendono maestri in tutto, fino in divinità, alla goffa ignoranza d’un popoletto, che si dà l’aria di spregiudicato, col vanto di comperar scienza a buon mercato nei fogliuzzi da trivio, beve le. loro ribalderie invereconde. Beatitudine di tempi! Il popolo nostro non avrà più bisogno né di lettere sante, né di catechismi in Chiesa; valgono per tutto i giornaletti, che dicono di tutto il peggior male. Così, quando avrà il popolo imparato a maledir a tutto e conculcare ogni più santa autorità, allora sarà redento! – Ma la Chiesa, per redimere l’universo, pratica il contrario. Insegna ella a pregare per tutti, amare tutti ed obbedire a chi ci sta sopra, per obbedire al volere di Dio, e redime il mondo davvero. Si fa dunque nell’Epistola lettura della parola di Dio. Il sacerdote, a nome del popolo e col popolo, ha parlato a Dio nell’orazione; ora Dio si abbassa qual padre a dare avvisi, a seconda dei bisogni, a’ suoi figliuoli col far leggere la scrittura da Lui dettata. Egli coglie l’occasione dalla solennità del mistero, che si va celebrando per ispirarci sentimenti di confidente umiltà, e di salutare terrore. Ci spaventa; ma poi ci consola, ci minaccia l’inferno; ma è per darci il Paradiso. Così l’Epistola vuol dire che la parola di Dio è come una lettera, che il Signore ci scrive dal Cielo, per mostrarci la strada del paradiso…Oh! ascoltiamo questa amabile parola, quando ce la fa leggere e predicare; è parola di un Padre: lo comprendiamo nei detti! Egli ci parla del suo amore, ci fa la storia della sua bontà; ci tratta coi maggiori riguardi, e piuttosto che rimproverarci le infedeltà presenti, senza toccare direttamente un argomento per Lui di troppa amarezza e di troppa confusione per noi, espone coi più vivi tratti le infedeltà dell’antico suo popolo incirconciso di cuore; e nel ricordare le misericordie usate ai passati, cerca d’intenerire noi presenti col sentimento delle nostre miserie e della sua bontà. In tante finezze d’amore, Dio sì ci pare proprio un padre, che ha bisogno che siano salvi i suoi figliuoli! – Ben viene all’uopo qui raccontare un bel fatto, che contiene una grande lezione. Un dì san Francesco da Paola riceveva dal re di Francia, Luigi XIII, una lettera scritta di sua mano. I suoi discepoli, meravigliando l’alto onore, che ne veniva al loro buon Padre, facendogli festa intorno, gli ripetevano ammirati: » Deh! che gran degnazione? Un gran re scrivere a Voi, o Padre! ve? la lettera è scritta proprio di suo pugno! che gloria pel Padre nostro! » Ma egli « O uomini di poca fede, disse loro, voi fate le meraviglie, che un re uomo abbia scritto ad un altro uomo suo fratello; e che mai sono i re più grandi innanzi a Dio? Sono coronata polvere! e poi voi non vi meravigliate, piangendo per consolazione della bontà del Signore del Cielo, che ha scritto le sue lettere a noi, poverine sue creature? » – Ecco il rito della lettura nella Messa solenne. Il suddiacono colle mani giunte, preceduto dall’accolito, si avvia a prendere dalla credenza al fianco dell’altare, con tutto rispetto, il santo libro dell’Epistola; torna mostrandolo, sollevato fra le mani, quale oggetto della più grande venerazione; s’inginocchia dinanzi alla Croce, come per chiedere la benedizione, e in mezzo al silenzio e all’attenzione di tutti legge questa lettera di Dio. Il popolo siede; e questa comoda posizione esprime l’intenzione della Chiesa, la quale voleva che i fedeli, per ascoltare la parola di Dio, cessassero da qualunque altra occupazione, avendo in altri tempi pure i Concili generali espressamente proibito di far altra orazione, e di altrimenti distrarsi mentre si leggeva l’Epistola. Noi dobbiamo eseguire qui quanto ci suggerisce lo Spirito Santo: cioè sederci solitari, e nel silenzio del tempio meditare le verità, che Dio ci ha fatto conoscere. – Compiuta la lettura, il suddiacono porta con ugual rispetto a consegnare il santo libro al Sacerdote, il quale è il vero depositario della parola di Dio. Gli s’inginocchia dinanzi, e gli bacia la mano per esprimere, con quell’atto di riverenza e di tenerezza, la gratitudine di tutti i fedeli, e per la grazia ricevuta d’aver avuto fra le mani, da poter leggere ed ascoltare, la lettera loro spedita dal Cielo. – Ora almeno il buon Cristiano ascolti questa lettura, perché talvolta un’espressione, un accento di quella parola divina, accompagnata dalla grazia, tocca vivissimo, qual dardo d’amore, il cuor del fedele in un istante di misericordia: talvolta è come un lampo che scopre nell’anima l’orizzonte dell’eternità, e manda in dileguo gl’inganni del tempo. Potrà pure accompagnare la lettura dell’Epistola con leggere la lezione stessa nelle traduzioni in lingua volgare, approvate dalla Chiesa e commentate dai Santi; od almeno in santo raccoglimento gemere col cuore con Dio così: « Ecco, l’anima mia è come una povera terra senz’acqua, che sì consuma nella sua aridità! Deh! dalla lettura della vostra parola ci cada solo una stilla di celeste consolazione a conforto di vita spirituale. » Non accontentiamoci d’assistere in Chiesa alla lettura dell’Epistola, ma nelle nostre case prendiamo la benedetta usanza di leggere in famiglia qualche buon libro spirituale. Così noi potremo ascoltare sovente il gran Padre nostro celeste, che nel parlarci pel suo Verbo, ci comunica le sue grazie. – Nei secoli di fervore, quando non sì conosceva questo meraviglioso trovato della stampa, si credeva di non potersi altrimenti spendere meglio il tempo di una vita devota a Dio negli eremi e nei monasteri, che nel fare copia di questa grande, preziosissima lettera di Dio, agli uomini, che è la santa Scrittura. La bellezza dei manoscritti sulle pergamene, abbellite dalle miniature più preziose e del più finito lavoro, è il monumento della pietà di quegli uomini, che, vivendo una vita da angeli, e, tenendosi stranieri al mondo, pure s’interessavano tanto del bene delle anime di tutti i loro fratelli. Anzi non si deve il mondo scordare, che noi andiamo debitori della conservazione di quasi tutti gli antichi libri, massime dei classici più pregiati, alla pietà di quei buoni, che passavano la vita nel copiar manoscritti per esercizio di divozione. Veramente intenerisce il leggere come nel monastero fondato da s. Cesario ad Arles, duecento Verginelle (Cantù, Storia Univer., vol 7, an. 526) sposate a Dio, mentre si pascolavano delle celesti delizie col cuor in paradiso, si occupavano a trascrivere libri per istruzione dell’umanità. Ora le nazioni moderne incivilite sì sentono in seno una meravigliosa potenza, che si va propagando, e prende possesso delle intelligenze: compenetra le masse dei popoli, crea in essi le opinioni e li spinge a tradurle in atto, e così la si vede a pigliare sinora nel mondo, perché il mondo è sempre di chi se lo Piglia. Qual è questa potenza? È la stampa, con che si fanno proseliti; e si esercita un apostolato, che a differenza dell’Apostolato della viva parola, non esige grandi sacrifizi, né grandi virtù; eppure vorrebbe farsi più potente di quello. A dir vero, ella spaventa pel modo, che corre a disfreno, mena fragore, e crolla gl’imperi, e minaccia tutto sommergere. La navicella di Pietro non fu mai sbattuta da più terribil bufera. E noi? Saremmo noi gli uomini di poca fede da temere, come i discepoli sul burchiello di Genezaret, d’una soffiata di vento?… Noi no! Perché noi crediamo alla Provvidenza di Dio; sappiamo, che quando ella lascia, che si sviluppi una potenza e comparisca nel mondo, questa arriva sempre per una grande ragione, certamente per soddisfare un bisogno della verità e prestare servigi al suo Verbo. Coraggio; il Verbo di Dio è con noi, la tempesta che freme, è sotto il suo piede, e sol che parli, è ai cenni obbediente. Egli procede, e il turbine che sconvolge la società, è polvere che gli fugge innanzi. Non venga meno l’opera nostra; ché il concorso del nostro lavoro è un elemento voluto nell’ordine della Provvidenza, e deve entrare nell’eseguire il suo disegno. Mano all’opera: siamo tanti milioni! I più studiosi sono ancora gli uomini dell’apostolato divino. I seminari e gli Ordini religiosi, centri della pietà e della dottrina, sono ancora come cenacoli, da cui usciranno uomini, che si faranno udire nelle forme di tutti i linguaggi; mentre della parola di Dio possiamo far echeggiare tante voci, quanti sono molteplici i cenci, che si trasformano in fogli propagatori del pensiero colla stampa. Perciò si spiri la grande parola di essi; e questa, forte della potenza di Dio, rinnoverà la faccia della terra. Diffusa in quei modi, che disponeva Iddio in altri tempi, essa penetrò nella scuola dei dotti, e, mentre s°aggiravano confusamente nell’oscuro cerchio del tempo, li sublimò a contemplare, l’Eterno: animò l’eloquenza, e divenne nei Padri fiamma di carità ispiratrice d’eroismo: illuminò le lettere, e creò le meraviglie dal gran poema cristiano: s’infuse nella legislazione, e nella legge di ferro dell’ingiusta umana giustizia spirò il senso dell’umanità, che ne fece la legge dei popoli inciviliti, che pur con tutti i loro vizi ora si vergognano della poligamia e della schiavitù: insegnò alla storia, e l’ha fatta interprete della Provvidenza di Dio: fece riflettere un suo raggio dentro le arti del bello, e donò alle figure quello sguardo celestiale, e compartì tali grazie, che le sguaiate del paganesimo dovettero appiattarsi in vergogna. Diffondiamo ancora per questo mezzo, che la Provvidenza ci mette in mano questa parola, vera catena, che scende dal trono di Dio, e collega le intelligenze, e le innalza; ponte gettato sul vastissimo abisso, che separa l’intelletto umano dalla ragione divina; germe perpetuo di affetti santissimi, potenza creatrice di pensieri sempre nuovi, tutti belli, e rivelatrice di mondi ideali; luce, che fa comprendere, mentre fa piovere dal Cielo sui cuori le virtù per operare. Le verità che dobbiamo propagare sono fortissime, trovano già un’eco in fondo all’umana, natura, ed un testimonio, che le conferma nelle coscienze. Pubblichiamole coll’accento della pietà, versiamoci dentro il cuore, che il cuore trova sempre un cuor che l’intende. Come siamo nell’unità della fede, così conferiamo insieme la molteplicità dei mezzi, di che possiamo disporre. Tutti Cattolici, facciamo una santa lega, consacrando a difesa della verità l’ingegno, i sudori, le sostanze, la vita; usciamo alla luce del sole a compiere l’alta impresa, che ha per iscopo la sconfitta dell’errore ingannatore, e della corrompitrice viltà. Per mezzo d’associazioni diffondiamo buoni libri in tutti i formati, ed a così minimi prezzi, che possa la domenica averli fra le mani, coll’obolo di che può disporre, la contadinella, ringalluzzita di saper leggere anch’essa. La bellezza delle forme, la vivacità del racconto, l’interesse che vi si trova dentro, anche l’offrirli in dono facciamo che si spargano ovunque. Si dirà per avventura: non li leggeranno. Noi risponderemo: «aspettate, cadranno nelle mani nell’istante provvidenziale, come le vite dei Santi al guerriero Ignazio di Loiola, gettato sul letto colla gamba infranta; come il libro devoto che a consumar la noia dell’indugiar della mensa, leggeva il mercante Giovanni Colombini; libri che furono per essi il principio di loro santità. Così seminata dappertutto darà il frutto al tempo suo, e sarà la parola di Dio nelle famiglie il lievito dell’ Evangelo. Al vitupero ed alle infamie delle stampe in figura, contrappomiam le immagini così care alla cristiana pietà, così eloquenti al cuor del popolo; ed il popolo, che vive in sì gran parte nei sensi, quando si vedrà le immagini dei misteri di Gesù e di Maria, che mai non l’hanno saziato, quando si vedrà nelle immagini dei martiri, negli atti della eroica carità dei santi più sublimi tratti della storia, che onorano l’umanità, il popolo, che pur finalmente non ha voglia di ridere continuamente, resterà annoiato di schifose caricature, con che si vilipende il pudore. Anche quando comparvero i creatori dell’arte cristiana, che irraggiò tante divine bellezze nei quadri di nostra religione, se qualche pedante artista volle ancora far all’amore colle vecchie bellezze del paganesimo, i suoi capi d’opera mandarono troppo fiacco lume, per farsi ancor ammirare. Abbiam detto questo, perché siam nella ferma fiducia, che anche in questi tempi, per la grazia di Dio, e per la nostra cooperazione, la luce l’abbia da vincere sulle tenebre, e che pur finalmente la parola di Dio abbia da ricreare l’umanità. Teniamo caro questo pane delle anime. Senza il conforto della parola di Dio resteremmo abbandonati in questo povero mondo, come soldati senz’armi, come navi senza remi, come augello spennato dell’ali, come cieco che erra all’abbacchiata senza guida che lo meni in via sicura. – Leggiam le vite dei Santi, e troveremo in essi incarnata la parola divina e dipinti i modelli, da cui far ritratto di vita cristiana. Leggiamo le opere scritte dai Santi; familiarizzando colle loro idee, e, conversando pei loro scritti con questi uomini ripieni dello spirito di Dio, ci informeremo del loro spirito di santità. Chi tratta coi Santi diventa migliore. – Mentre il suddiacono depone il libro, ricordiamoci che quel libro ci sarà rimesso innanzi nel gran dì del rendiconto; e vi leggeremo, se non ne approfittiamo adesso: « Vi ho chiamato, e voi non mi ascoltaste; vi ho scritto, e voi non vi curaste delle mie lettere; vi ho offerto il mio aiuto, e voi sprezzaste le mie grazie. Non voleste la parola mia per vostra scorta, l’avrete per giudice » O mio Dio, allontanate da noi questa disgrazia, e fateci accogliere, come il gran dono di vostra misericordia, la santa Scrittura, e i buoni libri spirituali: e noi ve ne rendiam grazie colla Chiesa, che fa alla lettura rispondere:

Deo gratias.

« Grazie a Dio, » risponde il popolo. Questa tenera espressione, insegna s. Bonaventura, noi abbiamo imparata da Maria SS. Era questo il saluto usato colle persone da lei benedette (Tom. 2. op. Med. vit. Christ. cap. 3), che c’insegnava ad avere il cuore pieno di tenera gratitudine verso la bontà, con che Iddio ci circonda dei suoi benefizi continuamente. Veramente nelle solenni e care istruzioni Dio si è fatto conoscere nella frazione del pane, come padre alla mensa coi suoi figliuoli: e noi col cuore sulle labbra ringraziamolo della sua parola, che ci ha fatto leggere e predicare. Noi non abbiamo bisogno della vostra alleanza, scriveva Gionata a quelli di Sparta (Macc. XII) a nome del popolo giudeo; giacché avendo noi il tesoro dei libri Santi, essi ci valgono ogni consolazione, e possiamo fare a meno di tutti gli altri tesori umani. E quei generosi erano scampati appena dalla crudeltà di Antioco; erano costretti d’intorno da nazioni nemiche, non avendo più né Arca, né Tabernacolo di Dio, in pericolo di cader vittima dei loro nemici; pure in quegli estremi bastava loro tenersi stretti alla parola di Dio. Noi dobbiam dunque ringraziarlo vivamente col Deo gratias di poter leggerla ogni dì, e farne pascolo delle anime nostre; più di loro fortunati, che dappertutto ci riscontriamo in uomini di Dio, che ce l’annunziano in nome suo, noi, che stiamo serrati intorno al Papa, l’immancabile, depositario del Verbo Divino. – Qui vien bene di ricordare un bellissimo costume di cristiana pietà (s. Bonav. loc. cit.), di cui troviamo ancora una traccia nelle nostre campagne. Anche in oggi i poveri contadini, ricchi di evangelica semplicità, quando battono alla porta del ricco, mettono innanzi questa parola: « Deo gratias. » È un segnale di rispetto? O è la grazia, che domandano, di poter entrare, quasi sappiano di poterla ottenere, mettendo innanzi la memoria di Dio fatto uomo? Con questa parola d’introduzione pare a noi, che dicano con umile ma dignitoso contegno: « Se io ardisco di presentarmi a trattar con voi, lo faccio, perché mi ricordo, che il Signore ci ha mostrato che grandi e piccoli siam tutti fratelli in Gesù Cristo. » In alcuni paesi ancor si comincia col Deo gratias il saluto a Maria alla mattina, a mezzodì e alla sera; e come l’Epistola figura i discepoli, che precedevano Gesù ed anche il Precursore s. Giovanni Battista, così questa parola significa pure il saluto e le benedizioni e le grazie che portò Maria nella casa di s. Elisabetta; grazie che porta ancora all’anime nostre il Signore che discende a parlar con noi in questa occasione. Troviamo pure, che il Deo gratias era come parola d’ordine ed il segno di convenzione, con cui s’intendevano i Cristiani cerchi a morte nel tempo della persecuzione. Quando s’incontrava alcuno, che si credeva potesse essere seguace di Gesù Cristo, quegli a cui premeva conoscerlo, gli si faceva presso, e dicevagli adagio all’orecchio: « Deo gratias. » Se quegli era Cristiano, gli rispondeva con una stretta di mano, sottovoce: « Deo gratias. » Ringraziavano quei buoni l’un per l’altro il Signore, che gli avesse eletti all’onore di seguirlo in quel tempo di prove. E una tenerezza il pensare a quei generosi, che, stipati nelle prigioni, e già consacrati alla morte, quando si aprivan quelle porte di ferro, ed un nuovo compagno entrava in quelle carceri orrende, facevano festa, ringraziando, e benedicendo il Signore. S. Ilariano (Surius, Vita ss. Satur. ecc. 11 Feb.), giovinotto in fior di vita, tornava dal combattimento carico di catene per aver confessato intrepido di essere Cristiano. Presentato sulla porta della prigione grondando sangue, mandò col saluto il cuore ai suoi fratelli, esclamando: « Deo gratias: Grazie a Dio; » perché gli concedeva di divider con loro i ceppi e la morte. E tutti a gara a stendergli le braccia incatenate, non potendo pei ceppi muoversegli incontro, accoglierlo colle grida di giubilo. Era una lietissima festa, dice la storia, un’esultanza che mai la maggiore, era un cotal gaudio da non potersi dire, che esprimevano quelli col ripetere misto alle lacrime « Deo gratias Deo gratias. » Che belle grazie, e quanto eran gradite a Dio!

Graduale.

Il Graduale è come una conseguenza della seguita lettura dell’Epistola. Commossi dalla ascoltata parola di Dio tutta piena di altissimi sensi, pieni di cuore delle ispirazioni dello Spirito Santo, davano sfogo per alcun tempo alla comunione dell’animo. Erano accenti di meraviglia o di gaudio; o erano espressioni di dolore, che si scambiavano tra loro a vicenda; od era un applauso alla virtù, che si commemorava in quell’istante. La Chiesa si fa ora col Graduale interprete dei pensieri, in cui lavora in segreto l’anima nostra, quando gusta il cibo della parola di Dio dentro di sé. Il graduale adunque fu introdotto nella Messa per acclamare la santa lezione; e molti pensano che Graduale s’appelli, perché costumavasi cantare nel tempo in cui ascendeva il diacono su pei gradini del pulpito: o perché forse veniva cantato sui primi gradini di esso (Raban. De iust. cler. lib. I, cap. 33, de ord. miss.); intrattenendosi con questo il popolo, mentre sì preparavano i ministri per la lettura dell’Evangelo.

Tratto.

Nei tempi poi di duolo e di penitenza, al Graduale s’aggiunge il Tratto, il quale è un lamento, una querimonia, un’elegia, che si canta n modo stridulo, perché esprime il mesto gemito di quei fervorosi Cristiani, che tutti compresi nei giorni di compunzione e di penitenza, sfogano il dolore a piè dei gradini dell’altare, alimentandosi colle preghiere nel digiuno, gementi con clamore (Tertull., De Pœn. cap. 9) dì e notte al Signore: e di quelli non men fervorosi penitenti, che a questo punto erano costretti ad uscir di Chiesa a piangere le loro colpe. Perciò questa parola Tratto significherebbe la tristezza di quelli, che a malincuore abbandonavano il santo altare, da cui venivan come trascinati lontano dai propri peccati; essendo fatti uscire dal santuario dopo la lettura, per ascoltare la quale, solo si permetteva restassero finora. – Innocenzo III dice che il Tratto esprime le miserie della vita presente (Miss. Mis. lib. 2.). Per entrare a parte dei sentimenti della Chiesa, noi non potremo far meglio, che procurare di intendere e mandare a memoria questi gemiti di compunzione devota, queste espressioni energiche suggerite dallo Spirito Santo, e farne oggetto delle nostre meditazioni in quei giorni che l’ascoltiamo. Ah! quanto diverso era il costume degli antichi fedeli, che vegliavano le notti, nonchè passavan gran parte del giorno nelle chiese, e si preparavano or con sante lezioni, or con canti, or con mistiche benedizioni, or con lagrime di vivissima contrizione, a celebrare le più grandi solennità, ed onorar la memoria dei misteri di nostra salute.

Sequenza.

Quel ritmo, o canto, od inno, che si canta alcune volte in seguito all’Epistola, chiamasi, Sequenza, appunto perché segue l’Epistola. Credesi introdotta dal beato Nogero abate di S. Gallo nella Svizzera; che molti distinguono da un altro Nogero di Liegi, il quale pur dedicò un libro di Sequenze a Lituardo Vescovo di Vercelli, che furono poi approvate da Nicolò I sommo Pontefice, a cui furono da lui inviate. Si chiamavano le Sequenze anche giubilazioni. Or se ne cantano cinque solamente: una nell’Ottava di Pasqua, di cui si crede autore Roberto Re de’ Franchi (Card. Bona, Pi. lit. lib. 2, cap. 6, n.9.), ed è tutta piena di santa letizia; è un giubilare vivace per la risurrezione. Essa incomincia: Victimæ paschalis ecc. ecc. L’altra nell’ottava di Pentecoste, che incomincia: Veni, Sancte Spiritus; ed è una delle più soavi e più devote orazioni, piena della maggiore unzione; degna proprio d’essere presentata all’autore della grazia, come un vero inno all’Eterno Amore. Da alcuni n’è detto Autore lo stesso b. Roberto, da altri il b. Ermanno nel secolo XI (Durandus, lib. 4, et Bened. XIV, De sac. Miss. lib. 2, cap. 5, n. 18.): ed alcuni la dicono opera del Papa Innocenzo III (Card. Bona, loc. cit.), il quale compì la gloriosa sua carriera nel celebre concilio di Laterano (nell’anno 1215 da lui convocato e presieduto), dopo di avere dato solenni lezioni ai re sui loro doveri. –  La terza è per l’ottava del Corpus Domini, composta da s. Tommaso con tale semplicità di linguaggio, e tanta esattezza teologica di espressioni, che è  al tutto degna di quella angelica mente. –  La quarta è il Dies iræ nella Messa dei morti. Di questo sublime grado di terrore vuolsi autore il Card. latino Orsino Frangipane (Bened. XIV, loc. Cit.), o Tommaso di Celano discepolo di s. Francesco (Cantù). Essa è una terribile elegia, e forse il cantico più imponente che si possieda. Certo non si poteva meglio interpretare il gemito del popolo, che crede, che spera e sente il terrore l’ira di Dio pel dì del tremendo giudizio, nell’atto che prega sulle tombe de’ suoi morti, come sulle tombe dell’eternità. Diresti che di là si vede ai piedi spalancato l’inferno sopra il capo il terribile Giudice, e tutto l’orrore della vendetta divina innanzi. Col tremito dello spavento si slancia alla Croce di Gesù Cristo, per trovare uno scampo alla perdizione, che minaccia di divorarlo: or questo canto è un grido di terrore che termina in un gemito di pietà, con cui i fedeli cercano uno scampo fra le braccia del Salvatore di tutti. – Finalmente i dolori della Madre divina a piè del patibolo è lel suo Figlio potevano mancare di un cantico nella poesia del popolo, che n’è sì tenero? Essi l’ebbero nello Stabat mater, che inspirarono.  In esso il Pontefice Innocenzo III (Cantù), espresso i più veri sentimenti della gran famiglia, di cui era capo e il più degno interprete. In esso il popolo colla più viva immaginazione vede la Madre sua Maria addolorata, 3bagnata del sangue, che gronda della croce del suo Gesù; in esso il popolo le si getta a’ piedi, e si sprofonda con lei in quel suo mar di dolori; in esso il popolo caramente l abbraccia; ed è una pietà il sentirlo col pianto supplicarla, che stampi nei cuori le piaghe del suo e del loro Gesù, e chiederle colle lagrime, che nell’ora dell’agonia metta le anime in quel costato, che ha comune la sua piaga col cuor trafitto di lei; affinché dalla morte le porti salve in paradiso! –  Deh! se il canto è dell’affetto del popolo la più naturale e più viva espressione, qual impronta di grande verità sentita, quali concetti sublimi e teneri in questi cantici, che dovevano un dì essere in bocca di tutti! Che popoli dovevano essere quelli, che si esprimevano così! Ora il popol nostro in quali canti esprime la poesia dell’affetto suo? E quale !… Siam pure poverini per ogni riguardo! Ma è sempre ricca la Chiesa in santità di affezione, e beato a chi vi partecipa. Come intanto debba essere benedetta la Religione, che le consolazioni, i dolori ed anche lo spavento compone in celeste armonia! – Ella termina i graduali e le sequenze, tranne quella del Dies iræ, coll’alleluia.

L’ Alleluia.

In tutti i giorni dalla Pasqua alla Pentecoste la Chiesa esulta per la risurrezione di Gesù Cristo. Rapita tutta nella solennità del mistero non vuol essere distratta da altro pensiero; e tutta piena di esultanza, appena si lascia andare ad una aspirazione o giaculatoria nella lettura fatta, e subito negli slanci del cuore altro non fa che ripetere: « Alleluia Alleluia: Lode a Dio. » Questi sono altrettanti evviva allo Sposo divino, che della morte ha trionfato. A questo pensiero la Chiesa si abbandona come ad un santo delirio; e fra gli impeti di tanta esultazione ha più brevi i graduali ed interrotti dai gioviali Alleluia. Anzi in questo tempo pasquale non solamente tra l’una e l’altra azione nella Messa, ma pure anche in tutte le funzioni tra l’uno e l’altro coro, tra l’una prece e l’altra, e fino tra l’una e l’altra espressione si esilara in tanti Alleluia. È bello il considerare qui, che l’amor di Dio, come nella Cantica, prende una cotale forma umana da poterlo assomigliare all’amore d’una casta sposa terrena. Questa affettuosa, quando derelitta dallo sposo, cui lo squillo di guerra chiamò sul campo delle battaglie, nella sua cameretta solinga e mesta, col fervore della immaginazione vede in mezzo all’orrida mischia, tra il fischiar dei globi infuocati ed il tempestar della morte lo sposo diletto, e se lo figura innanzi ahi! squarciato nel fianco da una fulminea palla versare per terra le viscere insanguinate; allora si straccia i capelli, corre forsennata per la cameretta, e chiama lo sposo morente. Ma quando appunto come per incanto esso le appare dinanzi glorioso della vittoria, ella mette un grido, che non è una parola; ma dice assai più d’ogni parola umana. Così pure mentre la Chiesa è tutta nel meditare la passione e morte del suo Gesù; e Gesù all’improvviso le appare Innanzi nella gloria di Pasqua risorto; ella mette un grido di gioia nel fervoroso Alleluia; ed in tutto il tempo, in che lo festeggia in trionfo, nell’estasi del celestiale suo gaudio, il cuore le batte sì vivo che non ne può frenare gli slanci; e la gioia con impeto scoppia ad ogni istante in Alleluia; onde pare dica tratto tratto: « E risorto, si veramente! evviva, evviva! lode a Dio, Alleluia! ». – Giacché abbiam toccato degli Alleluia, che si cantano nel tempo pasquale, appunto dell’Alleluia daremo qui una breve storia, che è bene conoscere per comprendere il senso di questa vivace espressione, con che la Chiesa pur nel corso dell’anno, conversando con Dio, spesse volte si va espandendo. Gli Israeliti usarono fin dagli antichi tempi di cantare « Alleluia » « Lode a Dio » (e si vuole che primo l’usasse David nell’iscrizione del Salmo 104). Per quel popolo così prediletto dal Signore, per cui Dio era duce, difensore, pastore, re, padre e tutto, gli evviva dovevano naturalmente terminare tutti in Dio. Oh sì! quando alcun sentimento di tenerezza commoveva quel buon popolo vivamente, egli doveva esclamare: « giubiliamo: ma con chi mai giubileremo noi meglio, che in seno al Dio de’ padri nostri, che tanto ci predilige? » E l’Alleluia veniva appunto a dire così. Quanto conviene adunque alla Chiesa questo cantico con Dio, che le è Sposo. Emanuele, cioè Dio è con noi: Alleluia; a lui la lode del più sentito amore! Lodiamo adunque anche noi, dice s. Agostino (De temp. serm. 151, cap. 6), o carissimi, il Signore; diciamo Alleluia, cioè lodiam non solo colla voce, ma diamogli lode col buon costume, lode colla lingua, lode colla vita. Egli è vero che per noi poveri peccatori starebbe meglio aver sempre in bocca: « misericordia, perdono, abbiate pietà, o Signore! » ma noi cantiamo Alleluia, e due volte Alleluia, osserva pure lo stesso s. Agostino (Enarr. in Psal. 106.), perché se reo e cattivo è l’uomo, fedele e misericordioso è Iddio; e queste ripetizioni esprimono il desiderio vivissimo, che si avveri ciò, che tanto ci fa esultar col pensiero, appunto come si dice: « Amen, amen, sì, si; fiat, fiat, avvenga e sia fatto. » Riccardo di S. Vittore dice o ancora (Sup. Apoc. lb. 6, cap. 3.) che si usa ripetere questa acclamazione, e pare che la Chiesa non finirebbe mai di dire: « Alleluia, » per significare l’eternità, e l’armonia del cielo colla terra. Perché, come dice ancora s. Agostino (Enarr. iu Psal. 106), in cielo si danno lodi a Dio, come qui sono lodi a Dio: là dagli Angioli in sicurtà; qui dall’animo in timore, ma pur confortate dalle più care speranze. « Alleluja » cantano essi nella patria del cielo; « Alleluja » cantiamo noi qui sopra via per arrivarvi; « Alleluia » essi in gloria; noi « Alleluja » nel combattimento, che ce l’acquista; « Alleluja » essi in beatitudine in seno a Dio; « Alleluja » noi qui con Gesù sull’altare, che è la scala per arrivarvi. E intanto illi canentes jungimurAlmæ Sionis æmuli. Cioè concittadini del cielo, candidati del paradiso, uniamo fino da quest’ora coi loro i nostri cantici, che speriamo di pur cantare insieme con essi in beatitudine con Dio. –  Qui s’intende perché l’Alleluia si tace dalla Settuagesima sino a Pasqua; quel tempo significa il tempo trascorso dalla caduta del genere umano, che ebbe la morte col peccato in Adamo, sino al tempo da risorgere alla vita per la risurrezione di Gesù Cristo (Rubertus Abbas, De dir. Off. lib. 1, cap. 14): quando comincia appunto il vero tempo di evviva, e di lode a Dio per l’intiera umanità, destinata a glorificare Dio in paradiso.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.