DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2023)

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2023)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le Domeniche III, IV, V, e VI dopo l’Epifania hanno il medesimo Introito, Graduale, Offertorio e Communio, che ci manifestano che Gesù è Dio, che opera prodigi, e che bisogna adorarlo. La Chiesa continua, infatti, in questo tempo dopo l’Epifania, a dichiarare la divinità di Cristo e quindi la sua regalità su tutti gli uomini. E il Re dei Giudei, è il Re dei Gentili. Così la Chiesa sceglie in San Matteo un Vangelo nel quale Gesù opera un doppio miracolo per provare agli uni e agli altri d’essere veramente il Figlio di Dio. – Il primo miracolo è per un lebbroso, il secondo per un centurione. Il lebbroso appartiene al popolo di Dio, e deve sottostare alla legge di Mosè. Il centurione, invece, non è della razza d’Israele, a testimonianza del Salvatore. Una parola di Gesù purifica il lebbroso, e la sua guarigione sarà constatata ufficialmente dal Sacerdote, perché sia loro testimonianza della divinità di Gesù (Vang.). Quanto al centurione, questi attesta con le sue parole umili e confidenti che la Chiesa mette ogni giorno sulle nostre labbra alla Messa, che Cristo è Dio. Lo dichiara anche con la sua argomentazione tratta dalla carica che egli ricopre: Gesù non ha che da dare un ordine, perché la malattia gli obbedisca. E la sua fede ottiene il grande miracolo che implora. Tutti i popoli prenderanno dunque parte al banchetto celeste nel quale la divinità sarà il cibo delle loro anime. E come nella sala di un festino tutto è luce e calore, le pene dell’inferno, castigo a quelli che avranno negato la divinità di Cristo, sono figurate con il freddo e la notte che regnano al di fuori, da queste « tenebre esteriori » che sono in contrasto con lo splendore della sala delle nozze. Alla fine del discorso sulla montagna « che riempi gli uomini d’ammirazione » S. Matteo pone i due miracoli dei quali ci parla il Vangelo. Essi stanno dunque a confermare che veramente « dalla bocca di un Dio viene questa dottrina che aveva già suscitato l’ammirazione » nella Sinagoga di Nazaret (Com.). –Facciamo atti di fede nella divinità di Gesù, e, per entrare nel suo regno, accumuliamo, con la nostra carità, sul capo di quelli che ci odiano dei carboni di fuoco (Ep.), cioè sentimenti di confusione che loro verranno dalla nostra magnanimità, che non daranno ad essi riposo finché non avranno espiato i loro torti. Così realizzeremo in noi il mistero dell’Epifania che è il mistero della regalità di Gesù su tutti gli uomini. Uniti dalla fede in Cristo, devono quindi tutti amarsi come fratelli. « La grazia della fede in Gesù opera la carità » dice S. Agostino (2° Notturno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]


Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

“Fratelli: Non vogliate essere sapienti ai vostri propri occhi: non rendete a nessuno male per male. Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini. Non fatevi giustizia da voi stessi, o carissimi, ma rimettetevi all’ira divina, poiché sta scritto: A me la vendetta; ripagherò io », dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Non lasciarti vincere dal male; al contrario vinci il male con il bene”. (Romani XII, 16-21).

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA VITTORIA DEL BENE SUL MALE.

Questa volta bisogna proprio che ve la legga questa lettera o porzione di lettera di S. Paolo ai Romani, ve la leggo e niente altro. È troppo delicato l’argomento che tratta, è troppo importante lo sviluppo che gli dà. Del resto, purtroppo la sentite così di rado la parola di San Paolo, il grande predicatore della verità. Continua l’Apostolo a dare ai romani i consigli morali più tipicamente cristiani; li chiamo consigli, pensando al tono che è d’esortazione, ma si tratta di precetti belli e buoni. L’Apostolo insiste sul tasto delicato e forte della carità cristianamente intesa, così diversa e superiore alla filantropia. « Non fate del male a nessuno, e fate del bene a tutti gli uomini » frase molto chiara e dove l’accento cade su quel nessuno e quel tutti. Cristiani battezzati di fresco, Cristiani troppo freschi per essere Cristiani profondi, potevano credere che la carità nella sua doppia espressione di non fare del male e di fare del bene, potesse e dovesse restringersi nell’ambito dei fedeli. Per gli infedeli, pei pagani doveva essere, poteva essere un altro conto, un altro affare. Ebbene, no. S. Paolo dissipa l’equivoco. Male un Cristiano non deve fare a nessuno, neanche al più scomunicato dei pagani, e bene a tutti. Ma se non dovendo fare e non facendo del male a nessuno il buon Cristiano non può mettersi in contrasto con nessuno, purtroppo possono gli altri mettersi in contrasto con lui, rompendo quello stato pacifico nel quale sfocia logicamente la carità. L’Apostolo lo sa e perciò soggiunge: « se è possibile e per quanto dipende da voi. Siate in pace con tutti ». Soggiunge così per continuare il filo logico del suo discorso ai Cristiani in caso di confitti che altri (non essi) abbiano suscitato, turbando il pacifico equilibrio della carità. In questo caso il dovere del Cristiano, offeso, oltraggiato, danneggiato è di non farsi giustizia da sé: « non vi vendicate, dice il testo, e continua: rimettetevi alla giustizia di Dio, giusta la frase del V. T.: È mia la giustizia, penserò io a farla ». Dove tocchiamo un’altra volta con mano il mirabile equilibrio del Cristianesimo contrario alla vendetta, ma pieno d’ardore per la giustizia, anzi tanto più dalla vendetta abborrente quanto più alla giustizia devoto. Ogni vendetta individuale rischia di essere un’ingiustizia, perché si fa giudice chi è parte in causa. La giustizia, questa idealità obbiettiva, cristiana per sua natura, non può essere soggettivizzata; o ci si rinuncia, o la si affida a Dio. – Affidato a Dio l’esercizio eventuale, eventualmente necessario, della giustizia, il buon Cristiano anche nel caso di ingiuria sofferta deve riprendere verso il suo offensore l’esercizio della carità. La quale nella fattispecie esercitata verso un nemico, verso chi l’ha demeritata diventa perdono. « Ci penso io alla giustizia, a mettere a posto il malvagio », dice il Signore, e allora a noi non resta che continuare per il solco radioso della carità. E perciò: « se — riprende la parola l’Apostolo Paolo — il tuo nemico (colui che ha voluto essere tale per te) viene ad avere fame, tu, da buon fratello, perché non sei, non puoi, non devi essere altro, tu dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere. Lo richiamerai così, collo spettacolo vivo, edificante della tua bontà indomita ed indomabile, a coscienza più chiara e cosciente della sua malvagità ». – E qui senza tradire il concetto dell’Apostolo, Paolo ha dovuto modificare un po’ le sue parole. Ma il concetto come è bello e profondo! Quando uno ti picchia, tu, secondo la morale del mondo, dovresti, devi picchiarlo: al gesto violento e brutale rispondere con un altro gesto egualmente brutale e violento, scendere anche tu su quel terreno bestiale e brutale, dove si è collocato lui. Dare a lui un cattivo esempio, come egli lo ha dato a te. Il Cristianesimo ragiona ben altrimenti. A chi si brutalizza, bisogna dare esempio di umanità; il Cristiano rimanga al suo posto, alto e nobile, e potrà condurvi l’avversario. E così avrà una vittoria non di Pietro su Cesare, dell’uomo sull’uomo, del più forte e violento sul più debole, no; si avrà la vittoria, una vittoria del bene sul male, del bene che lo ferma sul male che vorrebbe continuare le sue gesta. La Vittoria del bene sul male, il segno e il programma del Cristianesimo che Paolo riafferma a conclusione del suo discorso: « non ti far vincere dal male, ma vincilo tu il male e vincilo col bene, la sola arma efficace all’uomo, « noli vinci a malo, sed vince in bono malum ».

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua

[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis.
Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[“In quel tempo, sceso che fu Gesù dal monte, lo seguirono molte turbe. Quand’ecco un lebbroso accostatosegli lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: Lo voglio; sii mondato. E fu subito fu mondato dalla sua lebbra. E Gesù gli disse: Guardati di dirlo a nessuno; ma va a mostrarti al sacerdote, e offerisci il dono prescritto da Mose in testimonianza per essi. Ed entrato che fu in Capharnaum, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosegli, e dicendo: Signore, il mio servo giace in letto malato di paralisi nella mia casa, ed è malamente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò, e lo guarirò. Ma il centurione rispondendo, disse: Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Imperocché io sono un uomo subordinato ad altri, e ho sotto di me dei soldati: e dico ad uno: Va ed egli va; e all’altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servitore: Fa la tal cosa, ed ei la fa. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e disse a coloro che lo seguivano : In verità, in verità vi dico, che non ho trovato fede sì grande in Israele. E Io vi dico, che molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e sederanno con Abramo, e Isacco, e Giacobbe nel regno de’ cieli: ma i figliuoli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora Gesù disse al centurione: Va, e ti sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito”.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

CONFIDENZA IN DIO

A sua cugina che si lagnava d’essere oppressa da tribolazioni d’ogni specie, Santa Teresa del Bambino Gesù rispondeva: « Bisogna aver confidenza in Gesù. Ricordati che è la mancanza di fiducia ciò che maggiormente ferisce il suo Cuore divino ». La santa non poteva trovare risposta migliore. Anche dal Vangelo di oggi risulta che quando più grande è la fiducia in Gesù, tanto più misericordioso è il suo soccorso. Scendeva con le turbe dal monte ed ecco una voce lo ferma. « Signore, se vuoi, puoi mondarmi? ». Era la voce di un povero lebbroso che fidente invocava salute. E Gesù, stendendo la sua mano, lo toccò dicendo: « Voglio ». E subito fu mondato. Alle porte di Cafarnao, un’altra voce lo trattiene. « Signore! il mio giovane servo giace in casa paralitico e muore di spasimo ». E Gesù a lui: « Verrò io e lo guarirò ». Il Centurione, confuso di tanta bontà: « Non son degno che Tu entri in casa mia; basta che tu dica una parola sola ed il mio servo è guarito. Quando io, che pure ubbidisco agli altri, dico ad un soldato: «Va », egli va; ad un altro: « Vieni», egli viene; e al mio servo: « Fa questo », egli lo eseguisce. Non sarai dunque ubbidito Tu, o Signore, a cui tutte le cose sono sottoposte come eserciti disciplinati? A queste espressioni così piene di fiducia, uscite dalla bocca di un uomo che non era giudeo, Gesù si sentì commosso, e rivolto a quelli che gli venivano dietro, esclamò: « In verità, non ho mai trovato nessuno in Israele che m’abbia parlato così. » Questi due miracoli sono stati compiuti da Gesù appena disceso dalla montagna dove aveva dettato al mondo la sua legge d’amore; dove aveva rivelato agli uomini che nel Cielo c’è un Padre che sempre ascolta i figli che lo amano e hanno fiducia in Lui. Sono dunque la riprova pratica di quanto aveva insegnato. Perciò il vero Cristiano è l’uomo che ha posto la sua fiducia in Dio. Egli ripete volentieri: « Mio Dio, tu sai tutto, tu puoi tutto, tu mi ami ». Con questo pensiero abbandona alla Provvidenza come un figlio nelle braccia dei genitori, sia nell’ora delle pene spirituali, sia nell’ora delle pene materiali. – 1. NELLE PENE SPIRITUALI. Sorella Chiara, nella solitudine raccolta del convento di Assisi, passava giornate di cielo. Il giorno in cui S. Francesco le aveva reciso le chiome, con un rito austero, è stato anche l’inizio di una nuova famiglia di anime: dopo di lei altre fanciulle avevano abbandonato la casa per cercare nel chiostro purissima gioia che il mondo non sapeva dare. Ma venne l’ora della prova ed il pericolo fu così grave che se Iddio non l’avesse aiutata sarebbe stato impossibile ogni scampo. I Saraceni avevano invaso le terre di Assisi e in odio al nome di Cristo avevano già posto l’assedio alle mura della città. Il monastero sorgeva proprio vicino alle mura: che sarebbe mai stato di quelle vergini, se vi fossero penetrati gli infedeli? Un giorno quelle bande selvagge tentarono un formidabile assalto. Non si udivano che le rauche minacce di rapina e di morte. – Santa Chiara giaceva inferma e non poteva muoversi, ma sentiva quelle voci di guerra ed il pianto delle sue suore atterrite. Offrì a Dio la vita per la città, pregò, fiduciosa, poi si fece portare sulle mura. Là, sotto gli occhi dei nemici assedianti, raccolse le sue povere forze, si inginocchiò e fece questa preghiera: « Ne tradas bestiis animas confidentes Tibi: non abbandonare, o Signore, alle belve le anime che confidano in Te » (Ps., LXXIII, 19). – Allora fu udita una voce distinta, misteriosa, che disse: « Io vi custodirò, sempre! ». All’istante i Saraceni, presi da indicibile spavento, si diedero a fuga precipitosa e quelli che erano già su le mura caddero a terra accecati (Brev. Rom. 12 agosto). La preghiera confidente era penetrata vittoriosa nei cieli. La nostra anima, quando vi regna la grazia, è la città di Dio; il cuore del giusto è il tempio magnifico in cui il Signore trova le sue delizie, è il mistico chiostro da cui salgono ardenti preghiere, come profumo di incenso. Ma vengono anche per noi le ore della prova, quando Dio permette che satana ci assalga con tutte le forze. Sono le ore della tentazione, quando un desiderio perverso vorrebbe trasportarci a luoghi, a persone, a divertimenti pericolosi. Son le ore dello scoraggiamento, quando le realtà della fede ci appaiono vuote, lontane, fredde, chimeriche mentre le gioie del mondo ci appaiono concrete, vicine, inebrianti. Sono le ore dei dubbi e dei timori, quando i rimorsi e le irrequietudini per la vita passata e forse presente ci avvolgono di nebbia, ci fanno disperare del perdono di Dio e della possibilità di redimerci e di salvarci. In ognuna di queste ore c’è bisogno di una gran confidenza che allarghi il cuore e lo trasporti in alto all’amplesso di Dio. Bisogna dire col lebbroso e col buon Centurione: « Signore, se vuoi puoi mondarmi; basta che Tu dica anche una sola parola ». – 2. NELLE PENE MATERIALI. S. Giovanni de’ Matha aveva consacrata la vita all’opera della redenzione dei neri. Una volta si era imbarcato a Tunisi con 120 schiavi riscattati dalla obbrobriosa servitù dei Maomettani. Ma questi infedeli, che si vedevano rapite le prede, vollero vendicarsi, tentando di farlo morire. Levarono il timone della nave, lacerarono tutte le vele perché avesse a sommergersi in mezzo alle onde. Sicuro dell’aiuto di Dio, Giovanni non si perdette affatto di coraggio. Pregò il Signore che volesse farsi guida del suo vascello e poi, distesi e legati insieme i mantelli dei compagni in forma di vela, col crocifisso tra le mani continuò a pregare e a cantar salmi per tutto il viaggio. La navigazione fu felice e la nave, in pochi giorni, arrivò in Italia, al porto di Ostia. Nonostante la rettitudine delle nostre intenzioni, sebbene in tutto ci conformiamo alla legge di Dio, molte volte anche noi, come a Giovanni le cose, guardando umanamente, vanno proprio male. Sarà forse la malattia che ci logora le più belle energie e ci fa incapaci di compiere il nostro dovere, infrange i progetti più lusinghieri dell’avvenire. Sarà la morte di qualche persona cara, del padre, della madre, di un figliolo, che ci priva del necessario conforto, della guida fidata per la nostra esperienza, dell’affetto più intimo del nostro cuore, lasciandoci la vita nuda e dolorosa. Saranno gli affari che sembrano rovinare e condurci, se non nella indigenza, in uno stato però per nulla prosperoso. Talvolta potrà essere un inganno da parte della persona che stimavamo la più onesta e sincera del mondo. Quando proprio non ce lo aspettavamo ci ha voltato la faccia, ha parlato di noi e ci ha calunniato, ci ha fatto tanto male. Ma perché, vien da dire, perché queste cose devono capitare a noi, che dopo tutto siamo buoni Cristiani e non facciamo del male a nessuno? In ognuna di queste circostanze; c’è bisogno di una grande fiducia che allarghi il cuore e lo trasporti in alto all’amplesso di Dio. Chi ha questa fiducia non si lascia turbare da nulla; sta in piedi in mezzo a tutte le rovine; domina tutti gli elementi avversi perché è appoggiato a Dio. Non si scandalizza della tribolazione, poiché se fu necessario che Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria, trova conveniente che debba essere così anche per il Cristiano. E poi S. Paolo non assicura forse che Dio fa riuscir tutto in bene per coloro che lo amano? – Questo pensiero c’invita a porre tutta la confidenza nel Signore, ma nel medesimo tempo c’invita a far del nostro meglio, per aiutarci da soli il più che possiamo. Ha fatto così anche l’Apostolo degli Schiavi. Mentre pregava; raccoglieva i mantelli dei compagni, li univa, li distendeva così a supplire alle vele. Aiutati — dice il proverbio — che il Ciel t’aiuta. – « Siamo in un secolo d’invenzioni: adesso non val più la pena di salire i gradini di una scala; nelle case dei ricchi un ascensore le supplisce con gran vantaggio. Vorrei trovare un ascensore che mi sollevasse fino a Gesù! L’ascensore che deve sollevarmi al cielo sono le vostre braccia, o Gesù! » (Storia di un’Anima, cap. IX). Cristiani, se con sofferenze spirituali o dolori materiali le braccia e le mani di Gesù ci venissero a percuotere, ricordiamoci che esse possono diventare per noi un ascensore. Esse ci portano al cielo: basta che noi ci lasciamo trasportare colla stessa confidenza di un bambino quando è sulle braccia di suo padre. — CONFESSARSI E COMUNICARSI. Ecco qui simboleggiati due sacramenti: nella guarigione del lebbroso, la confessione che ci monda dalla lebbra del peccato: nelle parole del centurione, l’Eucaristia che guarisce da ogni paralisi spirituale e ci dà la forza a correre sulla via dei comandamenti del Signore. Quando, nei secoli del Medio evo, la nostra patria fu spartita a brani, ed ogni brano aveva un principe, ed ogni principe con grande apparato di vessilli, di cavalli, di armi, di trombe usciva in guerra per conquistare altri regni ed altri uomini, ci fu chi amò lanciare in mezzo al folto della mischia uno stendardo magnifico con queste parole: « Qui v’è il cuore e la mano ». Iddio pure, movendo alla conquista delle nostre anime coi due sacramenti della Confessione e della Comunione, può dire: « qui v’è il mio cuore e la mia mano ». Solo l’amore di Dio poteva perdonarci i peccati. Solo l’onnipotenza di Dio poteva darci in cibo la sua carne e in bevanda il suo sangue. – 1. L’AMORE MISERICORDIOSO DI DIO NELLA CONFESSIONE. Cesare Augusto venne a sapere che Lucio Cinna, cavaliere romano, congiurava nell’ombra contro di lui. Fremette e già meditava lo sterminio del cospiratore e della sua famiglia, quando mutò consiglio. Fece chiamare il colpevole, che s’illudeva nella segretezza della sua trama, lo condusse nella sala più recondita del palazzo imperiale, e tutto solo con lui, così gli parlò. « Lucio! non hai nulla da dirmi? ». « Nulla. ». « Allora ti dirò io qualche cosa. Quando con le mie armi occupavo l’impero, tu e la tua famiglia mi eravate nemici, vi siete nascostamente opposti; io sapevo e non vi ho puniti. Quando tutto il mondo mi proclamò imperatore, tu mi hai chiesto un posto onorevole nella repubblica: altri me lo domandavano, e più degni, eppure a te, non a loro io lo concessi. Non è vero? ». « Verissimo », rispose il cavaliere. « È per questo, allora, che tu congiuri, che tu mi vuoi uccidere? ». « Falso! falso! » urlò Cinna. « Lucio! taci che so tutto. So la notte in cui hai convocato i traditori, so il luogo, so i nomi, so le parole che dicesti. So che nella tua casa sono nascoste le armi per uccidermi;… negalo, se puoi ».  Lucio Cinna tremava come una foglia di pioppo. Dopo una pausa, Cesare ripigliò cupamente: Se ti facessi pugnalare col tuo pugnale stesso e ti gettassi nella cloaca massima sarebbe troppo poco. Se con la tua moglie e i tuoi figli ti chiudessi in carcere, senza luce né respiro, se ti lasciassi morire a goccia a goccia sarebbe ancora troppo poco, troppo poco sempre. Or ecco invece che a te, mio nemico nel passato e mio traditore nel presente, lascio la vita, lascio la famiglia, i beni, la libertà, il grado. E non mi basta; ti faccio quello che non hai sognato di essere mai: console ». – Lucio vinto dalla bontà di Augusto ruppe in pianto chiedendo perdono. La dolcezza d’Augusto è poca cosa in confronto a quella del Signore nel sacramento della penitenza. Non ci rinfaccia i nostri peccati; non una volta sola, ma sempre ci perdona e ci ama di nuovo. Ci ridà la grazia santificante, si fa nostro amico, nostro padre, e ci prepara, dopo la morte, un trono di gloria in Paradiso. Quanto amore! Al lebbroso guarito Gesù aveva imposto di offrire al tempio il dono prescritto da Mosè: due passeri. Il sacerdote giudaico, ricevendoli, ne uccideva uno e col sangue appena sgorgato aspergeva l’altro, che solo così veniva lasciato in libertà. Il passero che vien ucciso per la salute dell’altro è un simbolo di Gesù Cristo che muore per il peccatore. Nella confessione siamo lavati dal sangue sgorgato dal cuore di Gesù, e questo sangue ci monda dal peccato e ci libera dalla schiavitù del demonio. – 2. L’AMORE ONNIPOTENTE DI DIO NELLA COMUNIONE. Nostro Signore apparve a S. Paola Maria di Gesù, carmelitana scalza, e le disse così: « Fra tutte le mie opere, la più grande, la più potente, la più rara, è l’invenzione del santissimo Sacramento ». Infatti: se Dio fu potente quando trasse dal nulla le cose e con le sue mani plasmò l’uomo, più potente è quando converte tutta la sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. – Se fu buono quando nell’Incarnazione nascose lo splendore della sua divinità nel velame della carne umana, più misericordioso ancora è nell’Eucaristia ove nasconde la maestà divina e l’affabilità umana nell’apparenza di un po’ di pane bianco. Se fu sapiente Dio quando mise nella vite la forza che trasforma gli umori della terra in rosso vino, più sapiente è certamente quando diede al Sacerdote la potestà di consacrare il vino nel suo sangue, ripetendo la miracolosa parola della consacrazione. Dio nell’Antico Testamento, quando faceva piovere fuoco, quando divideva le acque del mar Rosso, quando dettava la sua legge dal Sinai, soleva mostrare la sua potenza nella grandezza e nella forza. Nel Nuovo Testamento, istituendo l’Eucaristia, preferì mostrare la sua potenza nell’umiltà e nella debolezza. Ha preferito ridurre la sua vita al minimo perché noi potessimo avere la nostra vita al massimo. E da Dio forte si è fatto debole nell’Eucaristia perché noi che siamo deboli divenissimo forti. – Dice, infatti, S. Giovanni Grisostomo che quando ritorniamo dalla Sacra Mensa, siamo come leoni spiranti fiamme, terribili allo stesso demonio. Ut leones flammam spirantes; terribiles effecti diabolo. E Dio si è fatto pane, perché noi mangiando di questo pane diventassimo come Dio. – « Eritis sicut dii » aveva promesso il demonio quando offrì ad Eva il frutto proibito: se ne accorse ben presto, l’incauta, quanto bugiarda fosse una tale promessa, e quanto funesta. Eppure, Gesù Cristo, Redentore nostro, ha voluto renderla vera con un altro frutto: la S. Comunione. Chi la riceve vivrà della vita divina: « Vivet propter me ». – Geremia udì questo lamento del Signore: « Stupite, o cieli, stupite, o Angeli! E fuggiam via inorriditi dalle porte degli uomini. Due mali ha fatto il popolo: abbandonò la fontana dell’acqua viva e si scavò delle cisterne, delle cisterne avvelenate e rotte che non sanno contenere neppure una stilla d’acqua buona ». Dereliquerunt fontem acquæ vivæ et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas quæ continere non valent acquas (Geremia, II, 13). Fontana non d’acqua viva, ma di preziosissimo sangue sono i due sacramenti della Confessione e della Comunione: ci furono dati solo a prezzo della vita di un Dio. Ma noi li abbiamo abbandonati, o tutt’al più ci accostiamo assai di rado; ma noi ci siamo scavati nel peccato la nostra cisterna avvelenata che par che ci disseta mentre invece ci cuoce dentro col rimorso e ci cuocerà poi per sempre nell’inferno. Figlio mio — ci ripete Gesù con voce lamentosa — perché m’hai tu fatto due mali? Hai abbandonato la fontana dell’acqua viva e ti sei scavato la cisterna dell’acqua marcia » – – BISOGNA PREGARE CON FEDE E CON RASSEGNAZIONE. – Nella preghiera di questi due bisognosi, sentite quanta fede nella potenza di Gesù. Il lebbroso dice: Tu puoi guarirmi! ed il Centurione a sua volta: Basta che tu comandi e tutto andrà bene! Notate ancora quale rassegnazione alla volontà del Signore. L’ammalato di lebbra non domanda subito la grazia, ma dice: Se tuo vuoi, cioè sta a te il decidere della mia salute. Il comandante romano poi non chiede neppure che il suo servo guarisca, solo espone il suo triste caso, così come è: tocca poi a Gesù volere che il suo servo guarisca. Fede e rassegnazione sono le caratteristiche delle preghiere del Vangelo di oggi, fede e rassegnazione devono essere le doti delle nostre preghiere di ogni giorno. – 1. FEDE. Una santa giovinetta della quale fu scritta la vita davvero edificante, un giorno faceva alla mamma questa domanda: « Mi permetti che alla Messa preghi senza servirmi del libro? ». « Per qual ragione mi fai questa domanda? ». « Perché spesso quando leggo mi distraggo. Invece non sono mai distratta quando parlo col buon Gesù, sai, mamma, quando parlo con Lui è come quando si discorre con qualcuno; si sa bene quello che si dice ». – Questa figliuola aveva capito che vuol dire pregare con fede. Non sono necessari libri, non è necessaria tanta istruzione, tanta scienza, no. Ci sono delle povere persone ignoranti che non sanno forse neppure leggere e sanno pregare benissimo. Basta credere che il Signore sia una persona viva vera e presente e l’orazione diventa facile. « Cos’è la fede? », fu domandato un giorno al Curato d’Ars. « C’è la fede quando si parla a Dio come si farebbe con un uomo » rispose. Comprese bene questa verità quel buon contadino d’Ars che se ne stava tanto tempo inginocchiato in chiesa. « Cosa fate, cosa dite — gli domandò il Santo Curato — quali sono le vostre preghiere? », « Io guardo il mio Dio e Dio guarda me! ». Ecco, o Cristiani, che cosa vuol dire pregare con fede. Bisogna guardare Dio, bisogna parlare con Dio. – Affinché la nostra preghiera sia davvero uno sguardo e una parola rivolta a Dio con pienezza di fede, mi pare che pregando dobbiamo essere convinti di tre cose. a) Anzitutto che Dio è grande. Egli è infinitamente più grande di come lo possiamo immaginare con la nostra piccola testa. Egli è il Creatore di ogni cosa, colui che trasse dal nulla anche la nostra vita. – b) Poi, dobbiamo essere convinti che Dio è buono, ed ha promesso di donarci qualunque cosa gli chiederemo. Nessun padre ama e aiuta i suoi figli come il Padre Celeste. Una volta Dio adirato sta per lanciare lo sterminio contro il popolo d’Israele; Mosè prega: e Dio ritira la sua vendetta. Un’altra volta il popolo eletto, dopo una giornata di battaglia, è sorpreso dalla sera senza aver potuto dare il colpo decisivo; eppure era necessario che il nemico non avesse una notte in mezzo da potersi rifare. Allora Giosuè prega: ed ecco il sole arrestarsi sull’orizzonte e prolungare la giornata di qualche ora. I tre fanciulli innocenti, gettati nella fornace ardente, sono risparmiati perché hanno pregato; Daniele nella fossa dei leoni rimane incolume perché ha saputo innalzare la sua mente al Signore. – c) Infine, pregando ci dobbiamo unire a Gesù. Distaccati da Lui noi siamo peccatori, indegni d’ogni sguardo misericordioso da parte di Dio. Ma uniti a Lui, con la grazia e con l’amore, noi siamo suoi fratelli, figli di Dio, teneramente amati dal Padre Celeste. Uniti a Cristo, è Cristo che prega per noi ed offre al Padre le sue suppliche, i suoi meriti, il suo Sangue. A tanto imploratore potrà forse Dio ricusarsi? Son fatte così le nostre preghiere? Pensiamo queste verità mentre preghiamo? Se non è questa la nostra preghiera, non lamentiamoci di essere sempre distratti, di non provarci nessun gusto; non lamentiamoci soprattutto di non ottenere nulla. – 2. RASSEGNAZIONE. Quando con fede sentita domandiamo al Signore le grazie che riguardano il bene dell’anima, le nostre preghiere hanno infallibile effetto. Di questo noi dobbiamo essere sicuri: altrimenti non sarebbero vere le tante promesse che Gesù Cristo ci ha fatto di essere ascoltati quando chiediamo al Padre il Regno dei cieli. Invece non sempre otteniamo le grazie che riguardano il corpo perché esse non sempre giovano al nostro vero bene. Ed ecco la necessità della rassegnazione alla santa volontà di Dio, rassegnazione che diventa facile quando si vive di fede. Se, con la vivezza della nostra fede, crediamo che Dio è infinitamente sapiente, e conosce il passato, il presente ed il futuro, comprendiamo allora che soltanto il Signore sa quello che è utile per la nostra vita, per la salvezza della nostra anima. Dunque fidiamoci di Dio. – Si portò un giorno da S. Giovanni Elemosinario, Patriarca di Alessandria, un ricchissimo uomo che aveva un figliuolo gravemente malato. Gli recava una grossa somma di denaro da distribuire ai poveri perché con le loro orazioni gli ottenessero che suo figlio guarisse. Ma appena distribuito il denaro e fatte molte preghiere il fanciullo morì. Se ne lamentò il Santo amorosamente con Dio osservando che a questa maniera i fedeli non avrebbero stimolo a fare elemosine ai poveri e poi perderebbero la fede nelle loro preghiere. – Invece il Signore gli rivelò che quella morte era stata appunto l’effetto della elemosina del padre e delle preghiere di poveri. Se quel ragazzo fosse guarito, si sarebbero dannati tutt’e due: il padre a motivo della troppa avarizia per lasciar ricco il figliuolo; e questi perché avrebbe dissipato il patrimonio in stravizi e in disordini. Dunque chiediamo pure a Dio le grazie materiali; ma poi lasciamo fare a Dio, che ci vuol sempre bene. Se un Cristiano vive di fede, dal suo labbro non dovrebbero mai uscire i lamenti. « Perché — dicono alcuni — mi ha messo in tanta povertà? ». E se con tante ricchezze avessi perduto l’anima? Fidiamoci di Dio, che non sbaglia mai! – S. Bernardo, quando si recava in chiesa, era solito dire a se stesso, stando sulla porta: « Pensieri di mondo e di affari terreni, fermatevi qui e aspettate finché sarò uscito. Allora tornerò a riprendervi ». E dalla preghiera, dalla unione con Dio trasse la forza per compiere un bene immenso. Sono pochi gli uomini che come S. Bernardo hanno esercitato un così largo influsso. Sapete perché le nostre orazioni riescono male ed ottengono poco? Perché ci manca il raccoglimento. Sforziamoci davvero, quando preghiamo, di tenere la mente rivolta al Signore: facilmente allora ci sarà la fede nella grandezza e nella bontà di Dio; ci sarà la rassegnazione ai voleri di Dio e se Iddio è con noi di che cosa possiamo temere? Abituiamoci a parlare con Dio e la grazia più bella che noi otterremo sarà di migliorarci ogni giorno sul cammino del bene, verso il Paradiso.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.

[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis


Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.

[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio

Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.

[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (236)

LO SCUDO DELLA FEDE (236)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (5)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO III

Art. IV.

L’ OMELIA.

La spiegazione del Vangelo.

Eccoci adunque nella magione, che la Sapienza divina si ha edificata; ecco sull’altare imbandita la mensa, in cui il gran Padre nella frazione del pane si fa conoscere a’suoi figliuoli, col dare nella Chiesa celestial nutrimento. Ma come la madre con mistero d’amore trasmuta in latte il pane di che si ciba, e col latte versa il proprio sangue in cuore al suo bambino; così la Chiesa con tenerissimo cuore il pane della dottrina evangelica sminuzza e distempra in famigliare discorso per bocca de’ suoi Sacerdoti, per farlo cibo adattato alla semplicità dei pargoletti della sua grande famiglia. Nel meditare il Vangelo tutta la settimana, il Sacerdote, il buon parroco prese in seno a Gesù Cristo il sostanziale cibo dell’anima; apri la bocca nel desiderio dei precetti di Dio, e attrasse lo spirito suo (Ps. CXVIII): contemplò davvicino lo splendore del Verbo divino; e il Verbo riflesse sopra quell’anima monda la celestial sua luce. Come al cader d’un raggio di sole sopra un terso cristallo, rilucente e forbitissimo pare, che la luce si ridesti a quel tocco, si riaccenda e di nuovo splendore rimbalzi più viva, quasi lo specchio la vibri di un cotale suo colpo, e sicché si spanda rifratta su tutti gli oggetti d’intorno; così dall’anima del Sacerdote affiso in Dio la luce evangelica rimbalza sull’anime, che lo circondano, se più viva, almen più riflessa, più spezzata, e ad esse più umanamente adattata. Egli mise la bocca al costato di Gesù, bevve di quel Sangue, che gli palpita in cuore, ha sul labbro la parola di Gesù; sull’esempio del Figliuol di Dio; divinamente semplice è veramente il buon Pastore, che pascola le care agnelle. Col mezzo della sua parola ravviva tutto; e il giglio e l’albero del campo, la vite, il campicello, l’agnella, il gregge e tutta la natura sensibile, fa seco parlare. Onde collo splendore d’una celeste eloquenza fa da tutto riflettere chiarissime le più sublimi verità nella mente di tutti. Con una confidenza da padre penetra nel santuario dell’anime aperte con Dio; le abbraccia, le accarezza, le scuote, le informa mirabilmente varie, come l’industria della carità: tutto a tutti; sui fiori d’innocenza, che si schiudono appena, irrora stille di celeste rugiada: sui cuori piagati versa con unzione il balsamo che li ristora; coi commossi compunto, tenero con tutti, veramente per esso è il Verbo Divino, che si fa carne. – Osserviamo in prova che gli ingegni, che più onorano l’eloquenza, furono ispirati nell’altare dell’Evangelo: S. Giovanni Grisostomo, S. Basilio, san Leone, s. Gregorio, $. Agostino, Bourdaloue, Massillon, tutto calore, tutt’anima per la loro carità, crearono quella magia di stile, che veste con fantasia le idee più sottili, e scolpisce i pensieri colle espressioni le meglio appropriate per istruire, le più pittoresche per descrivere, robuste per esortare, patetiche per commuovere e consolare. Essi non sono mai così eloquenti, come quando si trovano, per dir così, fra le braccia di Gesù Cristo, divenuti padri divini, per versare col cuore Evangelo in cuore dei figli. Or via ci si dica: se Demostene in Atene, Cicerone in Roma avrebbero mai potuto immaginare, che tutte le feste, sul labbro del prete del villaggio, la carità del Redentore avrebbe ispirato una eloquenza troppo della loro più sublime, quanto dell’uomo è più grande Iddio? Deh! che direbbero questi sommi nell’ascoltare, come nelle chiesuole al povero popolo delle campagne, che da loro si teneva in conto d’armento, s’inculchino i precetti della carità divina; e come il rozzo villano e le sprezzate femminette del volgo si esortino ad essere come angioli in carne, per imitare il Padre loro, che è in cielo? Essi no, con tutte le ispirazioni del genio non furono mai tanto sublimi, quanto quest’uomo, che assorto in Dio non si cura delle frivole disuguaglianze di questo mondo di un’ora; e minaccia ai potenti l’eternale geenna, se ai più poveri non usano misericordia; e ai meschinelli del popolo, che non ne possono più della vita sempre in travagli, mostra la croce, e sopra il capo il paradiso aperto per chi la porta con Gesù Cristo. Quanto è commovente sentirlo ora stridere per ispavento per l’anima, che va a perdersi; e là descriverla come la pecorella, che, scappata tra le balze, e i precipizi, là per sentirla belare, e li per cadere in bocca il lupo: ed egli con lena affannata gridarle appresso: « o pecora cattiva… se ti piglio! » — E se la pigliate, o buon Pastore, che le vorrete fare? — Ed egli: « se la piglio la cattivella! L’abbraccio alla vita, me la metto sul collo! me la porto a casa!… e per castigo le medico le piaghe!… e per darle un ricordo da non fuggire più, le darò le manate d’erba più buona! » — Ah sì! qualche fanciulla amareggiata dall’inganno mette un sospiro e dice in cuore: la pecorella smarrita son io! Le vien voglia di lasciarsi al Pastore pigliare…. Oh Sì salva ancora! Talvolta grida tutto di fuoco quel padre: il mio figliuol disgraziato alzò la testa contro di me, indragato come un serpente! mi strappò via la sua porzione; e gittò ogni ben di Dio nella voragine de’ vizi! Va lo sciagurato di figlio coi mali compagni!… Ahi! è ridotto sul lastrico, la fame gli divora le viscere, disputa ai ciacchi immondi le ghiande, che van grufolando quei sozzi!… — Mi morrà disperato ! Eh! prodigo figlio, se mai ritorni!… — E se ritorna, o padre, che gli vorrete far voi? — Se ritorna!… l’abbraccio nel collo! me lo stringo al petto, me lo inondo di lagrime!…. per rimprovero lo copro di bacì!… per castigo lo vesto dell’abito mio più bello!…. e poi me lo porto al convito, e grido in casa: fate festa, è questo per la mia famiglia il più bel dì. In quel momento un peccatore piangente risolve di darla vinta alla misericordia di Dio, e di correre anch’esso a godersi di quell’accoglienze e carezze divine. Per lo più si sente sulla fine della spiegazione del Vangelo esclamare: « figliuolini miei, amatevi l’un l’altro per amore di Dio! » Deh! E chi mai rivelò a quest’umile figlio del popolo questi misteri dell’anime e dell’eloquenza?… Un solo Maestro: Gesù Cristo.

Laus tibi Christe.

Art. V.

FINE DELLA MESSA DEI CATECUMENI.

Letto l’Evangelo, era compiuta la Messa dei Catecumeni, i quali, come accennammo, a quel punto co’ penitenti ed ossessi dal luogo santo si allontanavano (Bossuet, Explic. De la Messe). Per ben intendere la qual cosa, fa d’uopo ricordare l’antica disciplina usata coi peccatori di quei tempi, le cui memorie sono così edificanti. – Uscita appena la Chiesa dalla persecuzione di Decio, trionfante anche dello scisma dei Novaziani, che, negandole la facoltà di rimettere i più gravi peccati, l’accusavano di rilassatezza, perché non lasciava i peccatori in disperazione; si stabili nelle chiese d’oriente un penitenziere particolare, incaricato di giudicare le coscienze per quei peccati che erano pubblici notoriamente, come fino allora aveva fatto il Vescovo solo, o col suo clero, secondo richiedevano le circostanze. Udiva egli le confessioni in privato; prescriveva le penitenze ed il modo di praticarle, se in pubblico od in secreto: e segnava il tempo dell’ammissione alla Comunione. Allora si divisero ì penitenti in quattro classi dette gradi o stazioni, nella 1° cioè dei Piangenti, nella 2° degli Uditori, nella 3° dei Prostrati, e nella 4° dei Consistenti.

I. I penitenti Piangenti dovevano restarsi alla porta della chiesa, nell’atrio, detto appunto il portico dei Penitenti, non essendo loro neppure concesso di assistere alla lezione, né ai sermoni. Colà prostrati, coperti di sacco e di cilizio, col capo sovente cosperso di cenere, colle mani giunte sul petto, in tanta umiliazione piangevano sopra le loro miserie, e abbracciavano le ginocchia di quelli che entravano, raccomandandosi di intercedere per loro presso al Signore ed al Vescovo, che lo rappresentava in terra.

II. Gli Uditori si fermavano vicino alla porta della chiesa, dove pure si lasciava che stessero presenti anche gl’infedeli. A tutti questi era permesso di assistere alle sante letture, alle esortazioni, che gli disponevano a conversione. Nelle chiese orientali, dopo il congedo degli infedeli, o di quei catecumeni, che erano uditori semplicemente, sì recitavano particolari orazioni per gli altri catecumeni, e pei penitenti, e per gli energumeni. Prima il diacono avvertiva di pregare tutti, fedeli e catecumeni. Congedati questi, esclamava: « pregate voi, o energumeni, e voi tormentati da spiriti immondi. » Poi, ricevuta anch’essi la benedizione, si licenziavano.

III. Quindi incominciavano le orazioni e le imposizioni delle mani pei Competenti, penitenti della terza classe, detti pure prostrati. Questi erano quelli a cui propriamente si dava il nome di penitenti, essendo le altre due classi stabilite per disporsi in esse, come per grado, alla vera penitenza; e si dicevano prostrati, appunto perché, come abbiam detto, ricevevano in ginocchio le imposizioni delle mani dal Vescovo nella chiesa, prima di essere congedati: e parimenti in ginocchio udivano l’orazione che per loro in particolare si recitava. Essi coi catecumeni e cogli energumeni avevano il loro posto in mezzo alle chiese fino al pulpito: e con essi dovevano uscire di chiesa, appena incominciata la Messa dei fedeli. Fin qui adunque erano ammessi coi catecumeni anche ì prostrati e gli energumeni; ma il maggior numero essendo dei catecumeni, da da questi, piuttosto che non dagli altri pochi, prendeva il nome la Messa, che fino a questo punto si dice Messa dei catecumeni.

IV. Ci resta di dire ancora dei penitenti del quarto grado, detti Consistenti, perché potevano consistere, cioè fermarsi a prender parte coi fedeli a tutte le orazioni della Chiesa. Assistevano essi al Sacrifizio divino; ma senza la consolazione di poter fare la loro offerta, né ricevere la santissima Comunione. In questa classe si collocavano frequentemente anche coloro, che non erano rei di colpa grave; ma con essi ponevansi per umiltà (Doelinger, Stor. Eccl.). Questi rigori di disciplina, queste distinzioni di classi sarebbe bene si conoscessero dai fedeli dei tempi nostri; ché così si potrebbe da loro comprendere la gravezza dell’oltraggio, fatta alla santità degli altari da chi, tra le dissipazioni e le irriverenze, coll’innalzare in trionfo di vanità un idolo di fango sino nel più interno del santuario, si porta il sacrilegio fino sotto gli occhi stessi di Gesù in Sacramento. – Dall’altra parte questi monumenti di storia sono una prova, che anche nei migliori tempi la Chiesa aveva peccatori da curarsi in seno. E questo giovi a dare la rimbeccata a coloro, che per non curarsi della Chiesa presentemente, appellano sempre alla santità della Chiesa primitiva. Letto il Vangelo, come abbiamo detto, il diacono si volgeva ed esclamava: « abscedite, andate. » Quindi licenziati i Catecumeni, gli Energumeni e i Penitenti non ammessi alla quarta classe, finché durò in vigore la severità della disciplina, per celebrare la Messa dei fedeli chindevansi le porte del luogo santo, e Vegliavano i ministri alla guardia di quelle, perché nessun immondo o indegno venisse colla profana presenza ad offendere la santità di così tremendi misteri, che gli angioli stessi adorano velati e prostrati sul pavimento del santuario (Caidin. Bona, lib. 2, cap. 18, n. 1). Ora è a dire qualche cosa del simbolo, detto volgarmente il Credo, che si recita, benché non sempre, nella Messa.

Il Credo.

Nella Chiesa cattolica si conservano quattro professioni di fede, dette simbolio contrassegni del vero fedele, o regole di fede (August. .. De Symb. ed Cat.). Chi ammette queste formole di fede è tenuto pe figlio di lei, chi non le ammette resta da lei separato e tenuto in conto di eretico e di infedele. Sono, come spiega s. Pier Crisologo (Serm. 63, De Symb. Apost.), un cotal istrumento od atto di fedeltà, con cui l’uomo si lega a Dio nel Battesimo obbligandosi poi a regolare la sua vita secondo le norme, che in esse ha giurato di seguitare. Questi quattro simboli sono: l’apostolico, il niceno,  il costantinopolitano, l’atanasiano. Quest’ultimo, come accenna il nome, si attribuiva comunemente a s. Atannsio; ma essendo in esso l’esplicita condanna e la esplicita professione di fede contro eresie, che vennero alcuni secoli dopo; o si deve dire, che non fa da lui composto, o che almeno gli si fecero posteriori aggiunte. Si recita nell’ora di Prima nell’ufficio divino, e non è qui luogo di più estendersi intorno a questo. –  Diremo adunque dell’apostolico, del niceno e del costantinopolitano.

Il simbolo apostolico è la professione di fede compilata dagli Apostoli (Natal. Alex. Diss. 12, sæcul. 1. D. Hyeron. ep. 61 ad Pam.): ed è il credo, che comunemente si recita da tutti i fedeli per tutto l’universo. In esso le principali verità della fede cattolica sono esposte con chiarezza, semplicità ed esattezza al tutto divina: e giurando questa fede, diedero per sostegno di essa la vita, come gli Apostoli, tanti milioni di martiri per trecento e più anni. Ma nel principio del secolo quarto Ario, nativo della Libia, prete di Alessandria d’Egitto, facendosi capo della più terribile eresia, che abbia travagliata la Chiesa, ardì di affermare bestemmiando che il Figliuolo di Dio non fosse generato dalla Sostanza del divin Padre; ma creato dal nulla, benché prima del tempo, ma non ad eterno, fosse differente dal Padre nella Sostanza. E benché poi confessasse che per Lui aveva Dio Padre creato ogni cosa, diceva nondimeno che anch’Esso era un essere creato, e quantunque chiamato Dio, non era Dio per natura, ma solamente deificato. Subito si raccolsero cento Vescovi in concilio nella chiesa di Alessandria, inorriditi di quelle bestemmie e lo condannarono. Né cessò per questo lo eresiarca di disseminare l’errore e fare partito, strascinando in inganno un gran numero di quei sciagurati, che gli inspirati di orgoglio, salutano sempre come benvenute le novità che lusingano: e di orgogliosi vi è sempre abbondanza! Allora s’indisse un Concilio generale. Era la prima volta, che si vide questa adunanza di rappresentanti d’ogni nazione, e costituiti padri delle anime per divina autorità. Molti di essi portavano scolpite nel corpo le gloriose stigmate del martirio; erano altri chiari di merito, di gran santità, di dottrina o di miracoli; era fra essi Atanasio il Grande, che fu poi il più glorioso campione nel difendere la fede ortodossa. Quei Padri si raccolsero in Nicea l’anno 325 per discutere liberamente intorno agl’interessi maggiori dell’umanità; per definire, colla certezza di avere l’assistenza dello Spirito Santo, che cosa credere sì dovesse, e come operare da tutti i fedeli del mondo. Costantino il Grande vi intervenne col rispetto dovuto ai rappresentanti di Gesù Cristo, e nell’entrare andò a baciare le cicatrici di Pafnuzio Vescovo della Tebaide. Qui a finirla con quel maestro d’errore, che cercava di eludere la verità con molti sofismi ed espressioni equivoche e dubbie, quei Padri, assistiti dall’ispirazione divina, cercarono alcune espressioni, che (essendo le più precise e chiare, che formular si potessero), escludessero qualunque equivoco, e la verità mettessero innanzi colla maggior evidenza. Perciò aggiunsero al simbolo degli Apostoli queste parole: « che il Figliuolo Unigenito di Dio è nato dal Padre innanzi a tutti i secoli, che è Dio da Dio, Lume da Lume, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consustanziale al Padre, e per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose. » Così fu compilato il simbolo niceno. – L’eresia di Ario intaccava, anzi distruggeva tutto il sistema delle verità cristiane, da cui dipende la salvezza dell’uomo. I Cristiani vedevansi rotto l’anello, che riunisce il cielo colla terra; essendo tolto il Mediatore divino, che si abbassa da Dio agli uomini, e coll’unirli a sé, li ricongiunge in Dio. In vero, se Gesù fattosi propiziatore e redentore nostro, non fosse Uomo-Dio, la povera umanità resterebbe sempre da Dio egualmente lontana anche dopo la redenzione, e sarebbe sempre per lei al tutto impossibile d’avvicinarsegli, come era appunto nella religione pagana. Fu questo adunque il gran servizio reso al mondo cattolico dai Padri del Concilio, l’avere cioè difesa e salvata dagli assalti dell’inferno la verità fondamentale di tutta la Religione cristiana, come di tutte le nostre speranze. Così spiegata la verità dell’eterna generazione divina del figliuolo, di una sola natura col divin Padre, in questo simbolo si va innanzi, e si espone la redenzione, operata in queste parole che seguono: « Il qual Verbo per noi uomini e per la nostra salute discese dal cielo, e si è incarnato. » Nel professare questa più di tutte consolante verità; proprio nel pronunciare le parole : « SI È INCARNATO PER OPERA DELLO SPIRITO SANTO IN SENO A MARIA VERGINE E SI È FATTO UOMO » la Chiesa fa che tutto il popolo s’inginocchi, e cattivi l’intelletto a credere con umiltà questo inconcepibil miracolo di bontà divina, e, cadendo per terra in grande umiliazione, adori il Figliuolo di Dio comparso nel mondo, e baci col cuore le vestigie, che i piedi di Dio impressero sulla terra, santificandola. Così coll’aggiungere al simbolo apostolico questa dichiarazione, in cui si professa sì precisamente la divinità del Redentore nostro, si è formato il simbolo detto niceno (S. Athan., ep. ad Jovin. De Fide.) dalla città, dove si teneva il Concilio: e questa professione esplicita è quella, che richiesero i Padri in nome di Dio da chi vuol essere ammesso nel numero dei Cattolici. A questa professione va unita la memoria di persecuzioni, che durarono secoli: quasiché il nemico di Dio dopo di essersi vendicato di Lui, per essersi fatto uomo, volesse ora vendicarsi degli uomini  che a Luì fidandosi si salveranno. – Ma vi è in natura un animale, che non è né ranocchio, né biscia, né lucertola o d altro animale comune. La coda ha di quadrupede, la pelle di serpe, le branche di coccodrillo, e la maggior meraviglia è, che muta sotto degli occhi di chi lo fissa, il color delle pelle ad ogni istante. In tante Sue varietà è costante e propria sua natura l’essere schifoso e ributtante sempre. Questo animale è il camaleonte, vero simbolo dell’eresia, che senza forma propria, nè concetto di unità si adatta a tutte forme, e varia al variar di circostanze e di convenienza. Sempre solo costante nella viltà, nei raggiri, e negli inganni d’ogni maniera, essa muta ogni dì le sue credenze secondo il variar dell’aria, che spira intorno. Ne sono la più gran prova in questi ultimi tempi le sétte dei protestanti, in cui ciascuno crede come più gli talenta; perché, senza possedere con certezza la verità, ciascun si finge ciò, che vuol credere; ed è bello osservare come il gran Vescovo Bossuet, per convincerli di errore, imprendendo a scrivere la Storia delle variazioni delle chiese protestanti, col solo titolo dell’opera li convinse di falsità (Balmes). Ora la verità non varia; ed è sempre la stessa; mentre gli ariani si sono mutati in semi-ariani, i semi-ariani in pneumatomachi o macedoniani. Cioè, dopo la guerra fatta alla Divinità del Figliuolo di Dio, attaccarono gli eretici la Divinità dello Spirito Santo. Capitanati: da Macedonio, Vescovo di Costantinopoli, negavano che lo Spirito Santo fosse la terza Persona divina. I Vescovi si raccolsero ancora a Costantinopoli, regnando allora Teodosio il Grande, in un Concilio generale l’anno 381, e col simbolo costantinopolitano confermarono la professione di fede estesa nel Concilio di Nicea, la quale, come volevano i bisogni d’allora, spiegarono ancora più diffusamente, aggiungendo contro l’errore dei pneumatomachi, che dovevasi rendere adorazione e gloria allo Spirito Santo, come al Padre ed al Figliuolo; perché col Padre e col Figliuolo è un solo Dio. Il che si espresse poi colla maggiore chiarezza nella formola di queste parole. « Credo nello Spirito Santo Signore, Vivificante, che procede dal Padre e dai Figliuolo, il quale col Padre e col Figliuolo insieme si adora, e si glorifica: il quale parlò per bocca dei Profeti. » Con questa professione di fede si ebbe finalmente il Simbolo Costantinopolitano, che è quello che si dice nella Messa. – Ma nella Chiesa Romana, perché per mille anni e più, per divina provvidenza, non fu lacerata nell’interno dall’eresia (Ab. Bern. Lib. De rebus Miss. vide Baronium ad annum 1109), non si sentì pure il bisogno di attestare la fede, e fare, che con un atto di professione i fedeli condannassero quegli errori, che la massa del popolo così felicemente ignorava. Quei buoni padri nostri d’allora erano uniti col loro Sacerdote nell’ingenua semplicità di una fede salda; e bene stava, che certi errori non si conoscessero neppure di nome. Di qui credono alcuni venuto il rito di non recitare il simbolo in tutte le messe. Ma quando vi è concorso di popolo, come nelle domeniche e nelle altre solennità, la Chiesa, coi suoi figliuoli, vuol godere della consolazione di professare, nell’atto del Sacrificio sull’altare di Gesù Cristo, quelle grandi verità che sono la nostra salvezza. Come tenerissima madre ai suoi cari raccolti intorno alla mensa, ella parla così delle passate sue amarezze, delle sue consolazioni e delle sue speranze. « Ecco, o figliuoli, par che dica loro, il tesoro di fede, che mi costa tanti combattimenti. Io ve l’ho serbato intero, l’espongo a voi a parte a parte. Sono queste verità; deh! bene mettetevele in cuore, che voi, miei figli, in Dio avete un Padre, che vi aspetta in Paradiso, rigenerati nel sangue del suo proprio Figlio coeterno: e santificati dal suo Santo Spirito, in lui dovete essere beati! Fermi in questa fede su via datemi la mano: alla patria, alla patria, a vivere nel venturo secolo dell’eternità. – Osserva s. Tommaso (3 p. q. 83, a. 4.), che il credo si canta non solo nelle principali solennità; ma eziandio, per onore di particolare privilegio, nelle feste di chi si fa menzione nel simbolo stesso, cioè di Gesù Cristo, di Maria Vergine e degli Apostoli, come dei dottori della Chiesa. Ond’è che, quando, per esempio, si celebra la memoria di un santo Mistero della vita del Redentore, la Chiesa si affretta di menargli innanzi tutta la sua famiglia e fargli professione di fede. La festa è in onore di Maria Santissima? e la Chiesa le conduce ai piedi i figli credenti, quasi a dirle: « Gran Madre di Dio, deh! Guardate qui: voi siete Madre di questi figli nel vostro sangue’, perché sono generati dal Sangue del vostro Figlio, che è sangue vostro. Si celebra una festa degli Apostoli? « Viva Dio! pare che dica la Chiesa, o Apostoli benedetti, rallegratevi pure dal paradiso; che la fede da voi predicata e seminata col vostro sangue, ancora è conservata da noi a produrre frutti di vita eterna. » Si celebra la festa di un santo Dottore? « Padre santo, pare dica la Chiesa, ecco i figli alimentati dal pane di quella celeste dottrina, che voi avete gloriosamente difesa, esposta e condita coll’eloquenza della vostra carità. » – Così, come osserva pure s. Tommaso (ibi), essendo nell’Evangelio Gesù Cristo medesimo che parla ed ammaestra; noi sorgiamo nel Credo, a professare a Lui fede solennemente. Vera e santa confessione frutto delle nostre labbra, che danno gloria a Dio nella verità, ostia di laude ben accettevole  che sale in odore di soavità dall’altare insieme col sacrificio (S. Thom. rit. recit. Credo in Miss,). – Ecco il Sacerdote, che nell’atto di fare questa insigne professione solenne, stende le mani verso il Crocifisso, come per attestare la sua fede e ricevere da Gesù questo vero pegno dell’eredità del Paradiso, cioè le verità alla Chiesa affidate da custodire e tramandare ai fedeli di tutti i tempi. Pare adunque, che nei dì di festa, a cui partecipano i beati della Chiesa in trionfo, la Chiesa di qui in battaglia tuttora e vincitrice, presenti a Dio ed alla sua corte celeste questa professione di fede storica, che tanto l’onora; e come dagli eserciti vittoriosi nelle feste trionfali si portano sollevate in aria le immagini delle prese città ed i titoli delle trionfate battaglie; così tra le sue feste la Chiesa mostra innanzi nel simbolo apostolico e nelle parole aggiunte dai Concili, quasi in altrettanti bassi-rilievi o in tavolette o coniate medaglie, le combattute guerre e le verità trionfanti in quelle espressioni sostenute e difese. da patimenti inauditi, e saldate col sangue di tanti Papi, Vescovi, Sacerdoti e fedeli. In queste ella riguarda quasi altrettanti pegni delle vittorie, che verranno appresso ai presenti e futuri combattimenti, per compiere il suo trionfo. Così a noi è dato contemplare nel petto della Chiesa, nostra buona madre le larghe cicatrici sempre umide di caldo sangue…. Ah! Troppo si è pur versato di molto sangue in tante guerre di passioni su questa povera terra: ma il sangue versato dalla Chiesa, per difenderci le verità divine, è il più puro, il più generoso, che mai si sia versato in pro dell’umanità. Ella col gridare insieme coi figli innanzi all’altare: « Credo in Dio Padre di tutti, protegge lo schiavo, il bambino, la donna, tutti gl’inermi, incutendo rispetto ai crudeli, che pretendono d’esserne padroni: per ogni diritto dei deboli ha dato del sangue, e si prepara a spargerne ancora, per difendere la famiglia col Sacramento del matrimonio, se sarà d’uopo. Oh sì! quando vediamo il suo vecchio capo, il Papa, sempre a combattere contro gli usurpatori, per difendere i più vitali interessi dell’umanità; noi dobbiamo esclamare: « Grande Iddio, proteggete l’opera vostra, e fate conoscere agli uomini il vero loro difensore! »