IL SACRO TRIDUO (2) IL VENERDI’ SANTO (2022)

IL SACRO TRIDUO (2)

il VENERDI’

( P. PIO PARSCH O.S.A.: L’ANNO LITURGICO – VOL. III – IV Ed. Soc. Ed. VITA E PENSIERO, MILANO, 1949

VENERDI’ SANTO

STAZIONE A S. CROCE IN GERUSALEMME

(doppio di I classe)

Per. il legno della Croce venne la gioia nel mondo

PARASCEVE, GIORNO DI PREPARAZIONE.

– Noi lo diciamo Venerdì santo; è il gran giorno di lutto della cristianità. È l’unico giorno nella liturgia romana, nel quale non si celebra la Messa poiché in questo giorno l’eterno Pontefice diede se stesso in olocausto cruento sull’altare della croce. Le due Antifone ci trasportano sul Calvario: « E gli posero sopra la testa una scritta col motivo della sua condanna: Gesù di Nazareth Re dei Giudei » (Antifona Ben.).

« Preso che ebbe l’aceto disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo, rese lo spirito » (Antif. Magnificat)

I. LE SACRE FUNZIONI DEL MATTINO.

– La chiesa stazionale è oggi l’antichissimo santuario di S. Croce in Gerusalemme, dove sono conservate anche le reliquie della santa croce, che oggi per noi rappresenta il Calvario. Entriamo: la Chiesa è deserta, spoglia di ogni ornamento; il tabernacolo è aperto e vuoto. Sull’altare c’è una croce velata di nero, tutto è espressione del cordoglio della nostra anima. La funzione comincia, non c’è Introito, non candele accese sull’altare, silenzio profondo; (oggi la Chiesa accentua il linguaggio dei suoi simboli). I sacerdoti si presentano in paramenti neri e si buttano in ginocchio ai gradini dell’altare. Questo loro atteggiamento è la espressione della desolazione dell’umanità prima della redenzione. La funzione è antichissima e si divide in tre parti.

La prima parte è una Messa dei catecumeni, un vero e venerando ricordo della Messa dei catecumeni quale si celebrava nell’antica liturgia. La seconda parte è l’adorazione della croce, il punto saliente del giorno; la terza è la Comunione. Il popolo la chiama: « Messa secca »; la liturgia : « Missa prœsantificatorum » la Messa delle offerte già consacrate, (presantificate) poiché l’ostia fu consacrata la vigilia.

a) La Messa dei catecumeni. La funzione del mattino ha inizio con una delle più antiche Messe dei catecumeni quale si celebrava nei primi quattro secoli. Non c’era ancora l’Introito; i sacerdoti si prostravano in silenzio sui gradini dell’altare. Le letture erano tre; tra l’una e l’altra venivano cantati, quali Responsori, salmi interi. Seguiva la predica e poi venivano le preghiere per tutti i bisogni dei Cristiani. La prima parte della liturgia del Venerdì santo ci ha conservato questa venerata pratica antica e noi dovremmo recitare con tutto il rispetto queste preghiere che sono le stesse che si recitavano nelle Catacombe.

La prima lettura del profeta Osea (Os., VI, 1-6) deve suscitare in noi un dolore profondo e un sincero pentimento. Vi sentiamo già l’annunzio della Pasqua: « Fra due giorni ci sarà data una nuova vita; al terzo risorgeremo ». Segue il Tratto tolto dal profeta Abacuc (Abac. III): « Signore, udii il tuo messaggio e ne ho timore; considerai le tue opere e ne sono atterrito. Ti manifesterai fra due animali ». Inorridendo, il profeta vede il Signore crocifisso fra due ladroni. La seconda lettura ci dà il commovente simbolo dell’agnello (Ex. XII, 1-11), oggi il simbolo è realtà, il vero Agnello pasquale, Cristo, viene immolato! Non è a caso che Cristo compie il suo sacrificio proprio nel giorno della festa pasquale dei Giudei. Alle 3, nel momento in cui nel tempio si scannavano gli agnelli, il Signore esalava l’anima sua! Il salmo che segue descrive il tradimento di Giuda e la passione di Gesù. Dopo il simbolo assistiamo al compiersi della realtà. Si canta la storia della Passione. Ed è l’Apostolo prediletto, S. Giovanni, che ce la narra (Joan. XVIII, 1-40; XIX, 1-42). L’Apostolo S. Giovanni stette con la Madre di Gesù sotto la croce, testimonio oculare dei grandi avvenimenti. Mentre gli altri evangelisti ci descrivono la parte umana della Passione, S. Giovanni ci mostra il Salvatore sofferente quale Dio e Re. La sua descrizione ha qualche cosa di assolutamente poderoso: Il Re sul trono della Croce! Il Passio è anche oggi cantato, quand’è possibile, da tre sacerdoti o da tre diaconi (seguiamolo rispettosamente).

Tre voci sono giunte al nostro orecchio: la parola del Profeta, quella della Legge, e quella del Vangelo. Ora sentiamo le preghiere antichissime per ogni stato della umanità. Queste preghiere sono proprio al loro posto oggi, in cui Cristo è « elevato » e « chiama tutti a sè ». Gesù, novello Adamo, dorme il sonno della morte e dal costato esce le seconda Eva, la Chiesa. – Preghiamo dunque in primo luogo per la Chiesa, sposa di Cristo; poi ricorderemo tutti gli uomini, anche quelli che sono fuori della Chiesa, gli eretici, e gli scismatici. Ad ogni preghiera sacerdoti e popolo si inginocchiano alla esortazione del diacono: Flectamus genua (pieghiamo le ginocchia) e sorgono all’invito del diacono: Levate! (alzatevi!). Solo alla preghiera per i perfidi Giudei si tralascia la genuflessione, poiché essi in questo giorno sacrilegamente si inginocchiano davanti a Gesù per deriderlo. – Si prega per la Chiesa, per il Papa, capo della Chiesa, per i diversi ordini di sacerdoti e di laici, per i catecumeni, per tutti i bisogni spirituali e temporali del mondo intero, per gli scismatici e gli eretici, per i Giudei e infine per i pagani. E con ciò si chiude la prima parte delle cerimonie del mattino.

b) L’adorazione della Croce. Forma il punto culminante della giornata, la venerazione della croce, strumento della nostra salvezza. Anche questa cerimonia è di uso antichissimo ed ebbe origine a Gerusalemme, dove si venerava e si baciava il vero legno della croce. Il sacerdote, deposta la pianeta, si mette dalla parte dell’Epistola e si accinge allo scoprimento della croce. Nei giorni della Passione, la croce era venerata appunto perché oggi la Chiesa potesse solennemente scoprirla e scuotere così le nostre anime. – Il diacono scopre l’immagine del Crocifisso in tre tempi; perciò si canta in tre toni sempre più alti: « Ecco il legno della croce sul quale è morto il Salvatore del mondo ». Il popolo si prostra adorando e ripete: « Venite, adoriamo ». La croce viene deposta sopra un cuscino sui gradini dell’altare. I sacerdoti si levano le scarpe e si avvicinano, dopo tre genuflessioni, a baciare le ferite del Crocifisso per onorare così il Salvatore e il segno della nostra redenzione. Anche il popolo si avvicina e bacia la croce. Siamo ora al momento più solenne del Venerdì santo. Cristiano, adora il tuo Redentore coperto di sangue e nel tuo bacio rinnovagli l’offerta di tutto te stesso! Durante l’adorazione della croce il coro eseguisce un canto impressionante. Sono i così detti Improperi, lamentazioni e rimproveri, che Gesù rivolge al suo popolo; gli ricorda, con la dolce potenza dei suoi lamenti i suoi benefici nell’Antico Testamento, e gli rinfaccia la sua inspiegabile ingratitudine. Pensiamo che anche a noi sono rivolti i lamenti e le esortazioni di Cristo: e davanti alla sua morte formiamo seri propositi di emendarci. Continuamente sentiamo ripetere: « Popolo mio, popolo mio, che t’ho io fatto? In che ho potuto contristarti? Rispondimi! ». Non c’è nulla che possa scendere così profondamente al cuore come questo lamento! – C’è ancora un altro canto assai più antico, che esalta Cristo Dio. Questo canto si eseguisce in due lingue, in greco e in latino: « Agios o TheòsSancte Deus » « Dio santo, santo e forte, santo e immortale, abbi pietà di noi ». È il riconoscimento di Dio, davanti al segno glorioso della redenzione. In chiusa, si canta anche un cantico di gioia alla croce e alla redenzione del Signore: « La tua croce adoriamo, o Signore, e la tua santa resurrezione lodiamo e glorifichiamo: ecco che dal legno della croce è venuto il gaudio sul mondo intero ».

c) Dalla Messa dei Presantificati.

La terza parte della liturgia del Venerdì santo è la Comunione, Fin dai tempi antichissimi non si celebra oggi il Sacrificio della Messa; ma i primi Cristiani non volevano rinunciare alla Comunione. Nella Messa del giovedì venivano perciò consacrati molti pani e conservati per oggi. Questa Comunione senza il Sacrificio della Messa, che spesso troviamo presso i Greci nel tempo di Quaresima, si chiamava Messa dei Presantificati. – Nei primi tempi tutti i fedeli si comunicavano; oggi si comunica solo il sacerdote celebrante. In processione solenne si trasporta il calice con la S. Ostia ieri consacrata, dall’altare dove si è conservata all’altare maggiore.

Il coro canta il Vexilla Regis: « Del Re il vessillo spiegasi… », poiché si deve intendere chiaramente che ora si porta il Corpo sacrificato del Signore che fu tolto dalla croce. Il  sacerdote pone l’Ostia sul corporale; il diacono versa il vino nel calice e il suddiacono l’acqua. Il vino però non si consacra; serve solo all’abluzione. Si incensano l’Ostia e l’altare come nelle Messe cantate; il sacerdote si lava le mani in silenzio e recita poi la preghiera dell’offerta di sé e l’Orate Fratres, al quale non si risponde. È una parte dell’Offertorio. Il Canone è omesso per intero e il sacerdote incomincia subito il Pater e aggiunge ad alta voce la preghiera per la liberazione dal male (Libera nos). Quindi il sacerdote alza con la mano destra la S. Ostia per mostrarla al popolo, la spezza in tre parti come di solito e mette la più piccola nel calice; recita l’ultima preghiera di preparazione alla S. Comunione (poiché in essa si parla soltanto della recezione del Corpo del Signore), e dopo aver ripetuto per tre volte il « Domine, non sum dignus », si comunica con la S. Ostia, prende il vino e purifica il calice. E con ciò si chiude la Messa, che in realtà è la comunione del celebrante.

Diamo uno sguardo riassuntivo all‘Ufficio divino del Venerdì santo: nel Mattutino abbiamo visto Cristo nel suo annientamento umano « come un verme, l’obbrobrio degli uomini ». Nella Messa dei Presantificati ci viene incontro come Salvatore, anzi come re sul trono della croce. E questo in tre parti: nella prima parte nel Passio di S. Giovanni e nelle invocazioni; nella seconda con lo scoprimento e l’adorazione della croce; nella terza alla Comunione, nell’Agnello immolato e glorificato.

2. DAL MATTUTINO DEL SABATO SANTO.

– E’ la terza parte della grandiosa trilogia: Cristo giace nella tomba e la Chiesa, seduta accanto al suo sepolcro, fa sentire i suoi lamenti. Dopo l’aspro combattimento, Cristo riposa in pace, e noi vediamo sul suo corpo le tracce dei suoi indicibili dolori. Mentre ieri i Responsori erano i lamenti che uscivano dalla bocca stessa di Cristo, oggi essi sono di solito l’espressione del cordoglio della Chiesa. Dalle lamentazioni, però, traspare la speranza: oggi l’orizzonte è più tranquillo e più rischiarato, solo verso la fine il Mattutino torna alle note di dolore e ciò non ci deve destar meraviglia, poiché il Mattutino deve rappresentare la Chiesa che piange, perché le fu portata via lo sposo divino. Ancora si vedono le ferite sanguinanti; esse invocano continuamente il castigo sopra l’infedele Israele; i nemici si accaniscono con Gesù e con menzogne e calunnie cercano di cancellare perfino la memoria del Maestro; Maria e i discepoli sono nel più profondo cordoglio; e la Chiesa deve constatare con immenso strazio che molti dei suoi figli scendono dal Golgota nella freddezza e nell’indifferenza. – La differenza che troviamo in questo Mattutino in confronto con gli altri sta in un progressivo svolgimento dell’azione; e questo specialmente si nota nelle antifone « Il mio corpo riposa nella speranza » (salmi). – Si potrebbe dividere il dramma sacro in sei parti: mentre la Chiesa sta presso il sepolcro, passano davanti al suo spirito sei scene:

.1.  La pace del Sepolcro (I Notturno): « In pace dormirò e mi riposerò ». « Egli riposerà sul monte santo ». « Il mio corpo riposa nella speranza » (salmi).

2. L’ingresso dell’anima di Gesù nel Limbo (II Notturno): «Alzatevi, o porte eterne, che entrerà il Re della gloria » (salmo XXIII).

3. La speranza della resurrezione: « Credo che vedrò il Signore nella terra dei viventi ». « Tu traesti fuor dall’inferno l’anima mia » (Salmi XXVI e XXIX).

4. Il sigillo apposto alla tomba (lettura del II Notturno).

5. Gesù vincitore dei suoi nemici (III Notturno, salmi LII e LXXV).

6. Riassunto delle impressioni: Profondo cordoglio e lamentazioni: « Come uomo senza soccorso, inviato tra i morti » (salmo LXXXVII). Inoltre i Responsori: I, II, III. IV, V. VI, VII; l’ultimo ci dà la scena di chiusa del Sabato Santo: Gesù nella tomba e i soldati chefanno la guardia. –  Osserviamo ancora la parte importante, assegnata inquesto Mattutino alle Antifone. Certi salmi non sonostati scelti per il loro contenuto completo, ma anche per un solo versetto (p. es.: salmi IV, XIV, XXIII).L’azione prosegue fino alla soglia della resurrezione pasquale. Ma poi d’un tratto mentre attendiamo il lietoAlleluia, torna il pianto accorato sul Morto, quasi adirci: Fermati! Vedi, il Signore è ancor nella tomba.

Il Mattutino ha un fascino speciale, che si può comprendere solo con una sentita compartecipazione alla passione del Signore. E forse il suo fascino sta proprio nei vari sentimenti che esso suscita nel cuore: di dolore, di speranza, di trepida gioia.

SETTIMANA SANTA: IL SACRO TRIDUO (2022)

IL SACRO TRIDUO

( P. PIO PARSCH O.S.A.: L’ANNO LITURGICO – VOL. III – IV Ed. Soc. Ed. VITA E PENSIERO, MILANO, 1949

I tre ultimi giorni della Settimana santa si chiamano spesso triduo sacro (triduum sacrum). Si possono meditare in tre modi:

a) Essi sono, anzitutto, centro e fine del tempo in preparazione alla Pasqua. La Chiesa è maestra nell’arte di condurre ad ascendere a poco a poco; dalla Settuagesima in poi, noi abbiamo seguito un continuo crescendo: prima tappa, il Tempo di Settuagesima; poi la Quaresima, nella quale abbiamo avuta una continua spinta a progredire; poi il Tempo di Passione. Un’altra tappa fu la Domenica delle palme con l’entrata nella Settimana santa. Ora entriamo nel Santo dei santi: È triduo sacro.

b) Questi tre giorni appartengono ormai alla Pasqua; poiché la morte e la Resurrezione di Cristo sono inseparabili e formano i misteri pasquali. Così noi facciamo il passaggio dalla Settimana santa alla settimana di Pasqua, quasi senza accentuarlo. La solennità del Sabato santo è già celebrazione della resurrezione e del Battesimo.

c) I tre giorni possono essere considerati come una unità; un vero triduo o trilogia, un dramma unico in tre parti: il dramma della redenzione di Cristo. Sotto questo punto di vista abbiamo già considerato anche il Mattutino. Altrettanto si può dire degli altri uffici. L’Ufficio delle tenebre accentua piuttosto la « Passione dolorosa » e i lamenti del Signore morente; mentre gli altri uffici hanno diverso contenuto ed esprimono un diverso atteggiamento dell’anima. Essi celebrano soprattutto la « Beata Passio » e hanno per oggetto l’aspetto vittorioso della redenzione di Cristo. Il Mattutino, del resto, sono di origine relativamente recente (VIII, IX secolo), mentre gli altri uffici risalgono ai tempi più antichi. – Il contenuto principale della trilogia dei Mattutini è: l’agonia, la morte di croce, la pace della tomba. Invece gli altri uffici trattano: dell’Eucaristia, del trionfo della croce, del Battesimo e della Resurrezione. In tal modo trova alimento tanto la pietà soggettiva, quanto la pietà oggettiva. Nella nostra anima si alternano la « Passione dolorosa » e la gloria della croce. – Nel Medio Evo questi tre giorni erano giorni di risoso; sospeso il lavoro, il popolo poteva tranquillamente prender parte alle sacre funzioni. I Cristiani dovrebbero comprendere che la celebrazione di queste giornate, le più ricche di sacre memorie, esige una conveniente preparazione e l’anima quieta. Purtroppo le circostanze attuali impongono, alla maggioranza, di non poter seguire appieno le cerimonie di questi giorni. In qualche regione almeno il Venerdì santo è giorno di riposo; e di ciò approfittano i parroci zelanti per la celebrazione della odierna liturgia. In ogni caso è raccomandabile il possibile per tenersi un po’ liberi in questi tre giorni. Chi può andare alla parrocchia, seguirà lì le sacre cerimonie. Le donne di casa facciano in modo di aver terminata la pulizia per la Pasqua almeno il mercoledì. Si veda nelle famiglie la buona disposizione a vivere degnamente questi giorni. I pastori di anime dovrebbero disporre l’orario delle sacre funzioni in modo da rendere possibile l’intervento anche agli uomini che sono occupati. È così triste tenere le sacre nella Chiesa quasi vuota, oppure solo davanti a vecchi e bambini.

GIOVEDI SANTO

(doppio di I classe)

Stazione  a  S. GIOVANNI IN LATERANO.

La passione di Gesù, il corpo di Gesù, l’amore di Gesù

Nella liturgia romana questo giorno si chiama: « La Cœna Domini, la cena del Signore », e spiega già l’avvenimento principale del giorno: l’istituzione del santissimo Sacramento durante l’ultima Cena. Mentre nel Mattutino si è considera specialmente l’agonia di Gesù nell’orto, nelle cerimonie del giorno il punto centrale è dato dall’ultima cena. Richiamiamo brevemente alla nostra memoria gli avvenimenti dell’ultima cena: al mattino Gesù manda i suoi due Apostoli prediletti Pietro e Giovanni, da Betania a Gerusalemme per preparare il primo Sacrificio della Messa. Nel tardo pomeriggio, Gesù lascia Betania, prende congedo dalla Madre, passa attraverso il monte degli ulivi; si reca nella sala del banchetto. – Dopo il tramonto del sole comincia la cena. Ecco l’ordine degli avvenimenti: 1) La cena di Pasqua (Agnello pasquale); 2) La lavanda dei piedi; 3) La denunzia del traditore; 4) L’istituzione della SS. Eucarestia; 5) Il discorso di addio e la preghiera sacerdotale. Le cerimonie si dividono in quattro parti: l) La Messa; 2) La consacrazione degli Olii santi; 3) La spogliazione degli altari; la lavanda dei piedi.

LA RICONCILIAZIONE DEI PENITENTI.

– Nel Pontificale romano c’è ancora oggi questa cerimonia commovente: che se non è più in uso, tuttavia essa può insegnarci lo spirito di penitenza, e la gioia della riconciliazione. Il Vescovo col suo clero in vesti di penitenza violacee, si ginocchia davanti all’altar maggiore e tutti recitano i salmi penitenziali e le litanie dei Santi. Intanto i penitenti attendono fuor della porta, a piedi nudi, prostrati al suolo, tenendo in mano una candela spenta. Alle prime invocazioni delle litanie dei Santi, il Vescovo manda due suddiaconi con candele accese incontro ai penitenti. I suddiaconi, sulla soglia della chiesa, alzano la mano e mostrano le loro candele accese e, davanti ai penitenti, cantano il primo messaggio di pace: l’Antifona: « Come è vero che Dio vive, io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva ». Ciò detto, spengono i ceri e tornano dal Vescovo. Subito il Vescovo manda due altri suddiaconi incontro ai pubblici penitenti; e dalla loro bocca risuona, dalla soglia della chiesa, il secondo messaggio di pace, l’Antifona: « Il Signore dice: fate penitenza, ché il Regno dei cieli è vicino »; spente le loro candele, anch’essi tornano dal Vescovo nell’interno della chiesa. Ma ora è finita l’attesa dei penitenti. – All’Agnus Dei delle litanie, il Vescovo invia uno dei diaconi più attempati, con un cero acceso. Appena egli, ritto sulla soglia della chiesa, ha cantato l’Antifona « Alzate il vostro capo, ecco è prossima la vostra salvezza », accende con la sua le candele dei penitenti e non spegne più il cero, ma torna con esso al Vescovo che l’ha inviato. Come è ben simboleggiata nelle tre Antifone l’efficacia delle litanie dei Santi per i penitenti! Dopo il canto delle litanie segue la cerimonia della riconciliazione fatta dal Vescovo stesso. Egli lascia l’altare e si reca con tutto il clero nel mezzo della navata. Lì siede sopra una sedia senza spalliera e il clero si schiera in due file alla porta di entrata. L’arcidiacono, vestito solennemente, va verso i penitenti che stanno fuori delle porta e li chiama forte: « Fate silenzio ed ascoltate attentamente ». Si rivolge al Vescovo e gli legge un lungo discorso, nel quale allude al giorno della grazia, che sta per sorgere: « È giunto, o venerato pastore, il tempo pieno di grazia, il giorno della bontà divina e del soccorso, il giorno in cui, atterrata la morte, comincia la vita eterna. Nella vigna del Signore degli eserciti i nuovi tralci devono essere potati, per purificare i vecchi tronchi ». A queste parole il Vescovo si alza e passando attraverso le file del clero, si mette davanti al portale della chiesa. Qui egli stesso tiene un breve discorso alla schiera dei penitenti, ai quali ricorda la bontà divina e il sacrificio del perdono; annunzia loro che quanto prima saranno riammessi nella Chiesa e spiega ad essi quale dovrà essere d’or innanzi la loro vita. Dalle parole egli passa al canto: un canto di paterno invito: « Venite, venite, o figli, venite, voglio insegnarvi il timor santo del Signore ». Il diacono, che è dalla parte dei penitenti risponde: « Inginocchiamoci ». E tutti i penitenti genuflettono. Il diacono che è dalla parte del Vescovo, ordina: « Alzatevi » e ancor due volte i penitenti si inginocchiano e si alzano all’invito del diacono. È ormai prossima l’entrata della processione coi penitenti. Lentamente il Vescovo varca il portale e prende posto nell’interno della chiesa, presso il portale stesso: « Entrate e sarete illuminati; e il vostro volto non dovrà arrossire ». Subito viene intonata un’Antifona (tolta dal  salmo XXXIII), che descrive la fedeltà accordata a coloro che temono il Signore. Durante questo canto i penitenti si prostrano al suolo e vi rimangono tra le lacrime finchè è terminato il salmo. Allora l’arcidiacono presenta, leggendola, al Vescovo la replica per la riconciliazione dei penitenti: « Apostolico pastore, degnati di ridar loro ciò che per le istigazioni del demonio essi avevano perduto. In forza delle preghiere e dei tuoi meriti, siano riavvicinati a Dio questi uomini, per la Grazia del perdono divino. Molto hanno sofferto per i loro traviamenti, ma ora il Signore li vuole nella terra dei viventi e possono perciò aspirare alla felicità, essendo debellato l’autore della loro morte ». Il  Vescovo fa alcune domande per sapere se i penitenti siano degni del perdono e, alla risposta affermativa ha luogo il solenne ingresso nella chiesa. Ancor una volta si leva la voce del diacono: « Alzate il vostro capo » I penitenti si alzano. Il Vescovo porge la mano ad uno di loro, il quale a sua volta prende la mano del vicino e così tutti in fila, tenendosi per mano; sotto la guida del Vescovo, entrano nella chiesa. Che singolare corteo! Che magnifica impressionante scena liturgica! – Con la mano libera il Vescovo tiene il pastorale mentre i fedeli portano ceri accesi. Precede il vescovo nei paramenti violacei, seguono i penitenti nei loro lunghi sai di penitenza. È un passaggio suggestivo dalla severità alla gioia della penitenza. Il coro canta lietamente l’Antifona: « Io vi dico che gli Angeli del cielo fanno festa per un solo peccatore che si converta! ». Il Vescovo, nel mezzo della chiesa, parla ai penitenti che lo circondano e ricorda la gioia del padre per il ritorno del figliol prodigo e prosegue cantando: « Rallegrati, figlio mio, perché tuo fratello era morto ed ora vive, era perduto ed è stato ritrovato ». Ritrovato poiché ora si compie la riconciliazione. Il Vescovo canta una preghiera, nel tono del Prefazio: ricorda al Padre celeste che il Redentore è morto per sanare tutte le ferite « perché risorgiamo per la sua benignità », e supplica il Padre di perdonare i peccati degli uomini. La scena cambia d’un tratto: è il grande momento in cui viene pronunciata la sentenza di una piena riconciliazione: tutti s’inginocchiano: il Vescovo sopra un tappeto, clero e popolo sul terreno. Si intona l’Antifona « Cor mundum »: « Crea in me, o Signore, un cuore mondo e rinnova in me lo spirito di perseveranza », si cantano i salmi L (il grande Miserere), LV (la fiducia in Dio nelle stringenti necessità), LVI (la vittoria della fiducia). Quindi il Vescovo si alza e recita sopra i penitenti sei lunghe preghiere per impetrare la remissione dei peccati e finalmente impartisce l’assoluzione solenne: « Nostro Signore Gesù Cristo per mezzo mio, suo servo, vi assolva da tutti i vostri peccati, e dopo avervi assolti, vi conduca per sua misericordia nel suo Regno celeste! ». Poi egli asperge i penitenti per la prima volta rendendo loro gli onori liturgici perduti, con l’acqua benedetta, e li incensa, dicendo: « Alzatevi voi che dormite, alzatevi dalla morte e Cristo vi illuminerà! ». In chiusa egli concede loro l’indulgenza plenaria e la benedizione pontificale. E con ciò essi sono pienamente riammessi nella comunità della grazia e della vita liturgica.

2. – DELLA MESSA.

La Messa del giovedì santo ha una specialissima importanza, perché si celebra in memoria dell’ultima cena ed è oltremodo commovente e suggestivo, nello spirito della liturgia, essere partecipanti e non semplici spettatori; dobbiamo sostituirci ai discepoli che nel cenacolo erano raccolti intorno al Maestro che lavava loro i piedi e porgeva ad essi il suo Corpo e il suo Sangue. – La Messa ha una doppia intonazione: lieta e triste. Lieta: l’altare è adorno; la Croce sopra l’altar maggiore velata di bianco; i sacerdoti vengono alla Messa in bianche vesti; sì canta gioiosamente il Gloria, che manca da molto tempo. E, per l’ultima volta, tutte le campane suonano a festa, ma le campane tacciono presto in segno di dolore. Sulla festosità di questo giorno consacrato all’istituzione della SS. Eucarestia, si tende un velo di lutto, oggi può essere celebrata in ogni chiesa una sola Messa. Il sacerdote, che nel rango ecclesiastico è superiore agli altri, prende il posto di Cristo; gli altri si mettono tra i discepoli e ricevono la santa Comunione dalle mani di lui. La Messa dovrebbe essere una vera festa di famiglia, che riunisce il parroco, i soi coadiutori e tutti i fedeli — Cristo e i suoi discepoli — attorno alla tavola del Signore.

La stazione oggi è a S. Giovanni in Laterano. la vera Chiesa parrocchiale della cristianità. Così, secondo la liturgia è l’intera famiglia della Chiesa romana che si riunisce per la celebrazione dell’ultima cena. All’Introito sentiamo la fiera affermazione di Paolo: « Noi dobbiamo gloriarci della croce di Cristo… ». Tutta la felicità della redenzione si rivela al nostro sguardo. Quasi dimentichiamo la parte dolorosa della Passione per vedere solo la Resurrezione, il pensiero della quale si prolunga nella Colletta e nel Graduale (« perciò Dio l’ha esaltato ». La Messa appartiene dunque già alla solennità pasquale. – La Colletta porta due pensieri che si riferiscono alle due persone di Giuda e del buon ladrone. Il buon ladrone rappresenta i penitenti che oggi vengono riconciliati; perciò l’Offertorio parla in loro nome: « Io non  morrò, ma vivrò e racconterò le opere del Signore ». Di Giuda e della sua condanna la liturgia parla in alcuni passi: nella Epistola (Cor. XI, 20-32) (almeno nell’allusione alle Comunione indegna) e nel Vangelo « quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota il pensiero di tradirlo… ». Osserviamo il contrasto nel Canone: « Nel giorno nel quale il nostro Signore Gesù Cristo fu dato (=traditus) per noi… » nel giorno  tesso « nel quale il nostro Signore Gesù Cristo commise (= « tradidit ») ai suoi discepoli la celebrazione dei suoi Misteri… ». Il Vangelo (Joan. XIII, 1-15) racconta l’atto di umiltà di Gesù che lavò i piedi agli Apostoli. È un’eloquente lezione di amor del prossimo che Egli ci dà. Le due letture sono il testamento del Maestro che si congeda: Egli ci lascia il suo corpo e il suo amore. Oggi non si dà il bacio di pace; i liturgisti del Medio Evo ne vedono la ragione nel bacio di Giuda; il vero motivo però dovrebbe essere un altro, poiché il bacio non c’è nemmeno nel Sabato santo; dunque è omesso durante tutto il rito. – Con la Comunione si collega il ricordo di ambedue le grandi prove di amore date in questo giorno dal Signore: l’Eucarestia e la lavanda dei piedi; questa ultima forma l’oggetto dell’Antifona. C’è in questo un pensiero profondo: noi non possiamo imitare la oblazione eucaristica; ma l’amore vicendevole e servizievole che si manifesta nella lavanda dei piedi, sì. Questo amore è la espressione e il compimento di quella unità con Cristo e coi fratelli che l’Eucaristia stabilisce in noi. Dopo la Messa le particelle consacrate vengono riposte in una cappella a parte; e questo vuol dirci: lo sposo è portato via; la Chiesa è vuota! Il pensiero della Chiesa primitiva era diverso, la processione con le particole consacrate che rimanevano dopo ogni Messa, veniva ripetuta ogni giorno, poiché la Eucaristia non era conservata, come oggi, nelle chiese. La chiesa non resta vuota, Cristo è presente, raffigurato nell’altare e la Casa di Dio è l’abitazione augusta della SS. Trinità!

3. CONSACRAZIONE DEGLI OLII. SANTI.

– È raro poter assistere alla cerimonia della consacrazione degli Olii santi, poiché si fa solo nelle chiese cattedrali dove officina il Vescovo. Per Pasqua la materia di tutti i sacramenti deve essere rinnovata; e poiché alla vigilia occorrono già gli Olii santi per la benedizione del fonte battesimale, così il Vescovo li consacra oggi.

Sappiamo che ci sono tre specie di Olii nella Chiesa. L’olio per l’estrema Unzione, l’Olio per i catecumeni e il sacro Crisma.

L’Olio dei catecumeni si adopera per la benedizione del fonte battesimale, per l’amministrazione del Battesimo, per la consacrazione dei sacerdoti e per quella degli altari. – Il sacro Crisma è il più santo tra tutti gli Olii, perché è, in certo senso, tramite dello Spirito Santo; si adopera nel Battesimo, nella Cresima, nella consacrazione episcopale, in quella delle chiese, dei calici, delle patene e delle campane. La consacrazione degli Olii santi si compie in modo solennissimo. Secondo l’uso antico vi partecipano dodici sacerdoti, sette diaconi, e sette suddiaconi, cioè i rappresentanti di tutti gli Ordini maggiori. In primo luogo si benedice l’Olio per l’estrema Unzione e precisamente alla fine del canone della Messa, prima del Pater Noster, nella stesso punto in cui, nel tempo antico, si benedicevano le offerte non consacrate; gli altri due Olii vengono benedetti dopo la Comunione. L’efficacia di questi Oli è espressa nelle preghiere della benedizione. L’Olio dei catecumeni serve di « purificazione dell’anima e del corpo » e deve sgominare l’influenza delle dodici potenze infernali. – Il sacro Crisma porta la grazia e la santificazione. Dove prende il suo nome da Cristo, che vuole dire Unto; è l’Olio dei sacerdoti, dei re, dei profeti, dei martiri; per mezzo del sacro Crisma i fedeli « vengono investiti della dignità regale, sacerdotale e profetica e rivestiti col manto della Grazia incorruttibile ».

4. LA SPOGLIAZIONE DEGLI ALTARI.

Dopo la Messa si spogliano gli altari; cioè si tolgono le tovaglie e perfino le reliquie. Quest’uso nei tempi antichi era quotidiano, poiché allora si considerava l’altare come la tavola, che si copre solo per il banchetto, come si fa per la mensa nelle case private. Questo uso antico si è conservato nella Settimana santa, insieme ad altri dell’antica Chiesa, in memoria della Passione del Signore. L’altare è figura di Cristo. La spogliazione dell’altare allude alla spogliazione di Cristo prima della sua crocifissione, perciò durante la cerimonia si canta il salmo XXI, col ritornello: « Si sono divise le mie vesti e tirarono a sorte la mia tunica ». Il salmo XXI è il salmo messianico della Passione, nel quale Davide contempla l’abbandono di Gesù sulla croce. La Chiesa, spoglia di ogni ornamento, dà oggi l’impressione della desolazione e della solitudine. Il S. Sacrificio si interrompe fino alla resurrezione del Signore.

5. LA LAVANDA DEI PIEDI.

– Nelle chiese cattedrali e in quelle dei monasteri si conserva un uso venerando che negli antichi tempi non era limitato al solo Giovedì santo: la lavanda dei piedi; cerimonia chiamata anche « mandatum » cioè comando del Signore. Mentre il Vescovo o l’Abate lava i piedi a dodici vecchi (o a dodici fanciulli), il coro canta un bellissimo inno all’amor del prossimo: Dove c’è l’amore e la carità fraterna, ivi è Dio; / rallegriamoci e giubiliamo in lui. / Temiamo e amiamo Dio, che è vita / e amiamoci scambievolmente con cuore puro ». C’è in questo canto un senso di freschezza, di pace, di amabilità, di serenità ingenua. È  veramente il canto dei figli di Dio, della famiglia di Dio unita nella carità. La lavanda dei piedi non deve essere considerata come uno spettacolo qualunque, ma deve darci insegnamenti per la nostra vita. Abbiamo visto che una parrocchia potrebbe, in questo giorno offrire il pranzo a dodici dei suoi poveri più anziani e che gli uomini più autorevoli potrebbero servirli, oppure i singoli fedeli potrebbero invitare un povero alla loro mensa e mentre mangi leggergli il Vangelo della lavanda dei piedi e parlargli dell’amore del prossimo. – L’Ufficio divino del Giovedì santo può essere riassunto in tre parole: il corpo di Gesù, la passione di Gesù, l’amore di Gesù.

6. DAL MATTUTINO DEL VENERDI’ SANTO.

– La seconda parte della trilogia e il punto culminante di essa, è il Mattutino del venerdì santo. Potremmo chiamarlo: la morte di Cristo sulla croce. Quantunque l’azione non si svolga in ordine cronologico, possiamo stabilire come scena centrale Gesù pendente dalla croce e considerare le altre scene di questo giorno come figure e ricordi che passano davanti allo sguardo del Salvatore crocifisso. I sentimenti espressi nel Mattutino scelti tra i salmi più cupi e desolati del Salterio sono profondamente tristi; le Lamentazioni sembrano voler accrescere il dolore; altrettanto tristi, quanto belli, sono i Responsori.

Rappresentiamoci il Signore in croce e ascoltiamo le espressioni del suo affetto e del suo dolore: ora è l’abbandono senza conforto; ora il lamento desolato; pensiamo alle scene dei giorni trascorsi o della sera precedente che Egli rievoca.

Rileviamo i passi più belli del Mattutino:

Al primo Notturno comincia il combattimento dei Giudei e dei Gentili contro Dio e il suo Cristo (salmo Il). Poi vediamo la divina vittima sulla croce: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». Cantiamo il salmo messianico XXI: « Si sono divise le mie vesti tra loro e tirarono a sorte la mia tunica ». Questo canto è uno dei passi più importanti del Mattutino. Segue un salmo di calma fiducia, il quale esprime i sentimenti dell’anima del Signore in mezzo all’angoscia mortale: « Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di che temerò? ». – Nelle letture vediamo la sposa disonorata: « A chi ti paragonerò, a qual cosa ti somiglierò, o figlia di Gerusalemme?… poiché grande come il mare è il tuo dolore ».  La liturgia spiega di nuovo una scena del Golgota: « il velo del Tempio si squarciò, e tutta la terra tremò; gridò il ladrone dalla croce: ricordati di me, o Signore, quando sarai giunto nel tuo regno. Le rupi si spezzarono e si aprirono i sepolcri, molti corpi di santi, che erano addormentati, risorsero ». Nella terza lettura ecco l’Uomo dei dolori, Cristo: « Io sono l’Uomo che conosce la miseria sotto la verga dell’ira. Mi ha trascinato e condotto nelle tenebre e non nella luce ».

Nel secondo Notturno recitiamo il salmo della flagellazione XXXVII: « Non c’è parte sana nella mia carne a cagione dell’ira tua; non hanno pace le mie ossa a causa dei mici peccati ». Nulla è così commovente come la preghiera di Crito sulla croce (salmo XXXIX). –

Nelle lezioni ascoltiamo nuovamente S. Agostino che applica il salmo LXIII alla Passione di Cristo. Il quinto Responsorio, a metà del Mattutino, descrive la morte delSignore. – Nel terzo Notturno il salmo LXXXVII, profondamente triste, ci mette davanti al punto culminante del dramma: « La mia anima è piena di dolori e presso al sepolcro è la mia vita ». – Le lezioni portano un pensiero affatto nuovo: Cristo è il nostro eterno Pontefice che sull’altare della croce compì il suo Sacrificio unico, il sacrificio perfetto perché ad un tempo Egli fu sacerdote e vittima. – L’ultimo Responsorio mostra il quadro finale: Cristo all’estremo dei suoi dolori:

« Si sono offuscati i miei occhi nel pianto, poiché s’è allontanato da me colui che mi consolava. Mirate, o popoli tutti, se vi è dolore simile al mio dolore ».

SETTIMANA SANTA: MERCOLEDI’ (2022)

(PIO PARSCH O.S.A.

L’ANNO LITURGICO –

VOL. III – IV Ed. Soc. Ed. VITA E PENSIERO, MILANO, 1949)

L’UFFICIO DELLE TENEBRE. –

Chi ama la liturgia impiegherà ogni momento libero per prepararsi bene alle funzioni della Settimana santa. Nelle parrocchie la preparazione è certamente incominciata da molto tempo. I parroci dovettero già, durante la Quaresima, spiegare ai loro parrocchiani il contenuto spirituale della Settimana santa. Ma in questi due giorni è assolutamente necessario e urgente portare a termine la preparazione. Oggi consideriamo in modo particolare il Mattutino dei tre ultimi giorni, l’Ufficio delle tenebre. Che cosa è il Mattutino? È una parte della preghiera liturgica del Breviario e precisamente la preghiera notturna della Chiesa, che considera nel Mattutino la festa del giorno seguente. La Chiesa raccoglie in essa i pensieri e i sentimenti di tutta la giornata liturgica. E  poiché i tre ultimi giorni della settimana racchiudono per noi Cristiani gli avvenimenti più importanti dell’anno, è logico che al Mattutino relativo si debba avere una speciale ricchezza di contenuto. In realtà vi è quanto di più bello e commovente può avere la Chiesa nel tesoro delle sue preghiere. I tre Mattutini rappresentano le tre parti del dramma della Passione. La prima parte è il Mattutino del Giovedì santo; imponente introduzione al dramma grandioso, il pensiero centrale è la Passione intima del Signore, la Passione nelle sue cause. Le scene dominanti sono: l’agonia nell’orto degli ulivi; il tradimento di Giuda e l’istituzione della SS. Eucarestia. – La seconda parte è il Mattutino del Venerdì santo, il quale ci fa considerare il momento culminante del dramma della croce. L’azione si svolge sul Golgota. Questo Mattutino è anche il più impressionante e il più triste di tutti. – La terza parte ci infonde già un senso di sollievo. Dal Mattutino del Sabato santo traspira la pace dopo la tempesta; ci sentiamo trasportati a poco a poco verso le speranze della resurrezione, malgrado abbia ancora espressioni di dolore allorché considera le ferite sanguinose del grande Sacrificato! Fermiamoci, solo un momento, a considerare le Lamentazioni e i Responsori.

Le lamentazioni sono canti nei quali il profeta Geremia ha trasfuso il più amaro cordoglio per la distruzione di Gerusalemme e la prigionia del popolo di Israele. Nel Mattutino sentiamo le voci di dolore della umanità penitente, la sposa infedele, per la quale lo sposo soffre e muore. Nelle Lamentazioni, la Chiesa vuole metterci davanti la nostra anima nella quale, come in uno specchio, possiamo riconoscere la miseria spaventosa del peccato. Perciò ogni canto si chiude col grido impressionante: « Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al Signore Dio tuo! ». Le Lamentazioni si cantano su di una melodia piena di mestizia, la cui eco si perde nella lontananza dei tempi, forse nell’antico evo giudaico. Si ripercuotono nella nostra stessa anima le note lente e severe ripetute sempre alla stessa maniera senza mai cessare, quelle note che hanno toccato e commosso migliaia di cuori ed hanno suscitato l’estatica ammirazione dei più famosi artisti: « perché siede così abbandonata la città che fu un tempo sì popolosa? / La regina dei popoli è diventata una vedova, / la regina delle nazioni è diventata suddita… / o voi tutti, che passate per la via, guardate / se c’è un dolore simile al mio dolore… / A chi posso paragonarti, a chi dirti simile, figlia di Gerusalemme? / Chi posso mettere al tuo fianco per confortarti, vergine figlia di Sion?/ Poiché il tuo dolore è grande come il mare… ».

Anche i Responsori vengono cantati solennemente dopo le Lamentazioni. Che cosa sono i Responsori? Dopo ogni lezione la Chiesa ha cura di non passare immediatamente alla lezione successiva, ma fra l’una e l’altra intercala un canto che è al tempo stesso un’eco della lezione. Anche nella Messa, dopo l’Epistola segue un Responsorio: il Graduale. I Responsori nel Mattutino della Settima santa sono tra i passi più belli. Vi sentiamo accenti di dolore che escono, ora dalla bocca stessa del Salvatore sofferente, ora da quella della Chiesa. Sono canti sempre alternati, ora semplici, ora lirici, ora altamente drammatici. Gli esempi seguenti ci danno un’idea di questi canti. Al Giovedì santo la Chiesa dice di Giuda: « Giuda, anima miserabile, venale, / tradì il Signore con un bacio. / Il Signore, come Agnello innocente, / non ricusò il bacio di Giuda. / Per pochi denari lo consegnò ai giudei. / Meglio sarebbe stato per lui che non fosse nato ». – Al Venerdì santo la Chiesa ricorda la morte di Cristo: / « Si fece notte, / allorché i giudei crocifissero Gesù; / e verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: / Mio Dio, perché mi hai abbandonato? / E, chinato il capo, rese lo spirito. / Gesù gridò con gran voce: / Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito ».

Il Mattutino del Sabato santo è il lamento della Chiesa alla tomba del suo sposo: « Gerusalemme sorgi, deponi gli abiti da festa, / copriti con la cenere e col cilicio, / perché in te è stato ucciso il Salvatore d’Israele».

Quando comincia il Mattutino si mette davanti all’altare un candelabro con quindici candele, quattordici gialle e una bianca. Queste candele si spengono una per una, dopo il canto di ciascun salmo (nove nel Mattutino e cinque nelle Lodi). La candela bianca resta accesa, ma alla fine essa viene portata dietro l’altare e poi di nuovo ripresa dopo che il coro ha fatto del rumore. – Originariamente questa cerimonia aveva uno scopo pratico. Nel Medio Evo il Mattutino si recitava nella notte perciò si chiama anche Tenebræ. Allorchè si spegneva una candela, i fedeli capivano che era finito un salmo. Più tardi a quest’uso fu dato un significato simbolico: le candele gialle indicano i discepoli, i quali uno dopo l’altro se ne andarono; la candela bianca, Gesù, la cui luce fu bensì oscurata per breve tempo dalla morte, ma poi riapparve luminosa nella resurrezione. Il rumore deve significare il terremoto al momento della sua Resurrezione. È specialmente commovente la chiusa dell’Ufficio delle tenebre. Allorché tutte le candele anche quelle sull’altare sono spente e la Chiesa si trova avvolta nella completa oscurità, tutti genuflettono. Allora si canta il versetto: « Cristo si è fatto per noi obbediente fino alla morte » (al Venerdì santo si aggiunge : « fino alla morte di Croce »: al Sabato si fa una nuova aggiunta: Perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è superiore a tutti gli altri nomi »). Poi si recita o si canta il salmo di penitenza, il Miserere, davanti all’immagine del Crocifisso. Tutti si alzano ed escono uno dopo l’altro, in profondo silenzio. ….

ATTIVA PARTECIPAZIONE ALLA SETTIMANA SANTA. –

Possiamo condurre i fedeli ad un’attiva partecipazione alla liturgia della Settimana santa? È già certo un buon risultato arrivare a far sì che tutti prendano parte passivamente, cioè senza spiegare una certa attività, ma col cuore e col sentimento, al dramma della Settimana santa. Anche per questo occorre una preparazione che deve cominciare almeno alcune settimane prima. Pensiamo quanti sono i salmi, le letture, le profezie. Ci sono molti cultori della liturgia che vanno a trascorrere questa settimana in qualche abbazia. Nelle abbazie la liturgia della Settimana santa si spiega in tutto il suo splendore; ed è una profonda gioia dello spirito prendervi parte. Ma il nostro desiderio vorrebbe spingersi più oltre: alla partecipazione attiva dei fedeli. Nella Domenica delle palme abbiamo già dato alcune indicazioni. Anche il laico riceve il ramo d’ulivo, anch’egli accompagna il Re dei martiri nella sua città; anch’egli lo adora dietro l’arco trionfale del tempio; anch’egli prende parte al canto drammatico della Passione: nella Domenica delle palme egli si sente il discepolo che accompagna «il Signore nella sua Passione e nella sua morte. L’Ufficio delle tenebre dovrebbe essere recitato e cantato dal popolo nelle parrocchie. -Il Giovedì santo è la vera festa eucaristica della famiglia; il parroco, i sacerdoti, tutti i fedeli intorno alla sacra mensa. Questo nella Chiesa primitiva avveniva ogni domenica. Purtroppo, attualmente, in questo giorno la maggior parte dei Cristiani riceve la S. Comunione fuori della Messa! – La cerimonia della lavanda dei piedi è ora cerimonia pontificale. Nelle parrocchie, dove essa potrebbe incontrare delle difficoltà, dovrebbe almeno essere osservato lo spirito del comandamento. (La lavanda dei piedi si chiama mandatum, comando). Sarebbe assai significativo, se il consiglio parrocchiale oppure qualche fedele potesse in quel giorno invitare a pranzo dodici vecchi, serviti a tavola dai sacerdoti o dai parrocchiani più distinti. – Nel Venerdì santo c’è la così detta predica del Venerdì santo, che dovrebbe essere inclusa nella liturgia, quale commento alla Passione dopo il Vangelo. Così, dopo le letture e i canti drammatici della Passione, i fedeli ascolterebbero la parola del sacerdote per preparare le anime all’adorazione della croce. Anche in questa edificante cerimonia il popolo non deve essere semplice spettatore. Dopo l’adorazione del sacerdote, la liturgia prevede che i fedeli vengano a baciare la croce. Le funzioni del Sabato santo appartengono invece alla notte di Pasqua.

MERCOLEDI SANTO

Stazione a S. MARIA MAGGIORE

Giuda, il traditore

Come al tempo di S. Leone I (m. 461), la Chiesa legge oggi il Passio secondo S. Luca, Le Antifone del giorno parlano di S. Pietro; la tradizione della Chiesa ricorda in questo giorno, come del resto in ogni mercoledì, il doloroso tradimento di Giuda.

Al mattino diciamo « Simone dormi? Non hai potuto vegliare un’ora sola con me? » (Lodi). Alla sera: «La serva disse a Pietro: Tu pure sei veramente uno di quelli; il tuo linguaggio stesso ti dà a conoscere (Vespro).

I. Dalla Messa (In nomine). – La stazione è oggi nella basilica di S. Maria Maggiore, una delle più grandi chiese di Roma. Questo fatto e la circostanza che la Messa ha tre letture, denota che essa è molto antica. La scelta delle letture è dovuta alla chiesa stazionale? S. Luca, l’evangelista del Passio odierno, fu quello che meglio dipinse la Madre di Dio. È certo che nessun evangelista ci diede un profilo così bello della Vergine santissima come seppe fare S. Luca. Pensiamo alla storia dell’infanzia di Gesù! Anche il profeta della nascita verginale di Gesù, Isaia, ha due volte la parola nella Messa. Un trittico dunque: nel mezzo la Madonna e ai lati Isaia e S. Luca. Ecco il quadro della Messa. L’inizio è solenne: il triplice regno di Dio si prostra, adorando, davanti al Signore obbediente fino alla morte di croce. Qui è la Chiesa, tutta la Chiesa trionfante, militante, purgante! Ma essa vede già il Redentore glorioso alla destra del Padre. Anche oggi un salmo (il salmo CI, accompagna la Messa; e questo pure è indice della sua antichità; lo conosciamo, perché appartiene ai salmi penitenziali e lo recitiamo per intero. Il canto viene messo sulle labbra del Salvatore sofferente, al quale si unisce il popolo. Osserviamo, nell’Introito, il grande contrasto tra l’antifona e il salmo: in quella vediamo il Signore che siede glorioso alla destra del Padre; nel salmo egli ci appare nel più profondo annientamento, come colui che ha obbedito fino alla morte di Croce. Alla Comunione rileviamo la relazione tra il salmo e la bevanda eucaristica: « Mescolai con lacrime la mia bevanda; perché tu dall’alto, mi scagliasti lungi da te… ». Quali dolori infatti è costata a Gesù l’eucaristica bevanda! Le due letture ci danno due profezie del profeta Isaia sulla Passione (Isai. LXII, 11; LXIII, 1-7 et LIII. 1-12). La prima parla del divino vendemmiatore: « Chi è costui che viene da Edom e da Bosra con le vesti tinte di rosso? Egli viene nel suo abbigliamento e avanza bello di potenza e maestà. Io sono (il Messia), che prometto la giustizia; io, che castigo, solo per salvare. Perché dunque è rosso il tuo vestito e le tue vesti sono come quelle di colui che pigia l’uva nello strettoio? Da me solo ho premuto il torchio e nessuna delle genti è con me. Io ho premuto i popoli nella mia collera  e li ho oppressi nel mio furore. Il loro sangue sprizzò sulle mie vesti e ne fu macchiato il mio mantello ». Cristo ha spremuto nel torchio della sua passione il vino eucaristico per noi. – Specialmente impressionante è la seconda lettura che descrive: « l’Uomo dei dolori » sul quale Dio ha caricato i peccati del mondo. « Disprezzato egli era, l’ultimo degli uomini, l’Uomo dei dolori che conosce il patire. Quasi nascosto era il suo volto e vilipeso onde noi non ne facemmo alcun conto. Veramente egli prese sopra di sé i nostri dolori e noi lo riportammo come un lebbroso e come percosso e umiliato da Dio. Ma egli è stato piagato per le nostre iniquità, è stato stritolato per le nostre scelleratezze. Per la nostra salute trovò i flagelli, per le sue lividure noi fummo sanati. Noi tutti, come pecore erranti, abbiamo deviato dalle sue vie. Il  Signore pose su di lui le iniquità di noi tutti. Egli fu sacrificato, perché ha voluto e non ha aperto bocca, come pecorella sarà condotta ad essere ucciso, come un agnello sta muto davanti a chi lo tosa ». Il Passio è il brano del Vangelo (Luc. XXII e XXIII) dell’amore misericordioso, nel quale troviamo alcune scene profondamente commoventi, per esempio, la parola di perdono rivolta da Cristo in croce al buon ladrone. Alla Comunione sentiamo per la prima volta la bella preghiera che ci accompagnerà durante il sacro triduo: « Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale il nostro Signore Gesù Cristo non esitò a darsi nelle mani degli empi e a sopportare il tormento della Croce ».

2. Dal Divino Ufficio. –

L’Ufficio è pure pieno delle lamentazioni di Cristo. Osserviamo come oggi sono mesti i salmi, specialmente quelli delle Ore minori intonati proprio ai sentimenti del giorno. Così nel salmo LIV (a Terza) sul tradimento di Giuda: « Se m’avesse insultato un mio nemico l’avrei facilmente sopportato; se un avversario mi avesse oltraggiato, mi sarei nascosto davanti a lui. Ma tu, mio familiare, mio amico e mio confidente, che sedevi alla mensa con me e gustavi il dolce cibo, d’accordo andavamo alla casa di Dio… ». Nelle lezioni ha di nuovo la parola il profeta Geremia.

« Tutti quelli che ti abbandonano saranno confusi; quelli che si allontanano da te saranno scritti sulla sabbia, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva. Risanami, Signore, e sarò guarito; perché tu sei la gloria mia!… Siano confusi quelli che mi perseguitano; essi e non io, siano presi da spavento; manda su loro il giorno dell’afflizione e percuotili con doppio flagello ».

« Signore, ascoltami; e ascolta la voce dei miei avversari. Così dunque si rende male per bene, poiché essi m’hanno scavata la fossa? Ricordati che mi sono presentato al tuo cospetto per intercedere per loro per stornare da essi l’ira tua! ».

La liturgia mette in bocca a Cristo queste parole. Anche i Responsori sono lamenti del Signore sofferente:

« Uomini empi mi circondarono e mi batterono con flagelli senza motivo. / Ma tu, Signore mia fortezza, proteggimi: / Il bisogno è estremo e non c’è alcuno che mi dia aiuto ».

3. Dal Mattutino del Giovedì santo. – Verso sera cantiamo il primo Ufficio delle tenebre. Il Mattutino del Giovedì santo è il primo della trilogia, il prologo del grande dramma. Il pensiero fondamentale è questo: La intera passione di Cristo nelle sue cause e nei suoi effetti: a) Presso i Giudei la morte di Cristo è ormai decretata; b) Giuda tradisce il suo Maestro: e di lui appunto oggi si parla diffusamente: c) l’agonia nell’orto e l’intera passione di Gesù nella sua anima e nella sua volontà; d) L’istituzione della SS. Eucarestia, è viva rappresentazione della Passione di Cristo. L’azione si svolge la sera del primo Giovedì santo: essa non prosegue secondo l’ordine cronologico come in un dramma, no: i pensieri partono di qui e sempre vi ritornano; alludono a scene della passione anche dei giorni seguenti: è come un mosaico di preghiera la cui unità è costituita dalla Passione di Cristo in generale, con speciale riferimento agli avvenimenti odierni.

I SALMI – Di solito nel Mattutino delle feste come nel Mattutino dei due giorni seguenti, i salmi sono propri, cioè dal tesoro dei 150 salmi si cercano quelli che nei pensieri e nei sentimenti s’adattano meglio alla ricorrenza. Ma oggi non è così: si recitano i salmi dal LXVIII fino al LXXVI. In una serie ininterrotta, quantunque non tutti si riferiscano alla passione (l’antico Mattutino feriale del mercoledì finiva col salmo LXVII, e perciò quello del giovedì cominciava col salmo LXVIII). – Forse si sono scelti appositamente questi salmi che non si riferiscono al pensiero della passione perché servano d’introduzione alla trilogia. – Abbiamo già parlato delle Lamentazioni. Sotto l’allegoria di Gerusalemme abbiamo sentito la sposa infedele, il lamento dell’umanità e dell’anima peccatrice che gemono sopra la propria indegnità e sul castigo meritato. Nelle preghiere dell’ufficio ascoltiamo il Signore che soffre; nelle Letture, l’umanità si batte il petto esclamando: « È per me che egli ha patito tanto! ».

I Responsori. – Nulla eguaglia la bellezza e la poesia dei Responsori dell’Ufficio delle tenebre, pur così semplici. Essi conferiscono drammaticità al Mattutino e ne mantengono l’unità d’azione. Già nel primo Mattutino si da un certo ordine e una gradazione. Nel primo Notturno si parla dell’agonia di Cristo nell’orto degli ulivi; nel secondo di Giuda; nel terzo dei discepoli addormentati e del piano di morte tramato dai Giudei. L’ultimo Responsorio di tutti e tre i Mattutini ci dà il quadro della situazione nel momento in cui l’azione arriva al parossismo. – Durante i tre giorni Geremia ha la parola nel primo Notturno; S. Agostino nel secondo; S. Paolo nel terzo. C’è anche in questo una ragione? Geremia rappresenta il Salvatore sofferente; Agostino e Paolo hanno sperimentato in loro stessi, al massimo grado, l’effetto della Passione di Cristo nella grazia della conversione. – Se consideriamo i Mattutini nel loro complesso, riscontriamo una bella unità d’azione.

4. DAI VESPERI. – L’agonia nell’orto occupa il primo posto; ce lo dicono i Salmi LXVIII, LXIX, LXX, LXXVI.

2. L’ultima Cena è ricordata nell’ottava lezione e anche nel salmo LXXI.

3. Singole scene della sera.

a) Giuda: nei Responsorî 4, 5, 6, 8.

b) Il sonno degli Apostoli: Responsorio 8.

c) I nemici: Responsorio 9.

4. Finalmente la Passione di Gesù in generale nei  Salmi LXXII, LXXIII, LXXIV, LXXV. Sesta lezione.

Passi classici: in primo luogo tutti i Responsori, belli il salmo LXVIII e l’ottava lezione. Le Lamentazioni sono sublimi.

LA VITA INTERIORE (17)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (17)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

DELLA VERA DEVOZIONE

ERRORI COMUNI.

Non a caso abbiamo scritto della vera devozione, anziché soltanto: della devozione. Gi errori communi e diffusi su questo argomento sono tali e tanti ché proprio necessario dirne una parola precisa. Vi sono, per esempio, alcune anime che credono di non pregare bene perché non hanno fervore. E, per loro, il fervore, è il sentimento, é la soddisfazione, è il sensibile accordo con Dio, l’intesa e l’approvazione, a loro modo. – Ve ne sono altre che ritengono di peccare, anziché pregare, perché, durante la loro preghiera, soffrono di distrazioni, o, peggio, di tentazioni. E tanto le prime, che le seconde, dopo un po’ di tempo, si stancano, ritengono sia inutile il loro sforzo di pregare e quindi… lasciano tutto, quasi a cercar sollievo in più spirabil aere. Così facendo, inconsciamente, ma non senza loro grave danno, svolgono il programma minimo, e poi massimo del nemico delle anime, il quale, assai astutamente, prima di portarle con le sue macchinazioni a commettere colpe gravi, le indebolisce spiritualmente, con l’allontanamento da Dio, dall’osservanza delle sue leggi, dalle pratiche di pietà, dall’orazione.

LA DEVOZIONE ESSENZIALE.

« La (vera) divozione, dice S. Tommaso, è una volontà pronta a fare tutte quelle cose che spettano al servizio di Dio ». E cioè, a meglio intendere:

1) La divozione vera e principale (o sostanziale) è un atto, generoso e costante, non del sentimento o della sensibilità, con affetti o gioie tenere, con intime soddisfazioni, ma è un atto della volontà, che prescinde e perciò ne fa à meno, di per sé, dalle gioie, dagli affetti sensibili, dalle lagrime, dai sospiri, dalla facilità maggiore o minore nel raccogliersi e sentirsi separato dalle esteriorità, dal gusto che si può provare nelle pratiche di pietà (devozione secondaria o accidentale).

2) La divozione non è soltanto un atto della volontà, sia pure generoso e costante, ma un atto forte « che spinge l’anima a darsi totalmente non ad alcune, ma a tutte quelle cose che riguardano il servizio di Dio, sia che l’anima senta o non senta, gusti o non gusti sensibilmente quelle cose che spettano al servizio di Sua Divina Maestà ».

Data questa facile distinzione non ci dev’essere più nessuna ragione di turbamento per le anime pie che si agitano, si sconvolgono, si turbano inutilmente e disturbano mezzo mondo perché, secondo il loro giudizio, non hanno la divozione, non sentono. fervore, si accorgono di essere distratte, o sono tentate. Queste anime tutte potranno soltanto riconoscere che in loro stesse manca il fervore sensibile, ma non dovranno per questo affliggersi e, tanto meno, abbandonare la via dell’orazione. La vera santità è data dallo sforzo, dalla ricerca di riuscire a compiere bene i nostri doveri, tutti i nostri doveri, per amore di Dio, e solo per amore di Dio. Lo sforzo è la ricerca di riuscire, non sono già la riuscita. Il Signore è ben diverso dagli uomini: questi pagano, ricompensano solo il lavoro bene eseguito e collaudato. Dio ricompensa lo sforzo e la ricerca per riuscire, quanto la riuscita stessa. La divozione, ripetiamo, è un atto della volontà, ma non il raggiungimento obbiettivo dell’effetto.

LA MANCANZA DEL FERVORE.

Quanto al fervore sensibile, o alla sua mancanza (quando questa non sia palesemente causata da trascuratezza o dalla tiepidezza) conviene ricordare che la dolce bontà persuasiva di Gesù è catechetica, cioè istruttiva. Fa, press’a poco, Gesù, con noi, come le mamme con loro bambini — (sia detto con tutta la riverenza). — Gesù attrae à Sé l’anima con la dolcezza e col fervore sensibile. E l’anima così attratta si tuffa generosa nell’oceano dell’amore del Cristo che sempre più splende, e che sempre più attrae. Ma poco tempo dura questo stato di felicità. Gesù, a nostro modo di ragionare, non vuole che consumiamo l’interesse del capitale del nostro amore. Preferisce che lo conserviamo come merito pel Cielo. Ancora: Egli, sempre a nostro modo di ragionare, deve preoccuparsi per noi, perché proprio non abbiamo à cercare soltanto le sue consolazioni, ma Lui, Autore delle consolazioni, poiché queste sono mezzo, e non fine. Per l’economia spirituale meglio intesa, adunque, Gesù, dopo breve tempo, non splende più raggiante alle anime; non si lascia vedere; non dà ascolto (o meglio sembra non si  lasci più vedere, sembra non dia ascolto!) e lascia che l’anima, servendosi dell’aiuto che Egli continua a dare, faccia il bene solo per amore di Dio, per la convinzione, o per il ragionamento, ch’è il nostro dovere. Superata la prova nella perseveranza della fedeltà verso Dio, l’anima prova una relativa tranquillità e si dispone al compimento dei suoi obblighi verso Dio, in modo speciale per quelli che riguardano direttamente il servizio di Lui: e cioè, la meditazione, la preghiera, la lettura spirituale, gli esami di coscienza, l’assistenza alla S. Messa, la frequenza dei Ss. Sacramenti della Confessione e della Comunione, l’offerta quotidiana a Dio di tutte le azioni della giornata, comprese pure le cosiddette azioni indifferenti, come il cibarsi, il dormire, lo svagarsi e simili. – Possiamo adunque così concludere: il Signore dà secondo i suoi fini, per breve tempo e con parsimonia, a chi meglio giudica e come giudica, la devozione che abbiamo chiamata accidentale e secondaria. Mentre dà a tutti la divozione principale o sostanziale. La divozione secondaria è un premio temporaneo; è molto utile e va tenuta in grande considerazione, ma non va ricercata con affanno, o peggio, con angustia. Non in commotione Dominus! – L’autore della Imitazione di Cristo così, a proposito della divozione, dice molto bene: « Ti conviene cercare con istanza la grazia della divozione, chiederla con desiderio, attenderla con pazienza e con fiducia, riceverla con gratitudine, operare con essa studiosamente e rimettere a Dio il tempo e il modo della visita celeste ». La visita celeste è …. la devozione accessoria, secondaria o sensibile. Il tempo di essa va lasciato a Dio. E continua: « Sta’ fermo ai propositi: abbiti rettitudine d’intenzione e guardati bene dalla vana compiacenza e dalla superbia ». À questo punto, un Santo maestro di spirito spiega alle anime il perché dell’ammonimento: « Perché la compiacenza che l’anima ha, talora, di se stessa e quel credersi, forse, santa, vedendosi premiata da Dio con consolazioni celesti e con una devozione ben sensibile, è una delle cause principali che la gettano, e, talvolta, lasciano per molto tempo nelle aridità, nelle desolazioni, nelle oscurità e nell’abbattimento di spirito ». –  Ma, continua ancora l’autore dell’Imitazione: « Ciò che, sovra tutto, impedisce la consolazione (cioè la divozione sensibile) è che tu non ti servi dell’orazione, oppure vi  ricorri troppo tardi: egli è perché prima di supplicare me (Te, o Dio) vai in cerca di qualche svago nelle creature e nelle cose esteriori..…. Tuttavia per causa delle aridità o delle angustie (per causa, cioè, della mancanza di devozione sensibile ed accidentale) che l’anima tua prova, non ti lasciar andare alla negligenza nel servizio di Dio, né punto né poco: non toglierti dall’orazione, né tralasciare le altre tue consuete pratiche di Pietà ». Cioè, in altre parole, se noi non abbiamo la divozione accidentale, o di consolazione, abbiamo pazienza, poiché questa non è necessaria; ma non trascuriamo mai la divozione principale o sostanziale poiché questa è necessaria.

(Quando Dio ci manda le aridità, lo fa per distaccarci da tutto ciò ch’é creato, anche dalle gioie della pietà, affinché impariamo ad amar Dio solo per se stesso.)

A. TANQUEREY

LA VITA INTERIORE (18).

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 10

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (10)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

VI.

Preghiere e affetti di penitenza.

Questo pure, mio Dio e mio Padre, ardisco chiedervi con le parole medesime di Gesù Cristo, che morendo su la Croce esprime il desiderio di soffrire ancora in noi per dilatare le sue pene, prolungare la sua penitenza, farvi così in perpetuo ammenda onorevole e darvi una soddisfazione continua in mezzo alla vostra Chiesa. Perciò, grande Iddio, prostrato ai vostri piedi, mi sottometto ad ogni vostra giustizia, a tutte quelle pene e vendette cui vorrete sottopormi. E in attesa che vi piaccia darmi qualche penitenza, accetterò tutte quelle che, per mio onore, mi saranno da Voi imposte a mezzo della vostra Chiesa e delle persone che hanno diritto d’umiliarmi e di assoggettarmi ai rigori della penitenza. E tutto ciò in unione col vostro diletto Figlio, l’unico e universale penitente della Chiesa. Signor mio Gesù, che vivete in me col vostro spirito onde terminare di soffrire tutte quelle pene e quella penitenza che eravate disposto a portare durante la vostra vita per la gloria del Padre vostro, se fosse stato il suo beneplacito; fatemi questa grazia che, usando della potenza del vostro spirito in me, io sia animato in tutte le mie azioni dalle disposizioni di una vera penitenza; fate che io non perda mai la vista dei miei peccati, perché non posso averla che nella luce della vostra sapienza, la quale ai peccatori, come in uno specchio tersissimo, fa vedere le macchie delle loro anime. Fate inoltre, o mio Signore e mio Dio, che essendo riempito di confusione per l’enormità delle mie colpe, non compaia mai senza vergogna, per la mia orribile deformità, sia al cospetto della Maestà del Padre vostro, sia davanti ai suoi santi altari, sia nella preghiera come in tutte le sante pratiche e i santi ministeri. Fate ancora che non ardisca di comparire senza confusione in mezzo ai santi Sacerdoti ed ai Cristiani miei maestri, stimandomi indegno della loro società e tenendomi in ispirito ai loro piedi oppure lontano da essi. Tali pure siano le mie di posizioni riguardo a me stesso e che rimanga continuamente confuso ed annientato in me stesso, non osando pensare a me che con orrore e spavento, stimandomi meno di un verme della terra, più vile che i rifiuti del mondo; riputandomi indegno di prendere il mio cibo e le altre cose per il sostentamento della mia vita. indegno anzi della vita stessa, non prenda mai senza rincrescimento ciò che è necessario per conservarmela.

***

Adorabile mio Signore, per le lacrime che avete versate sopra Gerusalemme, vale a dire sopra tutti i peccati della Chiesa; per quelle lacrime che sul Calvario, avete versato nella santa contrizione che avete continuamente sentita per i miei peccati sopra i quali avete pianto, come su Lazzaro, in un fremito che indicava l’emozione che essi causavano nel vostro spirito: vi chiedo la grazia di piangerli ogni giorno della mia vita, e di vivere in un amaro dolore di averli commessi. Ch’io viva nell’orrore di tutto me stesso come pure di ogni sentimento peccaminoso che insorga in me! Ch’io combatta e crocifigga tutte le mie inclinazioni naturali, tutti i miei sensi interni ed esterni, e tutte le passioni disordinate dell’anima mia!

* * *

Infine o mio Dio, per quel grido che la forza e il fervore del vostro Spirito penitente vi fecero emettere sulla Croce, nell’abbandono dell’anima vostra alla vendetta del Padre e a quell’orribile giudizio che dovevate subire sopra di Voi stesso, vi domando la grazia di vivere, come Voi, abbandonato al rigore del giudizio e della giustizia del Padre vostro sopra i miei peccati. Fin d’ora accetto tutta quella crocifissione che vi compiacerete di ordinare per me nella vita presente.

1° In unione con la vostra povertà e nudità su la croce, e con l’abbandono da parte delle creature che allora avete sofferto e per onorare questa vostra pena, mi abbandono a tutta la povertà alla quale potrò mai essere ridotto, sia per qualche ordine aspro della divina Provvidenza e della sua santa giustizia, come per la noncuranza o la cattiveria da parte delle creature.

2° In unione coi disprezzi, con le ingiurie, con gli obbrobri che avete sofferti sul Calvario e per rendere onore a queste umiliazioni, mi abbandono, in pena dei miei peccati, a tutte le calunnie, derisioni, confusioni e ignominie che potranno mai accadermi.

3° In unione coi dolori con cui vi siete meritato quel bel nome di uomo dei dolori «Virum dolorum » (Isa. LIII, 3) e per onorarli, mi abbandono pure alle sofferenze, malattie, infermità, agonie ed infine alla morte medesima, ultimo supplizio del peccato In unione con la vostra morte così penosa e ignominiosa, accetto, in castigo dei miei peccati, qualsiasi tormento, qualsiasi pena, qualsiasi genere di morte che vi piacerà di farmi soffrire.

4° In unione e in onore dell’abbandono interiore che avete sofferto da parte del Padre vostro, e di tutte le vostre pene interiori, mi abbandono al Padre vostro per soffrire tutte quelle pene di cui vorranno onorarmi la sua santità e la sua giustizia; dolente di non aver usato bene sinora delle sue sante visite. Oh! se ora mi fosse dato ancora di soffrirle in soddisfazione dei miei delitti, quanto mi riterrei fortunato di presentarvele per l’amore e la gloria del Padre vostro! E per quanto riguarda l’uomo vecchio che vive in me, che sta tutto nel peccato come pur troppo riconosco, ed è stato attaccato alla Croce con Voi (Rom. VI, 6), adorabile nostro Capo, sotto il vostro esterno di peccato: prometto a Dio, davanti a Voi, o mio Gesù, di tenerne tutte le membra crocifisse e incatenate sulla Croce; protesto di non voler lasciar a queste membra nessuna libertà di operare secondo la loro malizia, ma di fare ogni sforzo, al contrario, per annientarne gli atti perversi affinché solo dallo spirito siano riempite e vivificate, e mi servano solo per compiere opere sante. Le nostre membra non sono più di Adamo ma di Gesù Cristo, che è venuto a consacrarle e santificarle con la presenza del suo Spirito, per muoverle e dirigerle alla gloria di Dio. Noi siamo trasferiti, dice S. Giovanni, dalla morte nella vita. Non apparteniamo più a noi, soggiunge S. Paolo, perché siamo stati redenti col prezzo di un sangue prezioso, affinché coloro che vivono non vivano già per sé, ma per Colui che è morto e risuscitato per essi (I Joann., III, 14, – I. Cor. V, 19, 20; – Il Cor., V, 18).

VII.

Frutti ed effetti della vera penitenza.

1. Lo Spirito Santo rende l’anima partecipe del suo odio contro la carne. – 2. Dio riprende il suo posto nell’anima e se ne appropria. – 3. Se l’anima diventa Sposa di Dio, ripara lo sfregio orribile fatto dal peccato allo Spirito Santo e, trasformata nella natura divina, vive in Dio.

I primi sentimenti che lo Spirito Santo produce in noi, in seguito alle virtù teologali, sono quelli di religione riguardo a Dio e di penitenza riguardo a noi stessi. Dopo di averci fatto conoscere ed amare Iddio con la fede, la speranza e la carità, il suo primo effetto è di applicarci ai doveri di rispetto e di sottomissione verso la divina Maestà, nei quali consiste la religione; poi sentimenti di orrore, di avversione, di riprovazione e di distruzione del peccato, della nostra carne e di noi stessi, ciò che chiamasi penitenza.

1. Quando lo Spirito abita in noi in pienezza; quando diventa re della nostr’anima; quando l’ha separata da sé medesimo e dai propri interessi, che l’ha tirata dalla sua parte, convertita e ridotta ad essere una cosa sola con se stesso, la sua prima operazione è di renderla partecipe del suo zelo, del suo odio, del suo orrore contro la carne e contro essa medesima in quanto è forma e amica della carne. Così, lo Spirito Santo è il padre della penitenza e l’anima ama la penitenza nella misura in cui vive nello Spirito Santo, perché tanto più è animata da zelo contro sè stessa quanto più è passata nella natura di Lui. (I. Cor. VI, 17)

* * *

2. Allora si vede un Dio vittorioso in noi, veramente vittorioso dell’amor proprio e di noi medesimi: un Dio che eleva l’anima alla vera estasi, tirandola fuori di sé stessa mediante la sua divina virtù per farla entrare in sé medesimo e nei suoi interessi; Dio si appropria l’anima in tal modo che essa passa in Lui, dimentica tutto ciò che è in sé medesima e ciò che vorrebbe, se appartenesse ancora a sé. Dimodoché l’anima dimenticando completamente sé stessa e tutti i suoi propri interessi, abbandona tutti i suoi primitivi sentimenti; perduta nell’amore di Dio e passata in Dio contro sé stessa, diventa una stessa cosa e uno stesso spirito con Lui.

3. Appropriata così a Dio, l’anima diventa sposa di Dio e totalmente aliena dalla sua prima aderenza alla carne. Prima, essa era una medesima cosa con la carne che vivificava, ne amava gli interessi, ne assecondava i sentimenti e i desideri; ora invece, essendone interamente separata, tende a Dio nel suo intimo amore, s’investe degli interessi di Dio, delle inclinazioni, dei sentimenti e della vita di Dio, mentre non ha più che odio, opposizione e avversione contro la carne. – L’anima che è amica della carne ha desideri contrari allo Spirito (Tutte queste espressioni di G. Olier significano che lo Spirito Santo unisce intimamente a sé l’anima penitente e fa sì che essa si distacchi da sé medesima per darsi a Lui e rendergli gloria.), quindi è contraria a Dio, rivolgendo tutti i suoi desideri verso le creature e verso tutto ciò che dà gusto e soddisfazione alla carne. Ed è cosa miserabile questo voler obbligare lo Spirito a mettersi dalla nostra parte; è segno che la sua azione in noi è debolissima e che la carne lo ha vinto, costringendolo ad aver compassione della nostra delicatezza. In tal case lo Spirito in noi è come un Dio in fasce, un Dio bimbo e infermo, un Dio nella debolezza: allora si vede la carne tutta trionfante nella sua dominazione. Una tale inferiorità è più ignominiosa per lo Spirito Santo che se Egli non fosse in noi; perché se fosse assente, almeno non soffrirebbe un simile affronto: il suo nemico, è vero, trionferebbe, ma almeno senza combattere; la carne sarebbe meno gloriosa nel suo trionfo. Ma, avere un Dio presente, eppure trionfarne, calpestarlo, impedirgli di superare il proprio schiavo, anzi tenergli il piede sulla gola, è cosa spaventevole; è ciò che S. Paolo chiama: contristare lo Spirito Santo; è questo fare allo Spirito di grazia la più villana delle ingiurie (Ephes., IV, 30 – Hebr, X, 29). L’anima invece che è amica e sposa di Dio, cerca gl’interessi di Dio e non desidera che d’inabissarsi interamente in Lui. Dimodoché investendosi della natura della divinità, essa diventa nemica e vendicatrice di sé stessa, partecipando a quel fuoco divino che in essa opera i medesimi effetti di quello della fornace di Babilonia, il quale divorava i carnefici che lo alimentavano. La fiamma li investiva ed essi non avevano nemico peggiore di quel fuoco che i medesimi avevano acceso. – L’anima che vive in Dio, respinge e condanna continuamente la propria carne; esce dal suo Dio, simile ad un tizzone ardente; e in quella guisa che il tizzone, avendo preso la natura del fuoco, abbrucia, ciò che il fuoco medesimo abbrucerebbe, così anima trasformata in Dio che è un fuoco consumante, divora e distrugge il peccato, diventando ardente ed infiammata di zelo contro la carne e contro il peccato il quale abita nella carne. Così, secondo la misura dell’odio che l’anima porta a sé stessa, della riprovazione che fa della propria carne e dell’orrore che nutre verso il peccato, si deve giudicare della misura in cui lo Spirito di Dio sia stabilito e potente in essa; perché in verità, questo divino Spirito è padrone in noi nella misura in cui la carne gli è sottoposta; l’anima pure è trasformata nella natura di Dio nella misura in cui essa odia sé stessa (Odiando sé stessa, la sua carne e le cattive inclinazioni della nostra natura corrotta dal peccato, l’anima diventa sempre più unita a Dio ed acquista con Lui maggiore somiglianza soprannaturale.). Estasi felice quella che mette l’anima in un tale stato permanente di rinuncia a sé medesima: le fa dimenticare e trascurare ogni suo interesse e il suo essere proprio; la mantiene in tale stato di morte a sé stessa, in un tale trasporto e in una tale consumazione in Dio, che essa rovina e distrugge sé medesima, senza risentirne, ovvero, se ne risente, non tralascia perciò di annientarsi perfettamente. Beata quell’anima che, investita della vita e dello zelo di Dio, non ha più nulla che sia rivolto a sé medesimo, né pensiero. Né stima, né volontà, né inclinazione, né movimento, ma vive sempre in Dio senza mai uscirne! Una tale estasi, quanto è differente da quelle estati passeggere che momentaneamente trasportano l’anima in Dio con un rapimento di gioia e di consolazione! Passati questi rapimenti momentanei, la carne rimane ancora integra, col suo desiderio di essere ricercata, adulata, accarezzata; dimodoché facilmente l’anima ritorna al suo amor proprio e al desiderio del proprio interesse e spesso non ritiene nulla di ciò che Dio sovranamente desidera; perché ciò che Dio desidera è l’annientamento della creatura, l’annientamento della ricerca di noi stessi e della inclinazione che ci porta alla propria soddisfazione e alla pienezza di noi medesimi.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VII – “VINEAM QUAM PLANTAVIT”

Questa breve lettera Enciclica del Sommo Pontefice Pio VII, rivolta ai Vescovi francesi, propone l’aumento delle diocesi di quella Nazione, dopo le turbolente vicende storiche che ne avevano sconvolto l’ordine sociale ed ecclesiastico. L’aspetto edificante della lettera è la constatazione dell’accordo congiunto sulla questione, dei poteri civile ed ecclesiastico a beneficio della vita sociale e spirituale di quel popolo tradizionalmente fedele alla Chiesa di Cristo ed alla Santa Sede. Questa comunione di intenti fu quella poi, che sostenne una situazione sociale sostanzialmente tranquilla e fu foriera di un grande risveglio spirituale nel clero e nei fedeli cattolici, benché il “nemico”, e per esso le sette di perdizione massoniche, nonché le ideologie moderne anticristiane, non cessassero di operare anche là per la rovina della Cristianità e della Chiesa. È questo l’esempio che dovrebbe animare e restaurare una pace sociale e un benessere spirituale in tutti i popoli oggi schiavi di un potere ateo anticlericale asservito alle lobby kazaro-kabaliste, operanti in favore di una dittatura mondialista generata da un terrorismo di stampo luciferino, di cui è parte attiva la falsa chiesa modernista con gli usurpanti antipapi vicari dell’anticristo imminente. Ma tutto combacia con gli eventi descritti e profetizzati per i nostri tempi e per la Chiesa di Cristo – che attraversa la settima epoca “Chiesa di Laodicea” – nel libro biblico dell’Apocalisse.  

Pio VII
Vineam quam plantavit +

Roma, 12 giugno 1817
Enciclica (*)

(*) Per meglio corrispondere alle esigenze spirituali della popolazione, in accordo con il Re Ludovico il Pontefice propone l’aumento del numero delle Diocesi del Regno di Francia e chiede ai Vescovi e ai Capitoli la massima collaborazione nell’attuazione del progetto.

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, e ai diletti Figli dei Capitoli, e ai Canonici delle Chiese vacanti del Regno di Francia.
Il Papa Pio VII.

Venerabili Fratelli, diletti Figli, salute e Apostolica Benedizione.

Guardando la vigna che il Signore piantò nel floridissimo regno di Francia dopo tanti e così lunghi periodi di tempi durissimi, Ci siamo resi conto che, sicuramente, nulla potrebbe condurre ad una più redditizia coltivazione quanto il moltiplicare il numero degli operai che in tale vigna lavorano. Lo ha riconosciuto anche il carissimo Nostro Figlio in Cristo Ludovico, il Re cristianissimo, il quale, desiderando sostenere la casa scossa da violente raffiche di vento, Ci manifestò il desiderio che, definiti i nuovi confini delle Diocesi, si aumentasse anzitutto il numero dei Vescovati, ben sapendo come tale provvedimento mirabilmente giovi ad appianare in seguito tutte le difficoltà della Chiesa nel vastissimo Regno.

Non occorre, Venerabili Fratelli, che con un lungo discorso vi si dica con quale gaudio e con quale ardente zelo Ci siamo indotti ad esaudire con la Nostra Apostolica Autorità questi pii voti del devotissimo Re. Non è infatti per la mutevolezza delle cose umane, come diceva Sant’Innocenzo I, che abbiamo pensato d’introdurre tali riforme nella Chiesa; ma Ci rallegriamo che con l’aiuto di Dio ora potremo felicemente compiere ciò che da tempo desideravamo e che non avevamo potuto realizzare per circostanze avverse.

Avendo dunque deciso che oltre le Sedi vescovili e arcivescovili che esistevano prima del 1801 se ne erigano altre in numero maggiore di quelle ora esistenti, si dovrà conseguentemente attuare una nuova divisione delle Diocesi che abbiamo deciso di definire secondo confini che rechino maggior vantaggio al gregge del Signore.

Senza dubbio conoscete, per vostra esperienza, di quanto grande utilità sarà tutto questo per una retta amministrazione delle Diocesi; perciò non dubitiamo che sarete d’accordo con la proposta divisione delle stesse. Lo chiediamo con animo fiducioso a ciascuno di voi con questa Nostra lettera: si tratta del profitto delle anime, Venerabili Fratelli e diletti Figli; per esse nessun onere deve sembrare eccessivo, dal momento che le riscattò con il suo sangue il Nostro Salvatore. Non Vi rincresca dunque assecondare con sollecita risposta questo Nostro impegno e gli ottimi consigli del Re cristianissimo, affinché le questioni che devono essere risolte in modo devoto e benefico non siano turbate da alcun contenzioso, né si presentino ostacoli nell’attuazione di quei propositi che a Noi richiede quello zelo che impieghiamo in conformità della divina istituzione della Chiesa universale.

Frattanto, invocando per voi ogni dono più ampio da Colui che elargisce tutti i beni, con molto affetto Vi impartiamo l’Apostolica Benedizione, come segno della Nostra paterna benevolenza.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 12 giugno 1817, anno diciottesimo del Nostro Pontificato

DOMENICA DELLE PALME (2022)

DOMENICA DELLE PALME [2022]

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La liturgia di oggi esprime con due cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette, dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.

I . — Benedizione delle Palme e Processione.

A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo,montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica.La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva ilnome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme.Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio. moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava. l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa» «che muove incontro a Cristo con opere buone» «con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il. mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza associeranno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « È noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor). Processione delle Palme).: da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel. combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.

2. — Messa della Domenica delle Palme.

La benedizione delle palme si faceva a Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione, poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della Passione di cui tratta la Messa . — Il trionfo del Salvatore deve essere preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.) umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione » (Or.).

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.

[Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI

[I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].


D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. .

[I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]


Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

[Matth. XXI, 1-9]

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

[In quel tempo: avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite: il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».

[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis».

[Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]


Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis».

[Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».

[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus».

[Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!]

Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».

[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum.

[Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur.

[Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

Epistola

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genuflectátur cœléstium, terréstrium et inférnorum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

[“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”.]

LA GRANDE UMILIAZIONE.

Entriamo oggi nella Settimana Santa, durante la quale la Chiesa ci fa rivivere giorno per giorno; starei per dire ora per ora il mistero della passione e della morte di Gesù, segreto della nostra Redenzione. San Paolo nel brano della sua Epistola a quei di Filippi che forma la lettura di questa domenica ci dà la chiave, il segreto, la filosofia di questo mistero. Come ci redime N. Signore Gesù? Disfacendo pezzo per pezzo l’opera del peccato. Egli è il novello Adamo, antitesi dell’antico. La Passione è la negazione delle colpe antiche. Il riscontro ha persino dei lati materiali: da un giardino all’altro, dal giardino delle colpe all’orto dell’espiazione. Là e qua un albero; là l’albero della morte, qua l’albero della vita, la Croce. È la colpa d’Adamo la colpa classica e tipica, che cosa è essa mai? Due parole la descrivono, la definiscono, due brevi tremende parole: orgoglio e piacere, piacere ed orgoglio. L’orgoglio primeggia per chi approfondisce le cose. E la grande, la classica espiazione sarà il rovescio: umiltà e dolore. Un capolavoro di umiltà, come la colpa classica fu un capolavoro di orgoglio. Ci sono anche i capolavori del male. Paolo canta questa eroica umiltà del Verbo Incarnato, Gesù Cristo; l’accento del suo discorso è lirico, la sostanza è d’una logica stringente. L’umiltà è nei due poli: Verbo — Incarnato, Dio — uomo. Era nella forma di Dio, dice San Paolo, poteva senza scrupolo, senza timor di usurpazione dirsi uguale a Dio, senza timore d’ingiustizia e di usurpazione, non come Adamo che usurpò, volle usurpare quella uguaglianza. Era nella forma di Dio e volle prendere forma di schiavo. « Humiliavit semetìpsum formam servi accipìens ». Padrone, volle diventare servo. È la forma specifica e logicamente efficace della umiliazione espiatrice. Perché l’orgoglio del colpevole Adamo era stato un orgoglio ribelle, un orgoglio affermatosi proprio lì, non voler obbedire alla legge, accettare la servitù, sottostare alla padronanza e signoria divina: ribellione alla legge. La soggezione volontaria distrugge, disfà la volontaria ribellione. Tanto più e tanto meglio perché dalle due parti le cose si spingono all’eroismo, l’eroismo della morte. Adamo affrontala morte con la sua ribellione. C’è la taglia della morte come sanzione del precetto di Dio, ed Adamo malgrado questa sanzione calpesta questo divieto. Eroico, malamente, maeroico, eroico di un eroismo protervo, ma eroismo. Splendidamente, nobilmente eroica sarà l’espiazione di Gesù obbediente, nota San Paolo, fino alla morte, e che morte! La più ignominiosa e la più crudele. La più ignominiosa perché l’umiltà eroica del sacrificio ubbidiente sia autentica e perché all’umiltà il sacrificio del Martire del Golgota accoppi il dolore, lo strazio — antitesi e antidoto del piacere. Non si potrebbe essere più brevi, succosi e profondi di quello che è San Paolo in queste poche linee, le quali ci rivelano non solo il mistero intimo di quella colpa e di questa espiazione, ma di ogni colpa e di ogni espiazione, di ogni colpa per farla detestare, di ogni espiazione per farla amare. Ma l’antitesi continua anche nella catastrofe dei due drammi. Perché l’epilogo del dramma della colpa è un disastro: il ribelle è battuto, l’orgoglioso è, giustamente, umiliato. Nello sforzo di erigersi oltre misura, si esaurisce e si accascia il gigante, il Capaneo, Adamo. Nello sforzo nobile della sua umiliazione si aderge Gesù o, per usare la propria frase di San Paolo, quel Dio davanti a cui Gesù (nella sua e colla sua umanità) si è umiliato « lo esaltò e gli diede un Nome superiore ad ogni altro, affinché in quel Nome e davanti ad esso tutti genuflettano in cielo, in terra e negli abissi ». L’epilogo dell’apoteosi per l’umiltà. Cerchiamo di essere primi in questa genuflessione; cerchiamo di farla più che nessun altro, alla scuola di Paolo, conscia e profonda.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me.

[Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns.

[Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus

Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

[Dio, Dio mio, volgiti a me: perché mi hai abbandonato?
V. La voce dei miei delitti allontana da me la mia salvezza.
V. Dio mio, grido il giorno, e non rispondi: la notte, e non c’è requie per me.
V. Eppure tu abiti nel santuario, o gloria d’Israele.
V. In te confidavano i nostri padri: confidavano, e tu li liberavi.
V. A te gridavano, ed erano salvati: in te confidavano, e non avevano da arrossire.
V. Ma io sono un verme, e non un uomo: lo zimbello della gente, e il rifiuto della plebe.
V. Tutti quelli che mi vedevano, si facevano beffe di me: storcevano la bocca e scrollavano il capo.
V. Ha confidato nel Signore, lo salvi, giacché gli vuol bene.
V. Essi mi osservarono e tennero gli occhi su di me: si spartirono le mie vesti, e tirarono a sorte la mia tunica.
V. Salvami dalle zanne del leone: dalle corna degli unicorni salva la mia pochezza.
V. Voi che temete il Signore, lodatelo: voi tutti, o prole di Giacobbe. glorificatelo.
V. Sarà chiamata col nome del Signore la generazione che verrà; e i cieli annunzieranno la giustizia di lui.
V. Al popolo che sorgerà, e che sarà opera del Signore.]

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro, perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e … Soc. Ed. Vita e Pens. VI ed. Milano, 1956]

DOMENICA DEGLI ULIVI

Fu un giorno d’entusiasmo. La bella stagione esultava nel cielo sereno e sui campi in giro. Dall’alto dell’Oliveto le turbe strappavano i rami dalle siepi e li agitavano nell’aria esclamando: « Benedetto il Re che viene in nome del Signore! Benedetto nell’altissimo cielo! ». Intanto il piccolo esercito fervente discendeva nel calore del sole, tra il verde e gli inni. Gerusalemme, apri le porte! Quante volte udisti dal labbro de’ tuoi profeti che sarebbe giunto un re di pace, quante volte l’hai sospirato nelle sventure! Or eccolo viene il tuo Re, mansueto; e cavalca un asinello. Solenne, col volto ardente, con gli occhi lucidi di pianto Gesù entrò nella città regina. La terra non conobbe trionfo più bello di questo. Si eran visti dei re venire a possesso della loro capitale circondati dalla potenza dei soldati, e da una folla curiosa: orgoglio di trionfatore e curiosità di popolo, ecco tutto il loro trionfo. Si erano visti conquistatori ritornare in patria in mezzo a tutta la pompa della vittoria: il trionfatore stava sul carro tirato da quattro cavalli bianchi: i veterani e le legioni procedevano innanzi cantando le lodi consuete; ma, dietro, aggiogati barbaramente venivano i vinti, imprecando alla sorte, alla vita, a Roma. Questi trionfi erano costati fiumi di sangue, incendi di città, lacrime d’infinite madri… Non così il trionfo del Figlio di Dio: egli è Re di pace. Ecce rex mansuetus. Intorno a Lui non l’urlo guerriero delle coorti, non il fragore degli scudi, non la fosca rabbia dei vinti incatenati che verranno uccisi nei giochi, o venduti schiavi; ma una fila di ammalati che Egli ha guariti, di poveri che Egli ha evangelizzato, di fanciulli che Egli colmava di carezze. E forse c’era anche il paralitico della piscina e forse c’era colui chiamato nato cieco, e certamente c’era Lazzaro il risuscitato da morte. E tutti levavano rami d’albero. Di quale albero? S. Matteo non lo dice: ma poiché li scerpavano dalle siepi del monte Oliveto, non potevano essere che rami d’ulivo. L’ulivo: il simbolo della pace. Quale altra fronda potevano scegliere gli Ebrei per agitare al passaggio del Re mansueto? Quale altra fronda possiamo noi agitare davanti a Cristo che ritorna trionfante nella santa Pasqua? – La Chiesa, in questa domenica, ad ogni fedele dona un ramo di ulivo benedetto. È con l’ulivo in mano che dobbiamo prepararci a far Pasqua: ossia, è con la pace del cuore. Ma non si può aver pace nel cuore, se prima non si è in pace col prossimo e in pace con Dio. – L’ULIVO È PACE COL PROSSIMO. Giovanni Gualberto viveva, allora, la spensierata vita. Ricco, aitante, abile in armi, amava allegre compagnie della gioventù fiorentina e i giochi e i divertimenti. Una sera, un gentiluomo di Toscana venne a rissa con suo fratello, e glielo uccise. Giovanni, curvo sul cadavere insanguinato, strinse i pugni contro l’assassino che fuggiva e giurò, terribile, di farne vendetta. Passarono dei mesi. Un giorno di Venerdì Santo, in un vicolo, egli s’incontra con la figura d’un torvo cavaliere. Lo riconosce: è l’assassino di suo fratello. Era giunto l’istante della vendetta: quella vendetta che aveva giurato sul sangue fumante, che aveva covato in cuore per giorni e giorni, che aveva sognato nei silenzi della notte, era lì, davanti a lui, e l’affascinava. Mandò un urlo di belva, snudò la spada, e gli fu sopra. Ma quegli, tremando, si buttò in ginocchio nella via deserta e gemette: « Per amore di quel Gesù che oggi muore in croce perdonando a’ suoi crocifissori, tu perdonami! ». C’era nell’aria un silenzio misterioso: le campane tacevano per la morte del Signore. Giovanni sentiva il sangue fargli impeto sulle tempia e sul petto: il pensiero di Gesù morente in croce e perdonante lo dominò.  « Alzati! — disse infine nello sforzo eroico di superarsi. — Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore. Ti dò la vita e l’amicizia e tu prega Dio che mi perdoni com’io perdono a te ». E si abbracciarono. — Quando le campane della Resurrezione squillarono nel cielo di Firenze, nessuno in cuore, provò tanta gioia come Giovanni, poiché nessuno meglio di lui s’era preparato alla Pasqua. E Gesù risorto gli fece la bella grazia di farsi santo: S. Giovanni Gualberto. – Pasqua è imminente: già il Re di pace viene, e vuol trovare pace sul suo passaggio. Guai a quelli che s’accosteranno alle sante feste con odio nel cuore. Gesù non li riconoscerà come suoi discepoli. «Io distinguerò fra tutti i miei discepoli per l’amore che si vorranno tra loro » ha detto un giorno. Nessuno di noi ha ricevuto un’offesa grande come quella che ricevette S. Giovanni Gualberto; e s’egli ha saputo perdonare, nessuno di noi potrà scusarsi da questo dovere. – In quante famiglie non c’è pace: sono fratelli in rissa fra loro, sono cognati, sono nuore che tutto il giorno passano in mormorazioni, in calunnie amare, in alterchi irosi, in silenzio pieno di rancore. Sono veri Cristiani? dicono di esserlo, e di fatto sono battezzati, ma Gesù non li riconosce: «I miei discepoli si amano gli uni e gli altri ». In quanti paesi non c’è pace: una famiglia contro un’altra famiglia, un inquilino contro un altro inquilino, un proprietario contro un proprietario: è per la casa, è per la terra, è per la roba, e intanto c’è odio cordiale. Sono paesi cristiani? Dicono di esserlo, hanno anche una bella chiesa, ma Gesù non li riconosce: «I miei discepoli si amano gli uni e gli altri ». È duro perdonare e amare chi ci fece del male; è un martirio secreto e tremendo ha detto S. Gregorio, che solo conosce chi l’ha provato. Ma Gesù lo vuole, lo comanda: Ego autem dico vobis diligite inimicos vestros. S. Giovanni Gualberto, all’assassino di suo fratello che in nome di Gesù gli chiedeva perdono, rispose: « Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore ». E noi avremo coraggio di negare questo perdono al nostro prossimo, quando è Gesù stesso che ce lo chiede? Oggi, quando tra le mani stringerete il rametto d’ulivo per festeggiare il Re mansueto che viene, ricordatevi che quell’ulivo significa pace col prossimo. – L’ULIVO È PACE CON DIO. Dio è bontà e trova la sua gioia nell’abitare tra gli uomini. Ma quando l’uomo preferisce i suoi piaceri alla legge del Signore e cade in peccato, Dio non lo può sopportare. Fugge da lui, come noi fuggiamo dal serpente; non lo conta più tra i suoi fedeli, tra i suoi amici, tra i suoi figli. L’uomo, allora, cerca altrove la sua pace, ma non la può trovare perché non c’è pace quando s’è in collera con Dio. Iniquitates vestræ diviserunt inter vos et Deum vestrum (Is., LIX, 2). C’è una muraglia tra Dio e voi: è la muraglia della vostra avarizia che non dice mai basta, fosse anche roba d’altri; è la muraglia della vostra superbia che non vuol correzioni né rimproveri; è la muraglia della vostra sensualità, che non vuol freni alle sue sregolatezze. Non si può far Pasqua in collera col Signore; non si può muovere incontro al Re di pace che viene, se tra noi e Lui c’è una muraglia. Bisogna abbatterla con la confessione. – Una domenica degli Ulivi, Santa Gertrude fu presa da scoraggiamento. Le sembrava troppo difficile migliorare la sua vita, e che per lei fosse impossibile diventar santa. Gesù le apparve e la chiamò. « Guarda, le disse, non è difficile, non è impossibile. Basta una cosa sola: che tu dica: voglio ». Ci sono molti che dicono di non poter perdonare certe offese, e neppure dimenticare. Ci sono altri che non vogliono confessarsi perché dicono di non saper resistere a certe tentazioni, a certe abitudini. O Cristiani, non è impossibile, non è difficile correre incontro a Gesù con il ramo d’ulivo, basta volerlo. Volere la pace col prossimo. Volere la pace con Dio. – CIRCOSTANZE DELL’INGRESSO IN GERUSALEMME. Bisognava che una volta almeno Gesù si presentasse al popolo come Messia: scelse, per il suo trionfo d’un giorno, l’ultima domenica della sua vita mortale. I Giudei pretendevano che il Messia arrivasse sulle nuvole ma Egli invece volle arrivare cavalcando un asinello che non aveva mai portato il basto. I discepoli vi avevano adattati i propri mantelli a far da sella. Veniva da Betania e la folla dei suoi amici cominciò a levar grida di gioia, a mettere le vesti sul suo passaggio, a tagliare rami di palma per agitarle o gettare avanti a Lui sulla strada. « Osanna al Figlio di Davide! — si gridava. — Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Evviva il Re d’Israele ». – Noi siamo ora giunti a quel tempo in cui si rinnova questa venuta del Salvatore. La comunione pasquale non è forse l’entrata nel nostro cuore del Figlio di Davide sotto le umili apparenze del pane e del vino? Ed oggi come allora in diversi modi è ricevuto dalle diverse anime. Ci sono anime sante e generose. Ci sono anime farisaiche, insensibili, incostanti. Ci sono anime che vengono da lontano, infangate di gravi peccati, ma piene di buona volontà.  Queste tre categorie d’anime si possono trovare significate in tre circostanze avvenute l’una all’inizio, l’altra a mezzo, e l’ultima alla fine del viaggio trionfale del Signore: il Padrone dell’asinello; il pianto di Gesù; la supplica d’alcuni forestieri. – IL PADRONE DELL’ASINELLO. Quando l’umile drappello si trovò dirimpetto alle case di Betfage, Gesù disse a due dei suoi, probabilmente Pietro e Giovanni: « Andate là, slegate l’asino che troverete, e menatelo qui ». Gli inviati eseguirono a puntino gli ordini. Arrivando alle case, subito scorsero la bestia legata presso una porta sulla strada e la sciolsero. Venne fuori il padrone e disse: « Che cosa fate? ». Gli risposero: « Ne ha bisogno il Signore ». A quella richiesta, subito rilasciò loro l’asinello. Chi era costui? senza dubbio un discepolo segreto di Gesù, sconosciuto agli Apostoli stessi. Ma che bell’anima! Non una difficoltà, non una scusa, non un rincrescimento: lo vuole Gesù, e basta. Non era il solo che amava così profondamente, così generosamente Gesù. Quattro giorni dopo. Pietro e Giovanni ne troveranno un altro. Neppure quest’altro era da loro conosciuto: lo individuarono per un’anfora piena d’acqua che portava, poiché tale era il segno dato loro dal Maestro. Gli dissero: «Il Signore ha bisogno di una stanza dove mangiare la Pasqua con i suoi discepoli ». L’altro subito li condusse in casa, nel salone del piano superiore, e l’adornò con tappeti e cuscini e preparò tutto l’occorrente per un banchetto solenne (Mc., XIV, 12-16). Di queste belle anime i successori di Pietro e Giovanni, cioè i sacerdoti, ne trovano ancora ogni anno. Le vedono accostarsi alla confessione e alla comunione pasquale con una piena dedizione di sé, dei loro affetti, delle loro case, al Signore. Sono i veri discepoli del Signore, ignoti al mondo, ignoti a tutti. Qualunque sacrificio, — di tempo, di danaro, di affetto, di salute, — domandi a loro Gesù essi senza calcolare. glielo dànno. Si sono forse lamentate le palme quando davano i loro rami per adornare la strada del Signore? E queste sante e generose anime si concedono a’ Gesù come le palme. E come le palme fioriranno, « Iustus ut palma florebit ». – IL PIANTO DI GESÙ. A metà cammino, quando il fervoroso corteo giunse in cima al monte degli ulivi, ai loro occhi apparve Gerusalemme, tutta bianca nel sole di mezzogiorno. Gesù la guardò e si mise a piangere. « Conoscessi, almeno oggi, quel che giova alla tua pace! Ma poiché non vuoi conoscere Colui che ti visita, i tuoi figli periranno, e di te non resterà pietra su pietra » (Lc., XIX, 41-44). Benché in mezzo all’esultanza e alle acclamazioni, Gesù non si lascia né travolgere né illudere dal favore popolare. Egli passa le apparenze e penetra nella secreta realtà delle anime. Perciò piangeva. a) Piangeva vedendo che molti gli venivano perfidamente incontro col sorriso sulle labbra, ma con in cuore il tradimento. Ed ancora Gesù Eucaristico, dall’alto del suo altare, tra la moltitudine che viene a riceverlo per la Pasqua, vede di quelli che s’inginocchiano alla balaustra ed hanno il tradimento in cuore. Lo tradiscono con quel peccato taciuto in confessione per vergogna; oppure con quell’abitudine a cui non si vuole rinunciare nonostante gli avvisi del confessore; o anche con quella ingiustizia di danaro o di roba a cui non si vuole riparare. b) Piangeva sul colle degli ulivi vedendo che v’erano di quelli accorsi solo per curiosità, quasi ad uno spettacolo, senza il minimo sentimento d’amore o di fede. Ed ancora dal santo altare Gesù vede che alcuni s’accostano alla Comunione pasquale solo per abitudine, forse per accontentare qualche persona di famiglia, o peggio per rispetto umano: ma non hanno nessuna preparazione, nessun pentimento, nessuna voglia di migliorare l’anima. c) Piangeva sapendo bene che quei medesimi che gli gridavano « osanna! », cinque giorni dopo gli avrebbero gridato « crucifige! », e avrebbero deriso la sua agonia sotto la croce. Ed ancora Gesù sa che ci sono di quelli che fanno Pasqua, e prima che siano passati cinque giorni già sono ritornati a crocifiggerlo nel loro cuore. Che gli è giovato dare il proprio sangue per costoro? d) Pianse il Salvatore in faccia della città che lo riceveva, ma che nonostante sarebbe stata distrutta. Già gli pareva di sentire attraverso le acclamazioni il rantolo disperato dei morenti, già gli pareva di vedere col suo sguardo profetico attraverso alle palme e gli ulivi avanzarsi il ferro e il fuoco dell’esercito sterminatore. Ma forse ancora Gesù vede che certe anime lo ricevono, e nonostante non si salveranno: vede già intorno a loro il bagliore del fuoco eterno che le divorerà per sempre. vede già intorno a loro il rauco grido del demonio vincitore. – LA SUPPLICA DEI FORESTIERI. A sera, quando già la folla s’era dispersa per prendere il cibo e i clamori s’erano quasi spenti, un gruppo di forestieri, convenuti in Gerusalemme per la Pasqua, volevano avvicinarsi a Gesù, conoscerlo da vicino, parlargli a cuore aperto. Ma non osavano: erano pagani e temevano d’essere respinti. Allora presero in disparte uno dei dodici, Filippo, e gli dissero: « Vorremmo vedere Gesù: non potresti presentarci? ». Filippo lo disse ad Andrea: poi tutti e due lo dissero a Gesù. Gesù ricevette quei forestieri, i quali poterono sentire bene mentre diceva: «Se il grano di frumento caduto nella terra non muore, resta solo; ma se muore porta molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde; chi odia la sua vita in questo mondo, la salverà per la vita eterna ».  Quei buoni forestieri dovevano comprendere il mistero di queste parole; essi che erano decisi ad odiare la loro vita passata, a morire agli istinti del peccato, per vivere accanto a Gesù nella vita eterna. Se in mezzo alla folla dei Cristiani che in questi giorni si accosterà alla Pasqua. ci sono alcuni che vengono dalle lontananze del peccato, che sono forestieri da anni ed anni nella Chiesa, e desiderano finalmente di avvicinarsi a Gesù, di confidare con Lui, non abbiano nessun timore. Se mai la sfiducia per i loro molti peccati li assale, lo dicano al ministro del Signore nella santa Confessione, così come quei forestieri lo dissero a Filippo: e il sacerdote li presenterà, purificati dal sacramento, a Gesù. – Una leggenda piena di senso cristiano («Il velo della Veronica» di Selma Lageriòf) racconta che l’imperatore Tiberio giaceva ammalato nell’isola di Capri: una lebbra inguaribile lo divorava. La sua vecchia e fedele nutrice, avendo sentito che in Palestina c’era un uomo di nome Gesù che guariva i lebbrosi, decise di andarlo a consultare. Partì per la Palestina. Quand’ella arrivò e cercò di lui, le dissero di correre se voleva giungere a tempo per trovarlo vivo. Lo vide infatti madido di sudore e di sangue camminare sotto la croce verso il luogo del supplizio. Presa da compassione, tese il suo velo per asciugare quel volto grondante… e sul velo restarono impressi i lineamenti divini. E lo riportò al padrone. Appena il moribondo imperatore vide il volto di Cristo, e quegli occhi brucianti fissi su di lui, esclamò dolorosamente: « È questo l’uomo? Egli mi guarisce. Perché l’hai lasciato morire? ». Poi s’inginocchiò davanti a quel velo e mostrandogli le sue mani scarnate e devastate dalla lebbra diceva: « Tutti gli altri e io, siamo selvaggi e crudeli. ‘Tu, tu, sei l’Uomo: abbi pietà di me. Niente fuor che il tuo sguardo può guarirmi ». E si levò sanato. – Cristiani! il peccato è la lebbra che ancora devasta e divora l’uomo. Ma la santa Chiesa, madre amorosa e fedele, per guarirci non si limita a portarci dalla Palestina il velo coi lineamenti sanguinosi del Volto, ma sotto il bianco velo del pane eucaristico ci porta realmente e vivo Gesù, il Figlio di Dio, il Salvatore. Non col bacio di Giuda, ma con l’innocenza di Giovanni e col pentimento di Pietro avviciniamoci all’Ostia consacrata. Non con l’ipocrisia perfida dei Farisei, ma con la generosità del padrone dell’asino, o con le cordiali disposizioni di quei forestieri che lo volevano vedere da vicino, apriamo il cuore nostro a Gesù. Egli ci guarirà. Egli ci santificherà. . IL SACRILEGIO EUCARISTICO. Ecco, o Cristiani, che la Pasqua è vicina e le folle escono un’altra volta incontro a Gesù che viene nella santa Comunione. Ma io non vorrei che ancora Gesù, pallido in fronte, pianga; non vorrei che qualcuno lo accolga, con in cuore il tradimento. Sarebbe una colpa atroce! Eppure può darsi: tanto per togliersi la seccatura della moglie, delle sorelle, della madre, tanto per non far diverso dagli altri, si va a far Pasqua senza le disposizioni necessarie. Una confessione mal fatta: senza pensarci, senza dolore, senza sincerità. Poi… il sacrilegio orribile. Perché nessuno osi ricevere così il Messia nel suo cuore, vi dirò che il sacrilegio eucaristico è il peccato più ingiurioso a Dio, è il peccato più nocivo a noi. – IL PECCATO PIÙ INGIURIOSO A DIO. A Berna nel 1287. Alcuni giudei deliberarono di sorprendere ed avere nei loro artigli un figlio di Cristiani, onde sfogare la rabbia diabolica che li coceva. Uno di questi spiò e attrasse con doni dalla strada nella sua casa un tenero e candido giovinetto di nome Rodolfo, senza che nessuno se ne accorgesse. Ben tosto lo condusse in una cantina profonda, oscura e lurida, dove il fanciullo spaurito scoppiò in pianto. Non ci fu pietà: con un pugnale lo punzecchiò in tutte le parti finché il misero finì di stillar sangue e di vivere. Quando il bestiale carnefice risalì, alla luce del sole, s’avvide che le sue mani e i suoi abiti erano intrisi di sangue, subito corse a detergersi, ma dopo replicate lavande s’accorse che era fatica inutile: il sangue innocente indelebile rosseggiava sulla mano e sulla faccia (Vogel, Vita di S. Rodolfo.19 aprile). Simile a questo è il delitto dell’uomo sacrilego. Non un fanciullo qualunque, ma il Figliuolo della Vergine Maria egli attira nella oscura e lurida cantina del suo cuore. Gli muove incontro col sorriso, con le mani giunte, in mezzo a persone amiche, e poi quando l’ha ricevuto, si fa reo del Corpo e del Sangue di un Dio. Quicumque manducaverit panem hunc, vel biberit calicem Domini indigne, reus erit Corporis et Sanguinis Domini (I Cor., XI, 27). L’uomo non vedrà le macchie di sangue sulla sua mano e sulla sua faccia. Ma gli Angeli le vedono, quelle macchie, le vede Iddio, le vede il demonio… Il peccatore che si comunica indegnamente commette un delitto più odioso di quello degli Ebrei quando sul Calvario han messo in croce Gesù. Se i Giudei avessero conosciuto la gloria del Signore, dice S. Paolo, non l’avrebbero crocifisso mai: essi credevano soltanto di uccidere un uomo, il figlio d’un falegname di Nazareth. Ma il sacrilego che sotto il velo eucaristico tradisce il Signore della gloria, il Figlio dell’Altissimo, il re dei secoli immortale sa che la sua offesa colpisce direttamente Dio e non ha scusa. – Il delitto dei Giudei riuscì utile agli uomini: il sangue da essi versato fu lavacro per le anime nostre. L’Agnello da essi immolato fu la nostra riconciliazione con Dio. Ma quando il sacrilego crocifigge Gesù sull’altare, che utilità ne deriva per sé e degli altri? Nessuna, fuori che maledizione e sventura. Ci sono poi alcune circostanze che possono attenuare la colpa dei Giudei. I sacerdoti e i capi del popolo l’avevano cercato a morte perché Gesù aveva smascherato la loro ipocrisia davanti al popolo chiamandoli sepolcri imbiancati; ma il sacrilego tradisce mentre Gesù si curva a baciarlo, lo uccide mentre Gesù gli sussurra: « Amico mio! ». E poi, non è detto che i crocifissori fossero proprio i ciechi, gli storpi, i lebbrosi guariti da lui: ma il sacrilego è un cieco che Gesù ha illuminato con la fede, è uno storpio che Gesù ha raddrizzato coi buoni consigli, è un lebbroso che Gesù ha mondato più volte con la confessione. Non è un estraneo, ma un beneficato: si inimicus meus maledixisset mihi, sustinuissem utique: tu vero!… (Ps., LIV, 13). Quale oltraggio per il Verbo divino! la veste preziosa è gettata all’immondezzaio, il santo al cane, la perla al porco. Quale oltraggio per il Padre adorabile, che amò l’uomo così da concedergli il suo Unigenito, vederlo invece tradito e deriso! Quale oltraggio per lo Spirito Santo, che con tanta cura ha preparato il seno verginale di Maria ove il Salvatore avrebbe preso umana carne, vederlo in un tempio di idoli! Quale oltraggio alla Vergine Madre, che tremando lo baciava, e adorando lo portava sulle sue braccia, vederlo maltrattato da un miserabile peccatore! – IL PECCATO PIÙ NOCIVO ALL’UOMO. Come la religione non conosce un delitto più enorme del sacrilegio eucaristico, così non v’ha punizione più terribile di questa: « Colui che mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua rovina ». Qui enim manducat et bibit indigne, iudicium tibi manducat et bibit (I Cor., XI, 29). Ancora par di sentire il fremito d’orrore del Vescovo Cipriano, nel fatto ch’egli narra. Una donna ardì accostarsi alla santa Comunione con l’odio nel cuore contro una sua vicina. Nell’atto che stava per inghiottire la sacra Particola, si sentì come un coltello taglientissimo squarciare la gola. Tutti videro allora che da quell’apertura uscì l’Ostia consacrata, e ritornò nella pisside. La donna infelice, annerita come la fuliggine, si rovesciò sul pavimento e smaniando morì, con grande spavento di tutti i fedeli. Io non dico che Iddio ripeterà il miracolo per ogni uomo che indegnamente si comunica; ma certo il sacrilego sente il suo petto tagliato dal coltello acuto del rimorso; sente nel suo cuore gli urti spasimosi della divina maledizione: è l’Ostia santa che inorridita de’ suoi peccati vuol fuggire da lui. E buon per lui, se Gesù fuggisse davvero, che non si stringerebbe in seno la propria sciagura. Vedete: se voi date del cibo a un vivo, lo fortificate; ma se sforzate la mascella d’un morto per dargli da mangiare lo fate marcire più presto. Guai a quelli che ricevono la Eucaristia, che è pane dei vivi, e sono morti alla grazia! Che direste voi di un ladro che dopo aver accumulato in casa sua la roba rubata invita il giudice del tribunale a fargli visita? La medesima sfrontatezza è compita dal sacrilego che pone Gesù in cospetto dei peccati che rimangono in cuore. Quando l’Arca dell’alleanza passava tra il popolo di Dio erano vittorie e trionfi e grazie che l’accompagnavano. Quando invece passava tra i nemici erano le pestilenze, le stragi, gli incendi, le sciagure che facevano deserto e silenzio d’intorno ad essa Altrettanto avviene quando nei cuori passa l’Eucaristia. Sei suo amico? vita e vittoria. Sei suo nemico? sventura e morte. Ce ne fa riprova la fine disperata di Giuda, il primo profanatore dell’Eucaristia. Si riconosce colpevole, ma non si pente. Piange, ma le sue lacrime non lavano il delitto. Grida: — io ho peccato! — e il suo peccato non gli è rimesso. Muore desolato, muore riprovato. Appeso all’albero del fico, vede da lontano il cadavere di Gesù appeso all’albero della croce. La sua anima vuol fuggire dal dolore e le sue viscere scoppiano in mezzo per lasciarla precipitare nell’inferno, Crepuit medius (Act., I, 18). Il Figlio dell’Uomo sarà tradito: ma guai a quell’uomo, dal quale sarà tradito! Væ homini illi per quem Filius hominis tradetur! – Nella battaglia avvenuta a Pietra del Soccorso, i Filistei s’impadronirono dell’arca dell’alleanza che il popolo d’Israele aveva abbandonato sul campo della sconfitta. Ora i nemici presero l’Arca di Dio e la collocarono di fronte all’idolo di Dagon. Il dì seguente, allo spuntar del giorno, Dagon era prostrato in terra, bocconi davanti all’Arca. Fu rimesso in piedi: di nuovo, alla mattina dopo, Dagon era rovesciato sul pavimento, ma la testa e le due palme stroncate stavano sulla soglia del tempio (I Re, V, 1-5). Se l’Arca di Dio non poteva coabitare con l’idolo immondo in uno stesso tempio, tanto più l’Eucaristia non può coabitare con il peccato in uno stesso cuore. Cristiani, non costringere il Santo ad unirsi all’immondo. O solo l’Eucaristia o solo il peccato. Chi costringe la santa Particola a discendere in un’anima inquinata, farà la fine di Dagon; sarà maledetto e stritolato nella vita eterna.LA PALMA. Le folle, nell’amore al Profeta taumaturgo, non sanno meglio esprimere la loro contentezza che strappando rami di palma per agitarli e gettarli sulla via dove deve passare Gesù. Le palme che nelle terre di Oriente si innalzano al cielo superbe, protendendo all’intorno il ventaglio dei loro rami, sono il simbolo più espressivo delle vittorie e del trionfo. Le turbe agitando le palme a Gesù che veniva lo salutavano ed acclamavano Re del suo popolo e Messia sospirato da secoli. Alla venuta di Gesù nel nostro cuore nella Comunione pasquale anche noi, o Cristiani, dobbiamo portare ed agitare le palme: palme che significano vittoria e trionfo sopra noi stessi; palme che significano vittoria contro il rispetto umano che vorrebbe togliere la santa franchezza del bene. – Nelle prime pagine della storia leggendaria di Roma si trova l’episodio di Muzio Scevola. Gli Etruschi, venuti col re Porsenna, avevano cinto di assedio la città di Roma per potersene impadronire. Ma quel soldato intrepido, uscito dalle mura, si introdusse nel campo nemico per uccidere il re. Però invece del re ferì il suo segretario. Arrestato mentre fuggiva e condotto dinanzi al sovrano, questi lo prese a minacciare per indurlo a tradire la patria. Muzio Scevola, per nulla intimorito, stende la sua destra sul fuoco per punirla dell’errore commesso ed esclama: «E proprio dei Romani l’essere forti nell’agire e nel soffrire ». – O Cristiani, nel giorno del nostro Battesimo abbiamo promesso di combattere contro i nemici della nostra salvezza: prima fra tutti il nostro corpo, le nostre passioni. Ciascuno porta in sé un tiranno che cinge di assedio le forze dell’anima e vuol toglierci il Signore. Dobbiamo uscire dalle mura della nostra freddezza, del nostro egoismo per uccidere od almeno sconfiggere sempre questo ingiusto aggressore che non ha il diritto di superarci. Spesso forse ci capita di sbagliare il colpo, di non vincere come dovremmo se pure non restiamo del tutto sconfitti. Ebbene, ripetiamo ancor noi le parole dell’eroe di Roma, cambiando opportunamente la frase: « Facere et pati fortia christianum est! È dei Cristiani soffrire ed operare con forza ». Se è vero che portiamo il triste germe del male è vero anche che ciascuno di noi ha in se stesso una grande forza di bene. Basta saper sfruttare le sane energie dell’anima nostra. Se ti senti portato alla superbia, pensa che la tua grandezza vien dal Signore, che tutto dipende da Lui, che la vera ambizione sta nell’ubbidire alla santa sua legge. Se ti senti portato alle cose create, se il tuo cuore si attacca ad affezioni umane, pensa che soltanto Iddio è degno di tutto l’amore, solo Lui può appagare le aspirazioni più belle del tuo affetto. Vuole da te che lo ami davvero: nessuno sa amare più di quanto ha saputo amarti il Signore. Se la sapienza di coloro che non avevano conosciuto il Signore stava nel programma: « Conosci te stesso! » la vera sapienza dei figliuoli di Dio aggiunge qualche cosa di più: « Conosci te stesso, cioè la tua dignità di Cristiano, le tue belle capacità di vittoria e di bene; e poi vinci te stesso, la tua parte cattiva, per trionfare in Dio. Nel Signore vincerai e con Lui sarà eterno il tuo godimento ». Del resto la battaglia non è difficile; basta saper incominciare e fidarci soltanto di Dio che stimola ed aiuta la nostra debolezza. – LA PALMA È VITTORIA CONTRO IL RISPETTO UMANO. Un ricco marchese di Francia, trovandosi un giorno con un gruppo di personalità distinte, fu invitato a far la conoscenza con Ernesto Renan, lo scrittore tristemente famoso che osò scrivere una vita di Gesù Cristo in cui sacrilegamente bestemmiò la divinità del Redentore. Ernesto Renan già stava porgendo la mano, ma quel signore ritirando la sua, esclamò ad alta voce, in pubblico: «Io non stringerò mai questa mano che ha schiaffeggiato il mio Signore! » – Quante volte, o Cristiani, noi abbiamo promesso di essere forti, di compiere il nostro dovere, di non aver paura a manifestare la nostra fede colle azioni. Ma ci siamo spaventati dello scherno che ci poteva venire dai nostri compagni, da quelli che ci avrebbero visti e siamo stati vili, siamo stati dei vinti. Così abbiamo dato mano, abbiamo quasi aiutato, siamo divenuti amici di quelli che schiaffeggiano il Signore. Guardate che forza non ha avuto quel ricco marchese di fronte a tante persone. Bisogna che anche noi ci abituiamo ad essere forti, ad essere di carattere. Non sono eroi soltanto quelli che vincono una battaglia sul campo di guerra: costa assai di più vincere il rispetto umano sul pacifico campo della nostra vita, nei rapporti quotidiani con tanti nostri vicini. Un atto di valore tante volte è cosa di un momento. Un gesto di eroismo farà conoscere il vostro nome, ci procurerà applausi ma la fortezza di credere e di esser Cristiani spesso ci attira lo scherno aperto od il sorriso maligno. Teniamo in mente la parola del Signore: « Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo e poi non possono far altro. Ma io vi insegnerò chi dobbiate temere: Temete Colui che dopo aver tolta la vita, ha potestà di mandare all’inferno. Questo sì, vi dico, temetelo! ». (Lc., XII, 4-5). – Dice il proverbio che ride bene chi ride ultimo. Gli ultimi a ridere non saranno i cattivi; di essi avrà vergogna il Figliuol di Dio nel giorno del giudizio (Lc. IX, 26). Gli ultimi a godere, e per sempre, saranno i buoni, i forti. Soltanto essi regno dei cieli, nella Gerusalemme celeste, agiteranno le palme della vittoria attorno all’Agnello. – Nei primi anni del 1700 si combatteva una guerra per decidere il successore al trono di Spagna. Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV re di Francia, era il pretendente più forte alla corona ed il 10 dicembre del 1710 vinceva la battaglia decisiva che gli apriva le porte di Madrid, la città capitale di Spagna. Alla sera, stanco del combattimento, il giovane principe stava per andare a riposare quando un suo Maresciallo lo pregò che gli concedesse di preparargli il letto. Avuto il permesso, il Maresciallo fece portare una gran quantità di bandiere tolte al nemico e, postele una sopra l’altra, invitò il principe ad adagiarsi su quelle coltri gloriose. Era il letto della vittoria. Voi, o Cristiani, avete già capito ciò che questo fatto ci può insegnare. Dobbiamo noi pure combattere per decidere chi deve regnare nel nostro cuore noi, oppure le nostre passioni. Strappiamo tante bandiere al nemico e gli atti di fortezza che compiamo quaggiù saranno al momento della nostra morte un letto di gloria sul quale chiuderemo lieti gli occhi, per essere risvegliati nel regno dei Cieli.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto.

[Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua.

[Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur.

 [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (199)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI!. CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (2)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima. Tip. E libr. Salesiana, Torino 1878

INTRODUZIONE

Labia sacerdotis custodiant scientiam et legem requirent de ore eius.

(MALACH. c. 2, v. ti)

Fu un bravo farmacista in questa Italia nostra nel borgo di N., che per le mie buone ragioni non voglio nominare. Buona pasta d’uomo che egli era; finita la spedizione delle sue ricette, colle mani in panciolle; col ventre sporto sopra il banco, con quell’ariona di buonomia salutava tutti gentilmente gli avventori, e massime gli immancabili accorrenti al convegno di conversazione, signori di buon tempo perseguitati dalla noia, politici di gazzette, laureati senza ufficii e studenti in continue vacanze. Godendo in fondo.al cuore di vedersi là d’intorno tutte le notabilità che contavan per denaro, e tutti quelli che avevan, od almeno si credeva che n’avessero, sale in zucca. Il buon uomo, vel dico io, si ringalluzziva tutto d’esser egli un piccol Accademo che prestava il bosco a’ discepoli di Platone, e la sua spezieria un portico di Peripatetici in miniatura. Là si trattava di tutto che si sapeva o di saper si pretendesse. A tutti poi che nel calore del disputare l’interrogavano cogli occhi, arrotondando le pastose gote, dava una risposta con un sorriso che diceva niente; meno «al signor medico seduto a scranna come un presidente nato, con cui s’intendeva per benino. Però ben di spesso gli avveniva d’udirne di così marchiane che gli rompevano il sorriso sulle labbra. – Restava a bocca aperta inarcando gli occhi, stentando anch’egli, benché fosse di natura assai elastica, a trangugiarle tanto grosse, sicché gli scappava fuor di gola: « Oh!… ma questa poi!… » Allora subito i più bellocci lisciando sotto le nari i crescenti peli a chiudergli la bocca: «Eh eh, signor speziale, siete voi l’uomo de’ tempi andati….. Adesso noi la sappiamo lunga, noi abbiam studiato sotto professori, cima d’uomini, i più grandi dotti della Europa… » Ed egli allor, che fare?… Stringersi nelle spalle e dir mortificato in sé medesimo: « Ma. costoro, se non foss’io, mi farebbero perder la testa!… Or che poss’io rispondere a questa gente? » Un dì che gli avvenne di sentirne di così bestiali ed empie da non poterne più, prese il partito di recarsi a consultare il parroco, pio e dotto uomo, che coi suoi talenti e colle sue speranze che potesse aver nel. mondo, aveva la sua persona consacrata a Dio per salvare le anime. – È questo ancor il miglior partito, quando si senton dire spropositi da cavallo; o si vedon girar libri pieni di così brutte, orrende cose, di non dare ad un pio e dotto prete: come si debba regolare un buon Cristiano in questi casi? Venuto a lui, e fatto i convenevoli, senz’altro: « Signor parroco, gli disse, ella sa che la mia bottega è come un porto di mare, chi va, chi viene; e vi si fermano a conversare i migliori del paese… Ma, oh se sentisse! ne sballano di così grosse, che se foss’io doganiere, non vi metterei il bollo di transito, né le lascerei mettere pel popolo in commercio. Per me, già, sono spregiudicato; ma non ostante, non fo per dire, son buon Cristiano; e non vorrei che neppur l’aria le sentisse. Eh se mi fan montare i futeri a sentirli ad abbaiare diavolerie così bestiali! Vi sarà ben una risposta, per rincacciarle in gola ad una ad una. »

Parroco. Sì veramente, il mio buon signor amico; a tutti gli errori fu data già da buon tempo una risposta a prova della verità, e la Chiesa nostra buona madre ad ogni nuovo errore né avrà sempre una in pronto per dimostrare il vero ai suoi figliuoli. Ma per darvele in bocca chiare ad una ad una, vorrei mi diceste almeno i principali.

Speziale. Oh se li dirò; anzi, mi perdoni se glie li sciorino qui davanti così brutti come li buttan fuori quelli; ed ecco come mi restano in mente a mio dispetto. In prima dicon chiaro che non si ha da creder più niente e che senza Dio il mondo è sempre stato e va da sé sviluppandosi in nuove maniere (Il Panteismo sotto diverse forme.). – Dicono poi in conseguenza, in secondo luogo che la terra da se stessa si mutò in piante, che le piante si mutarono in animali, e che gli animali sono diventati uomini (Il Darvinismo.): Veda, se non perdono la testa! – E voglio dirle ancora in terzo luogo, come non han vergogna di dire che i nostri primi padri uscirono dai boschi brutti, feroci come i scimmioni più orrendi, e che man mano diventarono umani, inciviliti; eh! tanti e tanti secoli, prima d’Adamo (l’uomo preistorico e l’empietà), come si vanno sognando!

Parroco. Voi vi spiegate bene, ché son proprio questi gli errori più in voga. Ora per darvi la risposta più precisa, esponetemi, come parlassero quelli, i loro errori.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (9)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

III.

L’esercizio della penitenza in ispirito

Colui che aderisce a Dio è un solo spirito con Lui: Chi sta unito col Signore, è un solo spirito ‘con Lui (1 Cor. VI, 17). Ne consegue necessariamente che l’anima, quando è intimamente unita a Dio si rende partecipe delle qualità, dei costumi, dei sentimenti, delle disposizioni di Lui; e perciò si investe anche dello zelo incessante della divina giustizia contro la carne, dimodoché il giusto corruccio di Dio contro la carne ed il peccato essendo impresso in quell’anima ed essendo essa animata dallo Spirito della divina giustizia, essa sì trova continuamente compresa di avversione e di condanna per la propria carne. – La carne tutta sta nel peccato e tende al peccato; la carne è tutta impregnata di ogni sorta di desideri impuri e, nel suo amor proprio e nella sua sensualità, non desidera nulla che per sé medesima; perciò Dio non può amare la carne; ma al contrario sempre la respinge e condanna ( Giov. Olier non vuol dire che tutto quanto l’uomo fa sia peccato, come potrebbe pensare chi guardasse superficialmente le sue espressioni; egli fu sempre strenuo della verità cattolica contro Protestanti, Bajanisti. E Giansenisti. La parola carne qui è presa nel suo senso peggiore, è quella che ha desideri contrari allo Spirito e le cui opere sono descritte da San Paolo nel capo V dell’Epistola ai Galati; quell’anima che nostro Signore ci comanda di odiare; che bisogna crocifiggere con i suoi vizi e le sue concupiscenze; quella inclinazione prepotente al male che portiamo in noi in forza del peccato originale; chi la segue non può piacere a Dio). Così l’anima quando sia passata in Dio, investita dallo zelo e dalla santità di Dio, riprova, condanna ed annienta in sé medesima tutti i desideri perversi che senza posa si innalzano nella propria carne per la soddisfazione dei sensi. Gli occhi, per esempio, secondo i desideri della carne, tendono a ciò che può dar loro gusto e soddisfazione, quindi cercano senza posa nelle creature quanto può contentarli; così pure tutti gli altri sensi esterni e interni. Ma lo Spirito che ha preso possesso dell’anima nostra, vedendo e sentendo in noi le inclinazioni e i desideri impuri che sono i segni della vita della carne e l’espressione della volontà ch’essa ha di soddisfarsi, non manca di imprimerci un sentimento di ripulsa contro questa vita della carne, e di portar l’anima nostra a resistervi, a guardarsi bene dall’aderire ad essa o dal soddisfarla con la ricerca e l’uso di ciò ch’essa desidera. Lo Spirito porta pure i sensi a privarsi di tali cose e a starne lontani, appunto perché sono desideri impuri della carne, la quale va castigata nel suo amore disordinato e nella sua funesta concupiscenza che la porta sempre ad accontentare sé stessa invece di Dio, mentre Dio è il nostro unico fine a cui dobbiamo tendere, secondo il dovere essenziale e capitale della nostra vita. È questa l’azione costante delle Spirito di penitenza, il quale ci porta alla mortificazione di noi stessi e all’intima repressione degli eccessi della nostra carne. Quando questa sia ben castigata, in modo che non goda nessuna soddisfazione inutile, essa si trova in istato di penitenza violentissima e penosissima, che conduce agli estremi; sono spesso agonie affannose, sensibilissime per quelli che sono fedeli a mortificarla e a privarla di ogni inutile soddisfazione.

IV.

Motivi e sentimenti di penitenza.

In onore di Gesù Cristo, e in unione con Lui penitente davanti a Dio, per i miei peccati e per quelli di tutto il mondo, protesto di voler far penitenza in tutti i giorni della mia vita, e di considerarmi in ogni cosa come un povero e miserabile peccatore, come un penitente indegnissimo. A questo fine porterò sopra di me l’immagine di Gesù Cristo, penitente sovrano, ed essa, con la memoria della penitenza interiore e dell’amore del mio Salvatore, sarà per me il ricordo continuo dei motivi che mi obbligano a far penitenza. Sono obbligato a fare ammenda onorevole alla giustizia ed alla santità di Dio Padre; un tal dovere mi viene imposto dal suo amore, dalla sua bontà, e da tatti ì suoi divini attributi. Sono in dovere di far penitenza, perché  il Figlio di Dio l’ha fatta per i miei peccati, perché ha meritato per me la misericordia del Padre suo e insieme la grazia di poter compiere la mia penitenza, mediante l’adorabilissimo e preziosissimo tesoro del suo sangue sparso per me su la Croce. Sono in dovere di far penitenza, perché nel battesimo ho ricevuto il Santo Spirito di penitenza onde esserne animato e vivere nei suoi sentimenti in tutta la condotta della mia vita. Dio è giusto, perciò non può né deve perdere nessun diritto sulle sue creature; Egli non mancherà di esercitare sopra di esse una intera vendetta e di prendersi una rigorosissima soddisfazione; o in questo mondo coi suoi flagelli, o con castighi spaventevoli nell’altro.

V.

Pratica della virtù di penitenza.

Il peccatore deve: 1. tenersi sempre presente il suo peccato, 2. conservarsi in una continua confusione, davanti a Dio, davanti al mondo e davanti a sé medesimo, 3. Dolersi con Gesù Cristo dei propri peccati, sempre disposto a subire la vendetta della divina giustizia. – e ciò in unione con Gesù Cristo. – Gesù ha espiato l’avarizia, la superbia e la voluttà con la povertà, i patimenti corporali e più ancora coi dolori interni dell’anima.

L’anima penitente in Gesù Cristo, rivestita dello spirito di penitenza di Gesù Cristo, deve formarsi le medesime disposizioni di Gesù Cristo e assimilarsi la forza e la virtù delle pratiche di Gesù Cristo.

***

1° Il peccatore, ad imitazione di Gesù Cristo che si è costituito peccatore e penitente per noi (Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum, fecit. II Cor. V. 21.); deve sempre tenersi il suo peccato davanti a sé (Peccatum meum contra me est semper. Ps., 4, 5); questa vista continua sarà il fondamento degli altri doveri che i suoi peccati gli impongono verso Dio.

2° Il peccatore, in conseguenza dei suoi peccati, deve, con Nostro Signore, portare sul proprio volto una perpetua confusione; portare una tale confusione dapprima davanti a Dio, come Gesù Cristo che portò davanti al Padre suo la vergogna delle nostre offese, secondo quelle parole Di confusione è stato coperto il mio volto (Operuit confusio faciem meam. Ps. LXVIII, 8); inoltre, restar confuse davanti a tutto il mondo, come ha fatto ancora il Figlio di Dio, il quale dice per bocca del Profeta: « Mi sono allontanato e ritirato dal mondo per dimorare nella solitudine; sono stato forestiero e pellegrino tra i miei fratelli (Ps. LIV, 8 – LXVIII, 9), vale a dire, fra gli uomini e tra i figli santi della Chiesa; avevo vergogna di stare in mezzo a loro, essendo carico di delitti più che tutti gli altri e portando su me stesso l’orribile e vergognoso peso dei peccati di tutto il mondo. Effettivamente mi sono nascosto nella solitudine solo per un certo tempo, ma, in ispirito, vi rimango sempre come indegno di comparire davanti al mondo e tra gli uomini ». – In terzo luogo, dobbiamo essere confusi anche davanti a noi medesimi, non potendo sopportarci nella nostra miseria e nella nostra onta. Così pure, di se stesso diceva il Figlio di Dio per bocca del profeta: Sono diventato di carico a me stesso (Job. VII, 20); provavo gran pena a sopportare me stesso per l’obbrobrio che sentivo sopra di me per tutti quei peccati orribili e odiosi. – Dio, nella sua misericordia mi faccia la grazia di aver parte della santa luce di Gesù Cristo, luce che mi faccia vedere l’orrore dei miei peccati, e mi copra la faccia e lo spirito di confusione davanti al mondo e davanti a me Stesso, ma soprattutto davanti a Dio Padre, affinché io gli dica spesso col Figlio prodigo: « Padre del Verbo Incarnato, che non ardisco chiamar mio Padre, ho peccato contro il cielo, contro gli Angeli ed i Santi che vivono con Voi, ma soprattutto ho peccato contro di Voi medesimo; e col pubblicano, che non osava alzare gli occhi al cielo; « Abbiate pietà di me che sono peccatore ».

***

3° In seguito alla confusione che deve sentire per i suoi peccati, il peccatore deve inoltre averne il dolore e la detestazione insieme con Nostro Signore che visse nel sacrificio perpetuo di un cuore contrito ed angosciato per i peccati del mondo. In virtù dei meriti di Gesù Cristo e per la unione con Lui, Dio accetta la contrizione da parte di tutti gli uomini i quali, partecipando  allo Spirito di Gesù, piangono, gemono e sono contriti per i loro peccati (Ps. 4, 19). Eterno Padre, per l’amara contrizione e l’abisso dei dolori interni del Figlio vostro (Thren. II, 12), datemi parte al divino Spirito della sua santa e dolorosa penitenza. Il vero penitente dopo tante sue colpe, nella confusione e riprovazione di sè stesso, deve sottomettersi per tutti i momenti della sua vita alla giustizia eterna, infinita e onnipotente di Dio, rimanendo sempre disposto a subire tutti gli effetti della sua vendetta, tutti i castighi che si compiacerà di imporgli. – A questo fine dobbiamo, noi peccatori, vivere sempre in unione di spirito con Gesù Cristo vivente e morente in croce in pena delle nostre colpe, perché il valore della soddisfazione di Gesù, essendoci comunicato, impreziosirà le nostre pene e santificherà i nostri travagli; questi sono sempre leggeri, meschini e sproporzionati alle nostre colpe, ma il merito adorabile di Gesù li renderà accettabili alla giustizia del Padre suo. – Gesù Cristo, dice S. Paolo, è morto per i nostri peccati; Egli era giusto ed ha sofferto per gl’iniqui (Rom. IV, 25); onde presentarci a Dio suo Padre come penitenti mortificati crocifissi nella nostra carne da uno spirito di penitenza, animando così, Egli stesso, i nostri cuori, come da nuova vita, dal desiderio di vendicare sopra di noi medesimi i nostri delitti. – I tre grandi peccati che riempiono il mondo sono: l’avarizia, la superbia e la voluttà; orbene a tre sorte di pene possono pure ridursi le immense soddisfazioni che Gesù Cristo Nostro Signore ha rese al Padre suo sulla Croce, e le pene esterne che Egli ha sofferto: estrema povertà, estrema confusione, estremi dolori nel suo corpo; tre sorte di patimenti ordinati a distruggere i suoi nemici capitali che sono pure tre: il mondo, il demonio e la carne. – La Scrittura, in parecchi luoghi, fa espressa menzione di questi tre patimenti. In merito alla povertà, la quale apparve più completamente sulla Croce, essa dice: Essendo ricco, si è fatto povero per noi. In merito alla sua vergogna e confusione, Egli stesso dice: Sono un verme della terra, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto del popolo. In merito ai patimenti che Gesù soffrì nel suo corpo, il Profeta dice: Non v’è nel mio corpo una minima parte che non sia colpita dal dolore (Isa, I, 6). Ma tutti questi mali erano ben poca cosa in confronto delle pene interne e dell’abbandono interiore che Gesù subiva nell’anima; di questo unicamente Egli si lamentava su la Croce: « Dio mio. Dio mio, perché mi avete abbandonato? » (Matt. XXVII, 46) Il profeta parlando di questo estremo della sua atroce afflizione dice di averlo visto non solo come un lebbroso, da cui stillava da ogni parte fetida marcia, ma pure come colpito nell’anima dalla vendetta di Dio corrucciato contro di Lui; perché era carico dei peccati di tutti gli uomini che insorgevano contro la Maestà divina (Isai, LIII, 4). Gli obbrobri e le ripulse, le oppressioni e i castighi meritati dai peccati che insorgevano contro di Voi, o mio Dio, sono caduti sopra l’anima mia e mi hanno causata la morte. Mi han fatto morire in uno spaventevole accasciamento nel quale immensamente soffrivo per il prolungato ritardo del mio ritorno a Voi e della mia perfetta unione con Voi nella gloria. In questo sta il colmo enorme e spaventoso dei dolori di Gesù, di Gesù infinitamente santo e amante di Dio suo Padre. Egli non respira che l’amore del Padre, non sospira che gli attestati della sua benevolenza, e vedersene respinto da un eccesso terribile e spaventoso della sua ira e del suo furore! Nella previsione di questo dolore spaventevole Egli diceva al Padre: Padre se è possibile, passi da me questo calice » (Matt. XXVI, 29), e parecchie volte per bocca del Profeta: «Dio mio, non mi riprendete nel vostro furore » (Ps. LVII, 1); sopporterò quanto vi piacerà, ma risparmiatemi questo effetto orribile della vostra collera, perché, a paragone di questo, tutti i dolori corporali non sono niente, né sono capaci di saziarmi: Sitio, ho sete ancora di pene esterne; perciò datemi di poter soffrire ancora dopo la mia morte nella mia Chiesa. e che i miei membri bevano al mio Calice, affinché facciano penitenza con me ed Io faccia penitenza in essi.

LA VITA INTERIORE (16)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (16)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA MORTE MISTICA

LA VITA NUOVA.

L’Apostolo Paolo dice che il Cristiano, per mezzo del Battesimo è morto e seppellito in Gesù Cristo, e dal Battesimo ne esce risuscitato a vita nuova, col dovere di vivere questa vita nuova… sul modello della gloriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Come si può, e si deve, vivere questa vita nuova? La vita di unione con Gesù esige la vita di Gesù in noi ed esclude la vita del nostro io, fatto di amor proprio e di orgoglio. Questa esclusione della vita del nostro io, ci porta alla necessità del distacco da tutto ciò che non è Dio e che a Dio non conduce; alla dimenticanza di noi stessi, alla morte mistica del nostro io.

IL DISTACCO DA TUTTO E DA TUTTI.

Tra gli elogi che venivano fatti ai primi Cristiani, v’era anche questo: che essi vivevano nel mezzo del mondo, ma vi erano col corpo, non col cuore, ed erano, con ciò, perfettissimi. – Se questo giudizio era detto dei primi Cristiani, è logico che debba essere ripetuto di ogni anima cristiana. Ecco, adunque, il nostro preciso dovere: vivere in mezzo al mondo, compiere tutti i nostri doveri dell’Apostolato nel mondo, come se nel mondo noi non vi fossimo. Esso, è il vero distacco secondo l’invito di Gesù: Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua. L’abnegazione che Gesù richiede alle nostre anime è il distacco perfetto da tutto ciò che si oppone a Dio. Ecco, per questo, una regola che oserei dire infallibile e che tolgo dal libro tanto prezioso degli Esercizi di S. Ignazio di Loyola. Dopo d’avere affermato, e provato, che Dio è il nostro ultimo fine, il santo così dice: « Tutte le creature che esistono sulla terra vi sono poste in vista dell’uomo, per aiutarlo a perseguire e raggiungere il suo fine: dal che ne deriva che noi non dobbiamo usare di esse che finché ci sono di aiuto, disprezzarle, fuggirle nella misura che c’impediscono di pervenirvi » (Esercizi Spirituali, 2a Settimana, Fondamento.). – Questa verità formulata dal santo fondatore della Compagnia di Gesù, dice Monsignor Gay, non ammette contestazione ragionevole; la conclusione che il santo ne trae è assolutamente rigorosa, implica fin d’ora una legge che non si potrebbe ignorare. Questa legge domina tutta la nostra vita terrena e la deve governare al di fuori e al di dentro; si applica tanto bene alle affezioni che alle azioni. Là sta il gran segreto, conclude Mons. Gay, del santo svincolamento dell’anima; e cioè del distacco da tutto ciò che non è Dio, concludiamo noi. V’è ancora un qualche cosa di più. Lo diciamo con le parole di san Francesco di Sales: O Signore, no, non eccettuo niente, strappate me a me stesso. O mio me stesso, io ti lascio per sempre, fino a che Dio mi comanderà di riprenderti.

LA DIMENTICANZA DI SÈ.

Il distacco è generico e comprensivo: comprende lo spogliamento generale dell’io; la dimenticanza è più ristretta e specifica, e riguarda, precisamente, soltanto noi stessi. Giova insistere: quando un’anima si dona, si consacra a Dio, non appartiene più a sé. Non esiste più di fronte alla propria volontà, nella visione della sua intelligenza come in quella de’ suoi occhi: vive unicamente in Colui al quale si è offerta; non ha più interessi e considerazioni proprie, ma solo quelli e quelle dello Sposo celeste. Dimenticare sé stessa, ecco, adunque, la più grande legge della vita di ogni anima. « Dimenticare se stessa, dice lo Schryvers (Il dono di sè, pag. 193) significa escludere dalle proprie azioni, sofferenze e preghiere, ogni calcolo umano, ogni pensiero retrospettivo di amor proprio, ogni i intenzione egoistica ». Dimenticare sé stessi significa accettare semplicemente dalla mano di Dio tutte le croci, tutte le contrarietà senza lamentarsene, senza prevalersene, senza esaminarne la durata, la natura, come se colpissero un altro. – Dimenticare se stessi, significa moderare la ricerca delle soddisfazioni personali, fuggendo le illecite, e prendendo tra le altre, solo quelle che la Provvidenza stessa ha preparato. Dimenticare se stessi significa stimarsi al giusto suo valore, ossia come una nullità e come un peccatore; significa sbarazzare la memoria sua e quella degli altri, della propria persona, delle proprie qualità, delle proprie opere; significa evitare anche uno sguardo ansioso e troppo prolungato sulle proprie debolezze. Questo sguardo ansioso e troppo prolungato sulle proprie debolezze è sempre una vittoria dell’animæ hostis e dell’amor proprio. – Ancora: « Dimenticare se stessi, significa sparire ai proprii occhi, con un atto di volontà, per non ritrovare in sé e negli altri, nelle persone e nelle cose, altro che Gesù e la sua volontà ». Fermiamoci. Qualche anima potrebbe, qui, domandarci: Sono possibili tutte queste dimenticanze? E come? Sì, rispondiamo recisamente. Ed è sempre e solo possibile per l’anima che ricorda la Passione e morte di Gesù; per l’anima che, meditando lo spogliamento totale di Gesù, per amore nostro, si lancia nell’oceano dell’amore divino; cioè, di questo santo amore divino ch’è parte dell’unica realtà, di Gesù, re di amore. L’anima che sente questo amore si compiace d’essere spogliata di tutto; è felice di vedersi togliere tutto quello che forma la gioia o la felicità delle anime ordinarie. Queste possono, e vogliono, prevedere o prevenire il loro futuro, cercare, combinare piani di battaglia, scomporre giochi faticosi di equilibrio; fabbricano progetti e li distruggono, scelgono liberamente le loro occupazioni, le distrazioni, i diporti, i piaceri; vanno a caccia delle proprie soddisfazioni egoistiche e prepotenti; sono avide della stima e della considerazione degli altri uomini; dànno, o ricusano, saltuariamente, ma volontariamente, il loro affetto, anzi la loro intimità; scherzano sulla meschina quotidiana politica delle anime piccine, ingannano gli ingenui; cambiano, come si dice, le carte in tavola, negli affari, successivamente e in breve volgere d’istanti; sono, in una parola, immersi nella vita del giorno e non conoscono le gioie del vero amore. Per questo vero amore, invece, le anime generose scelgono ed abbracciano le rinunzie, le mortificazioni, l’annientamento assoluto del proprio io; per questo vero amore le anime imparano a dimenticare se stesse e ad abitare nelle profondità di Dio. In questo modo l’anima appartiene a Gesù e ama solo Lui,  ardentemente, e gli esprime questo amore in tante differenti maniere, e lo ama ininterrottamente: nelle tribolazioni, nelle tentazioni, nelle tenebre, nelle desolazioni, come nei momenti di luce e di consolazione.  Quest’anima che vuole amare Gesù non gli chiede mai conto della sua condotta verso di lei. È come l’argilla nelle mani del vasaio. Vede, essa, che Gesù le dà un aspetto strano, apparentemente incomprensibile, ma l’argilla non può chiedere all’artista: perché mi forgi in questa maniera? L’anima che così vuole amare Dio lo serve anche con tutta la prontezza della sua obbedienza. Talora questo servizio è gradito e conforme alle sue delicatezze, e l’anima allora, benedice il Signore, lo ringrazia e accetta questa soddisfazione senza indugiarvisi sopra. Talora, invece, il servizio divino è pesante, doloroso, sanguinoso: espone l’anima a lotte, a contrarietà, a incontri penosi, umiliazioni spiacevoli, a incomprensioni angosciose. Allora l’anima ricorda che non si possiede l’amore se non per mezzo del dolore, e che il dolore è sempre l’ambasciatore di Gesù. « Perciò, dice molto opportunamente lo Schryvers (O. c., 198), l’anima che ha dimenticato se stessa, non presta attenzione a ciò che la fa soffrire, la mortifica o l’umilia. Non vive per se stessa, ma per il Maestro. Non nota l’ingiuria fattale, il disonore del quale è ricoperta, il disprezzo di cui è oggetto. Come potrebbe accorgersene essa che non è più? Imperturbabile prosegue l’opera compiuta per la gloria di Dio, dovesse anche soccombere sotto il suo compito, dovesse essere schiacciata sotto i colpi dell’insulto e della persecuzione.

» La semplicità e il disinteresse dell’anima sono spesso motivo di stupore in questo mondo, dove tutto è finzione ed egoismo. Le creature cercano, talvolta, di sfruttare, a loro profitto, tale ingenuità, le tendono tranelli e cercano di sorprendere la sua buona fede. Ma l’anima semplice, non è suscettibile di sorpresa. Non si tratta con essa, ma con Dio, non si cerca d’imbrogliare o raggirare essa, ma Dio medesimo ». L’amore ci persuade a dimenticare noi stessi. Ma non solo l’amore. Tutte le cose create invitano l’anima a dimenticare se stessa. – Non è Dio, infatti, il principio e il termine d’ogni cosa? Egli ha, perciò, diritto di sovranità su tutto, e tutto deve dipendere da Lui. Se dipendiamo da Lui, non è giusto ch’Egli solo regni e che noi ci dimentichiamo, per ricordare Lui solo? Tutto, fuori e dentro di Noi, ci avverte del nulla da cui fummo tratti, e tutto c’indica l’Artista che ci ha creato. Non importa se, non ostante questa constatata  realtà, al Dio Creatore e Giudice che esige il dovere della sottomissione dell’uomo, questi risponde anche con una sfida insolente. Quante volte si potrebbe ripetere col profeta: Stupitevi o cieli! Il bue conosce il suo padrone e l’asino colui che lo nutrisce: ma tu, o Israele, non conosci il tuo Dio (Isa.I, 3). Ho nutrito ed allevato molti figliuoli, ma essi mi hanno disprezzato (Io. I, 2).

LA MORTE MISTICA DEL NOSTRO IO.

Distacco da tutto, dimenticanza di sé, morte del nostro io. Tutta la vita di Gesù Cristo sulla terra, fu croce e martirio; una morte continua, morte mistica, completata con la morte naturale sulla croce. Perché la vita mistica, la vita d’unione di noi con Gesù sia stabile e completa, occorre che noi vogliamo e cerchiamo di morire a noi stessi. Ecco i vari e differenti gradi di questa morte mistica.

1) Morte al peccato. Il peccato è l’unico male, esso non può stare con Dio. La morte ma non peccati, fu il proposito preso e mantenuto dal ven. Domenico Savio, il pio alunno del santo don Bosco nell’Oratorio salesiano. Potius mori quam foedari, « piuttosto morire che macchiarmi » fu l’ardente desiderio di Agnese purissima, e di tutte le vergini Spose di Gesù! La morte, mille morti, ma non peccare! Il non offendere Dio è la prima condizione che deve osservare l’anima che vuole vivere intimamente con Dio.

2) Morte al mondo e alle cose esterne. Tutto il mondo ha le radici nella malvagità. Nessuno può servire a due padroni: il mondo segue il demonio; ogni anima deve seguire Dio, e tanto più deve cercare e seguire Dio l’anima che desidera e vuole vivere intimamente unita con Lui.

3) Morte ai sensi e alle cure del corpo. Ai sensi e al corpo dobbiamo dare solo ciò ch’è necessario; e perché il corpo non recalcitri, dobbiamo domarlo con le privazioni e con le mortificazioni.

4) Morte ai difetti naturali. Questo genere di morte è molto difficile: in esso consiste la completa riforma del carattere. Tra gli stessi santi, alcuni, come S. Agostino e S. Francesco di Sales, riuscirono a domare e dominare vittoriosamente il loro carattere, con l’aiuto della grazia santificante. Altri non riuscirono nella loro opera di completa riforma. È un lavorio codesto che ha termine soltanto con la morte. L’esame particolare ci fornisce, a questo fine, un mezzo eccellente, anzi indispensabile.

5) Morte alla propria volontà. Ripeteremo sovente il fiat, Domine, voluntas tua; così che non soltanto ci sentiamo rassegnati, ma lo siamo prima con gusto, poi con gioia, e poi con vivissima riconoscenza a Dio, da conformare prima, e uniformare poi, definitivamente, il nostro modo di vedere, pensare, giudicare, parlare, con la volontà di Dio e con quella di chi ci rappresenta Dio. Non capricci, adunque, non fantasie, non punti di vista personali, non ostinazioni, non presunzioni, ma lasciarci guidare sempre dallo Spirito Divino.

6) Infine morte alla stima e all’amor proprio; morte alle consolazioni spirituali stesse che sono mezzi non necessari per la perfezione, e completa oscurità riguardo lo stato dell’anima. Gesù dice allora all’anima quella parola che già disse, un giorno, a S. Caterina da Siena: Tu pensa a me, io penserò a te.

LA VITA INTERIORE (17)