QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMASETTIMA.
11 dicembre.
Riassunto. — Natura del segno della croce. — Stima in che è tenuto di presente.— A qual cosa accenni la dimenticanza ed il disprezzo del segno della croce.— Spettacolo che presenta il mondo contemporaneo. — satana torna. — È mestieri esser fedele al segno della croce. Precipuamente avanti e dopo il pranzo.— La ragione, l’onore, la libertà lo comandano. — La ragione è favorevole o contraria a quelli, che hanno siffatto segno sugli alimenti? Esempi e ragioni.
Arma universale ed invincibile per l’uomo, parafulmine per le creature, simbolo di libertà pel mondo e monumento di vittoria pel Verbo Redentore: tale fu, mio caro Federico, il segno della croce agli occhi dei primi Cristiani. Da questa convinzione procedeva l’uso ch’eglino ne facevano, i sentimenti, che loro inspirava, il magnifico e piacevole spettacolo, a cui testé assistemmo. Conservammo noi la fede de’ padri nostri? Per i Cristiani del secolo decimonono qual cosa mai è il segno della croce? come usano di esso a pro di sé stessi e delle creature? I sentimenti di fede, di confidenza, di rispetto, di fiducia e di amore, che loro inspira, sono vivi e reali? Il maggior numero di quelli, che fanno un tale segno non lo eseguono forse ignorando quel che operano, e senza attribuirgli valore alcuno, ed importanza? Quanti non lo eseguono affatto? Quanti credono ricevere onta dall’eseguirlo? Quanti ancora non son presi da sdegno al vederlo? E per fermo, eglino l’hanno tolto dalle loro case e dai loro appartamenti, cassato dalla loro mobilia, ed inutilmente lo si cercherebbe nelle pubbliche piazze, nelle passeggiate delle città, lungo le vie e ne’ parchi; poiché l’han fatto disparire da tutti i luoghi, dove i padri nostri l’aveano innalzato. Eglino, nuovi iconoclasti del secolo XIX, hanno spezzate le croci! Qual cosa mai èquesta, ed a quale avvenire accennano siffatti sintomi? Vuoi saperlo? Rimonta al principio illuminatore della storia. Due principi oppositi si disputano il dominio del mondo, lo spirito del bene e lo spirito del male.Tutto che si opera è, o per inspirazione divina, o per inspirazione satanica. L’instituzione del segno della croce, l’uso continuo di esso, la fiducia che inspira, la potente virtù attribuitagli, è una inspirazione divina o satanica? È o l’una, o l’altra. Se è una inspirazione satanica, il fiore della umanità, che sola fa questo segno, è da poi oltre diciotto secoli incurabilmente cieca, mentre che il rifiuto della umana compagnia, che sprezza la croce, avrebbe ogni lume: è un dire, che i miopi, i loschi e i ciechi del tutto vedano più di colui, che ha due buoni occhi. Credi possibile che l’orgoglio possa tanto impazzire da affermare simile paradosso, e che vi sia tale una incredulità, e di sì robusti polsi da sostenerlo? Ma se il segno della croce praticato, ripetuto, caro, considerato come arma invincibile, universale, permanente, necessaria alla umanità contro satana, le sue tentazioni e i suoi angeli, è una inspirazione divina, che vuoi che io pensi di un mondo, che non comprende più un tal segno, che più non lo esegue, che si vergogna di esso, che più non lo saluta, che lo vuole scomparso dalla vista degli occhi suoi, e dal cospetto del sole? A meno che la natura umana non si sia del tutto immutata, e che il dualismo non sia che una chimera; a meno che satana non abbia abbandonata la pugna; a meno che le creature non abbiano cessato di essere i veicoli delle sue funeste influenze: il Cristiano d’oggidì sprezzatore del segno della croce non è che un rampollo degenere di una nobile razza. Desso è un razionalista insensato che non comprende più la lotta, nè le condizioni di essa; il secolo decimonono è un soldato presuntuoso, che, spezzate le armi, e deposta ogni armatura, si getta alla cieca nel mezzo delle spade e delle lance nemiche, con braccia legate, e a petto nudo; la società moderna, una città, sommersa nel sensualismo de’ baccanali, smantellata, circondata d’innumerevoli inimici, che agognano a farne ruina, e passare a fil di spada la guarnigione. Farne una ruina! Ma non è questa già fatta? Ruina di credenze, ruina di costumi, ruina dell’autorità, ruina della tradizione, ruina del timor di Dio e della coscienza, ruina della virtù, della probità, della mortificazione, dell’ubbidienza, dello spirito di sacrifizio, di rassegnazione e di speranza: dappertutto, ruine cominciate, o ruine compite. Nella vita pubblica e nella privata, nelle città e nelle borgate, nei governanti e nei governati, nell’ordine delle idee e nel dominio de’ fatti, quanto di perfettamente cattolico resta incolume, ed intero? Ma in tutto ciò nulla v’ha, caro Federico, che ci debba meravigliare. Togli il segno della croce e tutto si spiega. Meno v’ha di croci nel mondo, più v’ha di satana. La croce è il parafulmine del mondo; toglilo, e la folgore cade a schiacciare e bruciare. Il segno della croce accenna al dominio del vincitore, n’è trofeo : spezzarlo è un far rivivere l’antico tiranno, e preparargli il ritorno. Ascolta quanto scriveva, or sono diciassette secoli, uno degli uomini, che abbiano intesa tutta la misteriosa potenza di questo segno, dico il martire, il più illustre fra i martiri, Ignazio di Antiochia. Contempla questo Vescovo dai bianchi capelli, carico di catene, che attraversa seicento leghe per condursi a farsi dilaniare da’ leoni al cospetto della gran Roma. Vedilo; è calmo quasi fosse sull’altare, ilare, come se andasse ad una festa, e dà, lungo il cammino, istruzioni ed incoraggiamenti alle chiese dell’Asia accorse a salutarlo. Questi nella sua ammirabile lettera a’ Cristiani di Filippi, scrive: e il principe di questo mondo mena gran festa, quando qualcuno rinnega la croce. Esso conosce esser la croce, che gli apporta la morte, perchè dessa è l’arme distruggitrice di sua potenza. La vista di essa gli mette orrore, il suo nome lo spaventa. Innanzi questa venisse fatta, nulla trasandò perchè la si formasse, ed a siffatta opera egli spinse i figli della incredulità, Giuda, i Farisei, i Sadducei, i vecchi, i giovani, i sacerdoti: ma tosto che la vide sul punto d’essere compita si turba. Immette rimorsi nell’animo del traditore, gli presenta la corda, lo spinge a strangolarsi; spaventa con segni la moglie di Pilato, ed usa ogni sforzo ad impedire che venisse compiuta la croce, non perchè avesse rimorso, che se ne avesse non sarebbe del tutto cattivo; ma perchè presentiva la sua disfatta. Nè s’ingannava: la croce è il principio della sua condanna, di sua morte, e della sua perdita ». – Ecco due insegnamenti: orrore e timore di satana alla vista della croce e del segno di essa; gioia di lui nell’assenza dell’una e dell’altro. Vede egli un’anima, un paese senza la croce vi entra senza paura, e vi dimora tranquillo. Come inevitabilmente al cader del sole le tenebre succedono alla luce, così del pari desso ristabilisce il suo impero al disparir della croce. Il mondo attuale n’è sensibile prova. Non parlo del diluvio di negazioni, empietà, bestemmie inaudite che inondano il mondo, ma, che cosa mai sono, per chi non si soddisfa di sole parole, i milioni di tavole giranti e parlanti, gli spiriti battenti o familiari, le apparizioni, le evocazioni, questi oracoli e consultazioni medicali, le comunicazioni con i pretesi morti, che, ad un tratto, hanno invaso il vecchio ed il nuovo mondo (Dopo diciannove secoli di Cristianesimo vediamo ripetute le pratiche occulte di Delfo, di Dodone e di Sinope. La demonolatria assume nuove forme; mesmerismo, magnetismo, sonnambulismo, spiritismo, ipnotismo ed altre diavolerie, non sono altro che satanismo, sicrivea Ventura a M. des Mouseaux, la magia al secolo IIX. Lo spiritismo si è costituito in società sotto il nome Società Parisienne des spirites; ha le sue sedute, le sue contribuzioni, più migliaia di aderenti, che cerca moltiplicare per l’organo de’ giornali, due in Francia, ed un altro in Napoli. Insegna per mezzo de’ suoi mediums, o spiriti dei trapassati, che la religione cristiana è un mezzo per passare alla vera religione degli spiriti: che non esiste eternità di pene, ed ultimamente lo spirito di Orsini ha insegnato in Napoli che può uccidersi ogni tiranno! (Unità Cattolica, 21 gennaio 64. Il patriarca della nuova religione è Alan-Kardek, che a spese de’ gonzi e de’ superstiziosi, introita ogni anso 250,000 franchi. Tutto ciò in pieno secolo XIX! – Nota del Trad.). – Son forse queste cose nuove? No: l’umanità le ha già viste. Ma quando? Quando il segno della croce non proteggeva il mondo, quando satana era dio e re delle società! Di presente siffatte cose col ricomparire con proporzioni ignote di poi il vecchio paganesimo, quale avvertenza ne danno? se non che il segno liberatore cessando di proteggere il mondo, satana lo invade di nuovo. – Tu il vedi, caro amico, sono ben poco intelligenti quelli che abbandonano il segno della croce. Sieno eglino oggetto di nostra compassione e non d’imitazione! Fra tutte le circostanze in cui è da separarsi da loro, ve n’ha una in che lo si deve inevitabilmente. Per noi, come per i nostri padri, il segno della croce avanti e dopo il pranzo dev’esser cosa sacra; poiché come tale lo comandano la ragione, l’onore, la libertà. La ragione. Se interroghi i tuoi compagni dimandando loro perchè non facciano il segno della croce innanzi prendano il cibo, ciascuno ti dirà: Non voglio singolarizzarmi operando altrimenti degli altri. Non voglio ch’io sia segnato a dito, e che altri si burli di me, per la osservanza di una pratica inutile, ed ormai fuori moda. Non vogliono singolarizzarsi! Per loro onore, stimo credere, che non intendano la forza di siffatta espressione. Singolarizzarsi, è un dire, isolarsi, non operare come tutti gli altri. In siffatto senso si può ben essere singolare senza taccia di ridicolo; anzi, v’hanno delle circostanze ch’è mestieri esserlo ad isfuggire la colpa. Nel mezzo di un manicomio, l’uomo ragionevole che opera assennatamente; in un paese di ladri, l’uomo onesto, che rispetta l’altrui, sono de’ singolari: son dessi ridicoli? Nel senso in che è presa da’ tuoi compagni, singolarizzarsi vuol dire isolarsi, operando con maniere, che, movendo al riso, si oppongono agli usi ammessi e ci rendono ridicoli. Resta però vedere se, fare siffatto segno innanzi e dopo il pranzo sia un singolarizzarsi in maniera ridicola. Per fermo, ti diranno, perchè è un operare altrimenti dagli altri. Ma v’hanno altri ed altri. V’hanno alcuni, che fanno il segno della croce, e ve n’hanno altri ancora che non lo eseguono. Di siffatto modo facendolo o non facendolo noi non ci singolarizziamo, noi siamo sempre con altri. Siam noi ridicoli? Per rispondere a tale dimanda è da osservare chi sieno quelli, che fanno un tal segno, e chi quelli, che lo trasandano. Quelli che lo praticano sono tu, io, la tua onorevole famiglia, la mia, nè siam soli; prima di noi e con noi ve n’hanno ben altri ancora. V’hanno tutti i veri e coraggiosi Cattolici dell’Oriente e dell’Occidente da poi diciotto secoli, i quali, come vedemmo, sono il fiore della umanità, e con siffatta compagnia si diviene sì poco ridicolo, ch’è un esserlo al sommo, non appartenendo ad essa. Se ne eccettui quelli che vivono di parole, e che con esse vorrebbero tutto pagare, la proposizione è indegna di esser discussa. Nulla v’ha di più certo dell’aver con tutto studio il fiore della umanità eseguito il segno della croce, avanti e dopo il pranzo. I Padri de’ quali, ho testé apportate le sublimi testimonianze, Tertulliano, S. Cirillo, S. Efrem, S. Crisostomo, non lasciano alcun dubbio sulla universalità di questa religiosa usanza, presso tutti i Cristiani della primitiva Chiesa. Ma lascia che io ne aggiunga qualche altro. Quando si siede a mensa, dice il grande Atanasio, e si spezza il pane, lo si benedice per tre volte col segno della croce, e si rendono le grazie » (Cum in mensa sederis, coeperisque frangere panem, ipso ter consígnato signocrucis, gratias age. – De Viginet., n. 13). La benedizione della mensa col segno della croce non era solamente in uso presso le famiglie nella vita civile, ma l’era altresì negli eserciti, nella vita del campo. S. Gregorio di Nazianzo racconta, a questo proposito, un fatto venuto in gran fama. Giuliano, l’Apostata, gratificava l’esercito con istraordinaria distribuzione di viveri e di danaro. Dal lato al principe v’era un braciere acceso, e tutti i soldati vi gettavano un granello d’incenso. I soldati Cristiani imitarono i commilitoni pagani, nulla sapendo che in ciò vi fosse idolatria. Compiuta la distribuzione, tutti in uno raccolti desinavano in onore del principe. Sul cominciar della mensa, fu presentata la coppa ad un soldato cristiano, e questi, secondo l’usato, la benedisse. Tosto una voce si levò a dirgli: Quello che fai ripugna a quanto testé operasti. Che feci? Hai tu dimenticato l’incenso ed il braciere? Ignori che idolatrasti, che rinnegasti la tua fede? Com’ebbe ciò inteso, levossi il guerriero e con lui i compagni d’arme, e tutti gemendo e strappandosi i capelli, a grandi grida, si dichiararono Cristiani, e protestarono contro l’inganno loro fatto dall’imperatore, e domandarono nuove prove per confessare la propria credenza. L’apostata fattili arrestare e legare li condannò a morire, e dispose venissero condotti al luogo del supplizio;ma, a non far de’ martiri, accordò loro la vita rilegandoli nelle più lontane frontiere dell’impero (Orat. 1, contra Julian., Theodoret. – Hist., lib. Ill, c. 16). – Quando un prete trovavasi in un convito, a lui apparteneva l’onore di fare il segno della croce sugli alimenti (Ruinart. – Actes du martyrs de saint Theodoret). – La benedizione della mensa era in tanta stima di cosa santa, che al nono secolo i Bulgari convertiti alla fede dimandavano al Papa Nicolò I, se il semplice laico potesse supplire al prete in tale funzione. Per fermo, rispose il Pontefice; avvegnaché, a tutti è commesso preservare, col segno della croce, quanto gli appartiene, dalle insidie del demonio, e trionfare di tutti i suoi attacchi per lo nome di nostro Signore (Nam omnibus datum est, ut et omnia nostra hoc signo debeamus ab insidiis munire diaboli, et ab ejus omnibus impugnationibus in Christi nomine triumphare. – Resp. ad consult. Bulgar.). I tempi successivi han visto perpetuarsi presso tutti i veri Cattolici dell’Oriente e dell’Occidente l’uso del segno della croce prima e dopo il pranzo, e tu sai come sussista ancora di presente. – Noi conosciamo quelli che fanno il segno della croce, e gli altri che non lo fanno; è da vedere a chi i tuoi compagni diano la preferenza. I pagani non lo fanno, ed i giudei nemmeno, i maomettani neppure, gli atei e i cattivi Cattolici neanche, i Cattolici ignoranti o schiavi del rispetto umano parimente lo trasandano. Ecco quelli che non fanno il segno della croce, e che beffano quanti sono teneri di si pia usanza. Da qual lato è la singolarità ridicola? Nella prossima lettera il resto della obbiezione.
CONGETTURE SULE ETÀ DELLA CHIESAE GLI ULTIMI TEMPI (1)
Tratte dall’Apocalisse, dal Vangelo, dalle Epistole degli Apostoli, e dalle Profezie dell’Antico Testamento
Messe in relazioni con le rivelazioni della Suora della Natività
di Amedeo NICOLAS
Videte ataque, fratres quomodo caute ambuletis: non quasi insipientes
(Vigilate dunque attentamente, fratelli. sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti)
J. B. Pèlagaud et Cie. Imprim. LibrairesDe N. S. P. le Pape
Lyon, grande rue Mercière, n. 50 – Paris, rue les Sainte-Pères, 57. -1858.
DEDICA A MARIA IMMACOLATA
Degnatevi, gran Regina del cielo e della terra, di accettare l’offerta di questo libro e l’omaggio che ve ne fa l’ultimo dei vostri figli e servitori. Voi siete la Sedes Sapientiæ; se in queste pagine si trova qualche verità, essa viene da Voi; infatti, sentendo tutta la mia debolezza, io ho chiesto i vostri lumi al fine di essere utile ai miei fratelli e procurare, per quanto mi sia possibile, la maggior gloria di Dio; voglia la vostra materna bontà riguardare con benevolenza questo scritto, come quelli che lo hanno preceduto; che Ella mi dia e confermi la mia umiltà ed obbedienza alla Chiesa, che sono così necessarie per non cadere nei lacci dell’orgoglio e dell’errore.
Amedeo Nicolas.
Avviso
Io ho molto esitato prima di pubblicare queste “Congetture”; le ho sottoposte per lungo tempo alla critica, in Francia ed in Italia; ed è solo dopo che esse sono state accuratamente discusse e corrette, e sotto i consigli pressanti che mi sono stati dati, che io mi sono deciso. – La prima impressione che molti proveranno sentendo parlare di questo libro, sarà la repulsione per un commentario di qualche parte dei libri sacri fatto da un laico. Coloro che saranno in queste disposizioni vogliano ricredersi in piena ignoranza di causa; se essi leggeranno attentamente, spero che possano vedere un lavoro serio e coscienzioso, e non il prodotto di una immaginazione surriscaldata, di un cervello esaltato. Io so bene che molti lettori non saranno del mio avviso. L’eterna Verità è stata combattuta, a maggior ragione lo sarà questo libro che non ha la pretesa di essere la Verità. Nello stato attuale sarà certamente attaccato con forza, forse dal sistema, a causa delle sue relazioni con certe recenti opere che non sono convenute alla parte più sapiente e pia della nostra popolazione; ma io spero che, in questo caso, potranno ricredersi. Tuttavia, qualunque sia il risultato finale, vedrò con soddisfazione questo dibattito che potrà condurre alla conoscenza della verità, e rischiarare gli spiriti sull’epoca nella quale viviamo, e la sua prossimità della fine dei tempi. Contento per averne fornito l’occasione, io non prenderò parte alla discussione, a meno che non vi sia forzato; ma prego tutti coloro che avranno da fare delle osservazioni, di inviarmi delle lettere che le contengano. Io le sottoporrò a dei teologi, così come ho fatto per il libro stesso, e se sono giuste e fondate, le evidenzierò in una nuova edizione. Lungi dal respingere gli avvisi e le correzioni, io li richiedo e ringrazio in anticipo coloro che avranno la bontà di comunicarmeli.
Amedeo Nicolas
Marsiglia, via Thubaneau, 33.
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PREFAZIONE
Avevo sentito dire ai miei maestri che la lettura dei libri sacri, nelle parti mistiche e profetiche, non era consigliabile ad ogni età; essa poteva nuocere in gioventù a causa della vivacità delle passioni e dell’inesperienza, e che non dovevano leggersi se non con l’autorizzazione del direttore della mia coscienza. – Giunto sulla quarantina, non avevo ancora letto le Epistole. L’Apocalisse e la Bibbia della quale non conoscevo che la storia (avevo letto solo occasionalmente qualche parte isolata dell’Apocalisse). Poco avanti questa epoca della mia vita, nel 1850, ho avuto dei malanni molto seri; ho avuto a subire dei colpi molti dolorosi che si sono protratti per cinque anni; essi mi avrebbero abbattuto se la divina bontà, che me li aveva mandati per il bene della mia anima, non mi avesse sostenuto. – Questi grandi infortuni, che sono stupefatto per come abbia potuto sopportarli, ebbero come risultato di staccarmi ancor più dalla terra e dai tempi, per rivolgermi, anche con legami naturali, al cielo, ove si trovavano quasi tutti coloro che io amavo, e portarmi verso le cose di Dio, sia per nutrire il mio spirito, sia per riscattare il mio cuore e fortificarlo nella prova. – Dopo avere dato l’ultima mano a diverse opere, di cui avevo riunito e classificato i materiali da molto tempo, domandai il permesso di leggere dei libri santi che ancora non conoscevo; esso mi venne accordato. Pregai anche il mio direttore spirituale di tracciarmi il cammino da seguire in questa lettura; egli mi rispose di leggere e rileggere i testi senza fare, a loro riguardo, alcuna riflessione. – Io mi misi all’opera; lessi sei volte l’Apocalisse, i Profeti e le Epistole degli Apostoli senza lasciarmi andare a nessun personale apprezzamento; ero così nutrito da questi testi che tornavano spesso da soli alla mia memoria, senza che facessi nulla per richiamarli; una spiegazione, un’applicazione mi attraversava lo spirito nel momento in cui meno lo aspettassi; esse apparivano improvvisamente come un bagliore, senza che uscissi dallo stato passivo in cui mi ero posto, e che fissassi altro per riceverle. Oggi era un passaggio che sembrava rivelarsi da se stesso, domani ne era un altro. – Avevo notato questi diversi scorci. Quando furono abbastanza numerosi, li raccolsi, li comparai e con mio grande stupore sembrarono coordinarsi molto bene tra di loro e formare un tutto omogeneo che non era contrastato da alcun testo sacro. – Fui tranquillizzato da questo perché temevo l’errore e la mia debolezza; nell’anno 1854 affidai il tutto ad un piccolo scritto di un centinaio di pagine che non è stato stampato, ma che è stato letto in diverse parti della Francia da diversi sacerdoti e laici. Questo opuscolo aveva per titolo: Dove siamo? O deve andiamo? – Fatto questo, pensai che dovessi conoscere le diverse opere scritte sugli ultimi tempi e le età della Chiesa, al fine di rettificare ciò che potesse essere inesatto o erroneo nella mia opera. Consultai circa venti libri relativi a questa materia, ma non ne ricevetti alcuna impressione che potesse modificare ciò che avevo scritto o farmi temere di essere nell’errore, ad eccezione di ciò che concerne i capitoli secondo e terzo dell’Apocalisse, nei quali si incontrava sì qualche conformità, ma tutto era differente. Si poteva quasi credere che questi autori avessero commentato un libro, ed io un altro. – Nell’anno 1856, un amico mi prestò per tre giorni, l’interpretazione latina dell’Apocalisse del venerabile Holzhauser (edizione di Bamberg, 1784). Lo lessi con avidità, e fui estremamente sorpreso di vedere che molte delle mie valutazioni, soprattutto le principali, erano conformi a quelle del decano di Bingen (fino al 1856 io non avevo conosciuto che una nota di qualche pagina del Commentario di Holzhauser, nota che possedevo fin dal 1849). – Quando ebbi terminato la prima edizione del mio libro sulla Salette (La Salette davanti alla ragione ed il dovere di un cattolico. La seconda edizione è in vendita da mese di settembre 1857), mi occupai nel mettere in ordine le predizioni relative agli ultimi tempi sparse nei quattro volumi della Suora dellaNatività. Avevo l’intenzione di pubblicarle dopo averle coordinate. Credevo di fare in questo una cosa utile, perché mi sembrava si conoscesse a qual punto noi siamo della vita del mondo, affinché si sappia di conseguenza, che i padri di famiglia debbano dirigere l’educazione dei loro figli, in modo di fortificarli per il giorno della grande Tentazione e a disporli, per quanto possibile, a soffrire il martirio, qualora Dio decidesse di concedere loro l’onore e la grazia di sceglierli come suoi testimoni. – Io avevo completato questo piccolo lavoro, quando il sig. Canonico de Wüilleret pubblicò la traduzione francese dell’Interpretazione di Holzhauser, contenente il Commentario delle parti (dal capitolo XV, v. 4 fino alla fine) che il venerabile Servo di Dio non aveva spiegato. Io allora esaminai attentamente ed in dettaglio quest’opera; mi accorsi che, se le mie Congetture principali si accordavano con quelle del santo padre, ero però in disaccordo con lui su molti dei punti che avevano importanza, ed ebbi l’idea di pubblicare delle osservazioni sia sulle opinioni dell’Autore, sia su quelle del suo rispettabile traduttore e continuatore. – Feci parte del mio progetto a qualche amico; essi mi consigliarono di riunire in un solo libro sia l’opuscolo «Dove siamo, dove andiamo?» togliendone le parti più evidenti che avessero potuto intimorire qualche spirito, sia le predizioni coordinate della Suora della Natività, sia infine le mie osservazioni sull’Interpretazione dell’Apocalisse di Holzhauser e M. de Wüilleret. Ho così ceduto a questo consiglio che mi è parso saggio. L’opera che presento al pubblico conterrà questi tre elementi e sarà così più completa ed utile. Ma siccome le predizioni della Suora della Natività (Vie et visions de Sœur de la Nativité: religieuse converse au couvent des Urbvanistes de Fougeres, vol. I-IV, Beaucé ed., Paris, 1819) non hanno alcuna autorità, non le porrò in discussione, e mi limiterò a riportarle in maniera testuale ed analitica, con delle note a piè di pagina alle quali mi sembrerà che possano riportarsi (Le note relative alle rivelazioni della suor della Natività formeranno una seconda serie di note indicate da delle stelle, e avranno esse stesse delle sotto-note). Qualunque sia la mia attuale convinzione su tutto ciò che ho affidato a questa piccola opera, dichiaro di non avere espresso che delle opinioni particolari, puramente congetturali, che non hanno alcuna autorità e non ne aspirano ad averne. – Io non ho la singolare pretesa di credere di aver trovato la chiave delle profezie dell’Antico e del Nuovo Testamento. Quando pure le mie convinzioni fossero vere, esse non escluderebbero altri giudizi che potrebbero essere altrettanto veri, essendo la parola di Dio suscettibile di numerose applicazioni ugualmente giuste, ed essendo verità sotto diversi punti di vista. Se qualche volta mi esprimo in maniera affermativa, lo faccio nella forma, per la chiarezza e la brevità della frase, e non per il fondo. Io sono pronto ad abbandonare tutte queste maniere di vedere, se fossero erronee. – Figlio della Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, io voglio servire mia Madre, e non affliggerla.
Amedeo Nicolas.
Di seguito sono riportati i seguenti passi delle Sacre Scritture, per la cui lettura rimandiamo alla Vulgata e alla traduzione italiana di Mons. A. Martini.:
APOCALISSE DI SAN GIOVANNI(I- XXII)
VANGELO DI SAN MATTEO:
Capitolo XIII – (24 – 30);
La Zizzania sopra seminata.
Capitolo XXII – (1- 13)
Parabola del festino di nozze – La veste nuziale
Capitolo XXIV –
I. (1-8)
Rovina del tempio – Seduttori, Guerra – Carestia – Abominio
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMASESTA.
11 dicembre.
Il segno della croce mette in pezzi gli idoli e ne scaccia i demoni: prove. — Libera da essi gli energumeni: esempi. Recente aneddoto. – Nuove prove. — Rende inutili gli attacchi diretti del demonio: prove. — Gli attacchi indiretti: prove: — Tutte le creature soggette al demonio sono strumenti da lui usati a nostra rovina. — Il segno della croce le sottrae a tale dominio, ed impedisce che siano nocevoli all’anima ed al corpo nostro. — Profonda filosofa dei primitivi Cristiani. — Loro uso del segno della croce. — Quadro di San Giovanni Crisostomo.
La potenza del segno della croce deve estendersi al pari di quella di satana, mio caro Federico. L’usurpatore infernale si è impossessato di tutte le parti della creazione, ed il proprietario legittimo ha dovuto cacciarnelo, e dare a chi avea il diritto di possederle un mezzo onde mettere in fuga un tale usurpatore. Epperò il segno della croce ha, non solamente il potere d’impedire a satana il parlare, ma l’obbliga ad abbandonare le cose ed i corpi che padroneggia. — In conferma di tale verità apportiamo qualche fatto scelto fra mille. Regnava l’imperatore Antonino, e questo Cesare filosofo rompeva a crudelissima persecuzione contro i fedeli. Roma era gremita d’idoli, ed ai piedi di essi erano trascinati i nostri avi per forzarli ad offrire l’incenso. Una delle eroiche nostre sorelle Gligeria, è condotta alla presenza del governatore della imperiale città. « Vediamo, questi le dice, prendi questa fiaccola e sacrifica a Giove. No, risponde la vergine cristiana, io sacrifico all’eterno Dio, e non m’è però mestieri avere il fumo delle fiaccole: fa che sieno estinte, perchè il mio sacrifizio torni a Lui più gradito. Il governatore il comanda, e le fiaccole sono spente. Allora la nobile e casta vergine eleva gli occhi al cielo, stende la mano verso il popolo, e cosi ella gli parla: Vedete la fiaccola, che orna, e splende sulla mia fronte. Così detto fa il segno della croce ed esclama: Dio onnipossente, che siete onorato da’ vostri servi colla croce di G. – C. mandate deh! in pezzi questo demonio fatto dalla mano dell’uomo. Tosto ch’ella ebbe cosi pregato Dio, un fulmine cade, e la statua di Giove è abbattuta » (Baron. T. II.). Simile cosa leggiamo nella persona di san Procopio. Condotto innanzi agli idoli, il glorioso atleta vi resta in piedi, e rivolgesi verso l’Oriente, e forma il segno venerando su tutto il suo corpo; quindi alzando gli occhi e le mani verso il cielo dice « Signor Gesù Cristo! » Nello stesso tempo fa contro la statua un segno di croce, che accompagna con queste parole « Simulacri immondi, io vi dico, temete il nome del mio Dio, fondetevi in acqua e spargetevi sul suolo di questo tempio ». Detto, fatto (Surius, in die 8 oct.). Costretto satana, a vista del segno della croce, ad abbandonare i luoghi da lui abitati, per la virtù dello slesso segno è obbligato di lasciare i corpi degl’infelici di che erasi impossessato. Qui ancora i fatti abbondano, confermati da testimoni degnissimi di fede. – Ed eccoti innanzi ogni altro S. Gregorio, uno de’ più gloriosi Pontefici che abbiano governata la Chiesa Cattolica, che ci racconta un fatto ch’ebbe luogo nella patria sua. A tempo de’ Goti, scriv’egli, il re Totila venne in Narni, piccola città a poche miglia da Roma, essendone vescovo Cassio. Il santo Vescovo credette condursi all’incontro del principe. Il continuo piangere avea arrossito gli occhi ed il volto del santo di modo, che Totila, nulla sapendone, lo attribui ad intemperante uso di vino, epperò mostrò profondo disprezzo per l’uomo di Dio. Ma l’Onnipossente volle mostrare quanto grande fosse colui, che veniva fatto segno al disprezzo del sovrano; epperò nella pianura di Marni alla presenza di tutta l’armata un demonio s’impossessa dello scudiere del re, e ne fa acerbissimo strazio. Lo conducono a Cassio alla presenza del re, ed il santo fatto il segno della croce, il demonio è scacciato. Da quel momento il disprezzo di Totila si rimutò in stima, conoscendo a fondo colui che uvea vilipeso giudicando dalle sole apparenze » (Vir Domini, oratione facta, signo Crucis expulit. Dialog. lib. III, cap. 6). Ascolta questo altro fatto ammirato dalla patria tua. Nella Prussia in un certo luogo chiamato Velsenberg, viveva un uomo ricco e potente a nome Ethelbert, che era posseduto da un demonio; il perchè era uopo assicurarsene con ferri e catene. Molti lo visitavano nei suoi dolori, ed un giorno in presenza di alquanti pagani, e de’ sacerdoti degl’idoli, il demonio gridò: Se il servo di Dio vivo, Swirbert, Vescovo de’ Cristiani non viene, io non partirò da questo corpo. E perchè il demonio non cessava dal ripetere la stessa cosa, gl’idolatri confusi si ritirarono, non sapendo che fare: ma dopo molte esitazioni, si decisero di andar pel santo, e trovatolo lo pregarono con ogni instanza perchè si rendesse presso l’ossesso. Swirbert apostolo della Frisia, e di una parte dell’Alemagna, come devi sapere, consentì, e tosto che il santo mosse verso l’ossesso, questi digrignava i denti, e metteva grida orribili; ma come il santo si avvicinava all’abitazione lo sventurato ammansiva, e restò in fine tranquillo nel suo letto, quasi fosse dolcemente addormentato. Il santo guardatolo, dice a’ suoi compagni di mettersi a pregare, ed egli medesimo prega il Signore perchè si degni scacciare il demonio dal corpo di quello infelice per la gloria del suo Nome, e per la conversione degl’increduli. Finita la preghiera, si alza e fa il segno della croce sull’ossesso, dicendo: « In nome di nostro Signore Gesù Cristo, ti comando, spirito immondo, di uscire da questa creatura di Dio, affinchè essa conosca Colui ch’è vero suo Creatore. Lo spirito maligno al momento istesso sorte lasciando un fetore terribile » (Signavit dæmoniacum signo salutiferae crucis, dicens: In nomine Domini nostri Jesu Christi praecipio Ubi, immunde spiritus, ut exeas ab hao Dei creatura, ut agnoscat suum verum Creatorem. Statimque cum fœtore spiritus malignus exiit.- Marcellin. in vit. S. Sirirbert., c. XX). L’infermo gongolando di gioia, cadeai piedi del santo e dimanda il battesimo, che gli fu accordato. – Ecco, caro Federico, quanto accadeva nella Prussia quando usciva dalla barbarie. Là come dappertutto, a colpi di miracoli il Vangelo s’è fatto accettare, ed il segno della croce n’è stato lo strumento ordinario. Qual è oggi la religione de’ Prussiani? È quella de’ loro primi apostoli? Quella che insegna a fare il segno della croce? – I protestanti dicono che un uomo onesto non deve mutare religione, ed eglino affermano di amare quanti, che conservano la religione de’ padri loro; ma, per me, amo più ancora quelli che conservano la Religione degli avi. – A questo proposito, tu conosci quanto raccontasi del celebre conte di Stolberg, di questo amabile e dotto uomo, una delle glorie della vostra Alemagna, che avea abiurato il protestantesimo: Il re di Prussia ne rimase sì dolente da ritirargli la sua grazia, ma dopo alcuni anni, avendo bisogno di consiglio, mandò per lui. Come il conte fu alla presenza del re, questi gli disse: « Non posso dissimularvi, signor conte, che ho poca stima per un uomo, che muta religione. Ed il conte di rimando: Ecco perchè, Sire, disprezzo profondamente Lutero ». – Che il segno della croce sia arma universale e potente a cacciar dal corpo degli ossessi satana, è chiaro per gli esorcismi della Chiesa. Se tu dai uno sguardo al Rituale romano, tu avrai la prova di quanto dico. Ora gli esorcismi con le loro insufflazioni ed il segno della croce rimontano alla culla del Cristianesimo. Tutti i Padri dell’Oriente e dell’Occidente, che hanno parlato del Battesimo ne fanno menzione. In luogo di tutti ascolta S. Gregorio il Grande. « Quando il catecumeno si presenta per essere esorcizzato, il prete gli soffia in volto affinchè, il demonio scacciato, sia libera l’entrata a Gesù Cristo nostro Dio. Dopo gli fa il segno della croce sulla fronte dicendo: Ti segno colla croce di Nostro Signore Gesù Cristo. E sul petto dicendo: Pongo nel tuo petto il segno della croce di Nostro Signore Gesù Cristo » (Cum ad exoreizandum ducitur, prinio a Sacerdote exsuffletur in faciem ejus, ut, fugato diabolo, Christo Deo nostro pateat introitus. Et tunc in fronte crux Christi agatur, dicendo, etc. – S. Greg. Sacramentar.). – Come qui li vedi descritti, gli esorcismi hanno traversato i secoli, e di presente, essi sono ancora in uso su tutti i punti del pianeta, ove trovasi un prete cattolico, ed una creatura umana da sottrarre all’impero di satana. – Ma i demoni dimorano non solo ne’ tempi e nelle statue dove riscuotono onori divini, nè solamente ne’ corpi degl’infelici, ch’eglino tormentano, ma sono dapertutto, e l’aria n’è piena. Nemici infaticabili ci attaccano di continuo direttamente, o indirettamente per lo mezzo delle creature. Diretti o indiretti, aperti o nascosti, i loro attacchi diventano inutili innanzi al segno della croce. Il Signore, dice Arnobio, ha formato le nostre dita alla pugna, affinchè quando siamo attaccati da’ nostri nemici visibili ed invisibili, noi ne usassimo a formare sulla nostra fronte il segno trionfale della croce (Arnob. in Psalm. CXVIII). – Fra le mille eroine del Cristianesimo, che, fior di beltà e di purezza, maneggiavano quest’arma, quando l’iniquità de’ persecutori le condannava a perdere il candore del giglio di che erano tenerissime, è da annoverare Giustina da Nicomedia. Questa, nata di nobilissima schiatta, quanto bellissima altrettanto ricca, sprezzatrice era del mondo e tipo di cristiana modestia. Queste virtù non la salvarono dall’inspirare ad un giovane pagano cocentissimo amore. L’idolatro giovane a nome Aglaida, per ottenere il cuore di Giustina usò offerte, promesse, preghiere, ma queste inutili tornavano; poiché lo sposo della vergine cristiana era il crocifisso Signore, e da esso non valevano argomenti umani a separarla. Aglaida disperato fa ricorso a Cipriano, venuto in gran fama di mago nella città; ma, questi acceso di eguale amore per Giustina, usò a proprio conto delle sue malie. Tutto l’inferno mosse al soccorso di lui. I demoni i più violenti furono sbrigliati contro la casta e pura vergine di Nicomedia; ma Giustina moltiplicava le preghiere, le mortificazioni, e tutta in Dio raccolta, vigilante, nel forte della battaglia si segnava col segno salutare, ed i demoni vinti e scornati prendevano la fuga. Con tale arma Giustina, non solo salvò la sua virtù, ma ebbe ancora la gloria di guadagnare Cipriano, che fu martire, e divenne una delle più gloriose conquiste del segno trionfatore (Vita 26 sett.). – Antonio, il grande atleta del deserto, maneggiò parimenti quest’arma vittoriosa in tutta la sua vita, che fu continua pugna contro satana, e con essa vinceva il nemico, che, nel forte della pugna, prendeva tutte le forme. Lasciamo parlare il degno storico di un tal uomo. – « Alcune volte, dice santo Atanasio, tale un fracasso orrendo faceasi sentire, che la caverna di Antonio tutta ne tremava, e dalle squarciate pareti si precipitavano in folla i demoni, che prendendo le forme di bestie la riempivano di serpenti, di leoni, di tori, di lupi, d’aspidi, di dragoni, scorpioni, orsi e leopardi, e ciascuno dava grida alla maniera della bestia di che avea presa la figura. Il leone ruggiva, e mostravasi di volerlo addentare, il toro muggendo lo minacciava con le corna, il serpe facea sentire il suo sibilo, il lupo mostrava le zanne, il leopardo colla variopinta pelle mostrava tutta l’astuzia dello spirito infernale; tutti presentavano figure spaventose a vedere, e mettevano voci orribili a sentire. « Antonio, or battuto or ferito, sentiva vivissimi dolori nel corpo, ma l’animo contemplativo restava imperturbabile. Tuttavolta le ferite gli strappassero delle grida di dolore, pure sempre ad un modo parlava a’ suoi nemici burlandosi di loro : « Se voi aveste della forza, diceva Antonio, un solo di voi basterebbe ad uccidermi; ma, poiché la potenza del mio Dio vi snerva, voi venite in folla per farmi paura ». Ed aggiungeva: « Se voi avete qualche potere, se Dio m’ha abbandonato a voi, eccomi, divoratemi; ma se nulla potete, perchè tanti sforzi inutili? Il segno della croce e la confidenza in Dio sono per noi fortezza inespugnabile » (Signum enim crucis et fides ad Dominum inexpugnabilis nobis murus est. – De vit. S. Ant.). Allora i demoni digrignavano i denti, facevano mille minacce ad Antonio, ma vedendo che i loro attacchi a null’altro riuscivano che a farsi beffare, lo lasciavano per tornare a nuovi assalti. Il coraggioso parlare che Antonio, per la fede, faceva a’ demoni, lo ripeteva a’ filosofi pagani: « Quale utilità dal disputare? diceva il patriarca del deserto a questi eterni indagatori di verità. Noi pronunziamo il Nome del Crocifisso, e tutti i demoni che voi adorate come dei arrossiscono. Al primo segno della croce, eglino abbandonano gli ossessi. Vedete: dove sono gli oracoli bugiardi? ove gl’incanti degli Egiziani? Tutto è stato distrutto da che il Nome di Gesù Crocifisso ha rimbombato nel mondo ». Quindi avendo fatto venire degli ossessi, continuando cosi diceva a’ suoi interlocutori: « Coi vostri sillogismi, o con qualsiasi incanto liberate queste povere vittime da quelli, che voi chiamate dei; ma se non lo potete, confessatevi vinti. Ricorrete al segno della croce, e l’umiltà di vostra fede sarà seguita da un miracolo di potenza ». A queste parole, egli invoca il nome di Gesù, fa il segno della croce sulla fronte degli ossessi, ed i demoni fuggono alla presenza de’ filosofi confusi ( Ibid.). ». – I fatti dello stesso genere sono numerosi quasi come le pagine dell’istoria. Tu li conosci, io passo oltre. Agli attacchi diretti e palesi, i demoni aggiungono gl’indiretti e nascosti, non meno pericolosi de’ primi, e più frequenti. Ve n’hanno di due sorta: gli uni interiori, e gli altri esteriori. I primi sono le tentazioni propriamente dette. Ti ho già detto che la croce è l’arma vittoriosa, che le dissipa, e dicendolo mi rendo eco della tradizione universale, e della esperienza giornaliera. « Quando voi fate il segno della croce, ricordate quello che esso significate voi ammansirete la collera, e tutti i movimenti disordinati dell’animo », diceva il Grisostomo (Cum signaris, tibi in mentem veniat totum crucis argumentum, ac tum iram omnesque a ratione adversos animi impetus extinseris. – S. Joan Chrys. Ve adorat. pret. Crucis, n. 3), ed Origene aggiunge: «È tale la potenza del segno della croce, che se la si tiene innanzi agli occhi, e nel cuore, non v’ha concupiscenza, nè voluttà, nè furore che le possa resistere: alla sua presenza tutto l’esercito della carne e del peccato è sconfitto » (Origen. Comment, in Epint. ad Roman., lib. VI, n. 1). I secondi attacchi vengono dal di fuori. Nessuna creatura sfugge alle maligne influenze di satana, e di tutte egli fa strumento della sua collera implacabile contro l’uomo. Te l’ho già mostrato, è un articolo della credenza del genere umano. Quale arma Dio ci ha dato, poiché egli dovea darcene una, per liberarci da tali influenze, e liberandocene preservare la nostra anima ed il nostro corpo dalle funeste insidie di colui, ch’è chiamato, con ragione, il grande omicida, Homicida ab initio? Tutte le generazioni si levano dal fondo de’ sepolcri, per dirmi: È il segno della croce! Tutti i Cattolici viventi nelle cinque parti del mondo, uniscono la loro voce a quella de’ loro antenati e ripetono: È il segno della croce! Scudo impenetrabile, torre fortissima, arma speciale contro il demonio, arma universale del pari potente contro i nemici visibili ed invisibili, arma facile per i deboli, gratuita per i poveri: è questa la definizione, che i morti ed i vivi ci danno del segno adorabile. Quindi due grandi verità: la soggezione di tutte le creature al demonio, e la potenza del segno liberatore a liberarle da essa, ed impedir loro di non nuocerci. Da queste due verità profondamente sentite, sempre antiche e sempre nuove, sortono due fatti logici. Il primo, l’uso degli esorcismi nella Chiesa cattolica; il secondo, l’uso incessante del segno della croce presso i primitivi Cristiani. Che cosa infatti significa l’esorcismo? La credenza, che ha la Chiesa intorno al dominio, che satana esercita sulla creatura. Qual è l’effetto degli esorcismi? Il liberare le creature da questa servitù. Ora, siccome non v’ha creatura che non sia esorcizzata dalla Chiesa, ne segue, che a’ suoi occhi l’universo in tutte le sue parti è un gran schiavo, un grande ossesso, (Questa espressione dell’autore potrà sembrare esagerata; però crediamo aggiungere qualche parola di S. Agostino, che le dà tutta la verosimiglianza. Il santo dottore per ispiegare come i maghi possano, per lo mezzo di satana, operare delle cose straordinarie, afferma che a ciascuna cosa visibile presiede uno spirito, il quale agisce in esse come in parte disgiunta dall’universo; cioè con azione particolare che non può alterare le leggi generali: e come in parte che entra nell’ordine cosmico, e sottosta all’azione universale, e forma parte delle leggi, che reggono l’universo fisico. Per quest’azione che ha satana negli esseri particolari produce delle cose straordinarie,sottostando sempre all’azione della provvidenza divina, che regge tutto il cosmo. – De diversis quæst. 83, quæst. LXXIX, n. 1.). – – Una grande macchina da guerra continuamente contro noi elevata. Ed a sua volta che cosa era il continuo uso del segno della croce presso i Cristiani? Un esorcismo continuato. Se, con la Chiesa cattolica e col genere umano, si ammette che il demonio agogna asservare tutte le creature, ed usare di tutte esse a veicolo delle sue maligne influenze; che a ciascun’ora, in ogni momento, e per ogni azione l’uomo può entrare in contatto con esse, qual cosa mai è più ragionevole dell’uso costante di un’arma cotanto necessaria? Per le quali cose, il frequente uso di questa segno presso i nostri avi, mostrala loro profonda filosofia. Eglino conoscevano a fondo, ed in tutta la sua distesa la legge del mondo morale, il dualismo; comprendevano che, l’attacco essendo universale e continuo, era mestieri, per conservare l’equilibrio, che la difesa fosse universale e del pari continuata (Per intendere come satana usi di tutti gli elementi della natura per apportar del male alla umana famiglia, e sfogare contro essa l’invidia di che è pieno, è da leggere l’eccellente opera, approvata dall’accademia di Francia, e scritta da una delle sue principali glorie, Monsieur de Mirville. In essa si troverà svolta con scienza ed erudizione questa parte dell’arte satanica: l’opera ha per titolo: Des Esprits ctc. Esortiamo, ancora per lo stesso fine, alla lettura dell’altra eccellente opera di M.r de Mouseaux: La Magie au XIX siecle). Di nuovo, che di più logico? Eglino facevano il segno della croce sopra ciascuno de’ loro sensi. Vuoi intenderne il perchè? I sensi sono le porte dell’anima, e servono da intermedi tra essa e le creature. Quando essi sono segnati della croce, le creature non possono entrare in comunicazione con l’animo, che per lo mezzo de’ mediatori santificati, dove perdono le loro funeste influenze. Ma questo non bastava per i nostri padri. Eglino facevano l’adorabile segno su tutti gli oggetti di loro uso, e per quanto loro fosse possibile, su tutte le parti della creazione. Le case, i mobili, le porte, le fontane, i limiti de’campi, le colonne degli edifizi, le navi, i ponti, le medaglie, le bandiere, i cimieri, gli scudi, gli anelli: in tutto era impresso 1’adorando segno. Impediti dalle occupazioni e dalle distanze de’ luoghi di ripeterlo continuamente ed in ogni dove, lo immobilizzavano scolpendolo e dipingendolo sul prospetto di tutte le creature, fra le quali passavano la loro vita. Parafulmine e monumento di vittoria, tale era allora il segno augusto. Parafulmine divino, atto ad allontanare i principi dell’aria con la loro incalcolabile malizia, ben altrimenti dalle barre di ferro, che sormontano i nostri edifizi per scaricare le nubi pregne di elettricismo. Monumento di vittoria che accenna alla vittoria del Verbo incarnato riportata sul re di questo mondo, come le colonne dal vincitore elevate sul campo di battaglia servono da monumento commemorativo della sconfitta dal nemico sofferta.- Dalle alture di Costantinopoli contempliamo con san Giovanni Grisostomo il mondo smaltato di questi parafulmini, e da questi monumenti di vittorie, « Più preziosa dell’universo, dice l’eloquente patriarca, la croce brilla sul diadema degl’imperatori. Dappertutto dessa si presenta al mio sguardo, e la trovo presso i re, e presso i sudditi, presso le donne e gli uomini; con essa si ornano le vergini e quelle che menarono marito, gli schiavi ed i liberi. Tutti la segnano sulla miglior parte del loro corpo, la fronte, dov’essa risplende come una colonna di gloria. Dessa è alla sacra mensa; nelle ordinazioni de’ preti non manca, ed alla cena mistica del Salvatore io la rimiro: dessa è scolpita in tutti i punti dell’orizzonte, sormonta le case, si eleva nelle pubbliche piazze, ne’ luoghi abitati e nei diserti, lungo le strade, sulle montagne, ne’ boschi, sulle colline, sul mare al sommo delle navi, nelle isole; dessa è sulle finestre e su le porte, al collo de’ Cristiani, sui letti e gli abiti, sui libri e sulle armi ; ne’ festini, sui vasi di oro e di argento , sulle pietre preziose, nelle pitture degli appartamenti. « La si forma sugli animali infermi, su gli ossessi, nella guerra e nella pace, il giorno e la notte, nelle riunioni da sollazzo e di penitenza. Appartiene a chiunque cerca essere protetto da questo segno adorabile. Che v’ha da recar meraviglia? Il segno della croce è il simbolo della nostra emancipazione dalla schiavitù, il monumento della libertà del mondo, ricordo della mansuetudine del Signore. Quando tu lo esegui ricorda il prezzo sborsato pel tuo riscatto, e tu non sarai schiavo di nessuno. Eseguilo, non solo col tuo dito, ma più ancora con la tua fede. Se tu in tal modo lo farai sulla tua fronte, nessuno spirito potrà resistere alla tua presenza; egli vede il coltello da che è stato piagato, e la spada che l’ha ferito a morte. Se alla vista de’ luoghi del patibolo noi siamo presi da orrore; immagina quel che debba soffrire satana ed i suoi angeli, a vista dell’arme con che il Verbo eterno ha abattuta la potenza, ed ha troncato il capo al dragone » (Quod Christy sit Deus opp. t. 1, p. 698, edit. Paris; et in Math., homil. 54, t. VII, p. 610, et in c. Ill ad Philip.).
«… Noi attingiamo grande speranza specialmente dalle preghiere di questi piccoli, che di questo mondo macchiato di tanti crimini e peccati possono in certa guisa essere chiamati Angeli ». Questo commovente auspicio è rivolto dal Santo Padre SS. Pio XII, ai bambini Cristiani del mondo perché aggiungano le loro alle preghiere cattoliche supplicanti la pace e la prosperità per il popolo ungherese colpito dalla violenza degli eventi oppressivi della peste comunista giunta fin là per spegnere il fuoco della carità e della fede in Gesù Cristo Nostro Signore e trascinare anime nel fuoco eterno secondo i desideri del loro padrone e padre: il demone luciferino. Lo stesso demone oggi, trasformatosi da mentore del comunismo ateo, al timoniere del mondialismo non solo ateo, ma infernale, sta portando gli ultimi colpi alle “immagini viventi e somiglianti” di Dio, da lui tanto odiate, cioè agli uomini, ed in particolari ai Cristiani tutti, compresi i modernisti postconciliari, inconsapevoli complici di tanto sfascio e del paganesimo pratico amorale imperante in ogni angolo del pianeta e da essi – in unione con gli usurpanti antipapi – sbandierato come Cattolicesimo civile “progressista”. La sorte degli ungheresi dell’epoca si è allargata a macchia d’olio in Europa e negli altri continenti, soprattutto per la sonnolenza colpevole e l’infingardia dei religiosi e dei prelati ipocriti e falsi Cristiani … se ancora si possono definire Cristiani… La ricetta che allora consigliava Papa Pacelli vale ancora e sempre: pazienza, invocazioni di aiuto alla SS. Vergine e alla SS. Trinità ed una preghiera incessante che coinvolga soprattutto i piccini tanto cari al Signore Iddio.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
LUCTUOSISSIMI EVENTUS
PUBBLICHE PREGHIERE PER IL POPOLO UNGHERESE
Gli eventi luttuosissimi, da cui sono colpiti i popoli dell’Europa orientale, e soprattutto l’Ungheria a Noi carissima, insanguinata al presente da una terribile strage, profondamente commuovono il Nostro animo paterno; e non solamente il Nostro, ma certamente anche quello di tutti coloro a cui stanno a cuore i diritti della civiltà, la dignità umana, e la libertà dovuta ai singoli e alle nazioni. – Perciò la coscienza del Nostro apostolico mandato Ci spinge a rivolgere un fervido appello a voi tutti, venerabili fratelli, e ai greggi affidati a ciascuno di voi, affinché, animati da carità fraterna, innalziate insieme con Noi suppliche a Dio, per ottenere da Lui – nelle cui mani è posta la sorte dei popoli e non solo il potere, ma anche la vita dei loro governanti – che si ponga fine a tanto spargimento di sangue e affinché finalmente risplenda quella vera pace, che è fondata sulla giustizia, sulla carità e sulla giusta libertà. Sia chiaro a tutti, che l’ordine dei popoli sconvolto non può essere ristabilito né con la potenza delle armi, apportatrici di morte, né con la violenza inflitta ai cittadini, di cui non può soffocare l’intimo sentimento, né con le fallaci teorie, che corrompono gli animi e che violano i diritti della chiesa e della coscienza civile e cristiana; e neppure può essere mai soffocato con la forza esterna l’anelito verso una giusta libertà. – In queste gravissime circostanze, che tanto angustiano una parte diletta dell’ovile cristiano, un grato ricordo si affaccia al Nostro animo. Quando appunto molti anni fa Ci recammo a Budapest in qualità di legato a latere del Nostro predecessore di f. m. Pio XI, per prendere parte al Congresso Eucaristico Internazionale ivi celebrato, avemmo la gioia e la consolazione di vedere i diletti Cattolici dell’Ungheria seguire con ardente pietà e somma venerazione l’augusto Sacramento dell’altare portato trionfalmente per le vie della città. Siamo certi che la medesima fede e il medesimo amore verso il divin Redentore infiammerà ancora gli animi di quel popolo, quantunque i fautori del comunismo ateo si siano sforzati con ogni mezzo per strappare dalle menti la Religione dei padri. Perciò nutriamo piena fiducia che questo nobilissimo popolo, anche nel grave frangente in cui ora si trova, innalzerà suppliche a Dio per impetrare la desiderata pace, poggiata sul retto ordine. E abbiamo pure piena speranza che tutti i veri Cristiani, in qualsiasi parte del mondo si trovino, intrecceranno le loro preghiere a quelle dei loro fratelli oppressi da tante calamità e ingiustizie, quale testimonianza dei comuni vincoli di carità. In modo speciale Noi esortiamo a questa crociata di preghiere tutti coloro ai quali, come il divin Redentore, così Noi pure, che siamo il suo rappresentante in terra, guardiamo con particolare tenerezza, coloro cioè che nel primo fiore degli anni rifulgono per l’innocenza, la soavità e la grazia. Noi attingiamo grande speranza specialmente dalle preghiere di questi piccoli, che di questo mondo macchiato di tanti crimini e peccati possono in certa guisa essere chiamati angeli. Insieme con essi tutti i Cristiani invochino il potentissimo patrocinio della Beata Vergine Maria, patrocinio che tanto valore ha presso Dio per noi, essendo essa la Genitrice del divin Redentore e la nostra Madre amorosissima. – Non abbiamo alcun dubbio che presso tutte le genti, nelle città, nei paesi e anche nei più remoti villaggi, ovunque rifulge la luce dell’Evangelo, tutti i Cristiani, e in primo luogo i fanciulli e le fanciulle, corrisponderanno con trasporto a queste Nostre paterne esortazioni, a cui si aggiungeranno le vostre; di maniera che, con l’influsso e con l’aiuto della grazia di Dio, invocato da tante voci supplichevoli, e con l’intercessione di Maria Vergine, il carissimo popolo ungherese, afflitto da tanti dolori e bagnato da tanto sangue, come pure gli altri popoli dell’Europa orientale, privati della loro libertà religiosa e civile, possano felicemente e pacificamente dare un retto ordine alla loro cosa pubblica, salvaguardando i diritti di Dio e di Gesù Cristo Re divino, il cui regno «è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace». – Animati da questa dolcissima speranza, sia a voi tutti, venerabili fratelli, e ai greggi alle vostre cure affidati, sia specialmente a coloro che in Ungheria e nelle altre Nazioni dell’Europa orientale si trovano in condizioni tanto difficili e sono oppressi da tante calamità, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione, auspicio delle celesti grazie e pegno della Nostra benevolenza; benedizione che estendiamo in modo tutto particolare ai sacri pastori delle suddette nazioni che languiscono in carcere o si trovano in relegazione o in esilio.
Roma, presso San Pietro, 28 ottobre, festa di Cristo re, l’anno 1956, XVIII del Nostro pontificato.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti verdi.
Quest’ultima settimana chiude l’anno ecclesiastico, e con essa si chiude la storia del mondo, iniziatasi coll’Avvento. Perciò in questa domenica la Chiesa fa leggere nel Breviario il libro del Profeta Michea (contemporaneo di Osea e di Isaia) con il commento di S. Basilio, che tratta del giudizio universale, e nel Messale il Vangelo dell’Avvento del Giudice divino. « Ecco, dice Michea, che il Signore uscirà dalla sua dimora; e camminerà su le alture della terra; le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi e le valli fonderanno come la cera dinanzi al fuoco, e spariranno come l’acqua su un pendìo. E tutto questo per causa dei peccati d’Israele ». Dopo questa minaccia il Profeta continua con promesse di salvezza « Ti radunerò totalmente, Giacobbe, riunirò quello che resta d’Israele; lo radunerò come un gregge nell’ovile». Gli Assiri hanno distrutto Samaria, i Caldei hanno devastato Gerusalemme, il Messia riparerà tutte queste rovine. Michea annunzia che Gesù Cristo nascerà a Gerusalemme e che il suo regno, che è quello della Gerusalemme celeste, non avrà fine. I profeti Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia, i libri dei quali si leggono nell’ufficiatura della settimana, confermano quanto ha detto Michea. Gesù nel Vangelo comincia con l’evocare la profezia di Daniele, che annunzia la rovina totale e definitiva del tempio di Gerusalemme e della nazione giudea per opera dell’esercito romano. Questa abominazione della desolazione è il castigo in cui il popolo di Israele ha incorso per la sua infedeltà, che è giunta al colmo, quando ha rigettato Cristo. Questa profezia si realizzò infatti qualche anno dopo la morte del Salvatore, allorché la tribolazione arrivò a tal punto, che se avesse durato ancora più a lungo nessun giudeo sarebbe sfuggito alla morte. Ma per salvare coloro che si convertirono in seguito ad una si rude lezione, Dio abbreviò l’assedio di Gerusalemme. Così farà alla fine del mondo, di cui è figura la distruzione di questa città. Al momento del Secondo Avvento di Cristo vi saranno senza dubbio tribolazioni ancor più terribili. «Molti impostori, fra i quali l’anticristo, faranno prodigi ancora più satanici per farsi credere il Cristo; allora, l’abominazione della desolazione regnerà in altro modo nel tempio, poiché, spiega S. Girolamo « sorgerà, secondo quanto dice S. Paolo, l’uomo dell’iniquità e dell’opposizione contro tutto quello che è chiamato Dio ed è adorato e spingerà l’audacia fino a sedersi nel tempio stesso di Dio ed a farsi passare egli stesso per Dio » – « Verrà accompagnato dalla potenza di satana per far perire e gettare nell’abbandono di Dio quelli che l’avranno accolto » (3° Notturno). Ma qui ancora, continua S. Girolamo, Dio abbrevierà questo tempo, affinché gli eletti non siano indotti in errore (id.). Del resto, non vi lasciate ingannare, dice il Salvatore, poiché il Figlio dell’uomo non apparirà, come la prima volta, nel velo del mistero e in un angolo remoto del mondo, ma in tutto il suo splendore e dappertutto contemporaneamente e con la rapidità della folgore. Allora tutti gli eletti andranno incontro a Lui, come gli avvoltoi verso la preda. Compariranno, allora, nel cielo, il segno sfolgorante della croce e il Figlio dell’Uomo che verrà con grande potenza, e con grande maestà (Vangelo). – « Quando vi prende la tentazione di commettere qualche peccato, dice S. Basilio, vorrei che pensaste a questo terribile tribunale di Cristo, dove Egli siederà come giudice sopra un altissimo trono; davanti a questo comparirà ogni creatura tremante alla sua gloriosa presenza; là renderemo uno per uno, conto delle azioni di tutta la nostra vita. Subito dopo, coloro che avranno commesso molto male durante la loro vita, si vedranno circondati da terribili e orribili demoni, che li precipiteranno in un profondo abisso. Temete queste cose, e, penetrati da questo timore, usatene come un freno per impedire all’anima vostra di esser trascinata dalla concupiscenza a commettere il peccato» (3″ Notturno). La Chiesa ci esorta perciò nell’Epistola, per bocca dell’Apostolo, a condurci in modo degno del Signore e a portar frutto in ogni sorta di buone opere, affinché, fortificati dalla sua gloriosa potenza, sopportiamo tutto con pazienza e con gioia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti capaci di aver parte all’eredità dei Santi, ora in ispirito, e all’ultimo giorno in corpo e in anima, per il Sangue redentore del suo Figlio diletto. Dio, che ci ha detto per bocca di Geremia di nutrire pensieri di pace e non di collera (Introito), e che ha premesso di esaudire le preghiere fatte con fede (Com.), ci esaudirà e ci affrancherà dalle concupiscenze terrene (Secr.) facendo cessare la nostra cattività (Intr. e Vers.) e aprendoci per sempre il cielo ove il trionfo del Messia troverà la sua gloriosa consumazione. – Vincitore assoluto sui suoi nemici, che risusciteranno per il loro castigo, e Re senza contestazione di tutti gli eletti, che hanno creduto nel suo avvento e che risusciteranno per essere gloriosi nel corpo e nell’anima per tutta l’eternità. Gesù Cristo rimetterà al Padre questo regno, che ha conquistato a prezzo del sul Sangue, come omaggio perfetto del capo e dei suoi membri. E sarà allora la vera Pasqua, il pieno passaggio nella vera terra promessa e la presa di possesso, per sempre, da parte di Gesù ed il suo popolo del regno della Gerusalemme celeste, dove, nel Tempio, che non è stato fatto da mano di uomo, regna sovrano Dio in cui metteremo tutta la nostra gloria ed il cui Nome celebreremo eternamente (Grad.). E per mezzo del nostro Sommo Sacerdote Gesù noi renderemo un eterno omaggio alla SS. Trinità dicendo: « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio ed ora e sempre e nei secoli, così sia. »
Rendiamo infinite grazie a Dio Padre per averci riscattato per mezzo di Gesù Cristo dalla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose ed averci resi degni di partecipare con Lui alla gloria del suo regno celeste, che è l’eredità dei Santi nella luce.
Gesù è venuto nell’umiliazione, e tornerà nella gloria. Il suo Primo Avvento ebbe per scopo di prepararci al secondo. Coloro che l’avranno accolto nel tempo, saranno da Lui accolti quando entreranno nell’eternità; quei che l’avranno misconosciuto saranno rigettati. Perciò i Profeti non hanno separato i due avventi del Messia, poiché sono i due atti di un medesimo dramma divino. Così pure Nostro Signore non separa la rovina di Gerusalemme dalla fine del mondo, poiché il castigo che colpì i Giudei deicidi è la figura del castigo eterno, che toccherà a tutti quelli che avranno rigettato il Salvatore. Questo primo avvento ha già avuto luogo, il secondo si effettuerà: prepariamoci; la lettura del Vangelo di oggi, tende appunto a questo.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14 Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2 Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col 1: 9-14 “Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.
(“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché camminiate in maniera degna di Dio; sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre; e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”).
SAPERE.
San Paolo tocca mirabilmente tre verbi, che riassumono il fior fiore dell’attività veramente cristiana, con insistenza sul primo: sapere. Non è il caso di esagerare o piuttosto alterare l’azione che il Divin Maestro ha esercitato ed esercita sull’intelletto umano, e quella che l’intelletto umano deve esplicare docilmente, secondando gl’impulsi del Maestro. Ma non per nulla N. S. Gesù Cristo ha preso e conserva questo bel nome: Maestro. Rabbi. Non per nulla il Maestro è il Verbo di Dio, è la Sapienza incarnata di Lui. Verbo che illumina ogni uomo, quando specialmente, in carne mortale, viene a risiedere in mezzo a noi. – Il suo Vangelo è, inizialmente, radicalmente luce nuova. Ci ha strappato, dice San Paolo, parlando, si capisce, di preferenza ai convertiti, dal Gentilesimo, ci ha strappati dall’impero delle tenebre, trasportandoci nel regno della luce. Ed anche per questo il Cristianesimo è umano, cioè proporzionato, profondamente, perfettamente agli umani bisogni. L’uomo comincia di lì, dal sapere, dalla luce, dalla testa, la sua vita veramente umana. È un uomo perché pensa, uomo perché opera a ragione veduta. Il Cristianesimo ci prende di lì, comincia a prenderci di lì, dalla testa, colla sua rivelazione. Alla quale risponde la nostra fede, che è un sapere sovrannaturale, ma sapere. Sapere con una certezza nuova cose che erano oggetto di discussioni antiche; sapere cose nuove intravedute per « speculum in enigmate, » attendendo che venga di là, di lassù, la luce piena. E questo saper nuovo, scende sì, in noi, da Dio, ma dobbiamo noi pure accrescerlo col divino aiuto e la nostra operosità. Non tutti i Cristiani sono egualmente sapienti o veggenti. Paolo esorta i suoi lettori e discepoli a diventarlo sempre più. Augura loro e raccomanda che « siano riempiti della profonda conoscenza della volontà di Dio, in ogni sorta di spirituale sapienza e intelligenza spirituale ». Il che si consegue quando si studia e si medita il Vangelo, la rivelazione divina, il mondo della realtà cristiana. Si studia come fanno anche i più semplici Cristiani, leggendo il Catechismo, ascoltando la spiegazione evangelica dei Sacerdoti, e poi si medita come hanno fatto e fanno i grandi Cristiani, non solo sacerdoti e teologi, dirò così, di professione, S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Bellarmino, ma anche i grandi laici, come Manzoni, Nicolò Tommaseo, Contardo Ferrini. Bisogna istruirsi per sapere; e bisogna sapere se si vuol essere degni del nome di uomini e di Cristiani. Ma, soprattutto, bisogna sapere cristianamente, per cristianamente lavorare e soffrire. Il sapere cristiano non è fine a se stesso; non è appagamento vano di vana curiosità. In ciò la sua profonda differenza dal sapere profano. S. Paolo segna subito quella finalità essenziale e doverosa del sapere cristiano, che è pratica. Augura a tutti i suoi lettori, a noi, che lo siamo dopo tanti secoli, di crescere in ogni maniera di sapienza spirituale perché — gli cedo la parola — « camminiate in modo degno di Dio in guisa da essergli in ogni cosa graditi, producendo frutti d’ogni opera buona ». – Del resto, è naturale, è logico. Alla luce si cammina meglio; più veloci, più alacri, nell’ordine fisico. Nell’ordine morale e religioso, è lo stesso. Quello che pareva problema di luce, si risolve in un problema di azione. Conoscendo meglio Dio, dobbiamo, — è quasi direi, una necessità, necessità logica, — amarlo di più. Conoscendo meglio noi stessi, dobbiamo lavorare di più alla nostra purificazione ed elevazione. Conoscendo meglio il prossimo, dobbiamo compatirlo di più e perdonargli più facilmente. C’è così, una vera termo-dinamica del mondo Spirituale. Siamo davvero immersi nella luce di Dio: questa ci circonda da ogni parte. Tutto è lucido attorno a noi. La via è nettamente tracciata. Si vedono molti ostacoli: avanti! «Ambulemus: » camminiamo. Lavoriamo: sapere per fare… Del qual fare è parte anche il soffrire, il sopportare. Il sacrificio è un Cristianesimo in forma di azione. Il soldato lavora e soffre, versa sudore e sangue. Noi dobbiamo essere i soldati di Gesù Cristo. – Sono cose buone, sempre a ricordarsi a noi; più utili ed opportune mentre si chiude un ciclo di vita ecclesiastica e se ne apre un altro. Un anno più dell’altro, il nostro programma deve essere: luce, lavoro, sacrificio.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps XLIII:8-9 Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]
Alleluja
Allelúia, allelúia. Ps CXXIX:1-2 De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ⊕ sancti Evangélii secúndum S. Matthǽum.
Matt XXIV: 15-35
“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”
(“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): allora coloro che si troveranno nella Giudea fuggano ai monti; e chi si troverà sopra il solaio, non scenda per prendere qualche cosa di casa sua; e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide, o che avranno bambini al petto in que’ giorni. Pregate perciò, che non abbiate a fuggire di verno, o in giorno di sabato. Imperocché grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, ne mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saranno accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo; non date retta. Imperocché usciranno fuori dei falsi cristi e dei falsi profeti, e faranno miracoli grandi, e prodigi, da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco che io ve l’ho predetto. Se adunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto; non vogliate muovervi: eccolo in fondo della casa; non date retta. Imperocché siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere fino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno odal cielo le stelle, e le potestà dei cieli saranno sommosse. Allora il segno del Figliuolo dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi Angeli, i quali con tromba e voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità de’ cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine. Quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: così ancora quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è vicino alla porta. In verità vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”).
OMELIA
(Discorsi del santo Curato d’Ars, vol. I, quarta edizione. Torino-Roma, C. Ed. Marietti, 1933)
DELLE VERITÁ ETERNE
Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis
“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”
(Eccli. VII, 40)
Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, se lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di commuoverci, di attirarci a Lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che le persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi, che appartengono interamente a Lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre le persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.
1. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.
2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.
3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». Sant’Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto, tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che se non salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale possa portarvi alla idannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice – che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati, che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza? Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i Santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo Giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro Giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del santo Padre (san Girolamo). Il santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che di un momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi commuovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro Giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui di ritorno – continua il Santo medesimo – ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questo genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo ancora sperare la stessa felicità! Oh DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questi grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo mondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. Ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sue interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che ne abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazie così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei, per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabili, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo che in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’ho impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per del niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per non finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. Se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. Felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, voi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, voi miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un poco, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un Giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è così breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro…
Orémus Ps CXXIX: 1-2 De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]
Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus.
[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desideri celesti.]
Marc XI: 24 Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato].
Postcommunio
Orémus. Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]
(Discorsi del santo curato d’Ars, vol. I, quarta edizione. Torino-Roma, C. Ed. Marietti, 1933)
DELLE VERITÁ ETERNE
Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis
“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”
(Eccli. VII, 40)
Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, se lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma mi voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di commuoverci, di attirarci a Lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che le persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi, che appartengono interamente a Lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre le persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.
1. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.
2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.
3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». San Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto, tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che se non salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale possa portarvi alla dannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice l’imperatore – che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza. Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i Santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro Giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del Santo Padre (san Girolamo). Il Santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che un di momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi muovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro Giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui i ritorno – continua il Santo medesimo – ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questi genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo ancora sperare la stessa felicità! Oh DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questi grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo mondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. Ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sue interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che ne abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazie così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei, per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabili, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo che in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’ho impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per del niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per non finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. Se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, voi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, voi miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un poco, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un Giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è così breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro…
[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]
LIBRO TERZO
LA CHIESA
III. L’ORGANIZZAZIONE DELLA CHIESA
a) L’ordine divino della Chiesa
D. Si vede nella tua Chiesa una grande complessità di funzioni: ciò non è forse contrario alla sua unità e alla semplicità del suo oggetto religioso?
R. L’oggetto religioso della Chiesa abbraccia tutta la vita; la sua unità è una unità organica rispondente alle funzioni della vita: la Chiesa dunque dev’essere a un tempo così molteplice e così una come questa vita che essa intende di reggere; è uno spiegamento che si concentra, un concentramento che si spiega.
D. Ha un tipo di organizzazione?
E. Sì, la Trinità, in cui lo spiegamento e il concentramento, compensati, ottengono il loro massimo di ricchezza. Perciò S. Cipriano chiama la Chiesa «un popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito », e più brevemente: l’unità di Dio..
D. Ciò supporrebbe un’organizzazione perfetta su tutti i punti.
R. L’ordine della Chiesa è perfetto nel suo principio e imperfetto nelle sue estensioni, perché il suo principio è divino e la sua materia umana. Anche l’anima nostra organizza il nostro corpo come può e non sottomette mai perfettamente i suoi organi. Così lo Spirito di Dio nella Chiesa,
D. La Chiesa è una monarchia, una democrazia, o ha un governo suo proprio?
R. Il governo della Chiesa è necessariamente unico, come il suo caso; ma se si chiama democrazia un governo in cui l’autorità sale e monarchia quello in cui essa discende, la Chiesa è essenzialmente monarchica.
D. Perché ciò?
R. Perché la Chiesa è una società che include Dio, e dovunque è Dio, Egli non può essere che primo. Un governo democratico, in queste condizioni, sarebbe il governo di Dio mediante l’uomo.
D. Ma Dio non governa la Chiesa personalmente?
R. Non la governa visibilmente, ma la governa; non la governa senza intermediari, ma gl’intermediari non operano che nel suo Nome, e perciò questo non modifica affatto la forma del governo, che è sempre quello di uno solo.
D. Quali sono qui gl’intermediari?
R. Dio governa per Cristo, alle cui mani tutto è stato affidato, il quale è capo della stirpe soprannaturale, e che, al di sotto di Dio, o piuttosto congiuntamente con Dio — che gli è unito nell’unità di persona — è il primo nella Chiesa. Donde la tesi classica fra i teologi e recentemente proclamata, della regalità di Cristo; regalità spirituale, di cui la parola Cristo non è che l’espressione, poiché Cristo significa unto, consacrato regalmente, per il governo delle anime.
D. Ciò forma appena un intermediario.
R. Ulteriormente, essendo Cristo sempre presente, ma rientrato nell’invisibile, vi è di Cristo, nella Chiesa, una rappresentanza visibile; infatti fu detto ai Dodici: Come mio Padre ha mandato me, così Io mando voi. Andate e insegnate a tutte le nazioni, e questo è il potere che noi chiamiamo MAGISTERO; Battezzateli nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo, e Fate questo in memoria di me, e questo è il potere sacramentale chiamato MINISTERO; Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me, Quello che voi legherete sopra la terra sarà legato in cielo, e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto in cielo, e questo è il potere di governo (IMPERIUM), che comprende il legislativo, il giudiziario e l’esecutivo, tutti e tre necessari per un vero governo. Di modo che il collegio dei Dodici nella loro successione autentica, sarà, nel nome di Cristo e di Dio, in unione con Cristo e con Dio, l’autorità prima. Tutto il popolo cristiano dipenderà da loro come il gregge da’ suoi pastori, l’insieme del gregge dipendendo dal loro insieme, e ciascun gregge particolare, richiesto dalle necessità locali dipendendo da ognuno di loro, senza pregiudizio dell’unità che avvolge tutti i gruppi. Finalmente i Dodici e i loro successori non sono essi stessi un gregge amorfo; ma hanno un capo, e vuol dire che Cristo volle darsi una rappresentanza non solo collettiva, ma individuale, con una sopravvivenza visibile, dicendo a uno dei Dodici: Pasci i miei agnelli, vale a dire i fedeli; Pasci le mie pecorelle, vale a dire i pastori, e ancora: Io ti darò le chiavi del regno dei cieli, come a un maggiordomo, per il quale bisogna passare per andare dal Padrone. Così, partito Cristo, Pietro è un Cristo per procura, per missione e per assistenza, di modo che, nella Chiesa, lui è a capo, lui e i suoi successori, coi quali gli altri Vescovi mantengono lo stesso rapporto che tutto il gruppo episcopale con Cristo e Cristo con Dio. Tal è l’emanazione, la derivazione del sovrano potere nella Chiesa.
D. I protestanti non ammettono punto tutto questo.
R. Non lo potrebbero ammettere; il loro punto di partenza vi si oppone totalmente; ma la colpa sta precisamente nel punto di partenza. Agli occhi dei protestanti, Dio è bensì in relazione con noi per via di Cristo; ma Cristo non è in relazione con noi per via della Chiesa; la corrente di vita si arresta fin dalla sorgente; la socializzazione si effettua non da se stessa, in virtù di una natura delle cose che Dio ha fondata e alla quale Egli si adatta, ma avviene dopo, arbitrariamente, per iniziative individuali e specialmente politiche. Così non è più Cristo che continua a venire a noi per le vie della vita; siamo noi che risaliamo verso di Lui e costituiamo, cammin facendo, degli organi sociali di nostra creazione, organi che saranno, per conseguenza, quello che noi li faremo, il cui governo si stabilirà come noi lo intenderemo, sempre in dipendenza dalla nostra iniziativa e sempre soggetto a revisione.
D. Non è forse il popolo sovrano?
R. L’idea del popolo sovrano nel soprannaturale è di fatto, nel protestantesimo, assai visibile. È la società religiosa nel suo insieme che tiene il potere e che lo delega ai pastori. Salvo che non si lasci questa cura ai principi temporali, proprio indicati per addossarsi dei pesi che incombono ai loro popoli!
D. Sì eviteranno così i conflitti tra la Chiesa e lo Stato.
R. Sì, dopo che la Chiesa sarà stata mangiata dallo Stato.
D. Quali conseguenze traggono i protestanti da questo sistema?
R. Ne segue naturalmente un diritto di controllo, un diritto di resistenza eventuale, un diritto di deposizione delle autorità religiose da parte del popolo o de’ suoi mandatari principali, e molte altre cose ancora, secondo le teorie di ciascuno; perché in ciò come in tutto i protestanti hanno tante idee quante teste.
D. Dai tuoi propri concetti trai tu qualche conseguenza relativamente al governo degli Stati?
R. Bisogna pur concedere ai teorici della regalità che la monarchia, in sé, nell’ideale, è il governo più perfetto, perché l’unità d’ordine ottenuta più o meno in democrazia o in aristocrazia non è che un genere di unità secondaria, che evoca finalmente l’altra. Per questo il governo universale è ultra monarchico, sotto il nome di governo divino. Resta a sapere se un governo ideale risponde a una realtà che non è guari realtà, e se Dio, rappresentato dai capi di Stato, ritrova sufficientemente se stesso.
D. Si ritrova Egli nella Chiesa?
R. Vi si ritrova sufficientemente, perché Egli vi abita per il suo Spirito, il che non è stato promesso alle società temporali. Donde segue che la monarchia è lì di diritto, e, riguardo all’essenziale per lo meno, non vi si offre alcun pericolo di oppressione, sia in ciò che concerne le autorità secondarie, sia in ciò che tocca le libertà.
D. Ciò risponde bene all’idea di organizzazione, che ti è familiare, e che importa, come sembra, un complesso spontaneo di elementi?
R. Un’organizzazione, naturale o artificiale, è un insieme procurato da’ suoi elementi se si riferisce all’esecuzione del piano organico; ma il piano stesso, la sua concezione e la legge della sua evoluzione non sono forniti dagli elementi. Quello che è primo, nella stessa meccanica, è l’idea. Nel corpo vivente è l’anima, Nel corpo Chiesa, quello che è primo è altresì l’anima sua, cioè lo Spirito divino comunicato da Cristo Figliuolo di Dio e dal Padre che lo ha mandato.
D. Qui non si vede né Papa né Vescovi.
R. Aspetta. Nel corpo vivente, quello che è primo dopo l’anima è il sistema nervoso centrale, non le cellule lontane. Nella Chiesa quello che è primo, a titolo di elemento visibile, è il corpo episcopale unito al Papa: encefalo donde, sotto l’azione dello Spirito Santo animatore, procedono e il pensiero, chiamato dogma, e la motricità, che è il governo e tutta la vita venuta da Cristo a benefizio delle anime, mediante l’effusione sacramentale.
D. Dunque, nella Chiesa, il semplice Cristiano sarà unicamente passivo?
R. Nessun elemento è passivo, in un organismo animato. La Religione che ci rilega a Dio non vi ci assorbe punto. Il governo religioso dev’essere un eccitatore di energie, non un accaparratore o un estintore di energie. Io sono venuto, disse Gesù, per mettere il fuoco alla terra, e che cosa desidero se non che esso arda? (Luc., XII, 49).
D. Che parte dunque attribuirai tu alle spontaneità e alle iniziative?
R. Il Cristiano reagisce già sull’autorità per ciò che egli è, e per il modo con cui si comporta sotto il regime della legge. Quest’autorità, divina qui nella sua essenza, non può evidentemente essere influenzata in se stessa; ma dipende ne’ suoi effetti dall’accettazione della nostra libertà e dalla collaborazione dei nostri sforzi. Non siamo dunque governati senza di noi, neppure da essa. A più forte ragione non siamo governati senza di noi dalle autorità umane che, in suo nome, ma con una gradazione di valore e di possibilità, ci reggono. In questo ultimo caso non solo partecipiamo agli effetti del governo, ma in un certo modo anche al governo stesso.
D. Non è un ritorno alla democrazia?
R. Niente affatto. Il corpo vivente non è una democrazia, dicevamo; perchè il principio animatore ha per punto di applicazione immediata e principale il cervello, il sistema nervoso centrale, donde partono le grandi correnti che dirigono tutto il resto. Ma non si ha da dire che l’anima abiti nel cervello esclusivamente; l’anima è da per tutto e da per tutto si rivela; in tal modo che la vita comunicata al cervello a pro delle membra non impedirà una comunicazione diretta alle stesse membra, e ne approfitterà il cervello alla sua volta.
D. Ciò sì applica a una società?
R. Perfettamente. Non vi è monarchia così assoluta che non sia influenzata da nessuno. Un saggio governo organizza le collaborazioni, non le respinge; si circonda di consiglieri; si appoggia sull’opinione dei migliori; esamina il suo popolo prima di proporgli delle leggi. E la ragione è che la legge è un dettato di ragione, e nessuna autorità può pretendere d’incarnare in sé sola la ragione. Parimenti l’autorità religiosa non ha da sé sola il monopolio dello Spirito; essa lo esprime legalmente, e ciò che verrà d’altronde dovrà esser controllato da essa, in tal modo che anche in ciò noi saremo governati, non governanti; ma sapendo che il suo proprio Spirito animatore è dovunque diffuso, animando anche i fedeli e ispirando loro delle verità, provocando in essi degli impulsi, producendo delle grazie, l’autorità religiosa ascolta, nello stesso tempo che parla; essa subisce, pure operando, e quindi il governo è in ciò una vera collaborazione.
D. Democrazia, ancora una volta.
R. Ancora una volta, non si tratta affatto di democrazia; ma quello che non è una democrazia può — ed è il caso di ogni saggio governo — partecipare della democrazia, come anche dell’aristocrazia, in ciò che le autorità secondarie ed anche i sudditi esercitano o influiscono realmente sopra l’autorità senza dividerla. Se è vero, come afferma S. Tommaso d’Aquino, che il migliore governo è quello che unisce la partecipazione di tutti all’azione dei migliori, controllata e centralizzata da un solo, il governo della Chiesa si fa vedere così perfetto quanto è possibile, ed è l’elogio del suo Dio.
D. Pretendi tu che la Chiesa sia la più perfetta società che esista?
R. Essa offre di fatto quello che mai non apparve più grande e più ammirabile come regime sociale. Essa raggiunge l’ideale della concentrazione e della pieghevolezza, dell’autorità efficace e della libera azione. Nulla si potrebbe concepire di più perfetto, e nemmeno altra forma, per un governo che si deve estendere a tutto il mondo.
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMAQUINTA.
10 dicembre.
Risposta ad una questione. — Il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico. — La vita è una lotta. — Contro chi. — Necessità di un’arma alla portata di tutti. – Quale sia. — Prove che il segno della croce è un’arma speciale, l’arma di precisione contro i cattivi spiriti.
Se tu mostrerai l’ultima mia lettera ai tuoi compagni, è ben facile, mio caro, ch’eglino ti dicano: Se il segno della croce è si potente, come vi si scrive, perchè non opera più quello, che ha fatto? A siffatta quistione v’hanno varie risposte. La è di S. Agostino la prima. Parlando de’ miracoli il santo fa una giustissima osservazione. I miracoli raccontati da libri santi hanno una grande pubblicità; tutti, che leggono le scritture, o le sentono, ne hanno contezza, e dovea essere a questo modo, perchè sono le prove della fede. Al presente ancora v’hanno de’ miracoli fatti in nome del Signore per lo mezzo de’ Sacramenti, e delle preghiere indirizzate a’ Santi, ma non hanno la istessa notorietà, si conoscono là solamente dove accadono, e se la città è grande, restano ancora ignoti ad un buon numero di abitanti, ed alle fiate, un piccolissimo numero di cittadini ne ha contezza. E quando questi miracoli sono raccontati ad altri, scemano nella certezza, non essendo tale l’autorità che li racconta, che li si ammettano senza difficoltà, tuttavolta sieno de’ cristiani, che ad altri Cristiani li raccontino (De Civ. Dei, lib. XVII, c. 8). In prova di che il santo racconta varii miracoli, di che egli era stato testimone, de’ quali, qualcuno operato dal segno della croce. Il perchè, dalla ignoranza che i tuoi compagni, o altri, possano avere de’ miracoli, che hanno luogo presentemente, non è da negare la esistenza di essi. A questa prima risposta è da aggiungere un’altra. Dessa è di un gran dottore, il Papa S. Gregorio (Hom. XXIX in Evang. post init.). Distinguendo egli gli antichi da’ moderni tempi, dice: « I miracoli al cominciar della Chiesa furono necessari; per essi la fede dovea stabilirsi. Quando affidiamo alla terra una pianta dobbiamo innaffiarla, perchè prenda radici, e quando ne siam certi noi desistiamo dal farlo, ed ecco ragione perchè l’Apostolo dica: Il dono della lingua è vero segno non per i fedeli, ma per gl’infedeli » (Homil. XXIX in Evang.). La coltura morale si assomiglia alla fisica. Di presente che il cristianesimo ha preso radici nelle viscere del mondo, nella coscienza umana, i miracoli non sono più necessari a quella maniera che lo erano al principio della divina piantagione. Da poi che il mondo crede, diceva S. Agostino, sono scorsi quindici secoli; colui, che per credere dimandasse ancora miracoli, sarebbe egli stesso un prodigio, chenel mezzo di un mondo che crede, è solo a miscredere (S. Aug. ubi supra). Ma dato ancora, ciò, che non ammettiamo, che il segno della croce non operi più miracoli, non mostra forse il suo potere sovraumano a ciascuna ora del giorno e della notte, ed in tutti i luoghi della terra? Se tu supponi cento milioni di tentazioni in un giorno, abbi per fermo, che tre quarti di esse sono dissipate dal segno della croce: chi non ne hafatto l’esperimento? Sii di ciò sicuro; e, ricordando che quanto da te vien fatto, è ripetuto dagli altri, tu potrai valutare la potenza permanente, ed universale del segno liberatore. Concedo ancora di più, ed ammetto che il segno della croce non riesca sempre ascacciare gl’immondi pensieri, a dissipare gl’incanti seduttori, a ritener l’anima sul pendio della colpa; ma di chi n’è la colpa? Non n’è forse la poca fede dei Cristiani? Non è forse da dire della inefficacia di questo segno, quanto a ragione dicesi della inutilità della Comunione per un gran numero? Il difetto non è da porre in quel che si riceve, ma nelle disposizioni di chi lo mangia: defectus non in cibo est, sed in edentis disposinone? Per guarire una tale mancanza di fede, che impoverisce e ruina i Cristiani, ho intrapreso questa nostra corrispondenza, e continuando svolgerò un nuovo titolo, che il segno della croce ha alla fiducia de’ Cristiani del secolo decimonono. – Soldati, il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico! Sono già tremila anni che Giobbe definì la vita una lotta continua: Militia est vita hominis super terram. I secoli sono scorsi, le generazioni hanno succeduto ad altre generazioni, gl’imperi han dato luogo ad altri imperi; venti volte l’umanità s’è rinnovata, e la definizione di Giobbe è sempre vera. La vita è una lotta! Lotta continua per te, come per me, per i tuoi compagni, per tutti gli uomini. Lotta, il cui cominciamento è alla culla per finire alla tomba; lotta, che dura in lutti gl’istanti della notte e del giorno, sia che l’infermità ci appeni, o che la sanità ci conforti. Lotta decisiva, che dalla vittoria, o dalla disfatta dipende non la fortuna, o la sanità, non i temporali vantaggi si grandemente da noi stimali, ma ben altro, che a dismisura tutte queste passaggiere cose avanza; poiché, è da essa che una eternità felice, o una eternità di pene trae la origine sua! Ecco, mio caro amico, la condizione dell’uomo sulla terra: noi non possiamo mutarla. Chi sono i nemici dell’uomo? Ahimè! e chi può ignorarli di nome e per attacchi sofferti? Il demonio, la carne, il mondo; sono tre formidabili potenze, che agognano la nostra perdita. Non ho in pensiero farti un corso completo d’ascetismo, epperò parlerotti della sola prima. – Come è certo che v’ha un Dio, è certo che v’hanno de’demoni. « Se non v’è satana , non c’è Dio », diceva Voltaire; ed a ragione. Se non v’è satana, non v’è colpa; se non v’è colpa, non v’ha redenzione; se non redenzione, non esiste Cristianesimo; se non v’ha Cristianesimo, tutto è falso: il genere umano è pazzo, e Dio non esiste! Ora i demonii sono degli angeli prevaricatori, i quali per intelligenza, forza, ed agilità sorpassano l’uomo, e sono per numero incalcolabili. Pino all’estremo giudizio soggiornano nell’inferno, e nell’atmosfera, che ci circonda, dove invidiosi de* figli di Adamo chiamati alla felicità da essi perduta, si studiano con ogni mezzo di arreti-carci. Fomentano in noi le passioni ; ci creano d’intorno de’ pericoli, oscurano in noi l’occhio della fede, travolgono il senso morale, soffocano i rimorsi, ci rendono complici di loro rivolta per averci compagni de’ loro supplizi. Tutte queste verità, lo ripeto, sono certe al pari della esistenza di Dio. Tiranni dell’uomo per lo peccato, i demonii lo sono di tutte le creature sottoposte all’uomo; vinto il re, il suo regno appartiene al vincitore. Sparsi in tutte le parti del creato, ed in ciascuna creatura, le penetrano con le loro maligne influenze. Tra i limiti del potere, che loro da Dio viene accordato, essi ne formano strumento a disfogare il loro odio contro l’uomo, contro la sua anima ed il corpo. È questo ancora un dogma di fede universale. Che cosa mai conosce chi ciò ignora? Niente. Chi ne dubita? meno che niente. Quegli che lo miscrede non merita d’essere fra gli uomini ragionevoli. Esistendo la lotta, ed essendo l’uomo tale qual’egli è, potrai tu concepire che la sagezza divina abbia lasciato il genere umano senza difesa? Come non comprendere il contrario con la istessa evidenza, che due e due fanno quattro, che, per equilibrare la lotta, Dio ha dovuto dare all’uomo un’arma potente, universale, alla portata di tutti? Qual è quest’arma? Interroghiamo tutti i secoli, ed in principal modo i Cristiani, questi con grido unanime risponderanno: È il segno della croce! L’uso costante da essi fattone ribadisce la loro risposta. Questo punto di vista illumina la storia di questo segno adorabile, ne mostra la ragione, giustifica altamente la condotta de’ primi Cristiani, e condanna parimenti la nostra. – Nulla è a pezza più certo dell’essere il segno della croce arma di precisione contro satana, e suoi angeli. Dimmi: quando è da provare la forza di un cannone, di una carabina, o di qualsiasi arma nuovamente formata, in qual maniera si procede? Non si aggiusta mica alla cieca fede all’inventore, ma l’autorità forma una commissione, che alla presenza di giudici competenti fa saggio di essa, e dietro ripetute esperienze porta giudizio sul merito dello strumento guerresco al suo esame commesso. Non sia altrimenti per lo segno della croce. Ma ricorda solo, che questo segno divino non è testé formato; desso è di vecchia data, e vecchissima, ma non ruginosa, nè indebolita, nè fuori servizio. Il giuri poi dell’esame è formato da lungo tempo, e non lascia nulla a desiderare. Desso è composto di uomini competenti dell’Oriente e dell’Occidente; uomini della specialità, che da lungo tempo conoscono 1’arma in questione, ed il mestiere delle armi non solo in teoria, ma altresì praticamente. Ecco il tribunale, ascoltane il giudizio. – Crede egli alla potenza del segno della croce, ed alla forza di quest’arma divina contro i demoni, un giudice che siffattamente parla? « Non ti colga uscir da casa tua senza fare il segno della croce ; desso sarà per te bastone ed armatura inespugnabile: nè uomo, nè demonio oserà attaccarti, al vederti ricoperto di siffatta armatura, ed essa insegnerà a te stesso dover essere un soldato sollecito alla pugna contro satana, e guerreggiare per la corona di giustizia. Ignori forse l’operato dalla croce? La morte è stata vinta, il peccato distrutto, satana detronizzato, l’universo tornato a nuova vita; e dubiterai tu della potenza sua? » ((S. Chrysost., homil XXII ad popuL Antioch.). Vi crede questo secondo giudice, che in questi termini si esprime: « Il segno della croce è l’armatura invincibile de’ Cristiani. Soldato di Cristo, una tale armatura non ti abbandoni giammai né di giorno, nè di notte, in nessun tempo, ed in nessun luogo. Sia che tu dorma o vegli, che viaggi o riposi, che tu mangi o beva, che attraversi i mari od i fiumi, sii tu sempre coperto di questa corazza. Orna pure e proteggi le tue membra con questo segno vincitore, nulla ti potrà nuocere; non v’ha difesa simile ad esso per potere. A vista di questo segno le infernali potenze spaventate, tremano, e prendono la fuga » (S. Ephrem, De Panoplia et de pœnitentia, apud Gretzer. p. 580, 581, et 612).Vi crede, questo terzo giudice, che indirizza a’ Cristiani, e a sé stesso il seguente discorso: «Facciamo arditamente il segno della croce. Quando i demonii lo vedono, si ricordano del Crocifisso, prendono la fuga e ne lasciano tranquilli » (S Cyril. Hierosol. Cathec XIII).). E questo quarto? « Innalziamo sulle nostre fronti l’immortale stendardo; la sua vista fa tremare i demonii, che non temono i campidogli dorati, ed hanno paura della croce » (Origen., homil. VII in divers. Evangel. locis). Così giudica l’Oriente per l’organo de’ suoi illustri uomini S. Grisostomo, S. Efrem, S. Cirillo di Gerusalemme, ed Origine, cui sarebbe facile aggiungere altri nomi meritevoli di eguale rispetto. – Ascoltiamo l’Occidente. S. Agostino diceva a’ catecumeni: « Col simbolo, e con la croce è da muovere alla battaglia contro l’inimico. Il Cristiano rivestito di queste armi trionferà senza pena alcuna del suo antico e superbo tiranno. La croce basta a fare svanire tutte le macchinazioni degli spiriti delle tenebre » ( S. Aug ust. Lib. de symbol.,c. 1). Ed il suo illustre contemporaneo S. Girolamo: « Il segno della croce è scudo, che ci difende contro le infiammate freccie di satana » (S. Hieron. Ep. XVIII ad Eustoch.). Ed altrove: « Fate frequentemente il segno della croce sulla vostra fronte, onde non lasciar alcuna presa allo sterminatore dell’Egitto » (Idem, Ep.XCVII ad Demetriad.). E Lattanzio: « Perchè si conosca tutta la potenza del segno della croce, è da considerare quanto di esso s’impauri satana. Scongiurato nel nome di Cristo, questo segno lo scaccia dai posseduti da lui. Non v’ha da meravigliarne; quando il figlio di Dio era sulla terra, con una parola sola metteva in fuga satana, tornando il riposo e la sanità alle vittime di lui: ora i suoi discepoli scacciano gli stessi spiriti immondi in nome del loro Maestro, e col segno della sua passione » ({Lactant. lib. IV, c. 27). – L’Oriente e l’Occidente hanno parlato. I giudici i più competenti, che immaginar si possa, hanno dichiarato il segno della croce arma, ed arma di precisione contro satana. Innumerevoli esperienze servono di base al loro giudizio, che ne’ primi secoli della Chiesa avevano luogo tutto giorno al cospetto de’ Cristiani e pagani su tutta la terra. Ed erano sì convincenti, da dire, il grande Atanasio, testimone oculare, senza temere di essere smentito: « per lo segno della croce tutti gli artifizii della magia sono impotenti, gl’idoli abbandonati. Per esso la voluttà per quanto sbrigliata sia e brutale, è moderata, le anime invilite ed infangate in essa sono rilevate dalla terra ed indirizzate al cielo. In altri tempi il demonio ad ingannare l’uomo prendeva diverse forme, e tenendosi sul margine de’ fiumi, ne’ boschi e sui monti sorprendeva con i suoi prestigi gli uomini insensati: ma, di poi la venuta del Verbo questi artifizii sono impotenti; avvignacene il segno della croce discopre tutte le sataniche furberie. Se alcuno volesse farne sperimento, basterebbe solo condursi nel mezzo de’ prestigi satanici, degli oracoli ingannatori, de’ miracoli della magia, e fatto quivi il segno della croce, invocando il nome del Signore, vedrebbe che per paura di questo sacro segno i demoni fuggono, gli oracoli si ammutoliscono, e le malefiche arti tornano impotenti » (S. Athan. Lib. de Incarnat. Verbi 1.). – Io voglio citarti qualcuna di queste esperienze. Il precettore del figlio di Costantino, Lattanzio, che sapeva delle cose della corte imperiale più che ogni altro il potesse, raccontò: « Lungo il soggiorno di Oriente, l’imperatore Massimino, curiosissimo di sapere i segreti dell’avvenire, immolava un giorno delle vittime per sapere, per lo mezzo delle loro viscere, le cose future. Qualcuna delle sue guardie cristiane fece il segno immortale, immortale signum, e tosto i demoni si solvono, il sacrifizio nulla predice » (Lactant. De mortib. persecut., c. 10). Se, a vista di questo segno, satana è costretto abbandonare i proprii tempi, come potrà restare negli altri luoghi? Ascoltiamo uno de’ più gravi dottori dell’Oriente, ed illustre storico, S. Gregorio Nisseno, che scrivendo di S. Gregorio il Taumaturgo, chiamato il Mosè dell’Armenia, cosi racconta: « Troade, diacono di Gregorio, arriva sul far della sera a Neocesarea stanco da un lungo viaggio, e per ristorare le sue forze crede utile bagnarsi, epperò egli si conduce ai bagni pubblici. Questo luogo era infestato da un demonio omicida, che ammazzava quanti ardissero entrarvi dopo il tramonto del sole, ed era questa la ragione, perchè le porte si tenevavo chiuse la notte. Il diacono dimanda che gli si disserrassero le porte; ma il custode a dissuaderlo dicea: In fede mia, chiunque ardisce entrare in quest’ora, non ne sorte sano, ma si mal concio per battiture da non reggersi sui piedi. La notte il demonio scorazza in questo luogo, e ben molti hanno pagato la loro curiosità temeraria con grida di dolore, e con la morte. Il diacono sprezzava tutti questi racconti, ed insisteva per aver libera l’entrata. Più non reggendo a tante inchieste il custode, per salvare la propria vita, e soddisfare al volere del diacono, trovò questo mezzo: concede la chiave, e prende la fuga. Il diacono entra, e tosto che fu tutto solo, nella prima sala depone le vestimenta. Ad un tratto, d’ogni dove sorgono oggetti di spavento, ed orrore. Spettri d’ogni maniera, a metà fuoco e fumo, sotto forma or di bestie or di uomo, fischiano al suo orecchio, gli sbuffano in faccia il loro alito, e lo circondano come in un cerchio da non poter oltrepassare. Il diacono non si smarrisce; fa il segno della croce, invoca il nome di Dio, ed incolume traversa la prima sala. Entra quella del bagno: quivi spettacolo più orrendo gli si para dinanzi, a sorprenderlo, e mettergli paura. Trema la terra, le mura scricchiolano, il suolo si apre, e lascia vedere nel fondo una fornace, le cui faville ascendono sino al volto del diacono. Egli ricorre all’arma del segno della croce e del nome del Signore, e tutto dispare. Preso il bagno si affretta a sortire; ma un demonio gli sbarra il passaggio, e tiene la porta serrata. Le porte si disserrano da per sè, e la resistenza satanica è vinta dal segno della croce. Tosto che il diacono ebbe guadagnata l’uscita, un demonio con voce umana, umanavoce, gli disse: Non voler punto attribuire a tuo potere lo aver scampata la morte, ma al potere di Colui, che invocasti. Il diacono Troade divenne oggetto di ammirazione non solo pel custode de’ bagni, ma ancora per tutti, che seppero non avervi perduta la vita(Vita di S. Greg. Inter opera Nysseni). – Quanto leggi non è un fatto isolato, mio caro, ma è parte di un vasto insieme di fatti simili, confermayi da mille testimoni, e che si riproducono oggidì presso i popoli idolatri. Lasciamo che parli Lattanzio. « Quando i pagani, egli scrive, sacrificano a’ loro dei, se qualcuno degli astanti fa il segno della croce, il sacrifizio non riesce, ed il consultato oracolo non da responsi. Questa l ‘ è una delle cause, che mossero gì’ imperatori a perseguitare i cristiani. Alcuni de’ nostri avi li accompagnavano a1 sacrifizi, facevano il segno della croce ed i demoni messi in fuga non potevano produrre nelle viscere delle vittime i segni indicatori. Quando gli auruspici si addavano di una tal cosa, aizzati da satana, cui erano venduti, non trasandavano di menar lamento, per la presenza di profani. I principi sdegnati perseguitarono a morte il Cristianesimo, perchè impediva loro d’insozzarsi con sacrilegi, di che si ebbero la meritata pena (Lact. lib. X, c. 81) ».
La mia prima lettera ti conterà qualche altro fatto.
OTTO DISCORSI DETTIDAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.
NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862IN ROMA
ROMA – COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862
DISCORSO OTTAVO
ARGOMENTO
Pratico frutto di questi discorsi. Mezzo alla conversione del Paganesimo non potea essere la sapienza: fu la stoltezza. Testo di san Paolo. Il Mistero della Croce e suo trionfo. Incoerenza apparente di quel testo. Il mondo ed i Credenti. Quello paganeggia col suo Cristianesimo civile. Caratteri di questo. Epilogo: si conchiude col Mistero della Croce.
1. Nel compiere questo piccolo servigio, che io con non piccolo affetto vi ho reso, miei dilettissimi uditori, non posso dissimularvi di rimanere con qualche timore, e quasi che non dissi con qualche rimorso; il quale mi riesce tanto più pungente, quanto esso riguarda la utilità di voi, che siete stati inverso me tanto benevoli e cortesi. Io temo forte che, sedotto dalla vastità e nobiltà del soggetto trattatovi, l’antico cioè ed il nuovo Paganesimo, non abbia forse mirato abbastanza alla pratica e spirituale vostra utilità. Tuttavolta, mi conforto al pensare che, avendo io, con questi discorsi, investito direttamente la tendenza capitale del nostro tempo e delle nostre contrade, la quale è, come più volte vi ho detto, il piegare ad un Naturalismo universale, da cui non può venire altro che il ritorno, più o meno esplicito, alle idee ed agli amori pagani; mi conforto, dico, a pensare che, avendo investita così di proposito questa malaugurata tendenza, voi, accorti siccome siete ed ingegnosi, non avrete mancato di farne da voi medesimi tutte quelle pratiche applicazioni, di cui la predicata parola poteva essere feconda. Che se pure ve ne fosse ancora qualche bisogno, io sono qui a farvene una, che sarà come il midollo e la corona di tutte le altre, e la quale io stimo di tanta rilevanza, che beato me se saprò ben dichiararlavi questo giorno! beati voi se saprete penetrarla intrinsecamente col pensiero, ed imprimerla a caratteri indelebili nei vostri cuori! E sapete qual è questa verità cotanto salutare, la quale, io intendo proporvi? Essa riguarda il mezzo tutto impensato, nuovo, incredibile direi, se il fatto non lo mostrasse avverato, onde Iddio disfece, come d’un soffio, l’opera di quaranta secoli, chiamando il Paganesimo alla Fede, e tramutandolo, come per incanto, in questo Cristianesimo, di cui noi siamo figli e nel cui centro, la Dio mercè, ci troviamo. Signori sì! Fu così inopinato quel mezzo, fu sì stupendo, fu così, fuori d’ogni umano consiglio od accorgimento, che quand’anche qualunque altro argomento mancasse, basterebbe quello solo a mostrare divina la nostra Religione santissima. E notate: io non parlo già della conversione delle Genti o del Gentilesimo; ché già quell’argomento è antichissimo e quasi vulgare nei nostri apologisti ; parlo sì veramente del mezzo, onde la Provvidenza si valse per convertire le Genti. · Il qual mezzo come servì a convertire i Gentili alla Fede, così è sovranamente necessario a mantenere nella Fede le generazioni già convertite; essendo manifesto quello che insegna san Tommaso: le istituzioni, ed in generale qualunque cosa soggetta a mutazione, come sono tutte le umane, mantenersi e restaurarsi per quei principii medesimi, onde ebbero vita e cominciamento. Veggo che voi, invaghiti della rilevanza del soggetto, mi esortate col desiderio a troncare gl’indugi di un più lungo esordire; ed io pure voglioso di fare il piacer vostro, vi vengo tosto, e comincio.
II. Non vi sia grave tuttavia tornare un tratto col pensiero sopra i suggetti, ragionati nei passati giorni, per farvi un concetto possibilmente adeguato delle condizioni misere, in che Cristo Redentore, venendo al mondo, trovò il genere umano. Voi non potreste mai sentire quanto valga e che sia la libertà, la luce e la salute per lui donateci, senza prima intendere la schiavitudine, le tenebre e la morte, in che noi ci aggiravamo. Oltre a ciò la soprammirabile efficacia del mezzo adoperato da Dio a compiere quella trasformazione, allora solamente potrà essere in qualche modo intesa, quando si sia ponderata l’assoluta opposizione dei due termini, dall’uno dei quali il mondo fu tramutato nell’altro. E però quella opposizione io mi studiai di farvi non solo intendere, ma sentire coi passati discorsi, dei quali vorrei ora che abbracciaste, come in iscorcio, tutta d’un guardo, la contenenza. – Per farlo poi bene, ci è uopo smettere un poco quei pregiudizii fanciulleschi, onde uomini anche adulti sogliono mirare ed ammirare la grandezza pagana. Che ché sia della eccellenza, che il mondo antico poté raggiungere nelle arti dello Stato e della immaginativa, il fatto è che tutte quelle prerogative nulla non aveano che fare colla dignità morale dell’uomo ragionevole, col suo costume privato e pubblico, ed aggiungo ancora colla sua contentezza, e con quella misurata felicità, che pure può godersi nella presente vita; la quale, a volerla ordinata debitamente, non può prescindere dalle sue relazioni colla futura. Quanto a tutto questo il genere umano era dechinato sì basso, era venuto a tal termini di mostruosa libidine, di smisurato orgoglio, di bestiale abbiellezza, e di stupida e codarda schiavitudine, che appena bastano a darne un’idea tutte le immagini, onde sono piene le Scritture, di prigioni, di catene, di tenebre, di piaghe ulcerose e fetide, di regnante peccato , di morte trionfante, di demonio prevalente. A non dire del popolo giudaico, piccolissima eccezione a tanto pervertimento, e che pel meglio, onde superbiva, non si levava sopra la condizione dell’infante, il resto dell’uman genere, che vuol dire quasi tutto, separatosi da Dio, come già il figliuol prodigo, avea colto da quella malaugurata radice ignoranza e sconoscimento di sé medesimo e delle provvidenziali armonie, che lo legavano all’universo. Ristretto l’uomo in sé medesimo volle essere indipendente da tutto, e fu mancipio di tutto: servì alle forze cieche della natura, servi ai propri istinti sensuali, servì alla prepotenza sociale, personificata nell’idolo di tutti più vorace, che chiamavasi patria. Così mi pare, che quell’alta parola di Paolo ai Galati, intorno all’infanzia del popolo giudaico , si può applicare eziandio a tutta la umana famiglia; stantechè la dipendenza è il carattere più proprio dei bambini. E tale, dice egli, innanzi a Cristo, tutti, Giudei e Gentili, eravamo infanti; ed in questa condizione ci trovavamo fatti schiavi agli elementi del mondo: Cum essemus parvuli, sub elementis mundi eramus servientes (Gal. IV, 3). Ed elementi del mondo erano la cupidità, il disordine, le forze della natura, le propensioni sensuali, la prepotenza della società e degli Stati. Tant’è! eramus servientes sub elementis mundi. Ora, trattandosi di dovere disfare quella universale servitudine, rischiarare la terra da quelle tenebre, sciogliere quei ceppi, vendicare in libertà quelle generazioni depresse ed avvilite; qual mezzo avreste voi creduto opportuno a tanto scopo? E voi penserete tosto a quei mezzi, che, secondo natura, si offrono spontanei al pensiero di ognuno: l’ignoranza si sarebbe dovuta cacciare via del mondo per mezzo della scienza; la licenza dei costumi col decoro e colla dignità della vita civile; la schiavitudine universale coll’innamorare i cuori della libertà individuale, civile e politica, facendone sentire i pregi e gli emolumenti. Questo pensate voi, questo penserebbe ogni savia e prudente persona; né la natura e la ragione saprebbono suggerire mezzi più opportuni di questi. Ma al tutto diverso fu l’alto consiglio della Provvidenza; ed appunto perché la natura e la ragione erano traviate ed offuscate, i mezzi ad esse, secondo le naturali analogie, proporzionati non poteano fare buona prova; e però vi era uopo di ricorrere a qualche cosa fuori la cerchia della natura stessa e della stessa ragione. E questo appunto fece Dio col Mistero meraviglioso della Croce, cosa ripugnante a natura, cosa pazza per la ragione; e scelta nondimeno da Lui, come lo strumento di tutti più appropriato alla rigenerazione del mondo, la quale importava il guarire la inferma natura, ed il fare rinsavire la ragione ottenebrata e quasi spenta. Questo ineffabile ed augusto Mistero della Croce, sopra la quale la Vita sostenne la morte, e colla morte diè al mondo la vita: Qua Vita mortem pertulit, et morte vitam protulit; questo Mistero, ripeto, io giudico nella presente materia rilevantissimo il dichiararvi. E per farlo, il meglio che per me si possa, prenderò a guida un luogo profondissimo di san Paolo, nella prima sua Epistola ai Corinti; il quale testo intendo esporvi posatamente, pregandovi a recarvi speciale attenzione. Ecco dunque come ragiona, in sentenza, l’Apostolo.
III. Se il corrompimento, a che era divenuto il genere umano, massime nelle nefande ed empie abbominazioni della idolatria, fosse nato da ragionamento o da discorso, benché erroneo, dell’intelletto, sarebbe certo stato opportuno disfare quell’opera, per mezzo della scienza o sapienza umana, come volete dirla. Ma la cosa era andata tutt’altrimenti: quell’universale corrompimento era originato dall’orgoglio e dalla sensualità, senza che la ragione vi pigliasse alcuna parte, salvo quella di farsi dominare da captiva, di ammutolire e, per colmo d’ignominia, di farsi complice delle cupidigie sensuali e superbe. Così l’ordine primitivo, stabilito dalla Provvidenza, andò fallito per colpa dell’uomo. Secondo quell’ordine primitivo di Dio, che qui l’Apostolo esprime colla frase: In Dei sapientia, il genere umano dalle creature sarebbe dovuto assorgere alla cognizione ed all’amore del Creatore: il che sarebbe stato, secondo la medesima frase di Paolo, cognoscere Deum per sapientiam. Ma non ne fu nulla! ed il mondo non conobbe per iscienza Iddio, secondo la via daLui ordinata. In Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum (1a Cor. I, 21).Stando dunque così le cose, quale vantaggio potea aspettarsi il mondo da una sapienza secondo le sueidee, quando esso se ne avea manomesso, e poco menoche annientato lo strumento? Anzi non pure lo avea annientato, ma colla superbia lo avea reso restio; e lasapienza naturale o lo avrebbe trovato ripugnante, o neavrebbe gonfiato l’orgoglio. Pertanto, non potendo allaguarigione servire più la sapienza, e questa ripugnando anzi a quella, era uopo ricorrere a ciò che è contrario alla sapienza. Ora qual cosa è più diametralmente opposta alla sapienza, se non la stoltezza? Bene dunque! la stoltezza, signori sì! signori sì! la stoltezza proprio prenderà Dio a strumento, per rigenerare il mondo, guasto e folleggiante pei traviamenti di una ottenebrata sapienza. Né a ciò dovea servire lastoltezza in qualunque modo; ma la stoltezza professata, proclamata, predicata; ché il per stultitiam prædicationis è uno degli ebraismi frequentissimi a Paolo, benché egli scrivesse in greco, ed equivale a per stultitiam prædicatam. Eccovi colle proprie sue parole ildiscorso dell’Apostolo: « Non avendo il mondo conosciuto Dio per via di sapienza, secondo il primitivo consiglio divino; piacque a Dio salvare i credenti pervia di predicata stoltezza ». Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes. E sapete che significa propriamente stultitia prædicata? Significa il proclamare una dottrina, innanzi a cui tutta la sapienza umana saria restata sconcertata e confusa; una dottrina, che avrebbe messo alla cima ciò, che la sapienza umana metteva sempre al fondo: e viceversa messo al fondo ciò, che questa metteva sempre in cima; una dottrina, che avrebbe detto bene e beatitudine dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel riconoscere per sua suprema miseria: e per converso avrebbe detto miseria suprema dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel dire suo bene e sua beatitudine. Questa fu propriamente la stultitia prædicata, pel cui mezzo volle Iddio salvare l’uomo,il quale non avea saputo trovare salute nella sapienza.E fate di rendervi ben chiaro questo punto. Che direste se un qualunque saltasse qui in mezzo a pensare ed adire a rovescio di quello che dicono e pensano tutti? come altro potreste qualificarlo, che per istolto? Ed è egli forse altro la stoltezza, che pensare e parlare a rovescio di ciò che pensa e parla l’universale, non pur dei savi, ma degli uomini? Pure questo appunto fecero gli Apostoli, e segnatamente Paolo, in mezzo ai Gentili: cominciarono solennemente a gridare cose del tutto opposte ai pensieri e dagli affetti del Gentilesimo. Dissero beati i poveri, gli umili, i sofferenti; e ciò in un mondo, che non conosceva cose più abbominevoli della povertà, della demissione, della sofferenza: dissero miseri e di compianto degnissimi i doviziosi, i rinomati, i gaudenti; e ciò in un mondo, che si struggea della rabbiosa fame di dovizie, di gaudii, di rinomanze. Deh! che vi poteva intendere quel mondo in questa non più udita dottrina? Dovette poi crescere a dismisura la sua confusione ed il suo stordimento, quando si udì contare che Iddio, quasi personificando in sé medesimo quella stoltezza, era nato bambino, era stato perseguito in fasce, avea conversato in mezzo agli uomini, patendo fame e sete, e rimbrotti, e calunnie; era stato accusato, trascinato pei tribunali, coperto di scherni, abbeverato di dolori, fino a lasciare la vita sopra di un infame patibolo tra due malfattori, quasi peggiore di ambedue. Or chieggo a voi un’altra volta: che vi potea intendere il mondo pagano nella sfoggiata stoltezza di quelle dottrine e di questo maestro? E vi è di più: se vi ebbe mai tempo meno opportuno a predicare tale stoltezza, fu quello appunto, in cui essa fu predicata. Lo stesso Paolo Apostolo ci fa sapere che, per quei giorni, i Giudei aspettavano portenti strepitosi, e meraviglie non più vedute: i Gentili, distinti da lui col nome speciale di Greci, che erano i più colti, volevano arti, letteratura, scienza, filosofia: Iudæi signa petunt, et Græci sapientiam quærunt. Or bene: a quel Giudaismo, così avido di portenti, gli Apostoli presentarono niente altro, che un Giusto oppresso, che vuol dire la cosa più ovvia, più comune, più vulgare di questo mondo; a quel Gentilesimo, cotanto assetato di scienza, gli Apostoli si presentarono con quella stoltizia della Croce, presumendo con questo mezzo conquidere il mondo, quando era umanamente indubitato, che quello, riuscendo pure a farsi considerare dal mondo, appena avrebbe potuto altro, che esserne esecrato o deriso. Fu quasi volere conquidere la sapienza colla stoltizia, la forza colla debolezza, il godimento col dolore, la nobiltà coll’avvilimento, l’esistente col nulla, il vigoroso col meno di nulla. E pure questo appunto fu il consiglio di Dio. Sed et quæ stulta sunt mundi elegit Deus, ut confun dat sapientes; et infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia, et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quæ non sunt, ut ea quæ sunt destrueret (1 Cor. I, 24). Il quale concetto, mentre da una parte era il solo possibile a recarsi in pratica, siccome quello, che avrebbe, colla umiltà e col dolore, guarita la universale malattia nella sua radice, che era l’orgoglio e la sensualità; si presentava dall’altra parte all’intelletto, come la più matta pretensione, come il più bizzarro sogno, che potesse mai cadere in cervello di febbricitante.
IV. Tuttavia quella pretensione che al povero nostro intelletto saria paruta follia, quel sogno così bizzarro, sono oggimai diciotto secoli e mezzo, è un fatto compiuto; e non già come i fatti compiuti del nostro tempo: parola nuova a mantellarne la laidezza della nequizia, vecchia al mondo quanto Caino; ma come il fatto capitalissimo ed unico che informa tutte le tradizioni, che domina tutta la storia, che è improntato in tutti i monumenti, e che è attestato da una sperienza, innanzi alla cui luce non vi è pipistrello, che possa serrare le pupille. Ed i nostri progressisti umanitari possono bene, a loro grand’agio, storpiare le tradizioni, falsare o mutilare la storia, stiracchiare i monumenti e rinnegare la stessa esperienza! Ma fin che vi resta al mondo riverita una Croce, vi resterà un’irrepugnabile testimonianza di quel trionfo, che la stoltezza, predicata dagli Apostoli, ha portato sopra la ventosissima ed elatissima sapienza del Paganesimo. – Ma che parlo io di una sola Croce superstite? e dove possiamo noi volgere lo sguardo, che non la veggiamo sfolgorante di luce, come il sole nel meriggio: Fulget Crucis Mysterium; ed attestante in sua favella questo gran fatto del mondo vinto e trionfato da lei? Lei voi vedete, campata nelle regioni del tuono e delle nubi sopra gli augusti templi di Dio, narrare ai popoli le benedizioni, che colà piovono dal cielo per lei amicato; lei voi scorgete sui giganteschi obelischi, orgoglio che furono del mondo pagano, e servono oggi di degni piedistalli a quel trofeo di perenne vittoria; lei voi osservate tenere il primo posto sugli altari di Dio, ed ivi, tra lo splendore delle faci e tra la nube misteriosa degl’incensi benedetti, essere il precipuo obbietto del culto cristiano; lei voi mirate, ricca di gemme, pendere sul petto dei sacri Pastori, come indice di potestà spirituale: lei sormontare le cristiane corone dei Re, come simbolo di temporale potere; lei voi guardate sulle porte delle città come scudo di sicurezza, lei sui merli delle fortezze come propugnacolo di difesa, lei sulle prore delle navi come schermo dalle tempeste, lei tra i guerrieri vessilli come pegno di vittoria, lei in petto ai cavalieri come distinzione di onore. E forse che a voi Cristiani dovrò io rammemorare le benedizioni che, per la Croce e colla Croce, associata alla invocazione augusta della Trinità sacrosanta, vi furono impartite dal cielo? Essa Croce vi santificò, ancor fantolini, nel santo Battesimo; fatti più grandicelli, vi fu col sacro Crisma segnata in mezzo alla fronte, sede nobilissima del pudore, perché non ne aveste a vergognare giammai; essa acquetò tante volte le agitazioni ed i rimorsi della sbattuta vostra coscienza, schiudendole, colla fiducia del perdono, i sentieri fioriti della speranza;essa benedisse alle vostre nozze, consacrando così il casto amore, onde, al cospetto degli Angeli, stringente una mano diletta, che forse tremò nella vostra; essa vi accompagna per tutta la vita nel segno che o voi ne fate,o vi scende sul capo pel ministero dei vostri Sacerdoti e del vostro Pontefice; essa sarà stretta tra le già incadaverite vostre mani negli estremi aneliti, raccoglierà dalle fredde vostre labbra il supremo bacio dell’agonia; e, spenti che sarete, essa si poserà pietosa sulla vostra tomba, pegno di sicura, e (speratelo! miei devoti uditori, speratelo! ché ne avete bene onde) pegno altresì d’immortale risurrezione e gloriosa. Insomma Fulget Crucis Mysterium, quanto sono lunghi i secoli, quanto è larga la terra; e per lei ha avuto pienissimo compimento la fatidica parola d’Isaia; che cioè il deserto dirupato del Gentilesimo sariasi abbellito come i più aprichi e fioriti giardini, e che quella solitudine sconsolata sariaşi allietata di non più vista allegrezza. Lætabitur deserta et invia et exultabit solitudo (Isai. XXXV, 1). Qui pertanto, con innanzi agli occhi questo così portentoso trionfo, riportato dalla predicata stoltezza della Croce, voi potete sentire in tutta la sua forza l’alta parola di Paolo, che ci rivela un consiglio, il quale solo dalla Sapienza divina potea essere concepito, e solo dalla divina Onnipotenza compiuto. Udite un’altra volta quel contesto ora, che, dalle cose ragionate, siete in grado di tutta intenderne la verità profondissima. « Posciacchè il mondo non avea conosciuto Dio, per via di sapienza, secondo che la primitiva ordinazione divina avrebbe portato; piacque a Dio fare salvi i credenti,per via di predicata stoltezza. » Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes.
V. Nel quale luogo così dichiarato dell’Apostolo io non so se voi, miei amatissimi, abbiate posto mente ad un’apparente incoerenza, che vi si potrebbe notare. E l’incoerenza sembra acchiudersi in questo, che, avendo detto l’Apostolo, che il mondo non conobbe Dio per la via della scienza, mundus non cognovit; pare che nel seguito del discorso si sarebbe dovuto ritenere il soggetto medesimo, e conchiudere, che, per la nuova via della stoltezza, Iddio volle salvare il mondo. Ma no! In questo secondo comma del periodo san Paolo cangia il soggetto, e non dice che Dio volle salvum facere mundum, ma dice che volle salvos facere credentes. Or come va egli cotesto? Eh! no! signori miei; qui non è ombra d’incoerenza: qui è anzi un’assai profonda morale dottrina; e fate di rendervene molto bene capaci. – A non conoscere Dio fu il mondo: a trovare salute per la stoltezza predicata non è il mondo, sono solo i Credenti; e se voi, come vi trovate, così vi volete conservare nel costoro numero avventurato, benché viviate nel mondo, vi dovete, nei pensieri, negli affetti, nelle inclinazioni, nei desideri e nei parlari medesimi, mantenere separati al tutto dal mondo. Questo non pure non capì il Mistero della Croce, ma se ne dichiarò, se ne professa, a viso scoperto, nemico acerrimo; e senza partirsi d’un capello dai pensieri e dagli amori del Paganesimo, sèguita a dire follia ciò che quello disse follia, beatitudine ciò che quello chiamò beatitudine . E così l’aderire a cotesto mondo, nemico della Croce di Cristo, che altro sarebbe, che rendere vano per la nostra salute quell’alto Mistero? che altro, se non evacuare in noi Crucem Christi, secondo la vigorosa espressione dello stesso Paolo? Né credeste che il caso sia molto difficile: io anzi lo reputo molto facile e più comune, che voi per avventura non pensereste; e ciò grazie a quel Naturalismo, fattosi oggimai così universale nel nostro tempo e nelle nostre contrade. E che ci vuole, signori miei, per rinnegare in certa guisa praticamente il Mistero della Croce, ed annullarne in sé medesimo i salutari effetti? Egli basta, che nei vostri giudizi prendiate a norma, non la follia della Croce, la quale professate di venerare; ma la sapienza del mondo, al quale nel santo Battesimo rinunciaste. Con ciò solo voi avete in voi reso vano il Mistero della Croce: Evacuastis Crucem Christi. Che sarebbe poi se, invece di giudicare le cose umane coi dettami della Fede, si volessero giudicare le cose della Fede coi pensieri umani? Ora non è questo il vezzo consueto della nostra società, che pregiasi di progresso? E che altro da tale progresso possiamo attendere, se non un ridivenire praticamente pagani, rimettendo in onore, come unica norma dei nostri giudizi speculativi e pratici, quella umana sapienza, che fu già confusa e trionfata dalla predicata stoltezza della Croce? Il Magno Leone volea che il Cristiano, nello appressarsi a contemplare gli alti Misteri della sua Fede, tenesse lungi da sé la caligine degli umani argomenti: Cum ad intelligendum Sacramentum …. Christi accedimus, abigatur procul terrenarum caligo rationum; volea che dall’occhio casto di una Fede divina si rimovesse al tutto il fumo dell’umana sapienza: Ab illuminatae Fidei oculo mundanæ sapientiæ fumus abscedat (Serm. I De Circumc.). Affatto opposto a queste prescrizioni è lo stile della età moderna, soprattutto tra quelli, che diconsi e sono tenuti sapienti al livello del secolo. Lungi dallo allontanare da loro la caligine degli umani argomenti, questa caligine appunto tolgono a norma dei loro giudizi, intorno ai Misteri della Fede; lungi dal rimuovere il fumo della umana sapienza, quando si tratta di prescrizioni e di consigli evangelici; appunto quel fumo di umana sapienza prendono a misura, per fare stima delle opere e delle parole divine. E qual meraviglia che, volendosi rischiarare colla caligine ed illuminare col fumo, la società moderna si trova oggimai ravvolta in tante tenebre, da farci temere, almeno per una parte di essa, imminente la notte del Paganesimo?
VI. E sapete in che dimora propriamente e fuori metafora cotesto vezzo? Eccolo in due parole. Consiste nel prendere dai dommi, dalle credenze e dalle prescrizioni della morale evangelica tutto quello, che si accomoda coi poveri nostri cervelli e coi nostri cuori corrotti; e questo ritenere come vero, come buono, come utile all’uomo individuo ed allo stesso consorzio civile; magnificarlo, se fia uopo, eziandio siccome bello, per le armonie che ha colla immaginativa e coi delicati sentimenti del cuore: ed il resto? oh! il resto gettarlo via superbamente, come superstizioso ed inutile, o interpretarlo per mito, o intenderlo a rovescio, o, senza molte cerimonie, sfatarlo come favole e fanatismi. La mortificazione cristiana? Ma si capisce che bisogna astenersi da quei diletti che guastano la sanità, che vuotano la borsa e che denigrano la fama: cose che potrebbero dire ed hanno detto Epitteto, Seneca e Plutarco, come le dicono i nostri umanitari, senza sapersi nondimeno che questi le osservino meglio di quelli. Ma quanto a mortificare davvero la carne per espiazione delle proprie colpe, per domarne l’albagia, per averne merito; oh! i nostri barbassori ci riderebbero sotto i baffi a solo sentirne a parlare; ed appena al medio evo sono generosi di perdonare quegli ascetismi. L’amore della povertà? Sarebbe certo la gran bella cosa, quando ne fossero persuase le turbe cenciose ed affamate, che ci assediano coi lamenti, ed in qualche parte del mondo cominciano ancora ad atterrire colle minacce. Se vi riesce con un po’ di Crocefisso persuadere quella marmaglia a contentarsi dei suoi cenci e della sua fame; tanto meglio! essi i sapienti filantropi vi sapranno grado di avere loro agevolato il traffico su quei cenci e su quella fame. Ma venire a contare a loro, che beati i poveri e guai ai ricchi, sono cose, da neppur si credere possibili nel secolo della Economia sociale, del Credito mobiliare, dei Capitali riuniti e del Libero scambio. La Rivelazione indispensabile all’uomo individuo, la Religione elemento essenziale d’ogni umano consorzio? Ma chi ne dubita? tanto solo, che per Rivelazione intendiate il lume della ragione colle verità immediate che essa intuisce, e colle mediate che essa ne trae per fil di logica, senza rifiutare la scorta dei Grandi Uomini, tra i quali si degnano di noverare anche Cristo; tanto solo che per Religione intendiate la civiltà, ossia l’arte di starne molto bene in questo mondo, senza escluderne la voglia di starne anche meglio nell’altro, purché l’altro non ci scemi e non ci turbi tutti i godimenti di questo. – In breve: cotesto è quel Cristianesimo civile, che seconda tutte le cupidità, che si acconcia a tutti i gusti, che si accorda con tutte le sette, che non esclude nessuna Religione, tranne solo la cattolica, apostolica, romana, la quale, perché lo conosce ottimamente per quel che è, lo condanna e lo maledice. Standone ai dettami di questa Chiesa, nel preteso Cristianesimo civile, non possiamo riconoscere, che un Paganesimo redivivo, il quale dell’antico ha le abbominazioni, senza la grandezza; che ha, sopra l’antico, il marchio dell’apostata e del rinnegato; che ha, meno dell’antico, le speranze e le promesse, che pure a quello sorridevano; laddove questo secondo, nato per corrompimento di Cristianesimo sconosciuto, mutilato e storpiato, non può sperare altro in questo mondo, che la barbarie, sequela indeclinabile di una civiltà corrotta ed inverminita, e l’inferno nel l’altro. È parola dura, lo so: io nondimeno ho dovuto dirvi non il molle, ma il vero; ed il vero, nella presente materia, non ha altro nome, che inferno. Riposiamo.
VII. Io vi dissi fin da principio, che le istituzioni si conservano e crescono coi mezzi medesimi, che loro diedero cominciamento. E così, essendo stato il Mistero augusto della Croce il mezzo, di che si valse la Provvidenza, a tramutare il deserto del Paganesimo in questo orto fecondissimo ed in questo giardino di celesti delizie, che è la Chiesa; quel Mistero medesimo è il mezzo più appropriato a conservarci nella Chiesa, come membri vivi di lei, vigorosi contro le seduzioni del senso e le fallacie del mondo, e fidenti di quella beata eternità, che dovrà coronare i dolori e le lotte del nostro pellegrinaggio terreno. Oh! sì! l’alto concetto della Croce, l’amore tenero ed operoso della Croce è il faro più sicuro, che ai nostri occhi può rilucere, nelle tenebre di questo mondo! è la stella polare, che sola, può guidarci e sostenerci nei timori e nei travagli di questa procellosa nostra vita! Ed oh! Come sarei contento! come mi crederei largamente compensato della povera mia fatica, se, nel separarmi da voi, miei desideratissimi uditori, vi potessi lasciare altamente scolpito nella mente e nel cuore il concetto e l’amore della Croce! di quella Croce, la quale Iddio riputò trono unicamente degno di Lui, quando, da Re supremo dell’universo, volle alle nazioni mostrarsi assiso in trono: In nationibus regnavit a ligno Deus. Tenendovi a lei fedelmente uniti, essa vi sarebbe sicurissima difesa contro gli scaltrimenti e gli scandali della società, in mezzo a cui dovete vivere, la quale, come mi sono studiato mostrarlovi in questi giorni, piega manifestamente ai pensieri ed agli amori pagani. E non ricordale a quanti indizi io vi feci accorti di così fatto lamentevole regresso? regresso che è danno suo, ma che all’ora stessa è vostro pericolo presentissimo. Io ve la mostrai separata da Dio, pel Razionalismo che la domina; disordinata riguardo all’Universo, pel cercarvi che fa una felicità, che Dio non vi pose; ignorante dell’uomo, perché ne rinnega o trasanda i destini ultramondiali; fatta schiava delle forze naturali, cui solo riverisce e adora; dedita alle propensioni sensuali, cui, non che giustificare, si studia di annobilire; da ultimo folleggiante in fanatici di amor patrio, i quali, senza riguardo a diritti od a giustizia, ci vorrebbero tutti venduti anima e corpo per le glorie e per la felicità di una patria, della quale essi sono la vergogna maggiore ed il peggiore flagello. Contro tutti questi o errori d’intelletto o traviamenti di cuore, voi sarete premuniti abbastanza, se, a farne giudizio, non vi consiglierete con quello solo, che ve ne dice la natura; ma attenderete precipuamente a ciò, che ve ne insegna la Fede, nei principii speculativi e pratici consacrati dalla Croce. E però ogni qual volta vi avvenga di leggere o di udire cotesti insipienti e perfidi nemici della Croce di Cristo; e voi, levando le pietose pupille al cielo, dite in cuor vostro: o Signor mio! gl’iniqui mi contarono tante cose! nuove, strane, inaudite! Ma io le tenni per favole, non tanto perché mi parvero riprovate dalla mia ragione; non tanto perché le sentii, nel fondo del cuore, condannate dalla voce della mia coscienza, quanto perché le trovai ripugnanti alla santa vostra legge. Narravernt mihi iniqui fabulationes, sed non ut lex tua (Psalm. CXVIII, 85). Così sia.
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMAQUARTA.
9 dicembre.
Il segno della croce preservativo contro quanto può ledere la sanità e la vita. — Abbonaccia le tempeste. — Estingue il fuoco. — Protegge contro gli accidenti. — Arresta i flutti. — Fa rientrare le acque nel loro letto. — Allontana le bestie feroci. — La folgore. — Fa delle creature strumento di prodigi.
Il segno della croce potente a rendere la sanità e la vita, mostra ugual potere, mio caro Federico, contro quanto può comprometterla. Qui ancora i fatti abbondano, ma i limiti di una lettera non mi consentono che citarne alcuni. Di poi la rivolta originale, tutti gli elementi sono sottoposti all’influenza di satana, congiurano contro l’uomo, l’aria, il fuoco, l’acqua, e che so io! gli fanno una guerra continua, e soventi volte mortale. A nostra difesa l’arma universale stabilita è il segno della croce! – Il Signore, la cui voce comanda ai venti ed alle tempeste, loro parla per lo mezzo di questo segno. Leggiamo di Niceta Vescovo di Treveri, che viaggiando alla volta della sua diocesi si addormentò sulla nave, che aveva noleggiata. A mezzo del corso levasi furiosa tempesta, che squarciate le vele, messi in pezzi gli alberi, minacciava la nave di certo naufragio. I viaggiatori spaventati lo destano. Ed egli, tranquillo fa il segno della croce sulle onde in furore, e queste placatesi lasciano succedere la calma alla furiosa tempesta (Excitatus quoque a suis fecit Signum crucis super aquas, et cessavit procella. – S. Greg. Turon. De glor. confes. c. XVII.). – È fede cattolica espressa nel Pontificale Romano che satana sia l’autore di molte tempeste, e, nell’aria, dimora di lui e degli angeli suoi, esercita particolare e trista influenza. Soventi volte egli reca di tali uragani per disertare le campagne, e soprattutto per far guai agli uomini da bene, che si studiano distruggere il suo impero. Di questi fenomeni, di fatti, usava per rendere inutile la predicazione di Vincenzo Ferreri. Il Santo, atteso il numero delia gente, che d’ogni dove si traeva ai suoi sermoni, non poteva predicare in chiese, che anguste tornavano a contenere tanto popolo, ma su per le piazze, e queste erano sempre gremite di fedeli, ebrei, e maomettani, che per i sermoni di Vincenzo si rendevano cattolici, o se lo erano, divenivano migliori. Satana a distorre tanto bene usava quest’arte. Raccoglieva venti e nubi, suscitava tempeste tali, che il popolo impaurito si cacciava nelle case, e solo restava Vincenzo. La più terribile di tutte le tempeste fu quella suscitata in una borgata di Cotogna. Il Santo, secondo il suo solito dopo la Messa, innanzi deponesse i sacri paramenti, col segno della croce e con l’acqua benedetta, fattosi alla porta della chiesa, costrinse satana a restar tranquillo tutto quel giorno (Sparsit aquam sacratam, ed deinde crucis expressit Signum; illico tempestas dissipatur…. sæpissime…. ortas tem-pestates crucis signo compescuit. – Vit. lib. III). Come l’aria, così il fuoco ubbidisce al segno della croce. S. Tiburzio, figlio del Prefetto di Roma, è condannato a bruciar l’incenso a’ falsi numi e camminare sul letto di fuoco. Il giovane martire fa il segno della croce, e senza esitare si avanza nel mezzo delle braci, ed in piedi e nudo, « Rinunzia, dice egli al giudice, adesso ai tuoi errori, e riconosci che non v’ha altro vero Dio che il nostro. Metti, se te ne basta l’animo, la tua mano nell’acqua bollente in nome di Giove, e questo che chiami Dio le impedisca di recarti nocumento alcuno. Per me, mi sembra un letto di rose questo che calpesto » (Atti di S. Sebast.). – Sulpizio Severo racconta, come saputolo da S. Martino istesso, che una notte il fuoco si appiccò alla stanza del santo taumaturgo delle Gallie. Egli si risveglia, e confuso si studia estinguere il fuoco; ma inutili tornarono gli sforzi! Rasserenatosi, non più pensa né a salvarsi, né ad estinguere il fuoco, ma, fiduciando in Dio, fa il segno della croce. Le fiamme si dividono, e piegandosi in arco sul capo di lui, gli lasciano continuare la preghiera (Ep. 1 ad Euseb. Præsbyt.: e Vita di S. Martino, lib. X). Lascia che io ti parli di un fatto personale del gran Vescovo. Inimico instancabile dell’idolatria, Martino, avea abbattuto un tempio d’idoli quanto antico, altrettanto in gran fama, e restava solo un gran pino, che sorgeva d’allato al tempio. Egli volevalo distrutto, comeché oggetto di superstizione; ma i sacerdoti degli idoli ed i pagani vi si opponevano a tutt’uomo. In fine, questi dissero al coraggioso vescovo: Poiché tu hai tanta fiducia nel tuo Dio, noi abbatteremo l’albero a patto, che tu resti sotto di esso quando cadrà. La condizione fu accettata. Un popolo immenso si assembra e gremisce lo spazio dove l’albero doveva essere abbattuto; alla presenza di esso S. Martino lasciasi legare e mettere su quel punto verso cui l’albero inclinava. Ai compagni del Santo un fremito correva per le vene, chel’albero a metà asciato pendeva su Martino, e fra pochi istanti ne sarebbe schiacciato: ma l’uomo di Dio era tutto tranquillo, ed elevata la mano, fa contro il cadente albero il segno della croce. A questo segno l’albero si erge, e come spinto da violentissimo vento cade dalla parte opposta. Un grido d’ammirazione si eleva, e non v’ ha quasi alcuno che non dimandi il Battesimo! (Ubi supra). – Questo avvenimento accaduto nelle Gallie è ripetuto in Italia. Onorato, santo abate, e fondatore di un monastero di Fondi, che raccoglieva 200 monaci, vide minacciata l’opera sua di totale ruina. Un gran monte era a cavaliere del monastero, e dal sommo di esso staccasi tale un macigno, che rotolando giù per la china avrebbe schiacciato e monastero, e frati. Onorato accorre; invoca il santo nome di Dio, distende la mano destra ed oppone al macigno il segno salvatore. L’enorme massa si arresta, ed immobile si tiene sul pendio del monte sino a’ giorni nostri (S. Greg. (Dial., lib. I. c. 1). – Dall’occidente passiamo all’oriente, e noi troveremo che la potenza sovrana di questo segno non è limitata per differenza di latitudine, né di longitudine. Ascolta S. Girolamo. Il tremuoto che seguì la morte di Giuliano l’apostata portò il mare fuori i suoi limiti, e quasi Dio avesse minacciato il mondo di un nuovo diluvio, o che l’universo dovesse rientrare nel caos, le navi si trovarono sui monti spintevi dal furore de’ flutti. Gli abitanti d’Epidauro spaventati per le grandi masse di acqua, che cadevano sui monti, e temendo che la patria fosse trasportata da esse, si condussero presso il santo vecchio Ilarione, e presolo, lo condussero alla loro testa quasi ad una battaglia, contro le acque. Giunti alla riva, il santo fece per tre volte il segno della croce sull’arena. A questo segno le acque si gonfiano, ascendono ad una altezza incredibile come irritate dell’ostacolo, che loro opponeva Ilarione; ma, dopo poco tempo, abbonacciate, rientrano nel loro letto senza più sorpassare il sacrato limite. Epidauro e tutta la contrada pubblicano questo miracolo, e le madri lo raccontano a’ figli perché la posterità ne risapesse ((Vit. S. Hilarión, vers. fin.). – Eccoti un altro fatto analogo, ma più recente. Mezey istoriografo francese narra che le piogge del 1106 avevano fatto straripare i fiumi ed i laghi di modo, che le inondazioni producevano un nuovo diluvio. Le sole preghiere e le processioni furono potente rimedio contro questo flagello, e, come fu fatto il segno della croce sulle acque, incontanente entrarono nel loro letto (Ist. di Francia, tom. II, p. 135). – Se la verga mosaica, figura della croce, ha potuto dividere le acque del Mar Rosso, e tenerle sospese come monti, perché il segno istesso della croce non potrà rientrare le acque nel loro letto? Torniamo all’immortale Tebaide, e lascia che io dica una qualche meraviglia, di che i suoi angelici abitanti furono gli attori, ed il segno della croce strumento. Uno di essi, Giuliano, chiamato Sabas, o il vecchio da’ capelli bianchi, traversando l’arida solitudine, s’imbatte in un enorme dragone. Lo spaventoso animale getta sovra di lui uno sguardo sanguigno, apre l’affamata gola, e si slancia per divorarlo. Il venerabile senza scomporsi rallenta il passo, invoca il nome di Dio, fa il segno della croce: il mostro stramazza morto (Theodoret. Relig. hist., c. 2). Più lontano, osserva Marciano, solitario della Siria, che rinnova lo stesso prodigio. Egli pregava alla porta della sua stanzuccia quando Eusebio, suo discepolo, gli grida di lontano per avvertirlo che un rettile mostruoso, poggiato sul muro dalla parte d’oriente, è per slanciarsi sopra lui e divorarlo, e però si desse alla fuga. Marciano riprende il discepolo di siffattamente impaurarsi; fa il segno della croce, e soffia contro la spaventevole bestia. Si vide allora l’effetto della parola primitiva: Metterò una guerra a morte fra la tua razza e la sua. Il fiato uscito dalla bocca del santo fu come un fuoco, che invase di modo il dragone, che cadde in pezzi come bruciata canna (Ibid. c. 3). Sarebbe facile narrare i molteplici fatti che hanno avuto luogo in queste celebri contrade; ma per riunire le meraviglie dello stesso genere percorriamo l’Italia, serbandoci tornare in Oriente. S. Gregorio il grande racconta che S. Amanzio, prete di Tiferno, oggi città di Castello nell’Umbria, aveva tale impero sui serpenti i più temuti e terribili, che queste bestie non potevano restare in sua presenza. Un segno solo di croce faceva morire quanti ne incontrasse, e se per salvarsi si cacciavano in qualche buco, lo chiudeva con lo stesso segno, e la serpe n’era estratta morta da una potenza invisibile. Era un vero compimento delle parole del Signore : Decideranno i serpenti, serpentes tollent (S. Greg. Dialog., lib. III, c. 35). 1). – Tu sai che N. S. aggiunge immediatamente: « E se » eglino beveranno alcun che di avvelenato , non ne avranno nocumento alcuno, Et si mortiferum quid biberint, non eis noeebit ». Qualche pruova tra mille. La città di Bosra nell’Idumea avea a Vescovo S. Giuliano. Alcuni notabili, in odio della religione, stabilirono avvelenarlo; all’uopo corruppero il servo del Vescovo perché apprestasse il veleno al padrone in una coppa. Lo sciagurato ubbidisce. Il santo divinamente sapendo quanto sul conto suo si facesse, depone la tazza, e dice al servo: Va da mia parte presso i principali abitanti, ed invitali a pranzar meco. Egli sapeva essere fra questi i rei. Tutti accettarono l’invito. Allora il santo, che non voleva diffamare nessuno, disse con estrema dolcezza: Poiché volete avvelenare il povero Giuliano, ecco il veleno, io lo beverò. Ciò detto, segnò per tre fiate la coppa, dicendo: In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo io bevo questa tazza. Egli la beve sino all’ultima gocciola, senza averne nocumento alcuno. A si strano spettacolo gl’inimici gli caddero a’ piedi implorando perdono (Sophron, in Prat. Spirit.). – È mestieri essere bacelliere del secolo decimonono per ignorare il fatto seguente. Se v’ha una vita da esser nota a tutti, è per fermo, quella del patriarca de’ monaci di occidente, Benedetto. Nuovo Mosè, a lui ed ai suoi figli l’Europa deve l’esser stata sottratta alla barbarie. Mostrate una landa materiale o morale che dal Benedettino non sia stata dissodata? Un principio civilizzatore che non sia stato coltivato, insegnato e praticato? Dio sa a prezzo di quali sacrifìzi! Quel che sappiamo si è, che satana, vecchio Faraone, non rincula d’innanzi ad alcun mezzo per impedire l’opera liberatrice; epperò come Benedetto si raccoglie nella solitudine, gli si assembrano d’intorno alcuni monaci, indegni di tal nome, supplicando il santo di rendersene direttore. Questi loro impone una regola, e con la parola e l’esempio cerca accostumarli al giogo della disciplina. Vani sforzi! Gli esempi feriscono l’orgoglio de’ frati, le parole ne provocano la collera e ne accendono l’odio. La risoluzione è presa; il superiore deve morir di veleno: pensato, fatto. Un bicchier di vino avvelenato gli è presentato, perché, secondo il costume, lo benedicesse. Benedetto lo benedice, ma il bicchiere va in mille schegge. Il santo comprese che una coppa di morte gli era presentata, che non poteva reggere al segno della vita (S. Greg. Dialog., lib. II, c. 3). Per questi esempi e per mille altri di simil fatta è facil cosa comprendere qual potente preghiera sia il segno della croce, quante grazie ne apporti, e come preservi questa nostra fragile esistenza da’ pericoli che la minacciano e circondano. In Francia, nella Spagna e nell’Italia, e credo nelle altre regioni, i Cattolici costumano segnarsi al tuono della folgore, e quando lampeggia. Gl’indifferenti se ne burlano, come se i veri Cattolici de’ secoli scorsi, che ci precedettero, fossero tutti spiriti da nulla e superstiziose femminucce. Ora ne’ casi indicati ed in tutti i pericoli noi vediamo il segno della croce in uso presso i Cristiani dell’oriente e dell’occidente, sino da’ primi tempi della Chiesa. S. Efrem, S. Agostino, S. Gregorio di Tours, mille altri testimoni, l’han visto per noi e l’attestano. « Se il lampo squarcia le nubi, dice il santo Diacono di Edessa, se la folgore scoppia, l’uomo s’impaura, e tutti intimoriti c’inchiniamo verso la terra » ( S. Ephrem. Serm. de Cruc.). S. Angostino parlando di quelli, che usano mondane riunioni, aggiunge: « Se un qualche accidente loro mette paura, tosto formano il segno della croce » (Aug., lib. 50 homel. XXI.). S. Gregorio racconta, come cosa nota a tutti, che sotto l’impressione di un timore ed a vista di qualsiasi pericolo, i Cristiani facevano ricorso al segno protettore. Fra mille fatti il seguente ne sia prova (S. Greg. Turon., lib. Il miracul., S. Martini, c. 45). Due uomini si conducevano da Ginevra a Losanna. Un uragano violento li sorprende, accompagnato da spessi lampi e tuoni. Uno de’ viaggiatori, secondo l’uso cristiano, fa il segno della croce, e l’altro beffandosene gli dice: Che?scacci le mosche? Lascia le superstizioni da femminette. Simili anticaglie disonorano la religione, e sono indegne di un uomo illuminato! Non ebbe detto ciò, che un fulmine lo stende morto a’ piedi del compagno. Questi continuò a difendersi col segno salutare; compì il suo viaggio prosperamente, e propalò da per tutto l’accaduto (Tilman.. Collez, de’ Santi, lib. VII, c 58). Avviso agli spiriti forti! – Il segno della croce non protegge solamente la umana vita, ma quanto gli appartiene: desso è pegno di sicurezza. Quindi l’uso universale di apporre siffatto segno sulle case, nei campi, sui i frutti e gli animali. « I cattolici , dice il grave Stuckius, hanno delle preghiere accompagnate dal segno della croce per ciascuna creatura, per le acque, le foglie, i fiori, l’agnello pasquale, il latte, il miele, il formaggio, il pane, i legumi, le uova, il vino, l’olio ed i vasi a contenerlo. In ciascuna formula di benedizione eglino domandano espressamente che la malefica potenza di satana ne sia allontanata, e pregano Dio per ottenere la sanità dell’anima e del corpo ».II giorno della Risurrezione benedicono il latte, il miele, le vivande, le uova, il pane, quanto si conserva ed èconsiderato come salutare all’anima. Il giorno dell’Ascensione, le erbe, le piante, le radici per loro comunicare una virtù divina. Il giorno di S. Giovanni il vino, considerato, senza tale benedizione, come impuro e male. Il giorno di S. Giovanni i pascoli; ed in quello di S. Marco le messi. E con ciò eseguono il comando di S. Paolo, che impone a’ fedeli di benedire quanto serve alla vita, e renderne grazie a Dio; uso misterioso, di che i Teologi apportano eccellenti ragioni (Stukius Àntiq convivial, lib. II, C. 36, p. 430)- Queste creature liberate, mercè il segno della croce, dalla influenza di satana, diventano strumento della inesausta bontà del Creatore ». Leggesi in S. Gregorio di Tours, che una malattia distruggeva siffattamente il bestiame da temerne fin la perdita (s. Greg. Turon., lib. III Miracul. S. Martin, c. XVIII). Nella loro costernazione, alcuni abitanti si condussero alla basilica di S. Martino, presero l’olio che bruciavasi nella lampada, e dell’acqua benedetta; portatisi nelle loro dimore, con essi segnarono le teste delle bestie non ancora affette, e ne diedero a bere a quelle, che non erano ancora perite: tutte furono salve. – Citiamo un ultimo esempio della potenza protettrice del segno della croce. S. Germano, vescovo di Parigi, si portava ad incontrare le reliquie di S. Simforiano martire, quando gli abitanti di un villaggio, ch’egli traversava, lo pregarono di aver compassione di una povera vedova, il cui piccolo campo era divorato dagli orsi. « Vieni, gli dicevano, a vedere il povero campo, e le bestie distruggitrici fuggiranno per la tua presenza. Tuttavolta i compagni del santo si opponessero, egli si recò sul campo e lo benedisse col segno della croce. Tosto arrivarono due orsi, ma presi da furore cominciano a combattere fra loro; uno resta ucciso, l’altro gravemente ferito, che in seguito fu morto a colpi di piuoli, e la vedova nulla ebbe più a temere per la sua raccolta (Fortunati, In vita S. Germani). L’istoria e piena di simili fatti; ma basti per quest’oggi.