IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO OTTAVO

ARGOMENTO

Pratico frutto di questi discorsi. Mezzo alla conversione del Paganesimo non potea essere la sapienza: fu la stoltezza. Testo di san Paolo. Il Mistero della Croce e suo trionfo. Incoerenza apparente di quel testo. Il mondo ed i Credenti. Quello paganeggia col suo Cristianesimo civile. Caratteri di questo. Epilogo: si conchiude col Mistero della Croce.

1. Nel compiere questo piccolo servigio, che io con non piccolo affetto vi ho reso, miei dilettissimi uditori, non posso dissimularvi di rimanere con qualche timore, e quasi che non dissi con qualche rimorso; il quale mi riesce tanto più pungente, quanto esso riguarda la utilità di voi, che siete stati inverso me tanto benevoli e cortesi. Io temo forte che, sedotto dalla vastità e nobiltà del soggetto trattatovi, l’antico cioè ed il nuovo Paganesimo, non abbia forse mirato abbastanza alla pratica e spirituale vostra utilità. Tuttavolta, mi conforto al pensare che, avendo io, con questi discorsi, investito direttamente la tendenza capitale del nostro tempo e delle nostre contrade, la quale è, come più volte vi ho detto, il piegare ad un Naturalismo universale, da cui non può venire altro che il ritorno, più o meno esplicito, alle idee ed agli amori pagani; mi conforto, dico, a pensare che, avendo investita così di proposito questa malaugurata tendenza, voi, accorti siccome siete ed ingegnosi, non avrete mancato di farne da voi medesimi tutte quelle pratiche applicazioni, di cui la predicata parola poteva essere feconda. Che se pure ve ne fosse ancora qualche bisogno, io sono qui a farvene una, che sarà come il midollo e la corona di tutte le altre, e la quale io stimo di tanta rilevanza, che beato me se saprò ben dichiararlavi questo giorno! beati voi se saprete penetrarla intrinsecamente col pensiero, ed imprimerla a caratteri indelebili nei vostri cuori! E sapete qual è questa verità cotanto salutare, la quale, io intendo proporvi? Essa riguarda il mezzo tutto impensato, nuovo, incredibile direi, se il fatto non lo mostrasse avverato, onde Iddio disfece, come d’un soffio, l’opera di quaranta secoli, chiamando il Paganesimo alla Fede, e tramutandolo, come per incanto, in questo Cristianesimo, di cui noi siamo figli e nel cui centro, la Dio mercè, ci troviamo. Signori sì! Fu così inopinato quel mezzo, fu sì stupendo, fu così, fuori d’ogni umano consiglio od accorgimento, che quand’anche qualunque altro argomento mancasse, basterebbe quello solo a mostrare divina la nostra Religione santissima. E notate: io non parlo già della conversione delle Genti o del Gentilesimo; ché già quell’argomento è antichissimo e quasi vulgare nei nostri apologisti ; parlo sì veramente del mezzo, onde la Provvidenza si valse per convertire le Genti. · Il qual mezzo come servì a convertire i Gentili alla Fede, così è sovranamente necessario a mantenere nella Fede le generazioni già convertite; essendo manifesto quello che insegna san Tommaso: le istituzioni, ed in generale qualunque cosa soggetta a mutazione, come sono tutte le umane, mantenersi e restaurarsi per quei principii medesimi, onde ebbero vita e cominciamento. Veggo che voi, invaghiti della rilevanza del soggetto, mi esortate col desiderio a troncare gl’indugi di un più lungo esordire; ed io pure voglioso di fare il piacer vostro, vi vengo tosto, e comincio.

II. Non vi sia grave tuttavia tornare un tratto col pensiero sopra i suggetti, ragionati nei passati giorni, per farvi un concetto possibilmente adeguato delle condizioni misere, in che Cristo Redentore, venendo al mondo, trovò il genere umano. Voi non potreste mai sentire quanto valga e che sia la libertà, la luce e la salute per lui donateci, senza prima intendere la schiavitudine, le tenebre e la morte, in che noi ci aggiravamo. Oltre a ciò la soprammirabile efficacia del mezzo adoperato da Dio a compiere quella trasformazione, allora solamente potrà essere in qualche modo intesa, quando si sia ponderata l’assoluta opposizione dei due termini, dall’uno dei quali il mondo fu tramutato nell’altro. E però quella opposizione io mi studiai di farvi non solo intendere, ma sentire coi passati discorsi, dei quali vorrei ora che abbracciaste, come in iscorcio, tutta d’un guardo, la contenenza. – Per farlo poi bene, ci è uopo smettere un poco quei pregiudizii fanciulleschi, onde uomini anche adulti sogliono mirare ed ammirare la grandezza pagana. Che ché sia della eccellenza, che il mondo antico poté raggiungere nelle arti dello Stato e della immaginativa, il fatto è che tutte quelle prerogative nulla non aveano che fare colla dignità morale dell’uomo ragionevole, col suo costume privato e pubblico, ed aggiungo ancora colla sua contentezza, e con quella misurata felicità, che pure può godersi nella presente vita; la quale, a volerla ordinata debitamente, non può prescindere dalle sue relazioni colla futura. Quanto a tutto questo  il genere umano era dechinato sì basso, era venuto a tal termini di mostruosa libidine, di smisurato orgoglio, di bestiale abbiellezza, e di stupida e codarda schiavitudine, che appena bastano a darne un’idea tutte le immagini, onde sono piene le Scritture, di prigioni, di catene, di tenebre, di piaghe ulcerose e fetide, di regnante peccato , di morte trionfante, di demonio prevalente. A non dire del popolo giudaico, piccolissima eccezione a tanto pervertimento, e che pel meglio, onde superbiva, non si levava sopra la condizione dell’infante, il resto dell’uman genere, che vuol dire quasi tutto, separatosi da Dio, come già il figliuol prodigo, avea colto da quella malaugurata radice ignoranza e sconoscimento di sé medesimo e delle provvidenziali armonie, che lo legavano all’universo. Ristretto l’uomo in sé medesimo volle essere indipendente da tutto, e fu mancipio di tutto: servì alle forze cieche della natura, servi ai propri istinti sensuali, servì alla prepotenza sociale, personificata nell’idolo di tutti più vorace, che chiamavasi patria. Così mi pare, che quell’alta parola di Paolo ai Galati, intorno all’infanzia del popolo giudaico , si può applicare eziandio a tutta la umana famiglia; stantechè la dipendenza è il carattere più proprio dei bambini. E tale, dice egli, innanzi a Cristo, tutti, Giudei e Gentili, eravamo infanti; ed in questa condizione ci trovavamo fatti schiavi agli elementi del mondo: Cum essemus parvuli, sub elementis mundi eramus servientes (Gal. IV, 3). Ed elementi del mondo erano la cupidità, il disordine, le forze della natura, le propensioni sensuali, la prepotenza della società e degli Stati. Tant’è! eramus servientes sub elementis mundi. Ora, trattandosi di dovere disfare quella universale servitudine, rischiarare la terra da quelle tenebre, sciogliere quei ceppi, vendicare in libertà quelle generazioni depresse ed avvilite; qual mezzo avreste voi creduto opportuno a tanto scopo? E voi penserete tosto a quei mezzi, che, secondo natura, si offrono spontanei al pensiero di ognuno: l’ignoranza si sarebbe dovuta cacciare via del mondo per mezzo della scienza; la licenza dei costumi col decoro e colla dignità della vita civile; la schiavitudine universale coll’innamorare i cuori della libertà individuale, civile e politica, facendone sentire i pregi e gli emolumenti. Questo pensate voi, questo penserebbe ogni savia e prudente persona; né la natura e la ragione saprebbono suggerire mezzi più opportuni di questi. Ma al tutto diverso fu l’alto consiglio della Provvidenza; ed appunto perché la natura e la ragione erano traviate ed offuscate, i mezzi ad esse, secondo le naturali analogie, proporzionati non poteano fare buona prova; e però vi era uopo di ricorrere a qualche cosa fuori la cerchia della natura stessa e della stessa ragione. E questo appunto fece Dio col Mistero meraviglioso della Croce, cosa ripugnante a natura, cosa pazza per la ragione; e scelta nondimeno da Lui, come lo strumento di tutti più appropriato alla rigenerazione del mondo, la quale importava il guarire la inferma natura, ed il fare rinsavire la ragione ottenebrata e quasi spenta. Questo ineffabile ed augusto Mistero della Croce, sopra la quale la Vita sostenne la morte, e colla morte diè al mondo la vita: Qua Vita mortem pertulit, et morte vitam protulit; questo Mistero, ripeto, io giudico nella presente materia rilevantissimo il dichiararvi. E per farlo, il meglio che per me si possa, prenderò a guida un luogo profondissimo di san Paolo, nella prima sua Epistola ai Corinti; il quale testo intendo esporvi posatamente, pregandovi a recarvi speciale attenzione. Ecco dunque come ragiona, in sentenza, l’Apostolo.

III. Se il corrompimento, a che era divenuto il genere umano, massime nelle nefande ed empie abbominazioni della idolatria, fosse nato da ragionamento o da discorso, benché erroneo, dell’intelletto, sarebbe certo stato opportuno disfare quell’opera, per mezzo della scienza o sapienza umana, come volete dirla. Ma la cosa era andata tutt’altrimenti: quell’universale corrompimento era originato dall’orgoglio e dalla sensualità, senza che la ragione vi pigliasse alcuna parte, salvo quella di farsi dominare da captiva, di ammutolire e, per colmo d’ignominia, di farsi complice delle cupidigie sensuali e superbe. Così l’ordine primitivo, stabilito dalla Provvidenza, andò fallito per colpa dell’uomo. Secondo quell’ordine primitivo di Dio, che qui l’Apostolo esprime colla frase: In Dei sapientia, il genere umano dalle creature sarebbe dovuto assorgere alla cognizione ed all’amore del Creatore: il che sarebbe stato, secondo la medesima frase di Paolo, cognoscere Deum per sapientiam. Ma non ne fu nulla! ed il mondo non conobbe per iscienza Iddio, secondo la via daLui ordinata. In Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum (1a Cor. I, 21).Stando dunque così le cose, quale vantaggio potea aspettarsi il mondo da una sapienza secondo le sueidee, quando esso se ne avea manomesso, e poco menoche annientato lo strumento? Anzi non pure lo avea annientato, ma colla superbia lo avea reso restio; e lasapienza naturale o lo avrebbe trovato ripugnante, o neavrebbe gonfiato l’orgoglio. Pertanto, non potendo allaguarigione servire più la sapienza, e questa ripugnando anzi a quella, era uopo ricorrere a ciò che è contrario alla sapienza. Ora qual cosa è più diametralmente opposta alla sapienza, se non la stoltezza? Bene dunque! la stoltezza, signori sì! signori sì! la stoltezza proprio prenderà Dio a strumento, per rigenerare il mondo, guasto e folleggiante pei traviamenti di una ottenebrata sapienza. Né a ciò dovea servire lastoltezza in qualunque modo; ma la stoltezza professata, proclamata, predicata; ché il per stultitiam prædicationis è uno degli ebraismi frequentissimi a Paolo, benché egli scrivesse in greco, ed equivale a per stultitiam prædicatam. Eccovi colle proprie sue parole ildiscorso dell’Apostolo: « Non avendo il mondo conosciuto Dio per via di sapienza, secondo il primitivo consiglio divino; piacque a Dio salvare i credenti pervia di predicata stoltezza ». Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes. E sapete che significa propriamente stultitia prædicata? Significa il proclamare una dottrina, innanzi a cui tutta la sapienza umana saria restata sconcertata e confusa; una dottrina, che avrebbe messo alla cima ciò, che la sapienza umana metteva sempre al fondo: e viceversa messo al fondo ciò, che questa metteva sempre in cima; una dottrina, che avrebbe detto bene e beatitudine dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel riconoscere per sua suprema miseria: e per converso avrebbe detto miseria suprema dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel dire suo bene e sua beatitudine. Questa fu propriamente la stultitia prædicata, pel cui mezzo volle Iddio salvare l’uomo,il quale non avea saputo trovare salute nella sapienza.E fate di rendervi ben chiaro questo punto. Che direste se un qualunque saltasse qui in mezzo a pensare ed adire a rovescio di quello che dicono e pensano tutti? come altro potreste qualificarlo, che per istolto? Ed è egli forse altro la stoltezza, che pensare e parlare a rovescio di ciò che pensa e parla l’universale, non pur dei savi, ma degli uomini? Pure questo appunto fecero gli Apostoli, e segnatamente Paolo, in mezzo ai Gentili: cominciarono solennemente a gridare cose del tutto opposte ai pensieri e dagli affetti del Gentilesimo. Dissero beati i poveri, gli umili, i sofferenti; e ciò in un mondo, che non conosceva cose più abbominevoli della povertà, della demissione, della sofferenza: dissero miseri e di compianto degnissimi i doviziosi, i rinomati, i gaudenti; e ciò in un mondo, che si struggea della rabbiosa fame di dovizie, di gaudii, di rinomanze. Deh! che vi poteva intendere quel mondo in questa non più udita dottrina? Dovette poi crescere a dismisura la sua confusione ed il suo stordimento, quando si udì contare che Iddio, quasi personificando in sé medesimo quella stoltezza, era nato bambino, era stato perseguito in fasce, avea conversato in mezzo agli uomini, patendo fame e sete, e rimbrotti, e calunnie; era stato accusato, trascinato pei tribunali, coperto di scherni, abbeverato di dolori, fino a lasciare la vita sopra di un infame patibolo tra due malfattori, quasi peggiore di ambedue. Or chieggo a voi un’altra volta: che vi potea intendere il mondo pagano nella sfoggiata stoltezza di quelle dottrine e di questo maestro? E vi è di più: se vi ebbe mai tempo meno opportuno a predicare tale stoltezza, fu quello appunto, in cui essa fu predicata. Lo stesso Paolo Apostolo ci fa sapere che, per quei giorni, i Giudei aspettavano portenti strepitosi, e meraviglie non più vedute: i Gentili, distinti da lui col nome speciale di Greci, che erano i più colti, volevano arti, letteratura, scienza, filosofia: Iudæi signa petunt, et Græci sapientiam quærunt. Or bene: a quel Giudaismo, così avido di portenti, gli Apostoli presentarono niente altro, che un Giusto oppresso, che vuol dire la cosa più ovvia, più comune, più vulgare di questo mondo; a quel Gentilesimo, cotanto assetato di scienza, gli Apostoli si presentarono con quella stoltizia della Croce, presumendo con questo mezzo conquidere il mondo, quando era umanamente indubitato, che quello, riuscendo pure a farsi considerare dal mondo, appena avrebbe potuto altro, che esserne esecrato o deriso. Fu quasi volere conquidere la sapienza colla stoltizia, la forza colla debolezza, il godimento col dolore, la nobiltà coll’avvilimento, l’esistente col nulla, il vigoroso col meno di nulla. E pure questo appunto fu il consiglio di Dio. Sed et quæ stulta sunt mundi elegit Deus, ut confun dat sapientes; et infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia, et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quæ non sunt, ut ea quæ sunt destrueret (1 Cor. I, 24). Il quale concetto, mentre da una parte era il solo possibile a recarsi in pratica, siccome quello, che avrebbe, colla umiltà e col dolore, guarita la universale malattia nella sua radice, che era l’orgoglio e la sensualità; si presentava dall’altra parte all’intelletto, come la più matta pretensione, come il più bizzarro sogno, che potesse mai cadere in cervello di febbricitante.

IV. Tuttavia quella pretensione che al povero nostro intelletto saria paruta follia, quel sogno così bizzarro, sono oggimai diciotto secoli e mezzo, è un fatto compiuto; e non già come i fatti compiuti del nostro tempo: parola nuova a mantellarne la laidezza della nequizia, vecchia al mondo quanto Caino; ma come il fatto capitalissimo ed unico che informa tutte le tradizioni, che domina tutta la storia, che è improntato in tutti i monumenti, e che è attestato da una sperienza, innanzi alla cui luce non vi è pipistrello, che possa serrare le pupille. Ed i nostri progressisti umanitari possono bene, a loro grand’agio, storpiare le tradizioni, falsare o mutilare la storia, stiracchiare i monumenti e rinnegare la stessa esperienza! Ma fin che vi resta al mondo riverita una Croce, vi resterà un’irrepugnabile testimonianza di quel trionfo, che la stoltezza, predicata dagli Apostoli, ha portato sopra la ventosissima ed elatissima sapienza del Paganesimo. – Ma che parlo io di una sola Croce superstite? e dove possiamo noi volgere lo sguardo, che non la veggiamo sfolgorante di luce, come il sole nel meriggio: Fulget Crucis Mysterium; ed attestante in sua favella questo gran fatto del mondo vinto e trionfato da lei? Lei voi vedete, campata nelle regioni del tuono e delle nubi sopra gli augusti templi di Dio, narrare ai popoli le benedizioni, che colà piovono dal cielo per lei amicato; lei voi scorgete sui giganteschi obelischi, orgoglio che furono del mondo pagano, e servono oggi di degni piedistalli a quel trofeo di perenne vittoria; lei voi osservate tenere il primo posto sugli altari di Dio, ed ivi, tra lo splendore delle faci e tra la nube misteriosa degl’incensi benedetti, essere il precipuo obbietto del culto cristiano; lei voi mirate, ricca di gemme, pendere sul petto dei sacri Pastori, come indice di potestà spirituale: lei sormontare le cristiane corone dei Re, come simbolo di temporale potere; lei voi guardate sulle porte delle città come scudo di sicurezza, lei sui merli delle fortezze come propugnacolo di difesa, lei sulle prore delle navi come schermo dalle tempeste, lei tra i guerrieri vessilli come pegno di vittoria, lei in petto ai cavalieri come distinzione di onore. E forse che a voi Cristiani dovrò io rammemorare le benedizioni che, per la Croce e colla Croce, associata alla invocazione augusta della Trinità sacrosanta, vi furono impartite dal cielo? Essa Croce vi santificò, ancor fantolini, nel santo Battesimo; fatti più grandicelli, vi fu col sacro Crisma segnata in mezzo alla fronte, sede nobilissima del pudore, perché non ne aveste a vergognare giammai; essa acquetò tante volte le agitazioni ed i rimorsi della sbattuta vostra coscienza, schiudendole, colla fiducia del perdono, i sentieri fioriti della speranza;essa benedisse alle vostre nozze, consacrando così il casto amore, onde, al cospetto degli Angeli, stringente una mano diletta, che forse tremò nella vostra; essa vi accompagna per tutta la vita nel segno che o voi ne fate,o vi scende sul capo pel ministero dei vostri Sacerdoti e del vostro Pontefice; essa sarà stretta tra le già incadaverite vostre mani negli estremi aneliti, raccoglierà dalle fredde vostre labbra il supremo bacio dell’agonia; e, spenti che sarete, essa si poserà pietosa sulla vostra tomba, pegno di sicura, e (speratelo! miei devoti uditori, speratelo! ché ne avete bene onde) pegno altresì d’immortale risurrezione e gloriosa. Insomma Fulget Crucis Mysterium, quanto sono lunghi i secoli, quanto è larga la terra; e per lei ha avuto pienissimo compimento la fatidica parola d’Isaia; che cioè il deserto dirupato del Gentilesimo sariasi abbellito come i più aprichi e fioriti giardini, e che quella solitudine sconsolata sariaşi allietata di non più vista allegrezza. Lætabitur deserta et invia et exultabit solitudo (Isai. XXXV, 1). Qui pertanto, con innanzi agli occhi questo così portentoso trionfo, riportato dalla predicata stoltezza della Croce, voi potete sentire in tutta la sua forza l’alta parola di Paolo, che ci rivela un consiglio, il quale solo dalla Sapienza divina potea essere concepito, e solo dalla divina Onnipotenza compiuto. Udite un’altra volta quel contesto ora, che, dalle cose ragionate, siete in grado di tutta intenderne la verità profondissima. « Posciacchè il mondo non avea conosciuto Dio, per via di sapienza, secondo che la primitiva ordinazione divina avrebbe portato; piacque a Dio fare salvi i credenti,per via di predicata stoltezza. » Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes.

V. Nel quale luogo così dichiarato dell’Apostolo io non so se voi, miei amatissimi, abbiate posto mente ad un’apparente incoerenza, che vi si potrebbe notare. E l’incoerenza sembra acchiudersi in questo, che, avendo detto l’Apostolo, che il mondo non conobbe Dio per la via della scienza, mundus non cognovit; pare che nel seguito del discorso si sarebbe dovuto ritenere il soggetto medesimo, e conchiudere, che, per la nuova via della stoltezza, Iddio volle salvare il mondo. Ma no! In questo secondo comma del periodo san Paolo cangia il soggetto, e non dice che Dio volle salvum facere mundum, ma dice che volle salvos facere credentes. Or come va egli cotesto? Eh! no! signori miei; qui non è ombra d’incoerenza: qui è anzi un’assai profonda morale dottrina; e fate di rendervene molto bene capaci. – A non conoscere Dio fu il mondo: a trovare salute per la stoltezza predicata non è il mondo, sono solo i Credenti; e se voi, come vi trovate, così vi volete conservare nel costoro numero avventurato, benché viviate nel mondo, vi dovete, nei pensieri, negli affetti, nelle inclinazioni, nei desideri e nei parlari medesimi, mantenere separati al tutto dal mondo. Questo non pure non capì il Mistero della Croce, ma se ne dichiarò, se ne professa, a viso scoperto, nemico acerrimo; e senza partirsi d’un capello dai pensieri e dagli amori del Paganesimo, sèguita a dire follia ciò che quello disse follia, beatitudine ciò che quello chiamò beatitudine . E così l’aderire a cotesto mondo, nemico della Croce di Cristo, che altro sarebbe, che rendere vano per la nostra salute quell’alto Mistero? che altro, se non evacuare in noi Crucem Christi, secondo la vigorosa espressione dello stesso Paolo? Né credeste che il caso sia molto difficile: io anzi lo reputo molto facile e più comune, che voi per avventura non pensereste; e ciò grazie a quel Naturalismo, fattosi oggimai così universale nel nostro tempo e nelle nostre contrade. E che ci vuole, signori miei, per rinnegare in certa guisa praticamente il Mistero della Croce, ed annullarne in sé medesimo i salutari effetti? Egli basta, che nei vostri giudizi prendiate a norma, non la follia della Croce, la quale professate di venerare; ma la sapienza del mondo, al quale nel santo Battesimo rinunciaste. Con ciò solo voi avete in voi reso vano il Mistero della Croce: Evacuastis Crucem Christi. Che sarebbe poi se, invece di giudicare le cose umane coi dettami della Fede, si volessero giudicare le cose della Fede coi pensieri umani? Ora non è questo il vezzo consueto della nostra società, che pregiasi di progresso? E che altro da tale progresso possiamo attendere, se non un ridivenire praticamente pagani, rimettendo in onore, come unica norma dei nostri giudizi speculativi e pratici, quella umana sapienza, che fu già confusa e trionfata dalla predicata stoltezza della Croce? Il Magno Leone volea che il Cristiano, nello appressarsi a contemplare gli alti Misteri della sua Fede, tenesse lungi da sé la caligine degli umani argomenti: Cum ad intelligendum Sacramentum …. Christi accedimus, abigatur procul terrenarum caligo rationum; volea che dall’occhio casto di una Fede divina si rimovesse al tutto il fumo dell’umana sapienza: Ab illuminatae Fidei oculo mundanæ sapientiæ fumus abscedat (Serm. I De Circumc.). Affatto opposto a queste prescrizioni è lo stile della età moderna, soprattutto tra quelli, che diconsi e sono tenuti sapienti al livello del secolo. Lungi dallo allontanare da loro la caligine degli umani argomenti, questa caligine appunto tolgono a norma dei loro giudizi, intorno ai Misteri della Fede; lungi dal rimuovere il fumo della umana sapienza, quando si tratta di prescrizioni e di consigli evangelici; appunto quel fumo di umana sapienza prendono a misura, per fare stima delle opere e delle parole divine. E qual meraviglia che, volendosi rischiarare colla caligine ed illuminare col fumo, la società moderna si trova oggimai ravvolta in tante tenebre, da farci temere, almeno per una parte di essa, imminente la notte del Paganesimo?

VI. E sapete in che dimora propriamente e fuori metafora cotesto vezzo? Eccolo in due parole. Consiste nel prendere dai dommi, dalle credenze e dalle prescrizioni della morale evangelica tutto quello, che si accomoda coi poveri nostri cervelli e coi nostri cuori corrotti; e questo ritenere come vero, come buono, come utile all’uomo individuo ed allo stesso consorzio civile; magnificarlo, se fia uopo, eziandio siccome bello, per le armonie che ha colla immaginativa e coi delicati sentimenti del cuore: ed il resto? oh! il resto gettarlo via superbamente, come superstizioso ed inutile, o interpretarlo per mito, o intenderlo a rovescio, o, senza molte cerimonie, sfatarlo come favole e fanatismi. La mortificazione cristiana? Ma si capisce che bisogna astenersi da quei diletti che guastano la sanità, che vuotano la borsa e che denigrano la fama: cose che potrebbero dire ed hanno detto Epitteto, Seneca e Plutarco, come le dicono i nostri umanitari, senza sapersi nondimeno che questi le osservino meglio di quelli. Ma quanto a mortificare davvero la carne per espiazione delle proprie colpe, per domarne l’albagia, per averne merito; oh! i nostri barbassori ci riderebbero sotto i baffi a solo sentirne a parlare; ed appena al medio evo sono generosi di perdonare quegli ascetismi. L’amore della povertà? Sarebbe certo la gran bella cosa, quando ne fossero persuase le turbe cenciose ed affamate, che ci assediano coi lamenti, ed in qualche parte del mondo cominciano ancora ad atterrire colle minacce. Se vi riesce con un po’ di Crocefisso persuadere quella marmaglia a contentarsi dei suoi cenci e della sua fame; tanto meglio! essi i sapienti filantropi vi sapranno grado di avere loro agevolato il traffico su quei cenci e su quella fame. Ma venire a contare a loro, che beati i poveri e guai ai ricchi, sono cose, da neppur si credere possibili nel secolo della Economia sociale, del Credito mobiliare, dei Capitali riuniti e del Libero scambio. La Rivelazione indispensabile all’uomo individuo, la Religione elemento essenziale d’ogni umano consorzio? Ma chi ne dubita? tanto solo, che per Rivelazione intendiate il lume della ragione colle verità immediate che essa intuisce, e colle mediate che essa ne trae per fil di logica, senza rifiutare la scorta dei Grandi Uomini, tra i quali si degnano di noverare anche Cristo; tanto solo che per Religione intendiate la civiltà, ossia l’arte di starne molto bene in questo mondo, senza escluderne la voglia di starne anche meglio nell’altro, purché l’altro non ci scemi e non ci turbi tutti i godimenti di questo. – In breve: cotesto è quel Cristianesimo civile, che seconda tutte le cupidità, che si acconcia a tutti i gusti, che si accorda con tutte le sette, che non esclude nessuna Religione, tranne solo la cattolica, apostolica, romana, la quale, perché lo conosce ottimamente per quel che è, lo condanna e lo maledice. Standone ai dettami di questa Chiesa, nel preteso Cristianesimo civile, non possiamo riconoscere, che un Paganesimo redivivo, il quale dell’antico ha le abbominazioni, senza la grandezza; che ha, sopra l’antico, il marchio dell’apostata e del rinnegato; che ha, meno dell’antico, le speranze e le promesse, che pure a quello sorridevano; laddove questo secondo, nato per corrompimento di Cristianesimo sconosciuto, mutilato e storpiato, non può sperare altro in questo mondo, che la barbarie, sequela indeclinabile di una civiltà corrotta ed inverminita, e l’inferno nel l’altro. È parola dura, lo so: io nondimeno ho dovuto dirvi non il molle, ma il vero; ed il vero, nella presente materia, non ha altro nome, che inferno. Riposiamo.

VII. Io vi dissi fin da principio, che le istituzioni si conservano e crescono coi mezzi medesimi, che loro diedero cominciamento. E così, essendo stato il Mistero augusto della Croce il mezzo, di che si valse la Provvidenza, a tramutare il deserto del Paganesimo in questo orto fecondissimo ed in questo giardino di celesti delizie, che è la Chiesa; quel Mistero medesimo è il mezzo più appropriato a conservarci nella Chiesa, come membri vivi di lei, vigorosi contro le seduzioni del senso e le fallacie del mondo, e fidenti di quella beata eternità, che dovrà coronare i dolori e le lotte del nostro pellegrinaggio terreno. Oh! sì! l’alto concetto della Croce, l’amore tenero ed operoso della Croce è il faro più sicuro, che ai nostri occhi può rilucere, nelle tenebre di questo mondo! è la stella polare, che sola, può guidarci e sostenerci nei timori e nei travagli di questa procellosa nostra vita! Ed oh! Come sarei contento! come mi crederei largamente compensato della povera mia fatica, se, nel separarmi da voi, miei desideratissimi uditori, vi potessi lasciare altamente scolpito nella mente e nel cuore il concetto e l’amore della Croce! di quella Croce, la quale Iddio riputò trono unicamente degno di Lui, quando, da Re supremo dell’universo, volle alle nazioni mostrarsi assiso in trono: In nationibus regnavit a ligno Deus. Tenendovi a lei fedelmente uniti, essa vi sarebbe sicurissima difesa contro gli scaltrimenti e gli scandali della società, in mezzo a cui dovete vivere, la quale, come mi sono studiato mostrarlovi in questi giorni, piega manifestamente ai pensieri ed agli amori pagani. E non ricordale a quanti indizi io vi feci accorti di così fatto lamentevole regresso? regresso che è danno suo, ma che all’ora stessa è vostro pericolo presentissimo. Io ve la mostrai separata da Dio, pel Razionalismo che la domina; disordinata riguardo all’Universo, pel cercarvi che fa una felicità, che Dio non vi pose; ignorante dell’uomo, perché ne rinnega o trasanda i destini ultramondiali; fatta schiava delle forze naturali, cui solo riverisce e adora; dedita alle propensioni sensuali, cui, non che giustificare, si studia di annobilire; da ultimo folleggiante in fanatici di amor patrio, i quali, senza riguardo a diritti od a giustizia, ci vorrebbero tutti venduti anima e corpo per le glorie e per la felicità di una patria, della quale essi sono la vergogna maggiore ed il peggiore flagello. Contro tutti questi o errori d’intelletto o traviamenti di cuore, voi sarete premuniti abbastanza, se, a farne giudizio, non vi consiglierete con quello solo, che ve ne dice la natura; ma attenderete precipuamente a ciò, che ve ne insegna la Fede, nei principii speculativi e pratici consacrati dalla Croce. E però ogni qual volta vi avvenga di leggere o di udire cotesti insipienti e perfidi nemici della Croce di Cristo; e voi, levando le pietose pupille al cielo, dite in cuor vostro: o Signor mio! gl’iniqui mi contarono tante cose! nuove, strane, inaudite! Ma io le tenni per favole, non tanto perché mi parvero riprovate dalla mia ragione; non tanto perché le sentii, nel fondo del cuore, condannate dalla voce della mia coscienza, quanto perché le trovai ripugnanti alla santa vostra legge. Narravernt mihi iniqui fabulationes, sed non ut lex tua (Psalm. CXVIII, 85). Così sia.

FINE