GIOVANNI G. OLIER
Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI
IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.
CAPITOLO VIII.
Della mortificazione
II.
Secondo motivo della mortificazione
È dovere di giustizia crocifiggere la carne, — perché ha servito al peccato. Perché è nemica mortale di Dio.
Il secondo motivo che ci obbliga a mortificarci è il dovere di far penitenza. Come le nostre membra hanno servito all’iniquità, dice S. Paolo, così devono servire alla giustizia (Rom. VI, 19). Nostro Signore vuole troviamo il nostro castigo in quelle medesime cose per le quali abbiamo peccato. Bisogna dunque che le nostre membra, perché nell’offesa di Dio hanno cercato la propria soddisfazione, siano crocifisse e punite; bisogna siano mortificate e come hanno servito all’ingiustizia e all’iniquità, noi le facciamo servire alla giustizia. Ora noi le facciamo servire alla giustizia, non solamente nell’adoperarle negli esercizi di pietà ché sono opere di giustizia perché per mezzo di esse si adempiono i doveri verso Dio; ma le faremo servire alla giustizia di Dio, col far loro sentire giusti effetti della divina vendetta. Bisogna che Dio punisca in noi le nostre membra, e così queste servano alla giustizia: se Dio non lo fa, dobbiamo noi metterci al suo posto e animarci del suo zelo contro di nei; bisogna che diventiamo strumenti del suo Spirito per esercitare sopra di noi la sua giustizia; bisogna che rendiamo partito per Lui contro noi medesimi e che per conto suo facciamo guerra a noi stessi, poiché sappiamo che Egli non è contento di noi, eppure non si è preso soddisfazione e vendetta per le nostre offese. – Dobbiamo dunque con un santo zelo ed un generoso coraggio castigarci noi medesimi, alzando il braccio contro di noi come contro una persona estranea, perché, infatti, apparteniamo a Dio più che a noi stessi e dobbiamo curarci dell’interesse di Dio più che di ogni nostro interesse proprio. Dio è tutto per noi, e a confronto Lui noi non siamo nulla. Dobbiamo perciò dimenticare per così dire, abbandonare la nostra persona e battere sopra di noi come sopra un morto o sopra un estraneo. Così fa il vero penitente che esercita sopra di sé la mortificazione con ispirito di vera penitenza.
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Altro pensiero che ci impone la mortificazione è la considerazione della nostra carne quale trovasi in sé stessa, nella sua maledizione e nella sua ribellione contro Dio; in quanto è tale, noi dobbiamo mortificarla in tutto e in ogni modo, armandoci contro di essa come contro un mortale nemico di Dio. La carne in sé stessa è interamente contraria a Dio e, in tale qualità, va castigata; essa è come un forzato, uno schiavo ribelle che, malgrado il suo delitto, non lascia punto di rivoltarsi ogni era; così essa con la forza e la violenza va tenuta soggetta al suo padrone. Adamo, per dare l’esempio alla sua posterità, passò la sua vita nella penitenza: il Signore lo lasciò novecento anni sulla terra, appunto per insegnare a tutti i di lui figliuoli che ne continuano la vita, che essi pure, mentre vivono sulla terra esuli dal Cielo, devono incessantemente far penitenza come sempre fece Adamo finché stette sulla terra. I Cristiani, come figliuoli di Gesù Cristo, continuano la vita santa di Gesù per la virtù del suo Santo Spirito. Così i figliuoli di Adamo devono parimente continuare la vita penitente del loro primo Padre. I Cristiani sono l’espressione di Gesù Cristo e il prolungamento della sua vita; così i figli di Adamo devono ancor essi essere l’espressione di Adamo e la dilatazione della sua vita nello stato di penitenza. Sono dunque obbligati a castigare le prorie colpe come Adamo ha castigato la sua.
III.
Terzo motivo di mortificazione.
La religione esige il sacrificio.
Il terzo motivo nasce dalla religione la quale ci porta sempre al sacrificio di noi medesimi e quindi alla mortificazione. Quando desideriamo di prenderci qualche diletto secondo la carne, quando siamo tentati di dar gusto ai nostri sensi interni o esterni, oppure di accontentare qualcuna delle nostre facoltà anche spirituali, come sarebbe la nostra volontà con qualche vana soddisfazione o la nostra mente con qualche curiosità o qualche studio inutile, dobbiamo, in ispirito di religione e di sacrificio, mortificare tutti questi desideri dell’amor proprio, distruggerli e soffocarli. Questo si chiama propriamente sacrificare, perché così, per la gloria di Dio, sì distrugge, si immola, si uccide, si soffoca l’appetito naturale, il quale è pur cosa reale e vera, perché è cosa sensibile ed effettiva, tanto più sensibile quanto più realmente è in noi, essendo una parte di noi stessi. Nulla è più crudele e rigoroso della religione; essa immola tutto, uccide tutto e non risparmia nulla; essa ha in mano quella spada che il nostro Maestro Gesù è venuto ad apportare sulla terra: Non veni pacem mittere sed gladium. Non sono venuto ad apportare la pace, ma la spada: (Matth. X, 24). La mortificazione è raffigurata pure dalla spada di Ezechiele (Ez. V, 1) che quel santo Profeta ogni tanto passava tra i peli della sua barba, per indicare che bisogna mortificare i desideri superflui della carne che non sono altro che rifiuti e una corruzione della nostra natura. – I sacrifizi sanguinosi dell’antica legge erano un’altra figura della crudeltà che dobbiamo avere in fatto di religione; questa non deve risparmiare nulla, ma tutto sacrificare a Dio. Così fecero i Leviti, come si riferisce nell’Esodo (Es. XXXII, 27-29), che sacrificarono a Dio e immolarono i loro figliuoli, i loro fratelli e i loro amici per ispirito di religione e di grande riverenza verso Dio, davanti al quale consideravano ogni creatura come niente, né potevano soffrir nulla che a Lui procurasse dispiacere. Da tale spirito di religione devono essere animati i Cristiani; quindi distruggere e mortificare ogni corruzione della propria carne, tutto quanto hanno di proprio, tutto quanto vi è in essa di superfluo, in una parola, sacrificare tutto quanto non è rigenerato da Gesù Cristo.
IV.
Quarto motivo della mortificazione
La santità, cui tutti siamo chiamati, specialmente i Sacerdoti, esige distacco da ogni cosa creata, anche dalle tenerezze spirituali. — La comunione spirituale a Dio.
Quarto motivo che ci obbliga alla mortificazione, la santità con cui dobbiamo vivere nell’anima con Dio, nel distacco da ogni creatura. In Dio, la santità lo tiene applicato a Lui stesso e separato da tutto l’essere creato; lo stesso effetto essa suole operare in tutti i Cristiani, perché sono consacrati a Dio per il battesimo e perciò da S. Paolo chiamati col nome di Santi (1 Cor. I, 2; Efes., I, 1). Ché se tutti i Cristiani devono essere santi e distaccati da tutto, i sacerdoti ne hanno un obbligo più particolare, perché ad essi principalmente Dio rivolge queste parole: Siate santi perché io sono santo (Lev. XI, 44), siate distaccati da tutto perché io sono separato da tutto. – I sacerdoti, che offrono a Dio i pani e l’incenso, dovranno essere santi per il loro Dio (Lev. XXI, 6), vale a dire, saranno distaccati da tutto e dedicati a Dio solo. Egli merita questo omaggio, ma di più lo esige la sua grande santità; Dio, essendo la santità per essenza, non può sopportar nulla che non sia secondo la sua volontà. Egli vuole che i sacerdoti, perché lo avvicinano, siano consumati in Lui dal suo Spirito, affinché nulla che sia impuro si avvicini a Lui e che, in tal modo, anche quando è unito al sacerdote Egli rimanga sempre santo e separato da tutto. – La santità separa l’anima da ogni creatura; le impedisce di effondersi nella creatura e riporvi i suoi affetti; la obbliga a ritirarsi in Dio senza più cercar nulla fuori di Lui. La santità è così di una austerità eminente e di una severità oltremodo rigorosa perché non tollera la minima effusione dell’anima in ciò che non è Dio. La santità non tollera neppure che l’anima cerchi la sua soddisfazione in certe tenerezze verso Dio, perché questi sentimenti e questi gusti spirituali non sono Dio; e l’anima perdendosi in queste tenerezze si prenderebbe diletto e soddisfazione in ciò che non è Dio. Quando sia stabilita nella santità perfetta, l’anima rimane unita a Dio puramente con la fede; non si perde in nulla, né si ferma a nulla, non cerca altro che Dio e sì conserva distaccata persino dai doni di Dio, perché questi non sono Dio, il quale è puro, santo e separato da tutto. – Non già che non dobbiamo usare dei suoi doni per andare a Lui, ma essi non debbono essere che la via per giungere a Lui; non dobbiamo esservi menomamente attaccati; dobbiamo tendere unicamente al possesso di Dio solo. Se vi ci attacchiamo, tra Dio e noi v’è qualche cosa che gl’impedisce di unirsi interamente a noi. Ben poche sono le anime che non sì rivolgano alle creature per cercare in esse qualche soddisfazione (Omnes declinaverunt. Ps. XIII,3). Poche sono quelle che appena si accorgono di qualche attacco alle creature, hanno cura di ritirarsi nel loro interiore per entrare in Dio e rimanere perfettamente uniti a Lui. Eppure ci vuole grande fedeltà in questo punto, perché non bisogna mai soffrire che l’anima riponga le sue affezioni in nessuna creatura. Donde avviene che le persone sante, le quali sono puramente intente in Dio e interamente ritirate in Lui, non si compiacciono mai in soddisfazioni naturali, neppure nelle relazioni con le persone care; essendoché Dio, nel quale la loro anima è ritirata, non lo permette; e siccome esse hanno rinunciato ad ogni sentimento naturale e che il fondo della loro anima tutto occupato di Dio e a Lui intimamente unito, non si perdono nel cercare soddisfazioni fuori di Lui. – Ché se l’anima incomincia a distogliersi da tale distacco santo e divino, se incomincia ad effondersi nelle creature, essa tanto meno resta unita a Dio; inoltre perde la sua forza e il suo vigore, diventa vana e dissipata, effusa fuori di sé come l’acqua versata su la terra asciutta (Ps. XXI, 15). Quindi non bisogna soltanto aver cura di distaccare l’anima, come abbiamo detto, dalle cose sensuali e materiali, ma anche dalle cose spirituali; vale a dire dalle dolcezze, dalle consolazioni e dalle altre grazie sensibili alle quali l’anima facilmente si attacca. Essa ama questi doni, li cerca, quasi sempre li desidera, non avvertendo che questi doni non sono Dio più che le altre cose; vi si attacca e perde la sua santità in modo tanto reale, benché non così interamente, come se si attaccasse a cose più materiali. L’anima, per l’uso e il gusto di queste cose spirituali, diventa lorda e impura, debole, incostante e leggera; se non istà ben attenta, arriverà ad una intera opposizione con la santità di Dio. – Il disegno di Dio è di richiamare tutte queste cose all’unità; perciò, Egli vuole che tutte le creature, le quali in se stesse sono diffuse e moltiplicate, servano però all’uomo perché si unisca a Lui solo. Epperò Egli vuole che, se l’anima nostra e i nostri sensi vengano attirati da oggetti che ci piacciono, subito noi ce ne distogliamo per rivolgere a Lui il nostro cuore, dicendogli: voi siete il mio mondo, la mia gloria, il mio tesoro e il mio tutto. – Così nel Cielo, i Santi inabissati in Dio, in Lui trovano tutto, né più sono tentati dalle cose basse e spregevoli della terra. Siccome Dio contiene ogni cosa in eminenza ed Egli è tutto per essenza; siccome Dio in sé e nella sua somma perfezione include tutte le imperfette perfezioni disseminate e diffuse nelle creature, i Santi in Dio possiedono perfettamente intenti, senza che nulla di profano, né alcuna inclinazione terrena li renda impuri, o sia di impedimento alla loro santità. – Ciò che ci rende terreni e ci impedisce di essere santi, è l’amore e l’attacco alla creatura. Perciò, se vogliamo essere santi, dobbiamo aver cura, all’aspetto di qualsiasi creatura, di ritirarci in Dio, perché non ve n’è neppure una che non tenda a distaccarsi da Dio per attirarci a sé stessa. Perciò, sono convinto che è cosa importantissima proporci esercizi giornalieri, che nelle varie circostanze della vita ci servano a tenerci distaccati da Ogni cosa, per portarci a Dio, rifugiarci in Lui e così vivere in intima unione di amore con Lui: Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui (Qui manet in charitate, in Deo manet, ed Deus in eo. – Joan. IV, 16).
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L’unione di carità mette Dio in noi e noi in Dio. Come la Comunione sacramentale mette Gesù Cristo in noi e noi in Gesù Cristo, così la Comunione a Dio per amore, benché spirituale, è tuttavia reale; essa ci mette realmente in Dio e mette pure realmente Dio in noi; dimodoché diventiamo un medesimo spirito con Lui: Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed io sto in lui (Joan. VI, 59). È questo l’alimento continuo, il pane quotidiano di cui dobbiamo incessantemente nutrirci; è la mammella cui dobbiamo ricorrere senza posa per essere mantenuti nella vita divina. La Comunione spirituale a Dio e la Comunione sacramentale sono le due mammelle di cui dice la Scrittura che sono migliori del vino più delizioso (Cant. I, 1). – Dio, col suo divino Spirito che è una di quelle mammelle con cui nutre la sua Chiesa, fa come quelle nutrici, che talvolta gettano del latte sulle labbra del bambino perché si porti al seno dove troverà abbondante nutrimento. In tal modo, quel divino Spirito, ornando il mondo delle proprie bellezze (Spiritus ejus ornavit cælos – Job. XXVI, 18) presenta agli occhi nostri i beni e gli oggetti piacevoli di questa vita, perché ci ricordiamo della loro fonte che è in Lui e perché a questa fonte ricorriamo con amore per il nostro spirituale alimento: e questo si fa col legarci a Lui per amore, col ritirarci in Lui quando a noi si presentano le creature. Le cose di questo mondo non sono create perché in esse noi troviamo la nostra soddisfazione, ma per avvertirci che nello Spirito di Dio troveremo cose più sante e più pure, di cui potremo godere in Lui senza imperfezione.