UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATO” (1)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATUS” (1)

Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali, anticamere delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!], in coincidenza della fine della “deportazione a Babilonia” iniziata il 26 ottobre del 1958. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso della sua “vera” Chiesa – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.

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PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SUMMI PONTIFICATO (1)

PROGRAMMA DEL PONTIFICATO

L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.

Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?

Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).

Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.

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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.

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Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli.  Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino.

La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza.

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Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali anticamera delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!]. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso e della sua “vera” Chiesa Cattolica – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SUMMI PONTIFICATUS (1)

PROGRAMMA DEL PONTIFICATO

L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.

Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?

Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).

Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.

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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.

***

Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli.  Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino. – La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza. http://summi pontificato (2)

DOMENICA V “quæ superfuit” DOPO EPIFANIA – III. Novembris (2021)

DOMENICA V “quæ superfuit” DOPO EPIFANIA – III. Novembris (2021)

Semidoppio. Paramenti verdi.

Nei Vangeli delle precedenti Domeniche dopo l’Epifania la divinità di Gesù Cristo appariva nei suoi miracoli; oggi essa si afferma nella sua dottrina che « riempì di ammirazione » i Giudei di Nazaret (Com.). Gesù è nostro Re (Vers., Intr., All.), perché accoglie nel suo regno non solo i Giudei, ma anche i Gentili. Chiamati per pura misericordia a far parte del Corpo mistico di Cristo, bisogna dunque che anche noi usiamo misericordia al prossimo, perché noi facciamo in Gesù una cosa sola con Lui (Ep.). Perciò bisogna esercitarsi nella pazienza; perché nel regno di Dio, qui sulla terra, ci sono buoni e cattivi, e verranno separati per sempre gli uni dagli altri solo quando Gesù verrà per giudicare gli uomini.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX :11; 12; 14

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2

Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

 [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut, quæ in sola spe grátiæ cœléstis innítitur, tua semper protectióne muniátur.

 [Custodisci, o Signore, Te ne preghiamo, la tua famiglia con una costante bontà, affinché essa, che si appoggia sull’unica speranza della grazia celeste, sia sempre munita della tua protezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses
Col III: 12-17

Fratres: Indúite vos sicut electi Dei, sancti et dilecti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectionis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per Jesum Christum, Dóminum nostrum.

[“Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza, pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonando, se alcuno ha querela contro di un altro; come il Signore ha perdonato a voi, voi pure così. Ma più di tutto vestite la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, regni nei vostri cuori e siate riconoscenti. La  parola di Cristo abiti riccamente in voi con ogni sapienza, istruendovi ed ammonendovi tra voi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando con la grazia nei cuori vostri a Dio. Quanto fate in parole ed opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per lui „ ].

I SEGRETI DELLA CARITA’.

(S. Paolo ai Colossesi: 3, 12-17).

E’ uno dei tasti, questo della carità, che San Paolo batte più spesso e più volentieri. Nel che egli imita e persegue la tattica del Maestro divino Gesù. Pel Maestro la carità riassume la lettera della Legge e lo spirito dei Profeti: per il discepolo la carità è l’intreccio delle perfezioni. E la carità reciproca, pel discepolo come pel Maestro, deve spingersi, per essere carità fino al perdono. Se non arriva lì, se deliberatamente si ferma più in qua, non è carità: è un surrogato, una imitazione, una contraffazione, forse non è carità cristiana, carità vera. Sopportarci a vicenda dobbiamo, dice con grande senso della realtà vera, quotidiana della vita; sopportarci dobbiamo se vogliamo essere caritatevoli. La sopportazione concerne i nostri difetti, grazie ai quali ci si urta l’un l’altro. È una forma di pazienza necessaria, perché gli urti nella vita sono facili, anche indipendentemente dalla nostra volontà. Pensate che per uno può diventare difetto ciò che per un altro è pregio. La calma del flemmatico è di fastidio alla vivacità del temperamento impulsivo. Bisogna sopportarci per amare. La carità è viva a prezzo di pazienza. Perciò altrove San Paolo enumerando le qualità che la carità deve avere, pone in alto, in prima linea la pazienza: «Charitas patiens est ». – Ma non basta essere tolleranti dei difetti altrui, la carità esige da noi il perdono, la condonazione. Qui non si tratta più di difetti del prossimo, cioè di qualità altrui che spiacciono a noi. Non ci sono sole le vivacità che offendono la mia flemma, ci sono gli sgarbi veri e proprî che irritano la mia coscienza; umiliazioni che offendono la mia dignità, male parole che so di non meritare. Ci sono le offese meditate, calcolate, volute, gratuite, dannose. Provocano lo sdegno. L’istinto grida vendetta. E all’istinto fa eco un certo senso molto egoistico di giustizia. Vendetta? No, dice il Vangelo; no, dice Paolo in nome della carità, il programma nuovo del Cristianesimo: bisogna perdonare, condonare: « Sopportatevi l’un l’altro (sono le parole testuali dell’Apostolo nell’odierna Epistola) e condonatevi l’un l’altro, se avete motivo di lagnarvi ». Ma l’Apostolo dice anche il perché di questo precetto nuovo: ci insegna il segreto, la molla di questa virtù eroica. « Come Dio ha condonato a voi, così voi reciprocamente ». Terribile motivo, travolgente. Ogni giorno abbiamo bisogno del perdono di Dio, ogni giorno facciamo appello alla Sua misericordia, per ottenerla. «Perdonaci » gridiamo nella preghiera. « Dimitte nobis debita nostra». Ma allora bisogna essere logici: non negare agli altri, ciò che sivuole, quasi si pretende per se stessi. E la preghiera quotidiana continua implacata ed implacabile:«Sicut et nos dimittimus debitoribus nostris ». Come anche noi perdoniamo, condoniamo a chi si è fatto, si è reso nostro debitore offendendoci iniquamente. Atto eroico, atto difficilissimo questo del perdono ai nostri offensori, meno difficile quando se ne considera la misteriosa e reale giustizia e, sempre sulla scorta di San Paolo, un frutto prezioso e provvidenziale la pace. La pace è il sospiro dell’anima umana; la pace è l’atmosfera normale della vita: la pace è l’atmosfera normale della vita e della gioia. La guerra stessa, che ha i suoi fanatici non vale se non in quanto serve alla pace. Non sifa la guerra per la guerra, si fa la guerra perla vittoriosa pace, la pace nella vittoria. Ma la pace, non è, non sarà mai l’epilogo della vendetta. La vendetta ha un meccanismo fatto a catena. Una violenza, una ingiustizia produce l’altra: « Abjssum invocat … ».Il tuo schiaffo genera, in linea vendicativa, il mio pugno, il mio pugno il tuo bastone, il tuo bastone la mia rivoltella e così fino all’infinito. Dove e quando la vendetta fu costume e legge, la pace fu un mito astratto, un desiderio pio, una invocazione vana. Questa catena maledetta e infinita di rappresaglie la tronca il perdono. È un punto fermo, è un cambiamento di registro, e l’intimazione efficace di un basta colle lagrime e col sangue. Alle anime veramente caritatevoli, perché caritatevoli fino al perdono, Paolo annuncia, come ricompensa la pace di Cristo, pace lieta tripudiante. « Et pax Christi exultet in cordibus vestris.» Perché, fratelli se vogliamo la pace sappiamo come e dove procurarcela. Col perdono imparato alla scuola di Gesù Cristo. Carità, perdono, pace sono tre fili di una sola, magnifica, infrangibile corda.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.

V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja
.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.]

Ps: CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 24-30

In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile factum est regnum cœlórum hómini, qui seminávit bonum semen in agro suo. Cum autem dormírent hómines, venit inimícus ejus, et superseminávit zizánia in médio trítici, et ábiit. Cum autem crevísset herba et fructum fecísset, tunc apparuérunt et zizánia. Accedéntes autem servi patrisfamílias, dixérunt ei: Dómine, nonne bonum semen seminásti in agro tuo? Unde ergo habet zizánia? Et ait illis: Inimícus homo hoc fecit. Servi autem dixérunt ei: Vis, imus, et collígimus ea? Et ait: Non: ne forte colligéntes zizánia eradicétis simul cum eis et tríticum. Sínite utráque créscere usque ad messem, et in témpore messis dicam messóribus: Collígite primum zizzania, et alligáte ea in fascículos ad comburéndum, tríticum autem congregáta in hórreum meum.

[“Gesù disse questa parabola: Il regno dei cieli è simile ad un uomo, che seminò seme buono nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. E quando l’erba fu nata ed ebbe fatto frutto, apparvero anche le zizzanie. E i servi del padre di famiglia vennero a lui e gli dissero: Padrone, non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde adunque le zizzanie? Ed egli disse loro: Un qualche nemico ha fatto ciò. Ed essi a lui: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No! perché talora, raccogliendo le zizzanie, insieme con esse non abbiate a svellere anche il grano. Lasciate crescere insieme le une e l’altro fino alla mietitura, e allora dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio „ ].

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL NEMICO, IL SUO SEME E LA SUA ORA.

Un uomo aveva seminato, nel suo campo, frumento di prima qualità. Ma intanto che gli agricoltori dormivano, il nemico passò sui solchi a gettarvi la grama zizzania. Nessuno s’accorse della vendetta. Giunse la buona stagione e i grani germogliati crebbero in erba. Un giorno, tornando dai campi; gli agricoltori corsero dal padrone, pallidi per la dolorosa sorpresa. Signore nostro, tu seminasti grano scelto ed è venuto su frumento e zizania … ». «È stato il nemico! » rispose tristemente. E quelli bruciando dall’ira: «Noi ritorniamo indietro, e sterpiamo ogni mala pianta. Lo vuoi? ». « No, che mi rovineresti anche la buona pianta. Lasciate che l’una e l’altra crescano sino alla mietitura; allora io dirò ai mietitori: « Il tempo è venuto: su sterpate prima la zizzania e legatela in fasci che daremo alle fiamme, Il grano invece riponetelo nel mio granaio ». – La parabola è bella chiara. Gesù Cristo è il padrone, il mondo è il suo campo. Per questo suo campo non ha lesinato sudori e sangue e neppure la vita. Ma noi fermiamoci a discorrere del nemico, del suo seme, della sua ora. – Il nemico più forte e più accanito della nostra anima è il demonio. Inimicus autem est diabolus (Mt., XIII, 39). Egli si avvicina alle anime, — lo dice S. Giovanni — per derubarle, per ferirle, per ucciderle. Infatti, egli è il ladro del tesoro più prezioso che ciascuno porta con sé: la grazia. Egli è il feritore che aperse in noi piaghe mortali e pressoché incurabili; il peccato. Egli ancora è la perdizione di molte anime, che, sedotte dalle sue astuzie, precipitano nelle fiamme eterne. Non bisogna credere però che il demonio ci venga attorno di persona. È troppo furbo per far questo: sa di essere orribile e noi fuggiremmo da lui lontano per lo spavento. Si trasfigura in mille maniere, e più spesso sotto le apparenze di un uomo, amico o compagno o vicino di casa. Inimicus homo. – S. Teresa, già suora al convento dell’Incarnazione in Avila, s’era stretta in amicizia con una persona di cui ella non ha voluto scrivere il nome: senza dubbio era di condizione nobile, gran signora e gran dama della città. Di grave nulla vi era, ma con quella persona trascorreva lunghe ore in parlatorio, dimenticando così i rigori della sua vita monastica. Già più volte ne aveva sentito rimorso, già più volte aveva anche promesso a Dio di troncare con un taglio netto quell’amicizia: ma il suo cuore vi era così attaccato che al momento decisivo veniva a mancarle il coraggio e cedeva. «Una volta — ella narra nella sua autobiografia, — trovandomi ancora con quella persona in parlatorio, vedemmo venire verso di noi, (ed altre persone che erano là lo videro egualmente) qualcosa che assomigliava ad un enorme rospo, ma molto più leggero di quanto siano di solito questi animali. Non posso ancora comprendere come mai in pieno giorno, in quel luogo, vi potesse entrare una bestia di quella specie, né seppi mai donde venisse ». Comunque, n’ebbe tanto spavento che quella dolce e pericolosa amicizia, che le impediva i suoi doveri e la sua santificazione, fu troncata per sempre. Esaminiamo le nostre amicizie: sono tutte buone? in fondo a quella familiarità con persona di diverso sesso, non c’è forse il rospo schifoso dell’inferno? Se avessimo la grazia di S. Teresa, forse anche noi lo vedremmo avvicinarsi paurosamente dopo certi colloqui, in certe passeggiate, in certi ritrovi. Non è forse per quel compagno, per quell’amicizia che noi tante volte abbiamo peccato, tante volte abbiamo tralasciato i doveri religiosi? – Già nella coscienza abbiamo sentito rimorso, già in qualche confessione abbiamo promesso a Dio. Poi il coraggio ci è mancato. È troppo piacevole quella compagnia, è tanto dolce quell’amicizia… – Vi ricorderò la scellerata astuzia che quelli di Ioppe usavano con i Giudei ingenui. Invitarono dunque i Giudei a salire con loro sulle barche per una gita di piacere in mare: era tanta l’allegria, l’affabilità, l’amore che quei di Ioppe dimostravano, che essi entrarono in barca con le mogli e i figli, e senza alcun sospetto cantavano e ridevano. D’improvviso, tra i canti e i suoni, i falsi amici di Ioppe presero gli Ebrei e li scaraventarono in mare. Gli annegati non furono meno di duecento. (II Macc., XII, 3-4). – Al demonio quest’astuzia non è ignota. In mezzo ai canti, alle risa, ai piaceri, nelle gite di falsi amici, quanti improvvisamente han sentito la loro anima sprofondare nell’abisso del peccato e dell’inferno! – Il cuore dell’uomo è il mistico campicello di Dio. In esso ogni giorno vi semina ispirazioni buone e propositi santi, in esso frequentemente lascia cadere la sua parola che scende dalla bocca dei sacerdoti, in esso lo Spirito Santo prega e geme senza interruzione; in esso vi sono gli Angeli a custodia. Eppure, per colpa nostra, il nemico si avvicina e può scagliare la sua maligna semenza. Semenza di ribellione a Dio. « Perché gli obbedisci? — insinua il serpente nel cuore di Adamo — mangia il frutto proibito e diverrai indipendente e sovrano come lui ». Perché, insinua ancora il serpente nel nostro cuore, rispetti le leggi della Chiesa, santifichi la domenica, preghi mattino e sera?… fa quello che vuoi e sarai padrone di te. – Semenza di discordia in famiglia. « Perché il tuo fratello Abele deve essere sempre preferito, e tu lasciato in disparte? Non vedi che il suo mestiere di pasturare le greggi è senza fatiche e tu invece devi vangare la terra dura e bagnarla di sudore? uccidilo e avrai la sua parte… ». Variata, a seconda delle circostanze, ma è ancora questa la semenza che egli getta in molte case, dove i fratelli odiano i fratelli, i figli non amano i genitori, le nuore non sopportano i vecchi. – Semenza di parole cattive. Le bestemmie, i discorsi osceni, i libri impuri, i giornali senza pudore né fede, son tutta semenza dell’uomo nemico. Semenza di vizi disonesti. La storia del figlio prodigo che abbandona la casa del padre sospinto dagli amici dietro ai piaceri della carne, è vera anche ai nostri tempi. Ci sono famiglie che piangono, ci sono poveri cuori che soffrono, ci sono anime in cui il buon frumento di Dio è stato soffocato dalla zizzania delle passioni impure. – È ora di notte. Gesù è il padrone della semina nella luce del giorno pieno; ma il nemico sceglie per le sue vendette le ore della notte. Cum autem dormirent homines. « L’omicida si leva prima dell’alba e nelle tenebre compie i suoi latrocini. L’occhio dell’adultero brama l’oscurità, e nascondendo nel buio la sua faccia, dice: nessuno mi vedrà. Di notte i tristi sfondano le porte segnate di giorno. Per questa gente, come per i gufi, il giorno è noioso al pari della morte » (Giobbe, XXIV, 14-17). Quando poi Giuda si decide ad uscire dal cenacolo, per correre a vendere il Salvatore, il Vangelo osserva: « Erat autem nox ». Di notte fu compiuto dunque il peccato più grave che mai vide la terra. È ora di ozio. Ma l’ora del nemico non è appena quella della notte, ma anche quella dell’ozio. Cum autem dormirent omnes. C’è il sonno che sana e ristora le forze perdute; e c’è un’altra specie di sonno che debilita e rovina l’anima e il corpo: l’ozio. Nessuna ora è tanto propria del demonio quanto quella dell’ozio. Le immaginazioni cattive ci assalgono nei momenti di ozio. Come spiegate voi l’atto sacrilego degli Ebrei che si abbassarono ad onorare il vitello d’oro? Ce lo confida S. Paolo: «Il popolo sedette in ozi a mangiare, a bere, a divertirsi ». — E come spiegate la rovina di Davide, il re secondo il cuore di Dio? cadde nell’ora dell’ozio. Udite che arguta frase ha detto S. Tommaso da Villanova: « David in bello sanctus, in otio adulter et homicida ». Nelle opere di guerra Davide si conservò santo, nell’ora dell’ozio divenne adultero ed omicida. È ora di negligenza. Infine, l’ora del nemico, non solo è nelle tenebre e nell’ozio, ma è pure nella trascuratezza. Cum dormirent omnes. Dormono molti Cristiani e non fanno più penitenza, né dicono più alcuna preghiera: intanto il demonio semina in loro quelle tentazioni a cui non potranno resistere. Dormono molti genitori, né più si curano di custodire con pazienza i figli e le figlie: e ad un certo momento s’accorgono che non sono più né ubbiditi né amati. S’accorgono che i figli non vanno all’oratorio né alla chiesa, che le figlie fanno parlare malamente di sé. Raccogliete il monito di S. Paolo: « Vigilate et orate et state in fide » (I Cor., XVI, 13). Solo così il nemico che s’aggira attorno al nostro campo non vi potrà gettare il seme maligno. Solo così il buon frumento di Dio crescerà in spighe d’oro per il Paradiso.

– Il campo dove frumento e zizzania crescono insieme è questo mondo in cui i buoni sono misti ai cattivi, e la mistura durerà fino alla fine del mondo; gli Angeli sono i mietitori che allora faranno la grande spartizione. Questa è l’interpretazione della parola che Gesù stesso diede agli Apostoli. – Eppure, non molto tempo dopo, Giacomo e Giovanni se ne dimenticarono. Sdegnati della malignità dei Samaritani che non li lasciavano passare sul loro territorio, dissero a Gesù: « Vuoi che comandiamo al fuoco del cielo di cadere su loro e incenerirli all’istante? ». Si sentirono rispondere: « Non sapete di che spirito siete » (Lc., IX, 54-55). A quanti Cristiani, ancora oggi dopo due millenni di Cristianesimo, Gesù potrebbe ripetere il rimprovero fatto ai due figli di Zebedeo! Quando vi lamentate e dite quasi di perdere la fede perché Dio permette che i cattivi sconvolgano le nazioni, distruggano le chiese, massacrino preti e monache, violino i sepolcri, non sapete di che spirito siete. Quando vi meravigliate che Dio non faccia morire o almeno non mandi un malanno a certi impudichi, sacrileghi; contenziosi che mettono scandalo e discordia tra le buone famiglie, non sapete di che spirito siete. Perché, dunque, questa sopportazione divina da lasciare crescere la zizzania in mezzo a grano fino alla mietitura? Per misericordia verso i cattivi. Per amore verso i buoni. – Un istruttivo episodio è raccontato da S. Dionigi in una lettera. C’erano in una città due pessimi soggetti che angariavano in ogni guisa un uomo pacifico ed onesto di nome Carpo. Non potendo ottenere rispetto e giustizia dagli uomini, il perseguitato la invocava da Dio, supplicandolo incessantemente a mandare la morte che gli togliesse di mezzo i due iniqui. Dio invece andò in sogno al buon Carpo. Gli pareva di vedere la bocca spalancata d’un abisso dal quale, in mezzo a fumo e a fiamme, montavano immani serpenti per avvinghiare due uomini e strapparli dall’orlo giù nel baratro. Quei due uomini erano i suoi nemici e Carpo tremava di gioia nell’attesa di vederli da un momento all’altro precipitare. Ma sollevando un poco lo sguardo vide una mano nuda, forata in mezzo alla palma e sanguinante, che si protendeva in aiuto dei due sciagurati. Capì subito che quella mano era di Cristo crocifisso, di cui nel sonno udiva anche la voce: « Sono pronto ancora a morire per la vostra salvezza ». Quando si svegliò, Carpo non fece più la preghiera per la morte degli iniqui, e non si scandalizzò più della sopportazione divina che lascia vivere i cattivi in mezzo ai buoni, che lascia trionfare a volte l’ingiusto sopra il giusto. Aveva capito tre cose che anche da noi è necessario siano capite. A noi le anime non sono costate nulla, ma al Redentore sono costate il sangue e la vita. Egli le amò fino a morire sulla croce in mezzo a spasimi atroci, ed il suo tenerissimo cuore non può lasciarle cadere nella dannazione infernale senza aver prima tentato tutte le vie per salvarle. Non vuole la punizione ma il perdono, non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Il buon pastore ha forse battuto ed ucciso la pecorella traviata? Ha forse lasciato lapidare la donna adultera? Qual è il medico che non tenta ogni risorsa fino all’ultimo per guarire l’ammalato? Gesù è il paziente medico venuto per guarire le anime malate dei peccatori. Come deve sentirsi triste e incompreso quando intorno a lui si grida: «Falli morire! liberaci dal loro disturbo! ». Ancora risponde amaramente come ai figli di Zebedeo: « Non sapete di che spirito siete ». –  Bisogna inoltre riflettere che se Dio facesse giustizia con la impazienza voluta da molti, e lasciasse cadere nell’inferno ogni uomo appena lo meritasse, non mancherebbero poi gli scandalizzati per l’esagerata severità del Signore. Che direbbero allora quelli a cui l’inferno sembra già un supplizio incompatibile con la divina bontà? Gli uomini, agitati come sono dalle passioni, passano da un eccesso all’altro nel loro giudizio. Dio invece possiede il perfetto equilibrio dell’amore e della giustizia. Egli solo conosce tutta l’atrocità e l’eternità delle pene dell’inferno, e conosce anche la fragile tempra della nostra natura; perciò sopporta i cattivi aspettando con paterno amore la loro conversione. Ma la sua pazienza ha pure un limite, e venuto il tempo della mietitura in essa farà lampeggiare la falce della sua giustizia. La pazienza di Dio è dunque una manifestazione del suo amore e della sua giustizia. – Infine c’è da riflettere che anche noi siamo stati in qualche momento cattivi nella vita, per giorni, per anni forse, siamo stati zizzania nel campo della Chiesa. Dio non voglia che la coscienza in questo momento ci accusi d’esserlo ancora. Se l’impazienza dei servi venisse ascoltata, se la zizzania fosse sradicata nell’istante in cui è scoperta, che sarebbe di noi ora? Dove saremmo? Sia ringraziata e benedetta la misericordiosa sopportazione del Signore. – « No, aspettate! — disse il padrone del campo; — altrimenti, sradicando subito la zizzania, ne soffrirebbe pure il buon grano ». Dunque, è anche per amore del buon grano che il padrone comanda d’aspettare. Ci sono infatti dei vantaggi per i buoni nella convivenza coi cattivi. a) Il primo vantaggio è nella possibilità di una conquista d’anime. Con la preghiera, con la mansuetudine, e massime col buon esempio possono persuadere il peccatore della bellezza delle virtù, della pace misteriosa ed intima che si prova nel vivere col Signore; possono indurlo a dire: « Si isti et istæ cur non ego? ». Non è necessario salpare l’oceano per salvare anime. Nella nostra casa forse, tra i nostri parenti ed amici; tra le persone con cui ci mette in contatto la nostra professione o il nostro lavoro ci sono anime smarrite nel buio dell’incredulità, anime assetate di gioia che fanno il male nell’illusione di sentirsi felici. Che grande onore se Dio ci usasse come strumenti di redenzione e di salvezza! Che grande gloria e ricompensa in cielo se riuscissimo a convertire un cuore! « Chi farà che un peccatore si converta dal suo traviamento, salverà l’anima sua dalla morte e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac., V, 20). b) Un altro vantaggio che deriva ai buoni dalla comunanza coi peccatori è l’esercizio e lo stimolo della virtù. La vicinanza gravosa del peccatore è la cote su cui s’affila la pazienza e la costanza del giusto. Si ode spesso dire: « Tutti i miei peccati, i miei disordini, i miei dispiaceri provengono dall’aver a che fare continuamente con un consorte ubriacone o iroso, con figliuoli ribelli, con parenti invidiosi, con padroni esosi e ingiusti, con compagni libertini e irreligiosi, con gente sfrenata nelle passioni ». Bisogna condolerci con le persone che si lamentano così, perché soffrono tutti gli incomodi di questa grave e noiosa società dei peccatori, senza però ricavarne nessun merito. Non hanno forse l’occasione di farsi simili al loro Maestro e Capo, l’Uomo umile e mite di cuore, il Dio fattosi agnello di espiazione che perdonò a tutti e pregò per coloro che lo mettevano in croce? Perché non ne approfittano? Tutto coopera al bene di quelli che amano il Signore: anche le mormorazioni, le calunnie, l’odio, le ingiustizie dei cattivi perché attraverso a simili tribolazioni, i buoni si purificano e s’innalzano. – Nel campo del Signore la zizzania cresce in mezzo al grano, e così sarà fino al giorno della mietitura. Sull’aia del Signore i chicchi di frumento son frammisti a molta paglia e pula: e così sarà fino al momento del ventilabro. Intanto domandiamoci: il Signore che scruta i cuori, mi vede come grano o come zizzania nella sua Chiesa? come chicco di frumento o come pula? Se ci vede come buon grano, ricordiamoci di vigilare per non diventare zizzania. Benché costretti a vivere in mezzo ai corrotti, teniamoci separati da loro col cuore e coi sentimenti; di sopportare con carità e con silenzio. Anche Dio ha sopportato noi quando fummo cattivi, ed ancora adesso ci sopporta perché al suo sguardo nessuno può dirsi buono; di dare buon esempio. « Siate irreprensibili e sinceri figliuoli di Dio, scevri di colpa in mezzo ad una nazione prava e corrotta, fra cui risplendete come luminari del mondo » (Phil., II, 15). – Se invece in questo momento ci vedesse come pula sulla sua aia, o come zizzania nel suo campo, convertiamoci subito. Ci sproni:

— l’esempio e la gioia dei buoni;

— l’amorosissima pazienza con cui Dio ci ha aspettati finora, ed ancora ci aspetta per stringerci al suo cuore paterno;

— il timore che il giorno della mietitura, che il momento del ventilabro sia per noi imminente. Forse sarà domani. Forse oggi stesso. – La parabola della zizzania si può benissimo applicare alla tragedia che avvenne all’inizio della storia umana. Dio è il padrone e il suo campo coltivato e seminato con amore era l’umanità. Aveva infatti creato un uomo pieno d’armonia: tutte le forze e i sensi del corpo ubbidivano all’anima, e l’anima a sua volta ubbidiva a Dio. Anzi aveva voluto abbellirlo con doni singolari di intelligenza e di volontà; non solo, ma per un atto di intelligenza ed amore immenso e incomprensibile aveva voluto farlo partecipe della sua vita divina. – Ma ecco che il nemico, in un momento di solitudine, colse l’uomo e lo indusse al peccato: il primo peccato, la prima ribellione a Dio sulla terra. La zizzania ormai era seminata. Da allora, ogni uomo che viene al mondo, sente di essere in uno stato di disarmonia e di squilibrio: i sensi tendono a ribellarsi all’anima, l’anima sedotta tende a ribellarsi a Dio. È una lotta sorda tra corpo e anima, tra anima e Dio; è una mistione di bene e di male, un ondeggiamento di luce e tenebre, una concrescita di grano e zizzania nel solco umano. – Il peccato originale è una realtà d’ogni giorno. (Ecco il primo pensiero da meditare). Di fronte a questa dolorosa realtà come si comportano gli uomini? (Ecco il secondo pensiero). Alcuni con esagerato ottimismo, altri con uno sfiduciato pessimismo. I primi proclamano che tutto è buono quel che è in noi; i secondi proclamano che tutto è necessariamente corrotto quel che è in noi. E gli uni e gli altri, per diverso motivo, s’accordano nel rinunciare alla lotta: perché  non c’è nemico da vincere, dicono i primi; perché tutto è fatalmente perduto, dicono i secondi. Gesù si pone in mezzo a costoro, e agli esagerati ottimisti dice: « Vigilate e fate penitenza »; e agli sfiduciati pessimisti dice: « Chi crede in me ha la vittoria e la vita eterna».

a) Osservate un bambino. Egli viene al mondo e i suoi buoni genitori lo circondano d’intelligenti e affettuose cure; allontanano da lui ogni cosa, ogni parola, ogni esempio che lo potrebbe male impressionare. Cresce sano e buono, già ripete con dolce trasporto le prime preghiere, già corrisponde con tenerissimo affetto all’affetto dei suoi cari; ma già si manifestano anche tendenze egoistiche, disobbedienze, bugie, pigrizie, capricci, che vuol dire questo? Non erano stati messi nel cuore soltanto semi buoni? Perché appaiono le male erbe? È che il cuore del bambino non è più una terra vergine. Il peccato originale vi ha disseminato la zizzania delle cattive inclinazioni che affiorano nell’animo quando meno ci si pensa. È verissimo che il Battesimo toglie il peccato originale, ridonando la vita divina ch’era perduta, ma ne restano le conseguenze; come quando guariti da un grave male ci trasciniamo dietro le debolezze della convalescenza.

d) Osservate un giovanetto. È vissuto finora ingenuo e pio, con negli occhi la luce delle cose belle, con nel cuore il desiderio spontaneo delle cose pure. Poi, una volta egli avverte rumore strano in sé: proprio dal fondo di quel suo cuore buono si sommuove qualcosa di torbido, e viene adagio adagio a galla, e appare nella sua laidezza accanto ai fiori dell’innocenza. Egli, per primo, è spaventato di ciò che gli è venuto in mente, lo detesta; non l’ha voluto e l’ha discacciato. Discacciato, dunque. Eppure il suo cuore già trema in un altro punto: ecco, accanto ad un gentile desiderio è sbocciato un desiderio perverso, malefico, inconfessabile. Lo vede, e s’attrista la luce delle sue pupille; egli non lo vuole, lo odia, eppure, suo malgrado, avverte una curiosità insana, una voluttà d’indugio, un fascino nefasto! – Oh! l’angoscia di questa scoperta! si ripete la dolorosa sorpresa del padrone quando intuì che nel suo campo era stata seminata la zizzania. Il peccato originale ha seminato la zizzania della concupiscenza nei profondi solchi del nostro cuore. c) Osservate un uomo. Quest’uomo sia uno dei più nobili e santi che la storia conosca: Paolo di Tarso. Grandiosi pensieri, sovrumani affetti lo trasportano a mirabili gesta, lo esaltano fino al martirio; si sente maggiore di se stesso, capace di far tutto. « Omnia Possum!». Eppure, a momenti, si ferma e trema: «Io non capisco — esclama — quello che avviene in me. Si desta una forza contro me, che vorrebbe trascinarmi a fare ciò che non voglio, e mi impedisce di fare ciò che voglio. Io, di mia vera e libera volontà, non voglio che osservare la legge di Dio; ma dalla mia carne si leva un vento furioso che cerca di rapinarmi e gettarmi contro la legge del Signore che amo. Orbene, se io faccio ciò che non voglio, c’è qualcuno in me che m’induce a farlo: chi è questo qualcuno? È il peccato… Chi mi libererà da esso? » (Rom., VII, 15-24). – Tra poco vedremo la risposta a questa implorazione pietosa; ora ci preme constatare che il peccato originale non è un male sospeso all’inizio della storia umana, ma fluisce incessantemente nelle nostre vene. Ma come si comportano gli uomini? A) Agli esagerati ottimisti: vigilare e lottare! Tolstoi racconta un episodio infantile, profondamente psicologico. Vola, un fanciullo di otto anni, va tutto felice per incarico della mamma a portare un dolce alla nonna. Ma poco dopo il fratello maggiore trova Vola nel corridoio, che piange con un piatto vuoto fra le mani. « Perché piangi? » gli domanda. «Io — risponde il piccolo singhiozzando — io non avevo intenzione… e tutto a un tratto… per caso… (si badi a questo « per caso ») l’ho mangiato ». E la mamma credeva che tu fossi contento di portarlo alla nonna, e non desiderassi che di vederla sorridere del dono!… ». «Ma. sì, — protesta il piccino, — io ero contento davvero, e non volevo che quello. Soltanto, a un tratto, per caso… mi venne in mente di assaggiarlo. Credimi, di assaggiarlo appena… Poi, non ricordo più come sia andata… Ecco che è SUCCESSO ». E torna a piangere: i goccioloni cadono sul piatto vuoto. Il grande scrittore russo ha toccato un punto essenziale della psicologia umana: «per caso »; e v’insiste tanto bene che nella sconfitta del piccino di otto anni, noi scorgiamo in germe tanti drammi della vita. Infatti, quelli che pretendono d’agire come se la nostra natura fosse tutta integra e sana, come se il peccato originale non vi stesse in agguato per travolgerci al male, cadono nell’ingenuità di quel bambino; ma. poi piangono per motivi assai più seri e per cadute assai più deplorevoli. «Io vado al cinema, alle commedie, ai balli, senza nessuna. intenzione di male, soltanto per. svagarmi un poco… ». Ma poi, tutto ad un tratto, « … per caso », non si può neanche dire come avviene… una scintilla balza da sotto la. cenere, una gran fiamma, e, addio virtù! si torna a casa con l’anima-disfatta e con l’amarezza che opprime. «Io vado all’appuntamento sola con lui solo, passeggiamo per vie meno usate; ma non c’è nessuna intenzione cattiva, perché siamo fidanzati e i genitori lo sanno, si fidano di noi che tanto spesso ci lasciano soli in casa… ». Ma, poi, tutto ad un tratto (per caso…) e, addio virtù! verrà il giorno delle nozze e si presenteranno all’altare due cuori sciupati, infangati, insozzati; e s’illuderanno che Dio su di cuori siffatti possa fabbricare la salda struttura di una buona famiglia. «Io leggo certi giornali, certe riviste, certi romanzi, non per gusto di male ma soltanto per passatempo, per cultura… ». Ma poi c’è un punto, e si sprigiona un narcotico morboso e l’anima; non si sa come, cede. Cede e non l’intendeva, non lo voleva. Si arriva fino al punto di non distinguere più il bene dal male, il frumento dalla zizzania, e si fa d’ogni erba fascio. « È un’esigenza della natura… Soffocarla è un immiserire la vita…. A tanta perversione di giudizio. conduce l’aver dimenticato che in noi ci sono le conseguenze del peccato originale, e che tutta la vita dell’uomo richiede vigilanza e mortificazione. B) Agli sfiduciati pessimisti: possiamo e dobbiamo vincere. – All’opposto, al comodo ottimismo di quelli che dimenticando il peccato originale giustificano tutti gli istinti della natura, v’è il pessimismo di quelli che li credono invincibili e s’abbandonano alla loro tirannia come a una fatalità. Anzitutto la fede c’insegna che il nostro Salvatore Gesù, morendo sulla croce, ci ha liberati dalla colpa originale infondendo nelle anime che credono in lui la sua vita divina. Inoltre ci ha meritato una tale abbondanza di grazia che ci rende capaci di superare tutte le conseguenze di una natura decaduta. Per quanto forti siano le passioni, per quanto profonde le tare ereditarie, sempre ci assiste un aiuto divino che, se vi collaboriamo con la buona volontà facendo tutto quanto ci è possibile, ci rende capaci di trionfare del male. «Chi mi libererà dalle tendenze corrotte della mia natura?» chiedeva angosciato S. Paolo. E udiva nel suo cuore la risposta che gli assicurava la certezza della liberazione: «La grazia del Signor Nostro Gesù Cristo». Con la grazia si sentiva capace di tutto: «Omnia possum». Un giorno alcuni malvagi, volendo uccidere S. Benedetto, gli presentarono da bere una coppa di vino avvelenato. Il santo fece il segno della croce sulla coppa e questa si spezzò e il vino mortifero si sparse per terra. – Un altro giorno S. Cunegonda si risvegliò per un eccessivo calore che sentiva nel sonno. Fece il segno della croce e il fuoco si spense, lasciandola illesa. Cristiani, dopo che il Figlio di Dio morì per noi sulla croce, dalla croce ci viene una forza infinita per la salvezza. Se il mondo e il demonio ci offrono la coppa avvelenata delle loro seduzioni, se le passioni provocano l’incendio intorno a noi, attacchiamoci a Cristo Crocifisso: con la preghiera, la mortificazione e la buona volontà invochiamo l’aiuto divino della sua croce, e il male non prevarrà giammai sulla nostra anima. Ma perché Gesù con la sua preziosa e sovrabbondante redenzione non ci ha liberati anche dalle perverse inclinazioni? Perché il Battesimo che ci lava dal peccato originale, non monda il nostro cuore anche dalla ripullulante zizzania? Perché bisogna ancora farsi tanta violenza per conquistare il cielo? Anche l’indemoniato di Gerasa (Mc. V, 1-20), liberato da Gesù, rivolse al Signore domande impazienti come le nostre; Lo ricordate questo infelice, invaso da una «legione» di demoni, che i suoi compaesani legavano, nudo, con catene di ferro in mezzo ai sepolcri, come se si trattasse di bestia feroce? Gesù lo liberò dai molti demoni che aveva indosso; i quali s’abbatterono su una mandria di porci e la gettarono nel lago dove affogò. Quando il giovane liberato vide Gesù che se ne andava, si mise ai suoi piedi e sollevando a Lui gli occhi pieni di lacrime implorava: « Conducimi via di qui! Conducimi con te!» Ma Gesù gli rispose di restare per dar gloria a Dio in quel selvaggio suo paese. Così, Cristiani, come la sorte di quel giovane, è la nostra. Gesù è venuto, ci ha liberati dal demonio, ha infranto le catene che ci legavano al sepolcro della morte eterna, ci ha rivestiti con lo splendore dei suoi meriti, ma non ci ha ricondotti nel paradiso terrestre. – Ci ha lasciati qui a lottare, su questa terra piena di seduzione, con questo fragile nostro cuore di cui non possiamo mai fidarci. Perché? È difficile dirlo, perché la sapienza delle disposizioni divine è spesso così profonda che alla nostra mente riesce misteriosa. Certo è per un nostro più grande bene, per una sua gloria maggiore. Inoltre, bisogna riflettere che Dio non ha voluto salvarci quasi non fossimo persone dotate d’una loro volontà e capaci d’una loro azione; quasi fossimo cose inanimate e non uomini. L’Amore infinito ebbe un gran rispetto della nostra personalità; ci dona la redenzione, ma insieme ce la fa conquistare; ci offre la salvezza, ma senza toglierci l’onore e la gioia di meritarla. Pertanto, rivestiamoci con le armi della luce e della giustizia, e combattiamo senza vili compromessi, nell’attesa del suo ritorno. Quand’Egli tornerà, beato l’uomo che avrà trovato al suo posto, fedele e vigile in arme!

IL CREDO

Offertorium

Ps CXXIX:1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta


Hóstias tibi, Dómine, placatiónis offérimus: ut et delícta nostra miserátus absólvas, et nutántia corda tu dírigas.

[Ti offriamo, o Signore, ostie di propiziazione, affinché, mosso a pietà, perdoni i nostri peccati e diriga i nostri incerti cuori.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24

Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Quǽsumus, omnípotens Deus: ut illíus salutáris capiámus efféctum, cujus per hæc mystéria pignus accépimus.

[Ti preghiamo, onnipotente Iddio: affinché otteniamo l’effetto di quella salvezza, della quale, per mezzo di questi misteri, abbiamo ricevuto il pegno.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (180)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO TERZO

LA CHIESA

II. — I caratteri divini della Chiesa.

b) L’unità della Chiesa.

D. Oltre alla sua origine e alla sua perpetuità, la Chiesa, secondo te, ha altri caratteri divini?

R. Ve ne sono quattro che si presentano tradizionalmente come i più notevoli, e per questa ragione si chiamano note o segni caratteristici della Chiesa. Noi li abbiamo inclusi or ora in una veduta generale; e sono l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità.

D. Come intendi l’unità?

R. Noi l’intendiamo di una sola credenza, di un solo governo, di un solo culto; e ciò per tutti i tempi e per tutti i paesi come in ciascun tempo e in ciascun paese. Perché tale è la prima necessità di questo gran corpo.

D. Non vi sarebbero dunque, in tutto questo, varietà e variazioni?

R. Ve ne sono e ve ne devono essere. Ma qui noi parliamo dell’essenziale.

D. Perché questa unità?

R. Perchè l’unità è la realtà stessa, perché soprattutto l’unità e la vita non sono che una sola cosa. Ma inoltre ricorda quale vita e quale realtà sono quelle della Chiesa. Se la Chiesa non è altro che l’unione di Dio con l’uomo e l’unione dell’uomo con Dio sotto una forma sociale, come mai vi sarebbero più Chiese, o come mai vi sarebbe divisione nel suo seno riguardo a ciò che precisamente ci aduna? Pluralità di Chiese significherebbe o pluralità di Dio, o pluralità dell’uomo secondo che egli ha rapporto con Dio. Se Dio è uno, e se anche l’uomo è uno, in Cristo, per unirsi a Dio, non ci può essere che una Chiesa. Da Dio e dall’uomo, in essa, sorge una nuova unità: quella dell’organismo umano-divino del quale Cristo è il capo, e tutti gli uomini sono chiamati a diventarne i membri, e lo Spirito Santo ne è l’anima. Perciò noi diciamo della Chiesa che essa è l’Incarnazione continuata, cosa necessariamente una. Il corpo di Cristo è forse diviso? dice S. Paolo. Non vi è che un Signore, una fede, un battesimo, un Dio padre di tutti, che (agisce) per mezzo di tutti, che (è) in tutti.

D. Dicevi poc’anzi che solo recentemente la Chiesa ha operato il suo ultimo concentramento: sarà dunque perché fin qui non era una.

R. La Chiesa fu sempre una; ma vi sono dei gradi nell’unità come ve ne sono nella vita, che noi diciamo confondersi con essa. Un organismo si unifica tanto più quanto più cresce la sua differenziazione e si moltiplicano le sue funzioni, purché questa differenziazione e quest’accrescimento di funzioni procedano dall’interno stesso, dal principio iniziale che cerca di rivelarsi in un modo sempre più ricco. L’uomo è più che un protozoo; questo, sezionato, sussiste: provati a segare un uomo! Così la Chiesa oggi, molto più complicata di quella dei primi tempi, e anche più una, perché la sua complicazione è il risultato d’un rigoglio interno, quello del principio divino che si vuole manifestare di più, e per questo si crea degli organi, ma senza cessare di dominarli, di orientarli verso i suoi propri fini, tanto più che il loro numero è più grande e più grandi le loro risorse.

D. Non vi sono nella Chiesa delle crisi di unità?

R. La vita sociale, religiosa o civile, come pure la vita individuale, è una serie di crisi che si sciolgono. L’essere ben costituito, tanto più l’essere divinamente costituito, trae di lì il suo progresso e fa l’opera sua.

D. Le crisi vanno crescendo con l’unità?

R. Le crisi vanno forse crescendo in numero, in ragione delle complicazioni nuove; ma decrescono in importanza coi progressi dell’unità. Oggi non si vede più la possibilità dell’arianesimo, del grande scisma d’Occidente, dello scisma greco, della riforma. Gli assaggi di dissidio, in Francia, nel momento della separazione, sono caduti nel ridicolo; la crisi modernista fu prontamente vinta. Ogni volta che una tale prova infierisce, una reazione unitaria viene a dimostrare la volontà di vita in uno che conserva la Chiesa.

D. Dici che l’unità si limita all’essenziale: in che consiste l’accessorio?

R. Consiste in differenze alle volte notevolissime, benché secondarie, in materia di credenze, di pratiche, di vita rituale, ecc., differenze che la Chiesa accetta oppure rifiuta di lasciar ridurre, perché essa le giudica utili, ad ogni modo normali, a condizione di mantenersi nei limiti.

D. Chi fissa i limiti?

R. La Chiesa stessa, solo giudice dell’anima sua e di ciò che rispetta, serve od offende l’anima sua.

D. Questa tolleranza ha anche i suoi periodi di tempo?

R. Normalmente essa cresce con l’unità di concentramento che ho descritto. Si è molto più facili circa i particolari, quando si è sicuri dell’insieme. Se Leone XIII e i suoi successori poterono sciogliere i riti orientali, è perché il Concilio Vaticano assicurava ugualmente l’unità, e se domani qualche genio incorpora alla teologia cristiana tutto il contributo contemporaneo, sarà perché prima si saranno ben notate le frontiere tra ciò che è acquisito e irreformabile da una parte, e dall’altra ciò che rimane pieghevole e che è materia di avvenire.

D. Perché l’avvenire apparterrebbe tutto alla tua Chiesa? Perché non vi sarebbe, più tardi, un’altra Chiesa?

R. Ci vorrebbe per questo un altro Cristo; ci vorrebbe una nuova incarnazione, e a che pro? Che farebbe il nuovo Cristo, che non abbia fatto e per sempre il primo? Che nuova materia d’azione, quando Gesù si è rivolto a ogni carne e ha inteso di unire a sé tutto il genere umano? Vi può essere un nuovo Adamo? Dunque, non è possibile, parimenti, che vi sia più un nuovo Cristo, un nuovo corpo di Cristo così come chiamiamo la Chiesa.

D. Il nuovo venuto potrebbe essere un nuovo profeta, un annunziatore.

R. E che cosa annunzierebbe? Parlando nel suo proprio nome, indipendentemente dalla divina parola già udita, egli non sarebbe che un anticristo; parlando nel nome di Cristo e nel senso di Cristo, non farebbe altro che spiegare, sviluppare, e a questo fine basta la Chiesa. Lo Spirito divino in missione permanente in mezzo a noi non ha altro compito. Venga pure un annunziatore, ma parlerà secondo questo Spirito; spiegherà il Cristo; egli sarà nella Chiesa.

D. Tu rifiuti dunque anticipatamente ogni nuovo Messia?

R. Lo stesso Gesù ci mise in guardia: « Se qualcuno vi dice; Cristo è qui, o: Egli è là, non lo credete ». Del resto quei che sognano rivelazioni successive e attendono dei nuovi Messia, anzitutto sono in ritardo; infatti, per quanto è possibile prevederlo, il conflitto dell’avvenire, come quello del presente, sarà questo: il Cristianesimo, o niente. Ma, ad ogni modo, costoro fanno Gesù diverso da quello che Egli è; vedono in lui il rabbino galileo di Renan, e non il Figliuolo dell’Uomo.

c) La Santità della Chiesa.

D. Hai parlato di santità: pretendi forse che la tua Chiesa sia una società di santi?

R. È anzi piuttosto una società di peccatori, poiché è una società di uomini. Ma se gli uomini ne sono la materia, la Chiesa stessa, nella sua realtà totale, è tutt’altro. In grazia di Cristo e dello Spirito di Cristo, essa è un composto umano-divino, e questo composto, disponendo degli influssi di Dio sotto tutte le forme richieste da questa vita a due che Dio propone all’umanità, non può essere che santo e santificante, checché ne sia delle miserie de’ suoi membri. La Chiesa è santità in Dio; la Chiesa è santa perfettamente in Cristo; è santa ne’ suoi mezzi usciti da Dio e da Cristo; aspira solamente ad essere santa in tutti i suoi membri.

D. Non basta questa mescolanza per paralizzare la sua azione?

R. La mescolanza del bene e del male nella Chiesa la incomodò sempre, ma non la potrebbe paralizzare. Anche un grano impuro germoglia, purché le sue impurità non tocchino il potere di germinazione nel suo centro. Qui il centro è divino; la tessitura stessa è divina e non potrebbe perire.

D. Si possono dunque esigere degli effetti di santificazione?

R. Teoricamente, no; perché questi effetti di santificazione hanno per soggetto delle creature libere. L’opera d’arte non è mai sicura di riuscire, quando la sua materia ha il potere di rifiutarsi. Dipende da ciascuno di noi per parte sua il tenere in scacco la santità della Chiesa, secondo che essa consiste in una estensione del suo valore. La Chiesa sarà nondimeno, nel suo fondo, santa e santificante, avendo sempre in sé lo Spirito e tutto il sistema de’ suoi mezzi di espansione.

D. Tu dici che questa risposta è teorica.

R. Unicamente teorica di fatto. Giacché l’umanità è ciò che è, composta di cattivi e di negligenti indubbiamente, ma anche di grandi anime e di anime di buona volontà; se nella Chiesa non vi fossero dei frutti visibili di santità, a buon diritto si dubiterebbe del suo valore santificante. L’albero si riconosce da’ suoi frutti, dice il nostro Vangelo.

D. Non temi che questa massima si rivolga contro di te?

R. La Chiesa non la teme; anzi l’invoca. Il germe che ha germogliato a dispetto delle sue impurità non dimostra forse la sua qualità intima e la sua autenticità in quanto grano di una certa specie? La Chiesa, non ostante i vizi de’ suoi fedeli o de’ suoi dirigenti, ha prodotto della santità nel mondo; si può dire che essa ne ha coperto il mondo: perché appunto vi era in essa un germe divino.

D. Non siete forse soddisfatti a troppo buon mercato?

E. La Chiesa è lontanissima da un contentamento ottimista; non è essa l’eterna brontolona che sempre dispera delle nostre bassezze, motivo per cui anche le nostre bassezze spesso si esasperano? Ciononostante, ambiziosa di assoluto, essa, a chi le domanda dei santi, ne può mostrare delle gloriose falangi. – Avevamo riconosciuto più sopra che nessun gruppo religioso ne può anche lontanamente offrire l’equivalente.

D. Essa non ha cambiato il mondo.

R. Anche i discepoli di Emmaus, il giorno dopo la Risurrezione, al principio dell’opera reale di Cristo, dicevano: « Noi credevamo che Egli avrebbe riscattato Israele ». L’opera della Chiesa è l’opera umana sopra la terra; essa è laboriosa; e, come ho detto, dipende da noi stessi, e il mondo non è finito,

D. Non vi sono dei tempi in cui la Chiesa pare diseredata di santità?

R. Solo la forma cambia. Là dove manca l’estensione, si osserva una concentrazione. Quando i canali regolari della grazia si chiudono, la grazia erompe, qua o là, in getti mirabili, e i periodi ingrati della storia contano i più grandi Santi,

D. Questi sono degli individui; ma vi è anche una santità sociale.

R. Noi ne abbiamo trattato, come dell’altra, a proposito della vera religione. Abbiamo dovuto confessare che la morale evangelica messa in opera nella Chiesa e per la Chiesa, nelle società cristiane, è alla base della civiltà.

D. La Chiesa cattolica vi ebbe una parte preponderante?

R. Fino alla riforma, ciò non si può mettere in dubbio. Dopo la riforma, ciò è anche più certo.

D. Tuttavia si sente dire che le società protestanti, sono superiori, moralmente, alle società cattoliche.

R. A questo darò una triplice risposta. Guardando alle apparenze, si potrebbe credere che certi gruppi protestanti son di fatto di una moralità e di una religione superiore, almeno sotto certi aspetti. Ma quando si è abbastanza informati da andare a fondo delle cose e si generalizza, il giudizio cambia. – In secondo luogo, se tu consideri la parte eletta, che permette un più giusto apprezzamento, la bilancia trabocca totalmente in favore della parte eletta cattolica. – Finalmente, e qui sta il principale, cerca dove sono i Santi, cioè gli eroi religiosi, quelli che, in grazia di quell’alto misticismo che prova l’unione con Dio, manifestano appieno la portata e la fecondità del principio: essi sono una pleiade nel Cattolicismo; non se ne vedono nel protestantesimo. Il protestantesimo alberga molte nobili anime; se ha prodotto dei santi, fu nel segreto; storicamente, in ciò che si vede, che solo è in causa per noi, si ha il diritto di dire: Esso non ha prodotto dei santi; non ha dei genii religiosi; non ha degli eroi. Ora, se tu volessi stabilire tra due eserciti una scala comparativa di valori, non parleresti anzitutto delle unità eminenti, dei grandi soldati, dei grandi capi, dei grandi duci, degli eroi? Così si giudica, nel fatto, il principio vivificante della Chiesa.

D. Tu attendi dall’avvenire un grande sforzo di santità nuova?

R. Ancora una volta, che l’opera dello Spirito si compia, dipende da quelli in cui lo Spirito lavora. Ma noi non temiamo uno scacco che supporrebbe o una malizia sovrumana dalla parte degli uomini, o un rifiuto della misericordia dalla parte di Colui che disse: La mia misericordia è più grande del tuo peccato, o Israele. «Io credo, scriveva Ozanam, al progresso dei tempi cristiani; e non mi spavento delle cadute e dei traviamenti che lo interrompono. Le fredde notti che succedono al calore dei giorni non impediscono all’estate di seguire il suo corso e di maturare i suoi frutti ».

IL SACRO CUORE DI GESÙ (48)

IL SACRO CUORE (48)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO TERZO.

PRIMO SVILUPPO DELLA DEVOZIONE (SECOLO XVI)

IV.

LA SPAGNA E L’ITALIA: MISTICI ED ASCETI – SCRITTORI DIVERSI

Luigi Garcia. – I B. Anyès – Pietro d’Alcantara e Francesco Borgia. — Giovanni d’Avila. – Luigi di Granata. – Santa Teresa. – S. Alfonso Rodriguez – Baldassare Alvarez. -— Anna Ponzia di Leoni – Sancha di Carillo – Vittoria Colonna Caterina dei Ricci – Maddalena dei Pazzi – Scrittori ascetici, esegeti, teologici. – Fatti diversi.

La Spagna merita una menzione speciale in questa prima fioritura. 1 suoi preti hanno cantato la nostra divozione, i suoi mistici l’hanno vissuta, i suoi scrittori ne hanno parlato. Non sappiamo precisamente ciò che si trovava in certi versi catalani scritti per una giostra pubblica nel 1456 da un prete di Valenza, Luigi Garcia, il titolo dei quali mostra che erano « in onore del sacratissimo Cuore di Nostro Signore Dio, Gesù Cristo », perché la composizione è perduta (Secondo il P. Fita, Apuntes para formar una biblioteca hispano-americana del Sagrado Corazon de Jesus, Barcelona 1874, p. 6). Ma ci rimane un testimonio prezioso, il più antico nel suo genere, della devozione spagnola al cuore di Gesù. A Valenza, infatti, appariva sino dal 1150, una specie di Piccolo Ufficio del sacro Cuore, sotto il titolo: Septem hore precariae ad Christi cor, perstringentes precipuos Pas:sionis Domini actus ab ejus captione in sepulturam. L’opuscolo è di I. B. Anyès, pio e sapiente prete spagnuolo, di S. Francesco Borgia e di santa Teresa. Esso è dedicato a una parente di san Francesco Borgia, che era badessa del monastero di santa Chiara a Candia. È tutto in versi, meno l’orazione. Ogni piccola ora contiene in cinque versi una menzione del sacro Cuore, in rapporto con una delle scene della Passione, seguita da un distico, che costituisce versetto e responsorio, e dalla orazione che non variano. È molto pio e non si discosta dalla linea della divozione. Ecco, perché se ne abbia una idea, l’Ad Matutinum (Testo in NILLES, t.II, p. 221-223; testo e traduzione francese nella Petite anthologie du Sacré-Caur de Jésus, del P. Francesi, Tournai, 1903, p. 9-13)

Cordis pura tui puro præconia corde

Da modulis celebrare piis mihi, dulcis Iesu;

Corde ut agone tuo tecum certemus amaro,

Vincti et amore simul tua vincula dura feramus

Atque alapas animo, verbera, sputa, pio.

V). Cor mundum da, Christe, pii da flumina fletus.

R). Plangamus pœnas corde animoque tuas.

Oremus. Bonorum omnium largitor Deus, qui omnes thesauros tuos in cordis Filii tui Domini nostri Jesu Christi, arca recondisti, ut in cruce militis aperta lancea eos in pauperes miseros liberalis effunderes: quæsumus, ut cordibus nostrìs ita illos recondas, ut vita et mortis ejusdem Filii tui semper memores, digni efficiamur gloria resurrectionis. – Per eumdem….

Ecco, dopo compieta, la preghiera finale intitolata

Commendatio;

Cordis diva tui cecini præconia, Christe,

Pleni divitis deitatis: lucis, amoris,

Flaminis et vitæ. Toto fac corde animoque

Te deamem, cupiam, quæram, inveniam, teneamque

Post mortem ut cœlo te super astra fruar.

I grandi mistici ed asceti spagnoli non hanno dato un posto alla nostra divozione. Nondimeno non l’hanno dimenticata. Senza parlare di S. Pietro d’Alcantara (1499-1562), né di S. Francesco Borgia (1506-1566), nei quali. la divozione al cuore non si libera ancora, o molto poco, dalla divozione alla piaga del costato, possiamo segnalare casi e testi precisi in cui l’attenzione quantunque fissata principalmente sulla piaga del costato, distingue pertanto il cuore e la ferita che gli ha fatto l’amore, ben più che il è ferro crudele d’una lancia » (La parola è di S. Pietro D’ALCANTARA, Traité de l’Oraison, 1.a parte, c. 4. Per il sabato. Ediz. Migne, Oeuvres de sainte Therése, t. Ill, p.-332, Cf trad. 1. Bourx, 1862, p. 148. In questo stesso luogo il cuore è rammentato: « Dio ti conservi, preziosa piaga del costato che ferisci i cuori devoti rosa d’ineffabile bellezza, rubino di valore inestimabile, ingresso al cuore di Gesù Cristo, testimonianza del suo amore e pegno della vita eterna ». Al principio del capitolo, il santo autore, indicando la maniera di meditare sulla Passione, raccomanda d’insistere sulle sofferenze interne dell’anima, ma non nomina il cuore. La parola citata nel testo, si ritrova in Lours GRENADE, De l’Oraison et de la considération, 1.a parte, c. 2. Per il sabato; Oeuvres complètes, traduzione Bareille, Parigi 1863; t, II, p, 83. I due passi sono identici. Vedi: Franciosi col. 309 e col. 325. Sui rapporti fra le due opere, vedi, per lo stato attuale della questione: Villien, Pierre d’Alcantara ou Louis de Grenade? nella Revue du clergé francais, t. LXXXII, p. 65-69 – aprile 1915. Franciosi, riporta la bella preghiera di san Francesco Borgia alla piaga del costato).

Ecco da prima, il beato Giovanni d’Avila.

Il B. Giovanni d’Avila, morto nel 1569, ha parlato del sacro Cuore meno di Luigi di Blois, di Lansperge e di san Francesco di Sales. Si è anzi sorpresi che egli gli passi spesso così da vicino, per così dire, senza vederlo (Così nel Discours de l’amour de Dieu, c. 4 e 5, egli insiste sull’amor di Gesù morente in croce per noi, sulle ferite fatte dalla corona di spine e dai chiodi, ma niente sulla ferita del cuore. Les Oeuvres du B. Jean d’Avila, Paris Arnauld d’Andelly, Paris 1673, pag. 494-497). Qualche volta, però, lo nota e ne parla. Allora egli si ferma da vero devoto del sacro Cuore, e, senza osservazioni teoriche, né spiegazioni, ci mostra la devozione in atto. Spiegando la maniera di meditare sulla vita di Nostro Signore egli scrive: « Considera…. ciò che egli soffriva…. e ascolta le parole uscite dalla sua bocca. Ma soprattutto fissate lo sguardo dell’anima sua al sacro Cuore, con un sentimento vivo e tranquillo, per vedere come l’amore di cui arde per tutti gli uomini, sorpassi tanto ciò che apparisce al di fuori delle sue sofferenze, quantunque siano inconcepibili quanto il cielo è al disopra della terra » (Trattato Audi filia, c. 74, p. 674 Ho verificato la traduzione sul testo spagnuolo: Obras del Ven. Maestro Juan de Avila, Madrid 1759, t. IV, p. 10-32-33, ma vi è l’essenziale.). Egli ci insegna dunque ad entrare nel « santo dei santi » considerando « il cuore di Gesù Cristo che non solo è santo, ma la santità stessa ». – « Perchè, continua egli, non essendosi contentato di soffrire esteriormente, ma avendoci amato dal fondo del cuore, non deve bastare a voi di considerarlo ed imitarlo nelle sue sofferenze esteriori, ma dovete entrare nel suo cuore, per considerare ed imitare quello che vi avviene ». Eccoci qui in piena divozione al sacro Cuore. Ciò che segue è ancor più espressivo. « Per renderci questo più facile, Egli ha permesso che dopo la morte un colpo di lancia gli trafiggesse il costato per aprire una porta attraverso la quale potessimo entrare in quel cuore e vedervi ed ammirarvi le meraviglie onde è pieno ». Una volta giunti là, Egli ci fa meditare amorosamente l’amore di Gesù nelle sue sofferenze e le ricchezze del divin Cuore. « Tutto quello che Gesù Cristo ha fatto in nostro favore, è meraviglioso, ma ciò che ha sofferto lo è molto di più. Ma se si considerano quali erano i suoi sentimenti per noi, nel più forte dei suoi dolori, si può, forse dimenticare tutto il resto e trattenersi dall’esclamare: Chi è simile a Voi, o Signore? Quando dunque, figlia mia, vedrai in spirito che Gesù vien legato con corde, che lo si schiaffeggia, che si incorona di spine, che si configge con chiodi su di una croce e che vi soffre la morte, pregalo di accordarti la grazia di comprendere come può farsi che Egli essendo onnipotente si lasci trattare così; e San Giovanni vi risponderà che è perché ci ha amato e ha voluto lavare, nel suo sangue, i nostri peccati. Medita bene queste parole, imprimile nel tuo cuore e pensa e ripensa all’eccesso di un tale amore ». (Audi filia c. 78, p. 684-685). Seguono delle pie considerazioni su questo amore così generoso e disinteressato: il tutto nel senso della devozione al sacro Cuore. – Il Venerabile Luigi de Granada, O. P. (1505-1588) si esprime spesso a poco come il beato Giovanni d’Avila, salvo forse, che egli fa maggior eco di pensieri tradizionali e ne ripete le principali espressioni: « Nostro Signore, per un divino consiglio ha voluto che il suo costato fosse aperto da una lancia, per farci comprendere che per l’apertura delle sue piaghe noi dobbiamo entrare nel suo cuore e nei segreti della sua divinità » (Addition au Mèmorial, 2.° tratt., Avant-propos, c. l., Oevres spirituelles, traduites par M. Giraud, Paris, 1679, p. 1679, p. 916. In Franciosi, col. 325. La traduzione di M. Bareille risveglia meno chiaramente l’idea del cuore simbolico, ma il senso è lo stesso. Oevres complètes, Paris, 1863, t. XIII, p. 196. Ho verificato i testi sullo spagnolo: Obras del Ven. P. M. Fray Luis de Granada, repartitas en tres tomos, Madrid 1701. Quello che precede è al t. I, p. 823 col. I.). Egli dice altrove, a San Pietro d’Alcantara (testo e note), dove il cuore è espressamente nominato: « Aprimi, Signore, aprimi questa porta, ricevi il mio cuore in questa deliziosa dimora e per essa dammi libero passaggio sino al più intimo del vostro sacro Cuore! (a las netranas de tu amor). Che io mi disseti a questa sorgente deliziosa, che mi purifichi in questa acqua santa, che mi inebri di questo nettare prezioso. Lascia che l’anima mia si addormenti nel tuo cuore divino (en este pheco sagrado), e la dimenticherò tutte le vane cure del mondo » (Traitè de l’Oration, 1.a parte, c. 2, Meditation pour le samedi. In Franciosi, col. 325-326. Obras t. I, p. 233-234. Abbiamo già notato l’identità di questo passo con quello di san Pietro d’Alcantara ibid. Col. 309. Ma s. Pietro d’Alcantara si ferma meno al cuore. Qui ancora la traduzione di Mareille è meno espressiva, ma dice la stessa cosa. Oevres complètes, t. II, p. 83). – Nel Memoriale (trattato V. c. 10, n. 8) si trova un’altra preghiera a Gesù, contemplando il tuo costato trafitto: « Io ti ringrazio, o mio dolce Gesù, per aver voluto che il tuo dolcissimo cuore (coraçon) fosse aperto dalla lancia del soldato e che ne uscisse sangue ed acqua, per lavare le anime nostre e dar loro la vita. Oh! se ferissi il mio cuore con la lancia del tuo amore in maniera che non potesse d’orinnanzi volere altra cosa se non quello che tu vuoi! Che l’anima mia, abbia accesso, per la piaga del tuo costato, nel santuario tuo tuo amore, nel tesoro della tua divinità, per adorarti … e, strappando dalla mia memoria l’immagine di tutte le cose visibili, non mi occupi più che di te, non veda che te, sempre ed in tutte le cose (Traduzione diretta dallo spagnuolo, Obras, t. 1, p. 583; col. I.). – La stessa via, santa Teresa (1525- 1582) indicava al vescovo di Osma, tracciandogli,  dietro sua richiesta, un metodo d’orazione. « La piaga. del suo costato, per la quale ci lascia vedere allo scoperto il suo cuore, vi rivelerà  se l’indicibile tenerezza d’amore che ci ha indicato, volendo che questa sacra piaga fosse il nostro nido e il nostro asilo, e che ci servisse di porta, per entrare nell’arca, nel tempo delle tentazioni e delle tribolazioni. Voi lo supplicherete che, come ha voluto che il suo costato fosse aperto per prova dell’amore che ci porta, così faccia, per bontà sua, che si apra a sua volta, per discuoprirgli le nostre miserie e domandergliene, con successo, il rimedio. (Lettres, traduzione Bovix, t. III, p. 336. Citato da Franciosi, col. 321 Come si vede è l’idea tradizionale che esprimevano alla lor volta s. Pietro d’Alcantara e Luigi di Granata nei passi citati. La medesima idea nel P. Bernardo d’Osimo, Méditations sur la Passion du Christ, Avant-propos, p. 3 e segg. Citato dal P. Henry pe Grèsez, p. 185-186.) La stessa santa ha espresso in uno squisito volumetto una delle grandi verità della vita soprannaturale, la nostra dimora in Dio e la dimora di Dio in noi per amore, sotto forma di presenza reciproca nel cuore. Il pensiero del cuore materiale è poco marcato in questo documento; mi sembra, non pertanto, che vi si ritrovi. « L’amore, o anima, ha potuto tracciare in me il tuo ritratto in tal modo, che il pittore più abile non avrebbe saputo produrre una simile immagine. È il mio amore che ti ha formata, bella da rapire, e che ti ha così dipinta nel mio cuore che, se tu ti perdessi, anima cara, bisognerebbe ricercarti in me. Io so che tu ti troveresti impressa e riprodotta sì al vivo nel mio cuore, che se tu ti vedessi, ti rallegreresti vedendoti così ben riprodotta » (Vedi Histoire de sainte Thérése, secondo i Bollandisti, t. II, p. 507, Paris 1886. Sul senso preciso del documento e sua verità profonda, vedi: Nature et surnaturel, 4a ediz., Parigi, 1911. Prefazione, p. XIX e seguenti). – Medesime idee e medesime esperienze mistiche in sant’Alfonso Rodriguez (1534-1617), umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, quando spiega « come l’anima abita per la contemplazione nel cuor di Gesù, e come Gesù per il grande amore che le porta, se la ponga nel suo proprio cuore ». Egli mostra l’anima pia che legge sul santo volto di Gesù i dolori del suo cuore e dell’anima sua che beve, per la compassione, alla sorgente da cui provengono, sorgente che non è altro « che il cuore di Cristo ». « Allora lo stesso Cristo, la conduce sin nell’interno del suo cuore; ed essa, una volta entrata in quel cuore, in quell’oceano di tribolazione e di angoscia, gli tien compagnia…. E, siccome questo santo cuore è un fuoco d’amore, essa s’infiamma là, di un fuoco d’amore, e gli ardori che Gesù le comunica son così vivi che ei la trasforma in sé stesso, presso a poco come fa con il ferro il fuoco materiale, quando è grande; penetra al punto che il ferro sembra fuoco. Così immersa tutta in quel ritiro del Cuor di Gesù, l’anima gode di ciò che questo dolce Salvatore, che l’ama tanto, le comunica di se stesso, rivestendola, da capo a piedi dei suoi grandi dolori e delle sue sofferenze »

(De la union y transformacion del alma en Christo, c. 7 – nelle Obras espirituales del B. Alonso Rodriguez, ordenados y publicadas por el P. Jaime Nonell, t. Il, p. 140-1411, Barcelone, 1886. Traduzione in francese; un po’ libera, ma esatta, in LETIERCE t. I, p. 52-53: L’opuscolo intiero è stato tradotto dal P. de Bénazé, Union et transformation de l’ame en Jésus-Christ suivie de L’explication des demandes du Pater. Nuova edizione, Paris–Lille, 1907, II c. VII, qui accennato, è alla p. 65 e seguenti. Si trovano delle analoghe nella 10.a meditazione del santo sulla Passione. Obras, t. I, p: 373; e nelle considerazioni che seguono, intitolate:  De quelques manières d’union et de transformations de l’Ame en Jésus-Christ, lui demeurant en elle, et elle dans le coeur du Christ». Obras, t. I, p. 374-376.).

Il P. Luigi du Pont ci mostra in simile modo Baldassare Alvarez (1533-1580) « che entra del cuore di Dio fatto uomo e che sale poi per immergersi nei misteri di Dio che è trino nelle Persone ed uno nell’essenza ». (Vie de P. Balthasar Alvarez, traduzione Bouix, p. 24, citato da Franciosi, col. 321). – Prima di lasciare la Spagna, segnaliamo ancora il caso di mistiche che, nel XVI secolo, ci sono indicate come aventi intimi rapporti col sacro Cuore. Una di esse è Anna Ponce de Leon, e di Feria, che si fece clarissa nel convento di Montilla presso Siviglia, sotto il nome di suor Anna della Croce. Ad essa  Luigi de Granata dedicò il Supplemento al Memoriale: Racconta ella stessa che Nostro Signore le fece comprendere un giorno come dovesse riguardare il suo Cuore come il suo unico bene, mettere in Lui tutta la sua confidenza e ricever tutto come se venisse da questo cuore amantissimo. Un’altra volta, Egli le apparve, mostrandole il suo cuore ferito, e dicendole: « È il mio amore per te che mi ha ferito così. In compenso io desidero che tu ti dia tutta a me» (P. Martinez DE Roa, s. j., Vida maravillosa de D: Anna Ponce de Leon, 1. 1, c.-7, e 1.2; c. 2; secondo i Padri Martorell, e Castella, Theses de cultu S. Cordis Jesu, editio 3a, Barcellona, 1880, p. 24). – Sancia di Carillo, vide un giorno il cuore di Gesù così Infiammato da un accesso di amore per gli uomini, che neppur quegli che potesse penetrargli nel cuor e veder quest’amore, non potrebbe comprenderlo. Dal centro del Cristo, uscivano dei raggi d’amore che arrivavano agli uomini, a tutti e a ciascuno; passati; presenti o da venire » (P. Martinez De Roa s. j., Vida y maravillosas virtudes D. Sancha de Carillo, t. 2, c. 12; secondo il medesimo, ibid.). – In Italia vediamo pure menzione del sacro Cuore fra le mistiche dell’epoca. La venerabile Madre Clara Maria della Passione, Vittoria Colonna, fondatrice delle Carmelitane di Regina cæli a Roma (morta nel 1575), racconta che l’anima sua fu attratta, un giorno, « con una, forza deliziosa, nel sacro costato di Gesù Cristo e sino nel suo cuore…. Io comprendeva, dic’ella, che questo cuore divino è pieno d’amore; ma di un amore così puro, che non ha parole per esprimere. Io vedeva l’anima mia come immersa in quel cuore…. e, sentendomi così nel cuore di Gesù Cristo, conoscevo con chiarezza ed efficacia e insieme con gioia inesplicabile, che quel luogo, cioè il petto e il cuore di Gesù, era un luogo eminentissimo » (Vita pubblicata a Roma nel 1681, 1. 2; c. 9, citata da Gallifet l. 3, c. 3, p. 198.). – La vita di santa Caterina dei Ricci (1522-1590) ci offre diversi tratti di divozione alla piaga del costato, dove il pensiero del cuore, senza pur mancare, non è espresso direttamente: accanto a questi tratti, però, si trova una specie di scambio dei cuori, come fu per santa Caterina da Siena, ma dove il realismo del simbolo, impallidisce molto più dinnanzi alla realtà simboleggiata. In una delle sue estasi, ella vide la santa Vergine che la prendeva per mano e la conduceva al suo divin Figliuolo. « Figlio mio diss’ella, ecco che io ti presento la nostra carissima vergine Caterina, che implora, dalla tua tenerezza, la grazia di cambiare il suo cuore di carne, in un cuore tutto celeste, affinché prendendo un cuore simile al tuo, possa esser più degna di te. — O mia cara Madre, rispose Gesù, ti ho io forse mai rifiutato cosa alcuna, e non è forse il tuo cuore la via naturale che con luce al mio cuore?…. Sarà fatto come tu domandi. E poi mia carissima figlia Caterina, ricordati che da questo momento non ti appartieni più e che sei tutta mia, poiché ecco che io purifico il tuo cuore da ogni affezione che non sia per me, e lo riempio del mio solo amore ». Nostro Signore, toccò allora con la sua mano divina, il costato sinistro della santa, mise in lei un cuor nuovo…. Quando ella si sentì battere questo cuore, nel petto, uscì dalla sua estasi esclamando: « Non sono più io che vivo, è Gesù Cristo che vive in me » (Vedi Messager du Sacré-Coeur, febbraio 1862, t. I, p. 282. In Franciosi, col. 328). – Santa Maddalena dei Pazzi (1566-1607) ricevé un giorno da Nostro Signore la promessa che le avrebbe dato il suo cuore, ed ella pregava i suoi santi preferiti, perché l’aiutassero a riceverlo. E diceva pure a Nostro Signore con profonda umiltà: « 0 mio Gesù, io te ne prego, fai che nessuno sappia che mi dai il tuo cuore ». Allora, infiammata d’amore, si struggeva per la dolcezza, e, aprendo le braccia, e sporgendosi verso il suo Sposo, ne ricevé il cuore, E dopo questo favore inestimabile, incrociò le braccia sul petto in forma di croce come per rinchiuderlo nel suo proprio cuore (Vita del P. Vincenzo Puccini, 2. parte, c. 5, n. 200-204, Acta Sanctorum, t. XIX, maggio 6, ad diem 25; P. 229-230, in FRANCIOSI, col. 345-346.). Questa stessa santa ha detto di san Luigi Gonzaga quella bella parola, così spesso citata: « Oh! come ha egli amato sulla terra! Egli lanciava delle frecce al cuore del Verbo…. Ed ora, che è in cielo, quelle frecce si accolgono nel suo proprio cuore, perché comprende bene, adesso, e gode quegli atti di amore e di unione…. ai quali si esercitava » (Ibid. p. 212. In Franciosi, col. 329). Io non saprei dire se il pensiero del sacro Cuore, si trova espresso in questo tratto; ma la sola scelta delle espressioni vale a dimostrare come le formule più espressive della vita cristiana si combinino, naturalmente, con quelle della nostra divozione. – Non è possibile notare tutti gli autori; teologi, esegeti, asceti, oratori che hanno parlato del sacro Cuore nel corso del XVI secolo, nominerò, almeno, i principali. Da prima i Francescani Niccolò Factore (1520-1583) che, per arrivare alla contemplazione, raccomanda la divozione al costato trafitto e al cuore di Gesù (Vedi il P. Henry de Grézes, p. 182); Bernardo d’Osimo (morto nel 1591), e che fu per sei anni provinciale dei Cappuccini di Parigi (1681-1587), parla della piaga del costato e del cuore in termini degni di San Francesco di Sales (Testi del suddetto, p. 185-188) );- Giovanni di Cartagena (morto 1617) studia da esegeta tutto quel che ha rapporto alla ferita e del costato e del cuore, e riassume, a questo riguardo, i dati tradizionali (De religionis christiana arcanis homiliæ sacræ L. 12;- De arcanis in vulnere lateris Christi latentibus, 1. 12, Homil. 1 e 2, t. I, p. 411 e sq., Anversa, 1622. In FRANCIOSI, col. 351-352, Analisi nel P. Henri DE Grizes, 190-200). – Nell’ordine di s. Domenico possiamo segnalare Pietro Dorè (1500 – 1569) che nel Nouveu testament d’amour di N. S. Jesus Christ. Signé de son sang, Parigi 1550, ha qualche bella pagina sul sacro Cuore (C. 14. Quinto dono eccellente che nostro Padre ci ha fatto nel suo testamento, che è il suo cuore. Testi in Franciosi, col. 394-396). – Non meno pia è una pagina del B. Alfonso d’Orozeo (1500-1591), monaco agostiniano, nel suo commentario sul Cantico dei Cantici, Burgos, 1581: Di già il postulatore del 1697, la citava come tutta impregnata della divozione al sacro Cuore (A proposito del testo Vulnerasti cor. meum: Vedi Nilles t. I, p. 445 e in Franciosi col. 332). – Quasi dello stesso genere delle spiegazioni di Giovanni da Cartagena, sono quelle del Salmeron (1515 – 1585), uno dei primi compagni di Sant’Ignazio, e quelle del dotto Toleto (1531 – 1596), a proposito del sso di san Giovanni, sulla piaga del costato (Salmeron, Commentarii in NT, t X tr. 48, p. 391 sq: Toletus, in sacrosanctum Joannis Evangelium); e pur quelle del Gerosolimitano Danniele Mallonius, (morto circa il 1616), a proposito delle piaghe di Cristo (Fr. Danielis Mallonii, Lucidationes in historiam admirandum de J. C. stigmatibus, Donai 1607, c. 20 n. 1, p. 371, n. 8, p. 383. Testi in latino in Franciosi col. 340-343). E, finalmente, quelle di Suarez, nel suo Trattato sull’Incarnazione (In 3° parte S, Th. Disp. 41 setc. 1). Più brevi, ma sempre nello stesso senso, sono le riflessioni del P. Ribadeneira, nella sua vita di N. S. Gesù Cristo, con cui ha preceduto i suoi Fiori della vita dei Santi (testi in francese di Franciosi col. 336, secondo la traduzione di René Gaultier, Donai 1650.). – Il p. Fr. Decoster, gesuita belga, in un libro pubblicato a Ingolstadt nel 1588 per i congregazionisti, inseriva, per il venerdì una meditazione « sulla inestimabile e ardentissima carità di Nostro Signore Gesù Cristo » dove scriveva: « Fuggite dunque all’appressarsi della tentazione,nell’amabile Cuore di Gesù e nelle sue ferite aperte; contemplate in quella la sua bontà ineffabile e la sua carità » (Libellus sodalitatis, hoc est christianarum institutionem libri quinque, libro I c. 26, p. 159. Comunicato dal P. F. Brucker). – In una parola verso la fine del XVI secolo, l’attenzione è attratta da ogni parte verso il Cuore di Gesù. Se ne parla dappertutto; la devozione esiste, ed è molto diffusa. (il P. Benedetto Nigri, gesuita, morendo a Verdun, circa il 1590, diceva ai suoi fratelli: « Io vi auguro di abitare di abitare nel cuore di Gesù Cristo e desidero che formiate per me lo stesso augurio. Citato dal P. Fouqueray, Histoire de la Compagnie de Jesus en France, t. II, p. 242. Nel monastero di Fontaine les-Nonnes presso Meaux, gli atti di professione delle religiose, fra il 1565 e 1601, portano spesso, sotto la firma, l’immagine di un cuore disegnato alla penna. Ordinariamente, il cuore è trapassato da una spada (non da una lancia), con tre chiodi, qualche volta contiene il monogramma IHS, spesso una piccola croce in mezzo. Qualche volta è messo appiè della croce, altre sulla sbarra verticale della croce, al di sotto della traversa orizzontale. Communication di Bergy, a cui il sig. Curato decano de la Ferté-sous-Jouarre ha mostrato questi atti di professione. Con le nostre idee attuali, si pensa, naturalmente, che questa immagine sia quella del Cuor di Gesù, monogramma, croce, chiodi, lancia, o spada, fanno pensare alle cinque piaghe. Crederei, piuttosto che il cuore rappresentato forse quello della religiosa consacrato a Gesù e attaccato alla croce per i suoi reati come da tre chiodi, sotto l’influenza dell’amor Divino che l’ha ferita di una spada. Incontreremo più di un caso simile (Giovanna di Montel, S. Francesco di Sales e le Visitandine, il Beato Giovanni Eudes). Si può accordare, peraltro, che questa figura supponga già una certa devozione alle cinque piaghe e al sacro Cuore.).

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO QUARTO

ARGOMENTO

L’uomo innocente, re delle cose sensibili; scadde da quello stato; esso, come parte dell’universo, non può essere indipendente dalle leggi di questo. Il Paganesimo se ne francò e fu servo. La creatura importa dipendenza, il Creatore sovranità. Legge universale che fa schiavi i ribelli, avveratasi nell’antico Paganesimo, ed in parte nel nuovo. Suggezione cristiana. Cristo ne diede esempio e ne sarà guiderdone.

1 . Nobilissima parte aveva Iddio assegnata all’uomo nel creare e disporre questa grande opera del sensato universo.- Non dirò che tutte le creature corporali, eziandio le dotate di vita sensibile, non ebbero altro scopo immediato, che di giovargli comunque: questa vi parrà forse necessaria condizione di esseri, i quali poteano concorrere alla manifestazione di Dio, solamente col farsene occasione ed invito alle ragionevoli creature. Ma, oltre a questa preminenza naturale, ve ne ebbe un’altra moļto più splendida, e solo per grazioso favore conferita all’uomo. E questa fu l’averlo Iddio « coronato di gloria e di onore », giusta quella eccelsa parola del Salmista: Gloria et honore coronasti eum; in quanto che (come suona ebraicamente la congiunzione et) « lo costituì sopra tutte le opere delle sue mani: » Et constituit eum super opera manuum suarum (Psalm . VIII, 6). L’immensa e svariata schiera dei bruti animali, dei quali al presente tanti o ci sgomentano colla loro ferocia, o ci attossicano coi loro veleni, o ci molestano colle loro infestazioni, sarebbe stata tutta docile ed obbediente al nostro cenno; e noi ci saremmo dilettati al ruggito del leone ed al fischio del basilisco, come fa ora la innocente fanciulla al melodioso lamento dell’usignuolo romito nella foresta. Questa terra che coll’innaffio di tanti nostri sudori ci fornisce ora scarso alimento e misurata bevanda, e talora col negarci scortese or l’uno or l’altra, ci getta nella desolazione delle carestie; questa terra ci sarebbe stata spontaneamente larga dei doni suoi, e noi avremmo visto spuntare, crescere, granire e indorarsi le biade, come oggi veggiamo rigogliosi nelle terre incolte il maligno l’oglio, l’inutile ortica e la selvaggia ginestra. Questa folgore tremenda che, accendendo l’aria di bieca e subita luce, scoscende fragorosa dalla nube squarciata, e sgomenta i cuori, e porta ove meno è aspettata crollamenti, incendii, bizzarre distruzioni ed istantanee morti, questa folgore, dalla felice progenie dell’innocente Adamo saria stata mirata ed accolta con quel diletto, onde voi, o Romani, plaudite ai fuochi artificiosamente disciplinati ed alle maestose esplosioni delle vostre girandole. Che più? questa morte medesima, che al presente ci attrista tanto coi dolori che l’apparecchiano, col taglio che arreca e colla corruzione che le vien dietro, non sarebbe stata neppur conosciuta dall’uomo, qual Dio per grazia lo avea fatto; e lo avea fatto inesterminabile, come parla l’alto scrittore della Sapienza: Creavit hominem inesterminabilem (Sapient. II, 23). Ma ahimè! ché la colpa di origine cangiò la scena! e quale sia divenuto l’uomo dopo quella ed in pena di quella, non è alcuno che possa ignorarlo, se non fosse chi ha perduto perfino il sentimento dei proprii mali. – Ora sapete voi in che dimorò propriamente la rea indole di quella colpa, e l’indole lamentabile della pena, che le corrispose? Quella regale preminenza, onde l’uomo fu costituito sovrano di tutte le creature e soggetto a nessuna di loro, avea per condizione, che esso si fosse mantenuto, per libera soggezione, sommesso a Dio. Rotto quel vincolo di dipendenza soave, fu naturale e giustissimo, che l’uomo fosse fatto dipendente da tutte le creature e soggetto ad esse: ai bruti che lo infestano e talvolta lo sbranano o l’avvelenano; alla terra, che ne logora le forze e ne tradisce le speranze; alle folgori che se non l’uccidono sempre, lo spaventano; alla morte che dalla culla comincia a roderci, e non si cessa, che non ci abbia sospinti nel sepolcro. E tutti i superbi vantamenti e tutte le insulse borie, intorno al dominio acquistato dal nostro secolo sopra la natura, sono fiabe da parabolani. Questo vantato dominio sulla natura appena si riduce ad altro, che ad avere, in piccolissima parte ed in rarissimi casi, attenuati gli effetti disastrosi delle prepotenti sue forze. Nel resto io non so che siasi trovato finora qualche macchina a vapore, potente a rifrenare le eruzioni del Vesuvio, o i tremuoti ruinosi, come quelli di Melfi o di Norcia; né pare che i troppo affezionati alla vita nutriscano grande speranza, che un giorno od un altro si abbia ad inventare qualche nuovo apparato elettrico, che faccia risuscitare i morti, o almeno non morire i vivi. Una cosiffatta penale condizione di dipendenza e soggezione all’universo sensibile si esplicò in tutta la sua forza nel Paganesimo, il quale fu il genere umano separato da Dio, lasciato a sé stesso. In questa condizione la Gentilità non pure ignorò l’uomo, ma radicalmente ignorò l’universo; e sotto l’impero di lei il genere umano, disordinato riguardo al mondo, come in tutto il resto, fu dominato dagli elementi del mondo stesso, come parlò S. Paolo, i quali pure esso avrebbe dovuto dominare: Eratis elementis mundi huius servientes (Galat. IV, 3). Di questo secondo effetto della malaugurata separazione dell’uomo da Dio, debbo ragionarvi quest’oggi; e spero che il soggetto vi riuscirà di pratico frutto fecondo più di quello che forse a prima vista non pare. Incomincio.

II. L’indipendenza! Ecco, signori miei, la gran parola, che sta facendo girare le menti degli uomini ed agitandone i petti da sessanta secoli, quanti, un presso a poco, ne novera la nostra stirpe. Vero è che Iddio ce ne avea conferita quanto n’era compatibile colla nostra natura, la cui libertà d’arbitrio può esercitarsi e spaziare a talento, quanto è lungo e largo il campo del lecito e dell’onesto. Ma volere che l’uomo, parte del l’universo, sia indipendente dall’ordine prefinito all’universo dal Creatore, è un distruggere l’essere ed il concetto di parte e di ordine. Sarebbe ciò, quanto pretendere che nella costruzione, esempli grazia, di un orologio, un perno, una ruota, una molla avessero esercizio e funzione indipendente dalle altre parti e dall’artefice che costruì l’orologio. Non altrimenti nell’universo, nella società civile e nella domestica: la creatura umana individua essendone parte, deve di necessità avere azioni e funzioni sue proprie, da armonizzare con quelle delle altre parti, per tendere e giungere allo scopo prefinito al tutto dall’Autore di questo. Come dunque vorreste dare a questa parte un’assoluta indipendenza dagli ordinamenti di colui che costituì il tutto, e ne volle parte costitutiva la natura umana, attuata negli individui ed assembrata in consorzio di società civile o di famiglia? Ora non potendo l’uomo, parte dell’universo, essere indipendente dall’ordine dell’universo, non può neppure essere dalla legge, la quale finalmente non è altro, come insegna san Tommaso, che « ordine della ragione » Ordinatio rationis (2, q. 61, a. 1). Il quale concetto nobilissimo abbiamo noi improntato nei nostri linguaggi cristiani, in quanto presso di noi ordinare ed ordine suona il medesimo, che prescrivere o comandare, prescrizione o comando: riscontro che non so se si avverasse in alcuna delle lingue antiche. – Di tutto cotesto il mondo pagano non conobbe, non poté forse conoscere mai nulla! L’universalità delle cose era ai suoi occhi un libro chiuso, o certo tale, che esso ne ignorava l’alfa e l’omega, il principio ed il fine, Dio e l’uomo; tra i quali l’universo trammezza, come estrinsecazione di Dio per manifestarsi all’uomo, e come scala all’uomo per levarsi a Dio. Della quale meravigliosa armonia la scienza antica non capì, non seppe, non sospettò un iota, come Minucio Felice osservava: Quod ipsum (cioè la condizione della creatura ragione vole nell’universo), explorare et eruere sine universitalis inquisitione non possunt; quum ita cohærentiæ connexa, concatenata sint, ut nisi divinitatis rationem diligenter excusseris, nescias humanitatis (Octav.). Or pensate se e come si sarebbe potuto divinitatis ratio diligenter excuti, quando neppure sapeasi se la vi fosse!A questi termini condotto l’uomo pagano; perduto, anzi non avendo mai posseduto il bandolo di questa matassa arruffata, che dovea parergli la sua natura e l’universo,il dentro di sé ed il fuori di sé; esso si restrinse, si rigirò e si ripiegò in sé medesimo, si raggomitolò incerta guisa, cercando nei suoi istinti, nelle sue propensioni, se volete pure nella sua ragione ogni bene,ogni bello, ogni vero; e credendosi di essersi fatto indipendente da tutto, si trovò, come già il figliuol prodigo nel deserto, nella solitudine, condannato a cercare da sé solo ed in sé solo la dignità, la scienza, la felicità, ogni cosa. Or questo era propriamente uno sconoscere, un rinnegare il suo essere di parte armonizzata coll’universo; era un costituire sé medesimo fine dell’universo, il quale tutto, all’uopo, si saria potuto immolare a lui; e l’uomo pagano non dietreggiò innanzi a così mostruoso pervertimento, perché questo era la sola uscita, che egli erasi lasciata aperta nel tenebroso caos, in cui per redata colpa e più ancora per proprie colpe si ravvolgeva. Sconobbe dunque e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine fisico; e prefinitosi come bene supremo, il proprio soddisfacimento, a questo sacrificò ogni cosa sensibile, compresivi i propri simili, ó certo non dubitò per menoma guisa, che fosse lecito il sacrificarla. E così, supposto che egli trovasse gradevole soddisfacimento a vedere trucidarsi tra loro gli uomini, mentre gozzovigliava, sicché il costoro sangue spicciando dalle squarciate vene maculasse quelle infande mense, dove forse si gustavano murene, ingrassate di umane carni ancor palpitanti, perché avrebbe dovuto disdirsi quella soddisfazione? Lo fecero passim del miglior grado del mondo, senza che si trovasse un sapiente abbastanza severo, che almeno ne recasse in forse la licitezza. – Sconobbe l’uomo pagano il suo essere di parte nell’ordine morale, e rinnegò praticamente quella legge che, rannodandolo di sacri vincoli con altri esseri ragionevoli, ne avrebbe governato i disorbitanti appetiti; o piuttosto di quella legge prese quel solo, che potesse secondare e satisfare i suoi propri interessi, i quali tutti riducevansi al satisfacimento di quegli stessi appetiti. E così, supposto, e sempligrazia, che ci nascesse un figliuolo storpiato o deforme, il quale ai parenti dovesse essere di molto peso, ed alla patria non dovesse recare alcun servigio; la Legge delle dodici tavole, con tutta la solennità del linguaggio arcaico, non pure dava al padre facoltà di strozzarlo in culla, ma gliene faceva precetto, aggiungendo la raccomandazione di far presto. – Pater (Signori sì! proprio al padre era fatto questo comando; ché certo alle madri sariasi fatto indarno!). Pater insignem ad deformitatem filium cito necato. Avesse almeno detto puerum! ma no! filium cito necato. Sconobbe da ultimo l’uomo pagano e rinnegò il suo essere di parte nell’ordine razionale, e rigettando tutto, che le vetuste tradizioni gli avrebbero pure potuto tramandar di sicuro, volle fabbricare la scienza da capo a fondo col suo cervello; e ricusando di conoscere la maestà di Dio nel circostante universo, apparecchiato appunto per fargliela conoscere, andò a cercare la divinità, di cui pure non poté smettere o soffocare in sé stesso l’istinto, nei proprii sogni e negli altrui, meritando così di vaneggiare peggio che i bollenti di molta febbre non farebbero, rifluendo per rimbalzo quei vaneggiamenti ad oscurare viappiù i cuori d’insipienti e di orgoliosi: ché proprio cosi parla san Paolo dei pretesi sapienti del Gentilesimo. Evanuerunt in cogitationibus suis et obscuratum est insipiens cor eorum. (Rom. I, 21).

III. Voi crederete per avventura che il Paganesimo, straniandosi così dalle armonie dell’universo, e rinnegando tutte le leggi, onde la creatura ragionevole, siccome parte dell’universo stesso è circondata nel triplice ordine fisico, morale e razionale, che acchiudono rispettivamente il bello, il buono, il vero della natura, crederete, dico, che così l’uomo ne ottenesse almeno quel grande suo intento di essere indipendente. Nulla meno!, fu precisamente quella la via, per la quale precipitò in una servitudine abbiettissima a tutto ciò che era meno di lui! Ed oh! miei amatissimi! quanto vorrei che vi s’imprimesse altamente nell’animo la verità che sono per dirvi! sarebbe il farmaco più efficace a curare il famelico della indipendenza, che è la propria malattia del nostro tempo, e la quale io mi credeva da prima che fosse d’indole acuta e passeggera; ma oggimai mi vado persuadendo, che la è malattia cronica e poco meno che incurabile. Dio mio! qual vaneggiamento è mai codesto! La creatura indipendente dal Creatore? ma non vi accorgete che vi è contraddizione nei termini, come appunto dicesse altri di volervi mostrare nella geometria un cerchio quadrato, o di farvi trovare nell’aritmetica un sei che sia uguale al quattro. Creatura, come suona la stessa voce, significa un ente o sostanza qualunque, che abbia l’essere, non per propria virtù, ma comunicatole dall’Essere sussistente ed assoluto, che è Iddio. Quest’essere poi, partecipato alla creatura, non può rimanere indipendente dal suo principio più di quello, che possa rimanere nell’aria il raggio di luce, poi che ne fu rimosso il corpo luminoso. Se rimanesse il raggio, sarebbe corpo luminoso, come appunto la creatura se permanesse separata nell’essere dalla influenza del Creatore, sarebbe anch’essa essere sussistente, per sé ed assoluto, cioè sarebbe Dio: il che manifestamente ripugna. Trovandosi dunque la creatura dipendente dal Creatore nell’essere, non può supporsi che sia indipendente da lui nell’operare; stanteché la operazione non è in sostanza, che una emanazione dell’essere stesso; come appunto il calore, che procede dall’azione del fuoco, è quasi l’essere stesso del fuoco, che si diffonde nei circostanti obbietti: talmente che chi avesse in sua balia l’essere del fuoco, ne dovrebbe avere altresì la operazione del riscaldare. Le creature adunque sono necessariamente, assolutamente, essenzialmente dipendenti dal Creatore, e questa loro dipendenza si attua e si esercita nell’adempimento delle leggi, onde il Creatore medesimo le ha circondate nel triplice ordine fisico, razionale e morale. Questi differiscono solo, che nei due primi, cioè nel fisico e nel razionale, le leggi inducono necessità: nell’ultimo, cioè nel morale, sono commesse alla libertà dell’arbitrio; e chi vuole esimersi dalle prime, si dice pazzo, e si manda al manicomio: chi trasgredisce le seconde, si chiama malvagio, e, quando ne vien grave danno al comune, si manda, o certo si dovrebbe mandare in prigione. Ma sempre è irragionevole e ripugnante, è impossibile, che la creatura sia indipendente da quelle leggi. E così chi cerca la contentezza e la felicità nel la colpa; che vuol dire chi cerca perfezionarsi, facendo a rovescio di quelle leggi, che il Creatore ha stabilite per la sua perfezione, costui è tanto ragionevole, quanto chi volesse riscaldare col ghiaccio o rinfrescare col fuoco; quanto chi pretendesse che il quadrato sia rotondo, o che due e due sommino cinque. In questi casi la irragionevolezza salta agli occhi, perché si tratta di leggi fisiche e razionali, che necessitano l’assonso; ma nel primo, trattandosi di leggi morali imposte all’arbitrio, queste non sono meno autorevoli di quelle, e la facoltà che ha l’uomo di violarle non vi aggiunge altro, che la ragione di demerito, ogni qualvolta le trasgredisce, o di merito quando le osserva. La quale naturale e necessaria dipendenza inferita dalla parte della creatura, se si considera dalla parte del Creatore, piglia qualità e carattere di verissima sudditanza per questo appunto, che la creatura essendo opera di Dio, Egli deve avere sopra di lei autorità proporzionata all’essere che le ha conferito. Ora io non so se vi abbiate mai posto mente; ma l’osservazione è pianissima. Egli è tanto naturale, che chi fu operatore di alcuna cosa abbia preminenza e potestà sopra la cosa per lui fatta, che la parola stessa di Autorità si deriva proprio da Autore: Auctoritas, ab Auctore. Che se voi discorrete col pensiero per tutte le maniere di Autorità che sono a vostra notizia, alcuna non ne troverete, la quale non sia o preceduta od accompagnata da qual che maniera di essere Autore. Ed il padre è Autore della vita nei figli, ed il Principe dell’unità civile nella società, ed il maestro della scienza nello scolaro, e lo scultore della forma di statua nel marmo, ed il padrone del sostentamento nei servi, o famigliari e domestici, come con più cristiana parola sogliamo chiamarli, e così di cento altre somiglianti maniere di preminenze; nelle quali tutte, siccome non vi è Autorità, senza una qualche ragione di Autore, così non vi ha ragione di Autore, la quale non si faccia principio di una qualche Autorità. Ora perché non dovrebbe lo stesso avverarsi di Dio a rispetto delle sue creature? La sola differenza, che corre tra le Autorità umane e la divina, è posta in questo, che le umane sono sempre esili, circoscritte, secondarie, com’è l’essere che gli uomini possono altrui comunicare; laddove la divina dalla qualità appunto dell’essere che impartisce, si dimostra suprema e pienissima. E fate di entrare bene in questo pensiero. Qualunque operatore, non pure umano, ma creato, dà bensì un essere, ma non dà l’essere; in quanto alla sua azione deve sempre supporre un soggetto preesistente, che la riceva, il quale per conseguenza dee avere già l’essere. Così il Principe suppone il popolo, il maestro lo scolaro, lo statuario il marmo e così degli altri: perfino nelle opere d’ingegno, per le quali pure la denominazione di Autore si toglie per antonomasia, e sopra le quali si ha Autorità massima, pure in quelle medesime si suppongono molte cose, che non dipendono dall’Autore: non foss’altro, vi sono i principii razionali, le cose esteriori, da cui provengono i fantasmi e gli amminicoli materiali, senza cui le opere d’ingegno non hanno essere e vita nel mondo, e non potrebbero essere oggetto di autorità o di dominio. Solo Dio dà non pure un essere, ma l’essere; dà l’essere primo, l’essere, innanzi a cui della cosa fatta non ci è proprio nulla, e di lui solo può dirsi, che fa dal Ņulla, ex nihilo, non come da materia preesistente, ma come da termine affatto negativo. E però solo Dio ha sopra le opere delle sue mani Autorità piena, vera, totale, assoluta, siccome quegli che solo n’è pieno, vero, totale, assoluto Autore. E dopo ciò, non vi pare che io abbia ragione di esclamare un’altra volta: Dio mio! Qual vaneggiamento è mai cotesto! la creatura indipendente dal Creatore! quando il concetto stesso di creatura importa dipendenza, e quello di Creatore è il solo, che possa fondare Autorità piena ed assoluta!

IV. Vi chieggo scusa se forse per la rilevanza e nobilità della materia mi sono lasciato discorrere a troppo lunga digressione. Ma io queste cose ho voluto alquanto accuratamente ragionarvi, perché, assodato bene quel punto della nostra dipendenza da Dio, restano assicurate tutte le altre legittime dipendenze, le quali, per noi Cristiani, sono naturali derivazioni dalla divina; e singolarmente ne restano assicurate quelle due, che di tutte sono più splendide: volli dire la domestica dal padre nella famiglia, e la civile dal Sovrano nella società. Oltre a ciò volli dichiarare questo punto, perché, come vi accennai più innanzi, la faccenda della indipendenza è un gran malanno del nostro tempo, e non è uno degli ultimi modi, onde la società moderna torņa improvvidamente colle sue inclinazioni al Paganesimo. Ma io, tornandovi col mio discorso, dico, seguitando, che l’essersi l’uomo pagano rifiutato a riconoscersi parte dell’universo nell’ordine fisico colla iattura del vero bello, nell’ordine morale colla perdita del vero bene e nell’ordine razionale col privarsi della verità sincera; questo ripudio, dico, ed incentramento in sé medesimo, lungi dal fruttargli indipendenza, gli cangiò piuttosto la dipendenza; e di naturale che era la fece saturata, di spontanea che potea essere divenne violenta, e di dignitosa e di filiale, fu fatta tirannesca, abbietta, servile. Ella è legge costante della Provvidenza, attestata dalla storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che chiunque si ricusa a soggezione debita e legittima, ed esso in pena viene sommesso a potere arbitrario, illegittimo, violento. Della qual legge nelle memorie antiche e moderne potete trovare frequentissime applicazioni, cominciando da Cham, il quale, per avere schernita la dignità paterna, si udi dinunziare che saria stato servo; ed è notevole che proprio in quel caso fu adoperata la prima volta la voce servo, la quale non si scontra prima di quel luogo nell’antichissimo dei libri che è il Pentateuco. Ne abbiamo altresì l’applicazione sotto i nostri occhi, quanto all’ordine domestico, nel giovinotto scapato, il quale per un po’ di stentati baffetti che gli spuntan sul labbro, si crede in diritto di più non ascoltare i comandi paterni, e di spregiare le affettuose ammonizioni della madre. Ma intanto esso medesimo è ludibrio e zimbello di quattro giovinastri scapati come lụi ed inviziati più di lui, i quali egli conobbe alla bisca od al caffè, e dei quali per avventura ignora perfino il nome. Quanto all’ordine civile, quella legge si avvera in quasi tutte le pubbliche rivolture; e noi al presente ne vediamo l’applicazione in tanta parte della nostra Italia, che sottratta, lei o consenziente o non ripugnante, alle legittime autorità, obbedisce ora, più o meno fremente, ad un pugno di faziosi oscuri, che le fanno sentire per prova che sia vero servaggio, rendendole desiderabile quel servaggio immaginario, contro cui aveva forse troppo improvvidamente brontolato. Ora, in forza appunto di questa legge, il Paganesimo, il quale, separatosi da Dio, avea preteso di farsi indipendente da ogni cosa, e di non servire ad alcuno, fu condannato a dipendere da ogni cosa, ed a servire ad ogni cosa, meno quel Dio Ottimo Massimo, che solo avea titoli al servigio ed alla dipendenza dell’uomo. Lo so! vi parrà strana, quasi incredibile questa parola, grazie alle sperticate iperboli che, intorno alla sapienza ed alla grandezza pagana, si sono messe in voga. Ma che volete che io vi faccia? É forse colpa mia, che, a furia di sfringuellare a sproposito, si è giunto a rendere quasi incredibile il vero, come pur troppo si è reso più che verosimile il falso? Il vero adunque è, che la società pagana, tra tante borie di libertà e d’indipendenza, era un’accozzaglia di stupidi schiavi, era un assembramento di codardi mancipii, i quali tutti dal sommo all’imo, colla fronte per terra riverivano, veneravano, adoravano tutte le cose, animate od inanimate che fossero, dal sole fino ai lupi, ai cani ed agli scarafaggi: e dite voi tra quale di queste specie si debbano noverare certi mostri d’Imperatori, cui il Senato, nella coscienza della propria indipendenza, dichiarava divi; ma che i lupi, i cani e gli scarafaggi avrebbono riggettato dal loro consorzio, se avessero senno. Quei miseri riverivano, veneravano, adoravano tutte le passioni e tutti i vizii proprii, dalla frenesia dell’orgoglio, e dai furori della vendetta, fino alle abbominazioni della lascivia; tutte le fantasie dei poeti, dal Giove tonante, che si ruba un bel donzello, per sollazzare di lui un cotal poco i suoi ozii olimpici, fino alla dea Cloaca o Cloacina, che presiedeva alla nettezza delle case e delle contrade, senza dispensarli per questo dalla noia di scopare le une e le altre. Torno a dire, perché è punto capitalissimo: quei miseri tutto riverivano, servivano, adoravano, meno solo Colui, che unicamente avea diritto di essere riverito, servito ed adorato, come non finiva di ammirarsene Lattanzio: Admirari soleo maiestatem Dei singularis in tantam venisse oblivionem, ut quæ sola coli debeat sola potissimum negligatur (Div. Inst. II, 1). – Né ad altro che a questa universale ed abbiettissima schiavitudine, in che gemeva l’uman genere prima di Cristo, credo io che mirasse Isaia, quando celebrò, come ufficio del promesso Messia, non pure il dar luce agli occhi e stenebrare le intelligenze, ma é lo sciogliere dai ceppi incatenati, ed il trarre dalle carceri e dagli ergastoli i prigionieri. Dedi te (dice Dio pel profeta al suo Cristo) Dedi te in lucem Gentium ut aperires oculos cœcorum, ut educeres de conclusione vinclum, de domo carceris sedentem in tenebris (Isai. XLII, 7). Signorisì! non ci è a farne gli stupori! tale era il mondo pagano prima del Redentore. Un immenso ergastolo, una tetra e smisurata prigione, che non avea altri confini da quelli della terra; e, recatevi rarissime eccezioni, tutti schiavi, tutti prigionieri, tutti tra ceppi. La sola differenza, che si vedesse tra schiavi e schiavi, era, che alcuni,per la troppa superbia, n’erano usciti del sentimento, sì che si credeano di essere liberi, perché appartenevano all’ordine equestre o si chiamavano Senatori, Consoli, Re e Imperatori; ma in sustanza eran schiavi come gli altri, e più degli altri, in quanto trovavansi più sciolti degli altri a dare libera carriera alle propensioni nefande, da cui erano dominati. Che se vi prendesse vaghezza d’intendere quanto largo si stendesse quella schiavitudine, io ve la partirò in tre capi precipui, che saranno i soggetti di altrettanti seguenti discorsi. Il Paganesimo fu schiavo in generale della forza, non conobbe altro movente che la forza, e sopra di questa sola fabbricò tutta la immane mole della sua bugiarda grandezza. Fu schiavo delle forze naturali, e questa fu la schiavitudine più scusabile; fu schiavo delle forze sensuali, è questa fu la schiavitudine più ignominiosa; fu schiavo delle forze sociali, e questa fu la schiavitudine più codarda; ma sempre schiavo, e sempre schiavo della forza. Di ciascuna di queste schiavitudini diremo alcuna cosa nei seguenti giorni, senza preterire quello che, pei loro clienti, vorranno recare in mezzo gli avvocati passionati dei Temistocli, dei Muzii, delle caste Lucrezie o dei Catoni in Utica. Per ora dal Paganesimo antico e morto debbo far trapasso al nuovo e vivo; affine di aggiungere qualche pratica osservazione, eziandio per questo capo.

IV. E l’applicazione pratica mi si offre spontanea ed opportunissima in quello spirito d’indipendenza, il quale ha penetrato fino nelle midolla la società moderna, ne ha occupate tutte le inclinazioni, ne domina tutti gli amori, quasi dissi ne schizza per tutti i pori. Spirito d’indipendenza, per la quale i popoli miseramente sedotti dalle apparenze fallaci di libertà, sono sottratti al giogo soave di Cristo, che ci emancipò davvero dall’antico servaggio, e sono travolti nella via di un Naturalismo, dal quale, come l’antica Gentilità, si veggono poscia precipitati in una verissima schiavitudine. E forse che non si veggono ad ogni passo gli effetti di questo spirito d’indipendenza , dal quale è quasi infetta l’atmosfera stessa che respiriamo? Quasi mi par vederne un vestigio in famiglie anche cristiane e morigeratissime, nelle quali si tiene oggimai per assioma, che dai figliuoli non si debba esigere obbedienza, se non in ciò, di cui essi veggano la ragione e siano persuasi. Ma e non è la ragione dei genitori il naturale supplemento al difetto, che ne patiscono i nati? E quando il figliuolo opera, perché ne ha vista la ragione e n’è persuaso, a chi altro obbedisce, se non a sé medesimo, e quale ossequio porge all’autorità dei genitori? Che quella persuasione si cerchi alcune volte, non è riprensibile, e può giovare talora a rendere più soave l’obbedire. Ma che a questo si richiegga, come condizione indispensabile, quella previa persuasione, ciò è distruggere dalla radice il principio stesso dell’autorità, la quale non si appoggia ad altra ragione, che al diritto di chi comanda ed al dovere di chi obbedisce. Ma vi è qualche cosa di più universale. Che s’infrangano le leggi di Dio e della Chiesa eziandio da molti, non è certo cosa nuova nel mondo; ma che quell’infrangimento si voglia giustificare dal non dovere l’uomo dipendere, che da sé stesso; che non si voglia ammettere per vero, se non quello che sembra tale al losco nostro intelletto; che non si conosca distinzione di male e di bene, se non secondo i dettami di una coscienza illusa, malata e spesso ancora ingancrenita; che in somma quell’assoluta indipendenza dell’intelletto e della volontà s’innalzi a principio, sicché, fuori di quelli, non ci siano per noi altri regolatori del vero e del bene; tutto cotesto è cosa nuova tra i popoli cristiani, è privilegio del nostro secolo: privilegio che basta a chiarirlo mezzo cristiano, mezzo pagano, senza che sia davvero né l’uno né l’altro. E forse che non ne portiamo noi altresì il castigo della schiavitudine, come quegli antichi ne portarono? Non sarà la schiavitudine agl’idoli d’oro e d’argento, come nella idolatria grossiera dei vecchi Gentili si soleva; ma è schiavitudine del lasciarci menare pel naso da miseri rispetti umani, dove meno vorremmo; è schiavitudine del pensare e del parlare, fatta comune nel regno tutto moderno del Giornalismo, pel quale pensano coll’altrui testa e parlano coll’altrui lingua innumerevoli, a cui parve troppo grave uniformare i loro coi pensieri della Chiesa e le loro colle sue parole; è schiavitudine di passioni vergognose, cui andiamo blandendo, e inorpellando con mille sofismi non creduti neppur da noi, ed alle quali sacrifichiamo il danaro, la sanità, il decoro, la vita stessa temporale, e faccia Dio che non anche l’eterna; è schiavitudine all’idolo tutto pagano della patria, quale se la foggiano i fanatici e gli scredenti: idolo che addusse sul mondo tanti dolori e tante vergone, che spreme tante lagrime e tanto sangue dagli occhi e dalle vene dei miseri popoli, che divorò tante vittime: e ancora non è sazia l’ingorda sua fame! Tant’è! e siatene, miei cari, persuasi: l’indipendenza assoluta delle creature è un sogno! A noi esseri ragionevoli non è data, che la scelta tra la dipendenza legittima e l’illegittima, tra la filiale e la servile, tra la volenterosa e la forzata: in una parola, tra il dipendere da Dio o dalle creature. Quella è propria dei Cristiani,questa fu dei Pagani, ed è dei Cristiani che paganeggiano. Cristo nella Epifania chiamò le Nazioni dall’una all’altra; ed in quel Mistero medesimo non pure diede esempio della più umile e sommessa dipendenza, ma volle darlo eziandio del guiderdone, onde questa nobilissima virtù sarà da Dio meritata, come vi mostrerò dopo breve respiro.

V. Guardate, miei cari uditori, singolarissima coincidenza, la quale potrebbe dirsi casuale, se non sapessimo, che nessuna cosa non isfugge alla divina Provvidenza, e che da questa fu ordinato con peculiarissimo amore tutto ciò che si atteneva alla vita terrena del Verbo Incarnato. La benedetta Vergine si trova ad esporre alla luce il divino suo portato lungi dal natio suo ostello, in terra per lei straniera ed inospitale, con tutti i disagi della povertà, delle privazioni, del crudo verno, della fredda notte, dai cui rigori né a sé né al caro Infante facea schermo che bastasse il mal custodito ricetto. Ora tutto questo perché? Perché essa col casto suo sposo vollero ottemperare al comando di Augusto, che prescriveva si recasse ciascuno alla terra degli avi suoi per allistąrsi nel censo: ut describeretur universus orbis (Luc . II, 1). Ma Dio immortale! e quale avvilimento è mai cotesto dell’Unigenito Figlio vostro! come non ne dovrebbero sbalordire, non che queste fiacche nostre menti, ma le medesime angeliche intelligenze! E fia dunque vero che, per obbedire ai capricci di un orgoglioso tiranno, dovransi esporre a tanti disagi quel giglio d’intemerata purezza che fu Maria, e quel delicato fior nazzareno che fu Cristo, fino dal primo suo mostrarsi al mondo? E poi, per quante ragioni e tutte giustissime, quella beata coppia non avrebbe potuto giudicare di non esser tenuta all’adempimento di un comando, il quale, oltre al disagio, recava altresì qualche cosa di men conveniente alla sovrana dignità del Re dei Regi, che la Vergine Santa dovea partorire? – Ma che stiamo a cercare più innanzi? Tutta la nostra difficoltà si origina dal pensare noi, che Maria, Giuseppe, Gesù obbedissero propriamente a Cesare; quando anzi essi obbedivano al celeste Padre, le cui amorøse ordinazioni riconoscevano e riverivano nel comando stesso di Cesare. E qui dimora propriamente il gran segreto della dignità augusta acquistata alla soggezione, alla dipendenza, alla obbedienza del Cristiano. Essa dimora nel nuovo ed eccelso motivo, che il Cristianesimo ne ha rivelato. Né vi credeste che ciò sia poco. Tutt’altro! Negli atti morali il motivo è tutto, è ogni cosa; e non vi è bisogno di essere teologo per intendere che la medesima largizione di danari, la quale in un pietoso è carità insigne, in un laido può essere nefanda seduzione, ed in un micidiale rischia di diventare prezzo di assassinio. Cangiato pertanto il motivo, se n’è cangiato sostanzialmente l’atto; e la soggezione cristiana da quelļ’eccelso motivo n’è divenuta essa medesima cotanto eccelsa, che poté averne ad esemplare l’Uomo-Dio ed a guiderdone il Paradiso. E forse appunto per rivelarcene questa dignità sovrana e per darci pegno di quel celeste guiderdone, ordinò Iddio, come osserva il Crisostomo (Homil. VII in Matth), che innanzi a quell’Infante, che era nato tra tanti disagi, per obbedire in apparenza al comando di un Re orgoglioso, innanzi a quell’Infante proprio si prostrassero tre umili Re ad offrire i loro doni misteriosi e le loro suppliche. Di qui imparate, o Cristiani, qual gloria sarà serbata a voi, se saprete obbedire a cui dovete; ma obbedire da Cristiani; cioè con nobile sentimento di obbedire solo a Dio, dal quale ogni ordinata potestà si deriva. Allora, foste voi poveri, ignoranti, dispregiati, quella sola così eccelsa obbedienza vi acquisterà tanta gloria, che più non ne avreste cinti il capo di regale diadema. E non certo in questo mondo; oh! no! Chè i Cristiani, rispettano bensì, ma non invidiano, e paventano anzi le preminenze; ma fuori di dubbio nell’altro, dove, a premio della vittoria che avrete portata, come sopra le altre, così sopra questa naturale propensione al sovrastare, Cristo vi darà nientemeno, che assidervi con lui sopra il medesimo suo trono. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo (Apoc. III, 21).

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (5)

IL SEGNO DELLA CROCE (10)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (10)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA NONA.

4 dicembre.

Il segno della croce fra i  pagani. — Nuovi dettagli di una forma esteriore di questo segno presso i primitivi Cristiani. — I martiri nell’anfiteatro. — Etimologia della voce adorare. — I pagani adoravano facendo il segno della croce. Como lo facessero. — Prima maniera.

Del segno della croce presso i pagani ti parlerò in questa mia lettera, e per tutto correre il filo tradizionale, che rannoda la Sinagoga alla Chiesa, desidero dirti una parola del segno della croce de’ primi Cristiani. Tu già sai ch’eglino lo facessero di continuo, ma tu ignori, io credo, che per non interromperlo, pregando rendevano se stessi segno di croce. Per fermo che i tuoi compagni l’ignorano. Quanto Mosè, Sansone, David, gl’Israeliti facevano ad intervallo, i nostri padri facevano di continuo, e tu ne vedi la ragione. Amalec, i Filistei, Eliodoro erano de nemici che passavano, ma il Colosso romano non deponeva mai le armi, tra lui ed i padri nostri s’era ingaggiata una lotta sanguinolente, e senza tregua. In tali circostanze ciascun di loro era un Mosè sul monte, e non per un giorno solo, ma per tre secoli tennero le braccia distese verso il cielo, per ottenere la vittoria a’ martiri discesi nell’arena, e la conversione dei loro persecutori.  Del loro pensiero e della maniera di loro preghiera, lasciamo che parli un testimone oculare. « Noi preghiamo, dice Tertulliano, con gli occhi rivolti al cielo, e con le mani distese, comechè innocente; a capo nudo, non avendo di che arrossirci; senza ammonitore, perchè preghiamo col cuore. In siffatto modo noi imploriamo per gl’imperatori lunga vita, regno felice, sicurtà nella regia, armate valorose, sudditi Virtuosi, il mondo tranquillo, un Senato fedele, a dir breve, quanto l’uomo e Cesare desidera » (Apolog. c. XXX).  – Così pregavano in Oriente ed Occidente gli uomini e le donne, le vergini e le matrone, i giovani ed i vecchi, i senatori, i fedeli d’ogni condizione. Questo misterioso atteggiamento era da essi usato non solo nelle striassi, nel fondo delle catacombe, raccomandando gli altrui interessi; ma altresì quando erano trascinati negli antiteatri, dove doveano combattere per se stessi al cospetto d’immenso popolo trattosi a vedere i grandi atleti del martirio. Immagina, se il puoi, mio caro, uno spettacolo più tenero di quello che Eusebio ci racconta. La persecuzione diocleziana con violenza procedeva nella Bitinia, e conduce in un sol giorno nell’anfiteatro un gran numero di Cristiani dinanzi alle bestie. Per quanto snaturati fossero gli spettatori, un fremito di compassione corse loro per le vene a vista della moltitudine di teneri fanciulli, di delicate avvenenti donzelle, di cadenti vegliardi, che, con gli occhi al cielo elevati, con le braccia distese, impavidi procedevano nel mezzo delle tigri, e degli affamati leoni. Il timore che posseder dovea i condannati, padroneggiava l’animo de’ giudici e degli spettatori! (2 Euseb. Hist. Eccl. lib. VIII, c. 5). – Siffatta attitudine de’ martiri non era eccezionale. Lasciamo la parola allo stesso storiografo, che,come testimone oculare non v’ha altri, che meriti maggior fede. « Voi avreste veduto, cosi egli, un giovane non ancora giunto a’ venti anni, libero da’ ceppi, star tranquillo in piede nel mezzo dell’anfiteatro con le braccia distese in forma di croce, il suo cuore più che il suo sguardo levato e fisso al cielo, essere circondato da orsi e leopardi il cui furore spirava la morte. Ma che! Questi terribili animali sul punto di dilaniargli le carni, da una potenza sovrumana hanno le bocche serrate, e spaventati si danno alla fuga. » (Ibid. C. VII).  – L’Occidente ti presenta uno spettacolo ancor più tenero per la delicatezza della vittima. Nel mezzo della gran Roma giammai una moltitudine uguale avea gremito gli scalini del circo. L’eroina è una giovinetta su tredici anni, la bella Agnese condannata al fuoco.. « Vedila, è santo Ambrogio che il racconta, dessa monta coraggiosa il rogo, e distende le sue mani verso il Cristo, per elevare tra le fiamme istesse il vittorioso stendardo del Signore! Con le braccia distese attraverso le fiamme, cosi prega: O Signore, cui ogni adorazione, santo timore ed onore è dovuto, vi adoro! O Padre Eterno del nostro Signore Gesù Cristo, vi benedico! È per la grazia del Figliuol vostro, ch’io son libera dalle mani degli nomini impuri, e senza sozzura alcuna ho scansate le immondizie di satana. Benedetto siate deh! altresì, perché la rugiada dello Spirito Santo estingue le fiamme divoratrici che mi circondano: queste si dividono, e gli ardori del mio rogo minacciano quelli che lo attizzano » (Lib. 1, De Virginib. Tendere Christo inter ignes manus, atque ipsis sacrilegis focis trophæum Domini signare victoris.). Tal’era la forma eloquente del segno della croce in uso fra i Cristiani della primitiva Chiesa, i Mosè della novella alleanza, e tu puoi ancora averne una prova nelle pitture delle catacombe. Questa forma del segno trionfale durò lungo tempo fra i Cattolici, ed io l’ho vista, son trent’anni, presso qualche popolazione cattolica d’Alemagna. Ma se questa s’è perduta tra i fedeli, la Chiesa l’ha religiosamente conservata. I duecento mila preti che ciascun giorno ascendono all’altare, su tutti i punti del pianeta, sono gli anelli visibili della catena tradizionale, che da noi si estende sino alle catacombe, e da queste al Calvario, di dove arrivano al monte Rafidim, e di là si perdono nella notte de’ tempi.  – Arriviamo a’ pagani. Questi ancora hanno fatto il segno della croce, nelle loro preghiere, ed a ragione lo hanno creduto di una forza misteriosa, di grande importanza. Dimanda a tuoi camerata l’etimologia della voce adorare. Eglino non avranno pena alcuna a dirtela, che, se questa voce fosse una creazione della Chiesa potresti dispensarti dal domandargliela; ma poiché è una voce del latino del secolo d’oro, secondo l’espressione di collegio, bacellieri, com’eglino sono, devono saperlo. – Ora decomponendo la voce adorare, questa, secondo tatti gli etimologisti vuol dire, portar la mano alla bocca e baciarla manum ad tu admovere. Tale era la maniera con che i pagani adoravano i loro dei. Le prove sono abbondanti. « Quando noi adoriamo, dice Plinio, noi portiamo la mano destra alla bocca e la baciamo; quindi descrivendo un cerchio giriamo intorno il nostro corpo » (In adorando dextram ad osculum referimus, totumque corpus circumagimus (Plin. Hist. nat. lib. XXVIII). — Noi ci rivolgiamo intorno a noi medesimi — Che significa questo genere di adorazione? Col portare la mano alla bocca, l’uomo fa omaggio della sua persona alla divinità; col rivolgersi sopra se stesso, imita il movimento degli astri, e fa alla divinità omaggio del mondo intero, di cui i corpi celesti sono la più nobile porzione. – Questa maniera di adorare fa parte del sabeismo o dell’adorazione degli astri, forma d’idolatria che risale alla più alta antichità. Per mezzo dei Pitagorici essa era venuta a Numa, che prescriveva questo rivolgimento: circumage te cum Deos adoras. « Si dice, aggiunge Plutarco, che questa è una rappresentazione del giro che fa il cielo col suo movimento – (Vita di Numa, capo XII) -. Questa pratica profondamente misteriosa era molto diffusa in America prima della scoperta; ed è ancora oggidì in uso presso i Dervis giratori dell’ Oriente.). E Minuzio Felice : « Cecilio com’ebbe visto la statua di Serapide portò la mano alla bocca e baciolla, secondo l’uso del volgo superstizioso » (Minut Felice in Octav.). Apuleo dice: « Emiliano sino al presente non ha pregato alcun Dio, nè ha usato a tempio alcuno. Se passa dinanzi un luogo sacro erede delitto portar la mano alla bocca per adorare » (Nulli Deo ad hoc aevi supplicavit; nullum templum frequentavit; si fanum aliquod prætereat, nefas habet adorandi gratia, manum labris admovere. – Apul. Àpol.. I, vers. fin.). – Ma perché mai questo gesto esprimeva il culto supremo, l’adorazione? Eccolo in due parole. L’uomo è l’immagine di Dio, e Dio è nel suo Verbo, per lo mezzo del quale ha tutto fatto. Portar la mano sulla bocca è comprimere la parola, è, in certa maniera, annientarsi. Farlo come i pagani per onorar satana, era dichiararsene suddito, vassallo e schiavo, riconoscerlo per Dio. Tu sai qual delitto enorme questo sia. -Per questo Giobbe facendo la sua difesa dicea: « Quando ho visto il sole brillare con tutti i suoi raggi, e la luna avanzarsi abbellita dalla luce, il mio cuore nel suo segreto ne gioiva, e mai ho baciata la mano, perché sarebbe la maggiore delle iniquità, e la negazione dell’Altissimo: iniquitas maxima et negatio contro Deum altimmum » (Si vidi solem, cum ralgeret, etlunamincedentem dare; et lætatum est in abscondito cor meum, et osculatus sum manum meam ore meo; quia est iniquitas maxima, et negatio contra Deum Altissimum. (Job, cap. XXXII, v. 86, e segg.). – Questo gesto misterioso era siffattamente un segno d’idolatria, che Dio parlando degl’Israeliti rimasti fedeli, diceva: « Conserverò in Israele sette mila uomini, che non hanno piegato il ginocchio dinanzi a Baal, ed ogni bocca, che non l’ha adorato, baciando la mano » (Derelinquam mini in Israel septem millia virorum, quorum genua non sunt incurvata ante Baal, et omne os, quod non adoravit eum oseulans manus. (III, Reg. cap. XIX, v. 18).  – Vedi questo pagano, col ginocchio a terra, ed il capo chino avanti i suoi idoli? Vedi ch’egli passa il pollice della destra sotto il dito indice e lo riposa sul medio in maniera da formarne una croce; quindi bacia questa croce mormorando qualche parola in onore de’ suoi cari dei? Fa tu stesso un tale gesto, e vedrai che il segno della croce non potrebbe meglio essere rappresentato. Che tale fosse il bacio di adorazione, fra molti altri pagani, Apuleo ne ne fa fede: Una moltitudine di cittadini estranieri, dic’egli, era accorsa per la fama dell’ eccelso spettacolo. Fuor di se alla vista della incomparabile bellezza, baciavano la destra di cui il pollice riposava sul dito indice, e la onoravano con religiose preghiere quasi fosse la stessa divinità » (Multi civium et advenæ copiosi, quoseximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessæ formositatis admiratione stupidi, admoventes oribus suis dexteram, priore digito in erectum pollicem residente, ut ipsam prorsus deam Venerem religiosis orationibus venerabantur. – Apulej. Asin. Aur. lib. IV). In quanto al mormorio con che accompagnavano il gesto, si conoscono i versi di Ovidio, Melamorph. VI. 1: Resistit, et pavido, faveas mihi murmur edixit. Dux meus: et simili, faveas mihi, murmure dixi.). Siffatta maniera del segno della croce è si reale ed espressiva, che presentemente è comune presso molti Cristiani in tutti i paesi. Ma questa non era la sola maniera con che era eseguito presso i pagani, poiché, i più pii, lo facevano crociando le mani sul petto. Noi troviamo questa maniera usitata in una delle circostanze la più solenne, e nello stesso tempo la più misteriosa della loro vita pubblica. Lascio la tua curiosità nell’aspettativa sino a domani.

IL SEGNO DELLA CROCE (11)

2 NOVEMBRE: MESSE PER I DEFUNTI (2021)

MESSE PER I DEFUNTI (2021)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:

[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

OMELIA

COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI.

Venit nox, quando nemo potest operati.

Vien la notte, in cui niuno può lavorare.

(S. GIOVANNI IX, 4).

Tal’è, miei fratelli, la crudele e terribile condizione, in cui si trovano adesso i nostri padri e le nostre madri, i nostri parenti e i nostri amici, che sono usciti da questo mondo senza aver interamente soddisfatto alla giustizia di Dio. Li ha condannati a passare lunghi anni nel carcere tenebroso del purgatorio, ove la sua giustizia rigorosamente s’aggrava su loro, finché le abbiano interamente pagato il loro debito. «Oh! com’è terribile, dice San Paolo, cader nelle mani di Dio vivente! » (Hebr., X, 31) Ma perché, fratelli miei, sono oggi salito in pulpito? Che cosa vi dirò? Ah! vengo da parte di Dio medesimo; vengo da parte de’ vostri poveri parenti, per risvegliare in voi quell’amore di riconoscenza, di cui siete ad essi debitori: vengo a rimettervi sott’occhio tutti i tratti di bontà e tutto l’amore ch’ebbero per voi, quand’erano sulla terra: vengo a dirvi che bruciano tra le fiamme, che piangono, che chiedono ad alte grida il soccorso delle vostre preghiere e delle vostre opere buone. Mi par d’udirli gridare dal fondo di quel mare di fuoco che li tormenta: « Ah! dite ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figliuoli e a tutti i nostri parenti, quanto sono atroci i mali che soffriamo. Noi ci gettiamo a’ loro piedi per implorare l’aiuto delle loro preghiere. Ah! dite ad essi che da quando ci separammo da loro, siamo qui a bruciar tra le fiamme! Oh ! chi potrà rimaner insensibile al pensiero di tante pene che soffriamo? » Vedete voi, miei fratelli, e udite quella tenera madre, quel buon padre, e tutti quei vostri congiunti che vi tendono le mani? « Amici miei, gridano gemendo, strappateci a questi tormenti, poiché lo potete ». Vediamo dunque, fratelli miei:

1° la grandezza de’ tormenti che soffrono le anime nel purgatorio;

2° quali mezzi abbiamo di sollevarli, cioè le nostre preghiere, le nostre opere buone, e soprattutto il santo Sacrificio della Messa.

I . — Non voglio trattenermi a dimostrarvi l’esistenza del Purgatorio: sarebbe tempo perduto. Niuno di voi ha su questo punto alcun dubbio. La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha promesso l’assistenza del suo Santo Spirito, e che non può quindi né ingannarsi né ingannare, ce l’insegna in modo ben chiaro ed evidente. È certo e certissimo che v’è un luogo ove le anime dei giusti finiscono d’espiare i loro peccati prima d’essere ammesse alla gloria del paradiso per esse sicura. Sì, miei fratelli, ed è articolo di fede: se non abbiam fatto penitenza proporzionata alla gravezza e all’enormità de’ nostri peccati, sebben perdonati nel santo tribunale della penitenza, saremo condannati ad espiarli nelle fiamme del purgatorio. Se Dio, essenziale giustizia, non lascia senza premio un buon pensiero, un buon desiderio e la minima buona azione, neppur lascerà impunita una colpa, per quanto leggera; e noi dovremo andare a patire in Purgatorio, onde finir di purificarci, per tutto il tempo che esigerà la divina giustizia. Gran numero di passi della santa Scrittura ci mostrano che, quantunque i nostri peccati ci siano stati perdonati, pure Iddio c’impone anche l’obbligo di patire in questo mondo per mezzo di pene temporali, o nell’altro tra le fiamme del Purgatorio. Vedete che cosa accadde ad Adamo: essendosi pentito dopo il suo peccato. Dio l’assicurò che gli aveva perdonato, e tuttavia lo condannò a far penitenza per oltre 900 anni (Gen. III, 17-19); penitenza che sorpassa quanto può immaginarsi. Osservate ancora (II Re, XXIV): David, contro il beneplacito di Dio, ordina il novero de’ suoi sudditi; ma, spinto dai rimorsi della sua coscienza, riconosce il suo peccato, si getta con la faccia per terra e prega il Signore a perdonargli. E Dio, impietosito pel suo pentimento, gli perdona di fatto; ma tuttavia gli manda Gad che gli dica: « Principe, scegli uno de’ tre flagelli, che Dio ti ha apparecchiato in pena del tuo peccato: la peste, la guerra e la fame ». David risponde: «Meglio è cadere nelle mani del Signore, di cui tante volte ho sperimentato la misericordia, che in quelle degli uomini ». Scegli quindi la peste che durò tre giorni e gli tolse 70000 sudditi: e se il Signore non avesse fermato la mano dell’Angelo, già stesa sulla città, tutta Gerusalemme sarebbe rimasta Spopolata. David, vedendo tanti mali cagionati dal suo peccato, chiese in grazia a Dio che punisse lui solo, e risparmiasse il suo popolo ch’era innocente. Ohimè! miei fratelli, per quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio noi che abbiam commesso tanti peccati: e che, col pretesto d’averli confessati non facciamo penitenza alcuna e non li piangiamo? Quanti anni di patimenti ci aspettano nell’altra vita! Ma come potrò io farvi il quadro straziante delle pene che soffrono quelle povere anime, poiché i SS. Padri ci dicono che i mali cui esse son condannate in quel carcere, sembrano pari ai dolori che Gesù Cristo ha sofferto nel tempo della sua passione? E tuttavia è certo che se il minimo dei dolori che ha patito Gesù Cristo fosse stato diviso tra tutti gli uomini, sarebbero tutti morti per la violenza del dolore. Il fuoco del Purgatorio è il fuoco medesimo dell’inferno, con la sola differenza che non è eterno. Oh! bisognerebbe che Dio. nella sua misericordia permettesse ad una di quelle povere anime, che ardono tra quelle fiamme, di comparir qui a luogo mio, circondata dal fuoco che la divora, e farvi essa il racconto delle pene che soffre. Bisognerebbe, fratelli miei, ch’essa facesse risuonar questa chiesa delle sue grida e de’ suoi singhiozzi; forse ciò riuscirebbe alfine ad intenerire i vostri cuori. « Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Re-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » (Ps. CXLII, 2). « Se avete trovato macchie nel sole e malizia negli Angeli, che sarà dell’uomo peccatore? » (I Piet. IV, 18). E per noi che abbiam commesso tanti peccati mortali, e non abbiamo ancor fatto quasi nulla per soddisfare alla giustizia divina, quanti anni di purgatorio!… – « Mio Dio, diceva S. Teresa, qual anima sarà tanto pura da entrare in cielo senza passare per le fiamme vendicatrici? » Nella sua ultima malattia essa ad un tratto esclamò: «O giustizia e potenza del mio Dio, siete pur terribile! » Durante la sua agonia Dio le fece vedere la sua santità, quale la vedono in cielo gli Angeli e i Santi, il che le cagionò sì vivo terrore, che le sue suore, vedendola tutta tremante e in preda ad una straordinaria agitazione, gridarono piangendo: « Ah! madre nostra, che cosa mai vi è accaduto? Temete; ancora la morte dopo tante penitenze, e lacrime sì copiose ed amare? » — « No, mie figliuole, rispose S. Teresa, non temo la morte; anzi la desidero per unirmi eternamente al mio Dio ». — « Vi spaventano dunque i vostri peccati dopo tante macerazioni? » — « Sì, mie figliuole, rispose, temo i miei peccati, ma temo più ancora qualche altra cosa ». — « Forse il giudizio? » — « Sì, rabbrividisco alla vista del conto che dovrò rendere a Dio, il quale in quel momento sarà senza misericordia; ma vi è oltre a questo una cosa il cui solo pensiero mi fa morire di spavento ». Quelle povere suore grandemente si angustiavano. « Ohimè! Sarebbe mai l’inferno? » — « No, disse la santa, l’inferno, per grazia di Dio, non è per me: Oh! sorelle mie, è la santità di Dio! Mio Dio. abbiate pietà di ine! La mia vita dev’essere confrontata con quella di Gesù Cristo medesimo! Guai a me, se ho la minima macchia, il minimo neo! Guai a me, se ho pur l’ombra del peccato! ». — « Ohimè! esclamarono quelle povere religiose, qual sarà dunque la nostra sorte?…  E di noi che sarà, fratelli miei, di noi che forse con tutte le nostre penitenze ed opere buone non abbiamo ancor soddisfatto per un solo peccato perdonatoci nel tribunale della penitenza? Ah! quanti anni e quanti secoli di tormenti per punirci!… Pagheremo pur cari tutti quei falli che riguardiamo come un nulla, come quelle bugie dette per divertimento, le piccole maldicenze, la non curanza delle grazie che Dio ci fa ad ogni momento, quelle piccole mormorazioni nelle tribolazioni ch’Egli ci manda! No, miei fratelli, non avremmo il coraggio di commettere il minimo peccato, se potessimo intendere quale offesa fa a Dio, e come merita d’esser punito rigorosamente anche in questo mondo. – Leggiamo nella santa Scrittura (III Re, XII) che il Signore disse un giorno ad uno de’ suoi profeti: « Va a mio nome da Geroboamo per rimproverargli l’orribilità della sua idolatria: ma ti proibisco di prendere alcun nutrimento né in casa sua, né per via ». Il profeta obbedì tosto, e s’espose anche a sicuro pericolo di morte. Si presentò dinanzi al re, e gli rimproverò il suo delitto, come gli aveva detto il Signore. Il re, montato in furore perché il profeta aveva avuto ardire di riprenderlo, stende la mano e comanda che sia arrestato. La mano del re rimase tosto disseccata. Geroboamo, vedendosi punito, rientrò in se stesso; e Dio, mosso dal suo pentimento, gli perdonò il suo peccato e gli restituì sana la mano. Questo benefizio mutò il cuore del re, che invitò il profeta a mangiare con lui. « No, rispose il profeta, il Signore me l’ha proibito: quando pure mi donaste metà del vostro regno, non lo farò ». Mentre tornava indietro, trovò un falso profeta, che si diceva mandato da Dio, il quale l’invitò a mangiar seco. Si lasciò ingannare da quel discorso, e prese un poco di nutrimento. Ma, uscendo dalla casa del falso profeta, incontrò un leone d’enorme grossezza, che si gettò su lui e lo sbranò. Or se chiedete allo Spirito Santo, quale sia stata la cagione di quella morte, vi risponderà che la disobbedienza del profeta gli meritò tal castigo. Vedete pure Mosè, che era sì caro a Dio: per aver dubitato un momento della sua potenza, battendo due volte una rupe per farne zampillar l’acqua, il Signore gli disse: « Aveva promesso di farti entrare nella terra promessa, ove latte e miele scorrono a rivi; ma per punirti d’aver battuto due volte la rupe, come se una sola non fosse stata bastante, andrai fino in vista di quella terra di benedizione, e morrai prima d’entrarvi » (Num. XX, 11, 12). Se Dio, miei fratelli, punì così rigorosamente peccati così leggeri, che cosa sarà d’una distrazione nella preghiera, del girare il capo in chiesa, ecc.?.. Oh! siam pur ciechi! Quanti anni e quanti secoli di Purgatorio ci prepariamo per tutte queste colpe che riguardiam come cose da nulla! … Come muteremo linguaggio, quando saremo tra quelle fiamme ove la giustizia di Dio si fa sentire così rigorosamente!… Dio è giusto, fratelli miei, giusto in tutto quello che fa. Quando ci ricompensa della minima buona azione, lo fa oltre i confini di ciò che possiamo desiderare; un buon pensiero, un buon desiderio, cioè il desiderar di fare qualche opera buona, quand’anche non si potesse fare, Ei non lascia senza ricompensa; ma anche quando si tratta di punirci, lo fa con rigore, e quando pur fossimo rei d’una sola colpa leggera, saremmo gettati nel Purgatorio. Quest’è verissimo, perché leggiamo nelle vite de’ Santi che parecchi sono giunti al cielo sol dopo esser passati per le fiamme del Purgatorio. S. Pier Damiani racconta che sua sorella stette parecchi anni nel purgatorio per avere ascoltato una canzone cattiva con qualche po’ di piacere. – Si narra che due religiosi si promisero l’un l’altro che, chi morisse pel primo, verrebbe a dire al superstite in quale stato si trovasse; infatti Dio permise al primo che morì di comparire all’amico, egli disse ch’era stato quindici giorni al purgatorio per aver amato troppo di far la propria volontà. E siccome l’amico si rallegrava con lui perché vi fosse stato sì poco : « Avrei voluto piuttosto, gli disse il defunto, esser scorticato vivo per diecimila anni continui; perché un simile tormento non avrebbe potuto ancora paragonarsi a ciò che ho patito tra quelle fiamme ». Un prete disse ad uno de’ suoi amici che Dio l’aveva condannato a più mesi di purgatorio per aver tardato ad eseguire un testamento in cui si disponeva per opere buone. Ohimè! miei fratelli, quanti tra quei che mi ascoltano debbono rimproverarsi un simile fatto! Quanti forse da otto o dieci anni ebbero da’ loro parenti od amici l’incarico di far celebrar Messe, distribuir limosine, e han trascurato tutto! Quanti, per timore di trovar l’incarico di far qualche opera buona, non si vogliono dar la briga neppur di guardare il testamento fatto a favor loro da parenti o da amici! Ohimè! quelle povere anime son prigioniere tra quelle fiamme, perché non si vogliono compiere le loro ultime volontà! Poveri padri e povere madri, vi siete sacrificati per mettere in miglior condizione i vostri figli o i vostri eredi; avete forse trascurato la vostra salute per accrescere la loro fortuna: vi siete fidati sulle opere buone, che avreste lasciate per testamento! Poveri parenti! Foste pur ciechi a dimenticare voi stessi! – Forse mi direte: « I nostri parenti son vissuti bene, erano molto buoni ». Ah! quanto poco ci vuole per cader tra quelle fiamme! Udite ciò che disse su questo proposito Alberto Magno, le cui virtù splendettero in modo straordinario: rivelò un giorno ad un amico che Dio l’aveva fatto andare al purgatorio, perché aveva avuto un lieve pensiero di compiacenza pel suo sapere. Aggiungete (cosa che desta anche maggior meraviglia) che vi son Santi canonizzati, i quali dovettero passare pel purgatorio. S. Severino, Arcivescovo di Colonia, apparve ad uno, de’ suoi amici molto tempo dopo la sua morte, e gli disse ch’era stato al Purgatorio per aver rimandato alla sera certe preghiere che doveva dire al mattino. Oh! quanti anni di purgatorio per quei Cristiani, che senza difficoltà differiscono ad altro tempo le loro preghiere, perché han lavoro pressante! Se desiderassimo sinceramente la felicità di possedere Iddio, eviteremmo le piccole colpe, come le grandi, poiché la separazione da Dio è tormento sì orribile a quelle povere anime! – I santi Padri ci dicono che il Purgatorio è un luogo vicino all’inferno; il che si capisce agevolmente, perché il peccato veniale è vicino al peccato mortale; ma credono che non tutte le anime per soddisfare alla giustizia divina sian chiuse in quel carcere, e che molte patiscano sul luogo stesso ove hanno peccato. Infatti S. Gregorio Papa ce ne dà una prova manifesta. Riferisce che un santo prete infermo andava ogni giorno, per ordine del medico, a prender bagni in un luogo appartato; e ogni giorno vi trovava un personaggio sconosciuto, che l’aiutava a scalzarsi e, fatto il bagno, gli presentava un panno per asciugarsi. Il santo prete mosso da riconoscenza, tornando un giorno da celebrare la santa Messa, presentò allo sconosciuto un pezzo di pane benedetto. « Padre mio, gli rispose egli, voi m’offrite cosa, di cui non posso far uso, quantunque mi vediate rivestito d’un corpo. Sono il Signore di questo luogo, che faccio qui il mio purgatorio». E scomparve dicendo: «Ministro del Signore, abbiate pietà di me! Oh! quanto soffro! Voi potete liberarmi; offrite, ve ne prego, per me il santo Sacrifizio della Messa, offrite le vostre preghiere e le vostre infermità. Il Signore mi libererà ». Se fossimo ben convinti di questo, potremmo sì facilmente dimenticare i nostri parenti, che ci stanno forse continuamente d’intorno? Se Dio permettesse loro di mostrarsi visibilmente, li vedremmo gettarsi a’ nostri piedi. « Ah! figli miei, direbbero quelle povere anime, abbiate pietà di noi! Deh! non ci abbandonate! ». Sì, miei fratelli, la sera andando al riposo, vedremmo i nostri padri e le madri nostre richiedere il soccorso delle nostre preghiere; li vedremmo nelle nostre case, nei nostri campi. Quelle povere anime ci seguono dappertutto; ma, ohimè! son poveri mendicanti dietro a cattivi ricchi. Han bell’esporre ad essi le loro necessità e i loro tormenti; quei cattivi ricchi sgraziatamente non se ne commuovono punto. « Amici miei, ci gridano, un Pater e un Ave! una Messa! » Ecché? Saremo ingrati a segno da negare ad un padre, ad una madre una parte sì piccola dei beni che ci hanno acquistato o conservato con tanti stenti? Ditemi, se vostro padre, vostra madre o uno de’ vostri figliuoli fossero caduti nel fuoco, e vi tendessero le mani per pregarvi a liberarli, avreste coraggio di mostrarvi insensibili, e lasciarli ardere sotto i vostri occhi? Or la fede c’insegna che quelle povere anime soffrono tali pene cui nessun uomo mortale sarà mai capace di intendere Se vogliamo assicurarci il cielo, fratelli miei, abbiamo gran divozione a pregar per le anime del Purgatorio. Può ben dirsi che questa divozione è segno quasi certo di predestinazione, ed efficace motivo di salute. La santa Scrittura nella storia di Gionata ci mette sott’occhio un mirabile paragone (1 Re XIV). Saul, padre di Gionata, aveva proibito a tutti i soldati, sotto pena di morte, di prendere alcun nutrimento prima che i Filistei fossero stati interamente disfatti. Gionata, che non aveva udito quella proibizione, sfinito com’era dalla fatica, intinse in un favo di miele la punta del suo bastone e ne gustò. Saul consultò il Signore per sapere, se alcuno aveva violato la proibizione. Saputo che l’aveva violata suo figlio, comandò che mettessero le mani su Gionata, dicendo: « Mi punisca il Signore, se oggi non morrai ». Gionata. vedendosi dal padre condannato a morte, per aver violato una proibizione che non aveva udita, volse lo sguardo al popolo, e, piangendo, pareva rammentare tutti i servigi che gli aveva reso, tutta la benevolenza che aveva loro usata, il popolo si gettò subito ai piedi di Saul: « Ecché? Farai morir Gionata, che ha poc’anzi salvato Israele?Gionata che ci ha liberati dalle mani de’ nostri nemici? No, no: non cadrà dal suo capo un capello: troppo ci sta a cuore conservarlo: troppo bene ci ha fatto, e non è possibile dimenticarlo sì presto ». Ecco l’immagine sensibile di ciò che avviene all’ora della morte. Se, per nostra buona ventura, avremo pregato per le anime del purgatorio, quando compariremo d’innanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutte le nostre azioni, quelle anime si getteranno ai piedi del Salvatore dicendo: «Signore, grazia per questa anima! Grazia, misericordia per essa! Abbiate pietà, mio Dio, di quest’anima così caritatevole, che ci ha liberate dalle flamine, e ha soddisfatto per noi alla vostra giustizia! Mio Dio, mio Dio, dimenticate, ve ne preghiamo le sue colpe, com’essa vi ha fatto dimenticare le nostre! » Oh! quanto efficaci son questi motivi per ispirarvi una tenera compassione verso quelle povere anime sofferenti! Ohimè! esse ben presto sono dimenticate! Si ha pur ragione di dire che il ricordo de’ morti svanisce insieme col suono delle campane. Soffrite, povere anime, piangete in quel fuoco acceso dalla giustizia divina; ciò non giova a nulla; nessuno vi ascolta; nessuno vi porge sollievo!… Ecco dunque, fratelli miei, la ricompensa di tanta bontà e di tanta carità ch’ebbero per noi mentre ancora vivevano. No, non siamo nel numero di questi ingrati; poiché lavorando alla loro liberazione, lavoreremo alla nostra salute.

II. — Ma, direte forse, come possiamo sollevarle e condurle al cielo! Se desiderate prestar loro soccorso, fratelli miei, vi farò vedere che è cosa facile il farlo; 1° per mezzo della preghiera e dell’elemosina; 2° per mezzo delle indulgenze; 3° soprattutto col santo sacrificio della Messa.

Dico primieramente per mezzo della preghiera.

Quando facciamo una preghiera per le anime del purgatorio, cediamo loro ciò che Dio ci concederebbe se la facessimo per noi; ma ohimè! quanto poca cosa sono le nostre preghiere, poiché è pur sempre un peccatore che prega per un colpevole! Mio Dio. Deve esser pur grande la vostra misericordia! … Possiamo ogni mattina offrire tutte le azioni della nostra giornata e tutte le nostre preghiere pel sollievo di quelle povere anime sofferenti. È ben poca cosa, certamente; ma ecco: facciamo ad esse come ad una persona, che abbia le mani legate e sia carica d’ un pesante fardello, a cui si venga di tratto in tratto a togliere qualche po’ di quel peso; a poco a poco si troverà libera del tutto. L’istesso accade alle povere anime del purgatorio, quando facciamo per esse qualche cosa: una volta abbrevieremo le loro pene di un’ora, un’altra volta d’un quarto d’ora, sicché ogni giorno avviciniamo al cielo.

Diciamo in secondo luogo che possiamo liberare le anime del purgatorio con le indulgenze, le quali a gran passi le conducono verso il paradiso. Il bene che loro comunichiamo è di prezzo infinito perché applichiamo ad essi i meriti del Sangue adorabile di Gesù Cristo, delle virtù della SS. Vergine e dei Santi, i quali han fatto maggiori penitenze che non richiedessero i loro peccati. Ah! se volessimo, quanto presto avremmo vuotato il purgatorio, applicando a queste anime sofferenti tutte le indulgenze che possiamo guadagnare!… Vedete, fratelli miei, facendo la Via Crucis, si possono guadagnare quattordici indulgenze plenarie (C. d. Ind. 1742). E si fa in più modi … (Nota del Santo andata persa – nota degli edit. francesi) . Oh! siete pur colpevoli per aver lasciato tra quelle fiamme i vostri parenti, mentre potevate così bene e facilmente liberarli!

Il mezzo più efficace per affrettare la loro felicità è la santa Messa, poiché in essa non è più un peccatore che prega per un peccatore, ma un Dio eguale al Padre, che non saprà mai negargli nulla. Gesù Cristo ce ne assicura nel Vangelo; dicendo; « Padre, ti rendo grazie perché mi ascolti sempre ! » (Joan. XI, 41-42). Per meglio persuadercene, vi citerò un esempio dei più commoventi, da cui intenderete quanto grande efficacia abbia la santa Messa. È riferito nella storia ecclesiastica che, poco dopo la morte dell’imperator Carlo (Carlo il Calvo), un sant’uomo della diocesi di Reims, per nome Bernold, essendo caduto infermo e avendo ricevuto gli ultimi Sacramenti stette quasi un giorno senza parlare, e appena appena si poteva riconoscere che ancor vivesse; finalmente aprì gli occhi, e comandò a chi lo assisteva di far venir al più presto il suo confessore. Il prete venne tosto, e trovò il malato tutto in lacrime, il quale gli disse: «Sono stato trasportato all’altro mondo, e mi son trovato in un luogo ove ho veduto il Vescovo Pardula di Laon, che pareva vestito di cenci sudici e neri, e pativa orribilmente tra le fiamme; ei m’ha parlato così: « Poiché avete la buona sorte di tornare in terra, vi prego d’aiutarmi e darmi sollievo; potete anzi liberarmi, e assicurarmi la grande felicità di vedere Iddio ». — « Ma, gli ho risposto, come potrò procurarvi tale felicità? ». — « Andate da quelli che nel corso della mia vita ho beneficato, e dite loro che in ricambio preghino per me, e Dio mi userà misericordia ». Dopo fatto ciò che mi aveva comandato l’ho riveduto bello come un sole: non pareva più che soffrisse, e, nella sua gioia mi ringraziò dicendo: « Vedete quanti beni e quante felicità mi han procurato le preghiere e la santa Messa » . Poco più in là ho veduto re Carlo, che mi parlò così: « Amico mio, quanto soffro! Va dal Vescovo Iucmaro, e digli che son nei tormenti per non aver seguito i suoi consigli; ma faccio assegnamento su lui perché m’aiuti ad uscire da questo luogo di patimenti; raccomanda pure a tutti quelli i quali ho beneficato nel corso della mia vita che preghino per me, ed offrano il santo Sacrificio della Messa, e sarò liberato » . Andai dal Vescovo che si apparecchiava a dir Messa, e che, con tutto il suo popolo, si mise a pregare con tale intenzione. Rividi poi il re, rivestito dei suoi abiti regali, e tutto splendente di gloria: « Vedi, mi disse, qual gloria m’hai procurata: ormai eccomi felice per sempre » . In quell’istante sentii la fragranza d’uno squisito profumo, che veniva dal soggiorno de’ beati. « Mi ci accostai, dice il P. Bernold, e vidi bellezze e delizie, che lingua umana non è capace di esprimere » (V. Fleury T. VII, anno 877). Ciò dimostra quanto siano efficaci le nostre preghiere e le nostre opere buone, e specialmente la S. Messa, per liberar dai loro tormenti quelle povere anime. Ma eccone un altro esempio tratto anche questo dalla storia della Chiesa: è anche più meraviglioso. Un prete, informato della morte d’un suo amico, che amava solo per Iddio, non trovò mezzo più potente per liberarlo che andar tosto ad offrire il santo Sacrificio della Messa. Lo cominciò con tutto il possibile fervore e col dolore più vivo. Dopo aver consacrato il Corpo adorabile di Gesù Cristo, lo prese tra mano, e levando al cielo le mani e gli occhi, disse: « Eterno Padre, io vi offro il Corpo e l’Anima del vostro carissimo Figliuolo. Eterno Padre! Rendetemi l’anima dell’amico mio, che soffre tra le fiamme del Purgatorio! Sì, mio Dio, io son libero d’offrirvi o no il vostro Figliuolo, voi potete accordarmi ciò che vi domando! Mio Dio facciamo il cambio; liberate l’amico mio e vi darò il vostro Figliuolo: ciò che vi offro val molto più di ciò che vi domando ». Questa preghiera fu fatta con fede sì viva, che nel punto stesso vide l’anima dell’amico uscir dal purgatorio e salire al cielo. Si narra pure che, mentre un prete diceva la S. Messa per un’anima del Purgatorio, si vide venire in forma di colomba e volare al cielo. S. Perpetua raccomanda assai vivamente di pregare le anime del purgatorio. Dio le fece vedere in visione suo fratello che ardeva tra le fiamme, e che pure era morto di soli sette anni, dopo aver sofferto per quasi tutta la vita d’un cancro che lo faceva gridar giorno e notte. Essa fece molte preghiere e molte penitenze per la sua liberazione e lo vide salire al cielo splendente come un angelo. Oh! son pur beati, fratelli miei, quelli che hanno di tali amici! A mano a mano che quelle povere anime s’avvicinano al cielo, par che soffrano anche di più. Sono come Assalonne: dopo essere stato qualche tempo in esilio torna a Gerusalemme, ma col divieto di veder suo padre che l’amava teneramente. Quando gli si annunziò che rimarrebbe vicino a suo padre, ma non potrebbe vederlo, esclamò: « Ah! vedrò dunque le finestre e i giardini di mio padre e non lui? Ditegli che voglio piuttosto morire, anziché rimaner qui, e non aver la consolazione di vederlo. Ditegli che non mi basta aver ottenuto il suo perdono. ma è ancor necessario che mi conceda la sorte felice di rivederlo » [II Re, XIV — Veramente le parole qui citate furon dette da Assalonne, non quando udì la sentenza del Re, ma due anni dopo. (Nota del Traduttore)]. Così quelle povere anime, vedendosi tanto vicine a uscire dal loro esilio, sentono accendersi così vivamente il loro amor verso Dio, e il desiderio di possederlo, che pare non possano più resistervi. « Signore, gridano esse, rimirateci con gli occhi della vostra misericordia: eccoci al fine delle nostre pene ». — « Oh! siete pur felici, gridano a noi di mezzo alle fiamme che le tormentano, voi che potete ancora sfuggire questi patimenti! … ». Mi pare anche d’udir quelle povere anime, che non han né parenti, né amici: Ah! se vi resta ancora un poco di carità, abbiate pietà di noi, che da tanti anni siamo abbandonate in queste fiamme accese dalla giustizia divina! Oh! se poteste comprendere la grandezza de’ nostri patimenti, non ci abbandonereste come fate! Mio Dio! nessuno dunque avrà pietà di noi? È certo, miei fratelli, che quelle povere anime non possono nulla per sé; possono però molto per noi. E prova di questa verità è che nessuno ha invocate le anime del purgatorio senza aver ottenuta la grazia che domandava. E ciò s’intende agevolmente: se i Santi, che sono in cielo e non han bisogno di noi, si danno pensiero della nostra salute, quanto più le anime del purgatorio che ricevono i nostri benefìci spirituali a proporzione della nostra santità. « Non ricusate, o Signore, (dicono) questa grazia a quei Cristiani che si adoperano con ogni cura a trarci da queste fiamme! » Una madre potrà forse far a meno di chiedere a Dio qualche grazia per figli, che ha tanto amato e che pregano per la sua liberazione? Un pastore, che in tutto il corso della sua vita ebbe tanto zelo per la salute de’ suoi parrocchiani, potrà non chieder per essi, anche dal purgatorio, le grazie, di cui hanno bisogno per salvarsi? Sì, miei fratelli, quando avremo da domandar qualche grazia, rivolgiamoci con fiducia a quelle anime sante e saremo sicuri d’ottenerla. Qual buona ventura per noi avere, nella divozione alle anime del purgatorio, un mezzo così eccellente per assicurarci il cielo! Vogliamo chiedere a Dio il perdono de’ nostri peccati? Rivolgiamoci a quelle anime che da tanti anni piangono tra le fiamme le colpe da loro commesse. Vogliamo domandare a Dio il dono della perseveranza? Invochiamole, fratelli miei, che esse ne sentono tutto il pregio; poiché solo quei che perseverano vedranno Iddio. Nelle nostre malattie, nei nostri dolori volgiamo le nostre preghiere verso il Purgatorio, ed otterranno il loro frutto. Che cosa concludere miei fratelli, da tutto questo? Eccolo. È certo molto scarso il numero degli eletti, che sfuggono interamente le pene del purgatorio; e i patimenti a cui quelle anime sono condannate, son molto superiori a quanto potremo intenderne. È certo pure che sta in nostra mano quanto può dar sollievo alle anime del Purgatorio, cioè le nostre preghiere, le nostre penitenze, le nostre elemosine e soprattutto la santa Messa. Finalmente siam certi che quelle anime, così piene di carità, ci otterranno mille volte più di quello che loro daremo. Se un giorno saremo nel Purgatorio, quelle anime non lasceranno di chiedere a Dio l’istessa grazia che avremo ad esse ottenuto; poiché han pur sentito quanto si soffre in quel luogo di dolori e quanto è crudele la separazione da Dio. Nel corso di quest’ottava consacriamo qualche momento ad opera sì bene spesa. Quante anime andranno in paradiso pel merito della santa Messa e delle nostre preghiere!… Ognun di noi pensi a’ suoi parenti, e a tutte le povere anime da lunghi anni abbandonate! Sì, fratelli miei, offriamo in loro sollievo tutte le nostre azioni. Cosi piaceremo a Dio che ne desidera tanto la liberazione, e ad esse procureremo la felicità del godimento di Dio. Il che io vi desidero.

CREDO ….

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium. [Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Comunione spirituale

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

Preghiere leonine

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

Orinario della Messa.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.

[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].


Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

TERZA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr 2:34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

35
[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente.]


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]

Oratio

Orémus.
Deus, véniæ largítor et humánæ salútis amátor: quǽsumus cleméntiam tuam; ut nostræ congregatiónis fratres, propínquos et benefactóres, qui ex hoc sǽculo transiérunt, beáta María semper Vírgine intercedénte cum ómnibus Sanctis tuis, ad perpétuæ beatitúdinis consórtium perveníre concédas.

[O Dio, che elargisci il perdono e vuoi la salvezza degli uomini, imploriamo la tua clemenza affinché, per l’intercessione della beata Maria sempre Vergine e di tutti i tuoi Santi, Tu conceda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la grazia di partecipare alla beatitudine eterna..]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli
Apoc XIV:13
In diébus illis: Audívi vocem de cœlo, dicéntem mihi: Scribe: Beáti mórtui, qui in Dómino moriúntur. Amodo jam dicit Spíritus, ut requiéscant a labóribus suis: ópera enim illórum sequúntur illos.

[In quei giorni, io intesi una voce dal cielo che mi diceva: «Scrivi: “Beati i morti che muoiono nel Signore”. Sì, fin d’ora – dice lo Spirito – essi riposano dalle loro fatiche, perché le loro opere li accompagnano».]

Graduale

4 Esdr II:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole.]
Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.
[L ibera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna.]

Sequentia

[ut supra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem
Joann VI: 51-55
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cœlo descéndi. Si quis manducáverit ex hoc pane, vivet in ætérnum: et panis, quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigábant ergo Judæi ad ínvicem, dicéntes: Quómodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducándum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen, dico vobis: nisi manducavéritis carnem Fílii hóminis et bibéritis ejus sánguinem, non habébitis vitam in vobis. Qui mánducat meam carnem et bibit meum sánguinem, habet vitam ætérnam: et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: «Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne». I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».]

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.]

Secreta

Deus, cujus misericórdiæ non est númerus, súscipe propítius preces humilitátis nostræ: et animábus fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, quibus tui nóminis dedísti confessiónem, per hæc sacraménta salútis nostræ, cunctórum remissiónem tríbue peccatórum.

[Dio, la cui misericordia è infinita, accogli propizio le nostre umili preghiere, e in grazia di questo sacramento della nostra salvezza, concedi la remissione di ogni peccato a tutti i fedeli defunti a cui hai accordato di dar testimonianza al tuo nome.]

Præfatio Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli esérciti I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; 34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut ánimæ fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, pro quibus hoc sacrifícium laudis tuæ obtúlimus majestáti; per hujus virtútem sacraménti a peccátis ómnibus expiátæ, lucis perpétuæ, te miseránte, recípiant beatitúdinem.

[Fa’, o Dio onnipotente e misericordioso, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali abbiamo offerto alla tua maestà questo sacrificio di lode, purificate da tutti i peccati per l’efficacia di questo sacramento, ricevano per tua misericordia la felicità dell’eterna luce.]

FESTA DI TUTTI I SANTI (2021)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2021)

Santa MESSA

1° NOVEMBRE

Festa di tutti i Santi.

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S. Maria e ai Martiri». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a « Tutti i Santi «. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII trasportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – I Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato i loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli» dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, Re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’«Agnello immolato », sono un solo altare: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]


Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum omérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII: 2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale


Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, gli ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

SULLA SANTITÀ

[I Sermoni del S. Curato d’Ars]

Sancti estote, quia ego sanctus

 Siate santi, perchè santo son io.

(Levitico XIX, 2).

Siate santi, perché santo son Io, dice il Signore. Perché mai, miei fratelli, Dio ci fa un simile comandamento? Perché siamo suoi figli, e se santo è il Padre, devono esserlo anche i figli. I Santi soltanto possono sperare la sorte felice d’andare a godere la visione di Dio, ch’è santità per essenza. Infatti essere Cristiani e viver nel peccato, è contraddizione mostruosa. Un Cristiano dev’esser santo. Sì, miei fratelli, questa verità la Chiesa Ci ripete continuamente, e, per istamparla ne’ nostri cuori, ci mette dinanzi un Dio infinitamente Santo, che rende sante un’infinita moltitudine d’anime, le quali pare ci dicano: « Rammentate, o Cristiani, che siete destinati a vedere Iddio e possederlo; ma non avrete questa felicità, se, nel corso della vostra vita mortale, non avrete ritratto in voi la sua immagine, le sue perfezioni e specialmente la sua santità, senza di cui niuno sarà ammesso a vederlo ». Ma se la santità di Dio, miei fratelli, ci si mostra al di sopra delle nostre forze, consideriamo quelle anime beate, quella moltitudine di creature d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione, che furono soggette all’istesse miserie che noi, esposte ai medesimi pericoli, soggette agli stessi peccati, assaliti da’ medesimi nemici, circondati da’ medesimi ostacoli. Ciò che poteron esse, possiamo anche noi, e non abbiamo scusa per dispensarci dal lavorare alla nostra salute, cioè a divenir santi. Non debbo dunque dimostrarvi altra cosa se non l’obbligo indispensabile che abbiamo di farci santi; e a tal fine vi mostrerò:

l° in che consiste la santità;

2° che noi possiamo acquistarla, come l’acquistarono i Santi, perché abbiamo le medesime difficoltà e i medesimi aiuti.

I. — I mondani, per esimersi dal lavorare ad acquistare la santità, il che certamente sarebbe ad essi d’impaccio nel loro modo di vivere, vogliono farci credere che per esser Santi bisogna fare azioni che facciano gran rumore, attendere a straordinarie pratiche di pietà, darsi a grandi austerità, far molti digiuni, ritirarsi dal mondo per internarsi nel deserto e passarvi giorni e notti in preghiera. Tutto questo è cosa buona, ed è la via seguita da molti Santi; ma Dio non domanda questo da tutti. No, miei fratelli, la nostra santa Religione non esige tanto; ma ci dice invece: « Alzate gli occhi al cielo, e vedete se tutti quelli che ne occupano i primi posti fecero cose fuor dell’ordinario. Dove sono i miracoli della SS. Vergine, di S. Giovanni Battista, di S. Giuseppe? » Udite, fratelli miei: Gesù Cristo medesimo dice: che nel giorno del giudizio molti grideranno: « Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in vostro Nome; non abbiam cacciato i demoni e fatto miracoli? » — « Ritiratevi da me, risponderà loro il giusto Giudice: ecche? Comandaste al mare, e non avete saputo comandare alle vostre passioni? Liberaste gli ossessi dal demonio, e poi ne foste schiavi? Avete fatto miracoli, e non avete osservato i miei comandamenti?… Andate, sciagurati, al fuoco eterno: avete fatto grandi cose; eppur non faceste nulla per salvarvi e meritare il mio amore » (S. Matth. VII). Vedete dunque, fratelli miei, che la santità non consiste nel far grandi cose, ma nell’osservare fedelmente i comandamenti di Dio, e nell’adempiere i propri doveri in quello stato in cui Dio ci ha posti. – Si vede spesso una persona, che vive in mezzo al mondo, e compie fedelmente i piccoli doveri del suo stato, riuscire a Dio più gradita che i solitari nei loro deserti. Ecco un esempio che ve ne convincerà. Noi leggiamo nella storia, che due solitari domandavano a Dio la maniera di amarlo e servirlo, come si deve, poiché non avevano lasciato il mondo se non per questo. Essi intesero una voce che diceva loro di andare ad Alessandria, ove dimorava un uomo, di nome Eucaristo, e sua moglie che si chiamava Maria. Essi servivano il buon Dio più perfettamente dei solitari ed insegnavano loro come Egli debba essere amato. Contentissimi di questa risposta, si recarono celermente nella città di Alessandria. Là giunti, essi si informarono per diversi giorni senza trovare questi due santi personaggi. Temevano che questa voce li avesse ingannati ed avevano preso la decisione di tornare nel loro deserto, quando si accorsero di una donna sulla porta della sua casa. Essi le domandarono se conoscesse per caso un uomo un uomo chiamato Eucaristo. Ma è mio marito, ella disse loro. – Voi dunque vi chiamate Maria, le dissero i solitari? Chi vi ha fatto conoscere il mio nome? – Noi l’abbiamo conosciuto, con quello di vostro marito, per via soprannaturale, e veniamo qui per parlarvi. Il marito arrivò la sera, conducendo un piccolo gregge di montoni. I solitari corsero subito ad abbracciarlo, e lo pregarono di dirgli qual fosse il suo genere di vita. – Ahimè! padri miei, io non sono che un povero pastore. – Non è questo che vi chiediamo, gli dissero i solitari; diteci come vivete ed in qual modo, voi e vostra moglie, servite il buon Dio. — Padri miei, siete ben voi che dovete dire a noi cosa dobbiamo fare per servire il buon Dio; io non sono che un povero ignorante. — Non importa! Noi simo venuti da parte di Dio a domandarvi come lo servite. — Poiché voi me lo comandate, io ve lo dico. Io ho avuto la fortuna di aver avuto una madre che temeva Dio, e che fin dalla mia infanzia, mi ha raccomandato di fare tutto e soffrire tutto per amor di Dio. Io soffrivo le piccole correzioni che mi si facevano per amor di Dio; io riferivo tutto a Dio: al mattino, mi alzavo, facevo le mie preghiere e tutto il mio lavoro per suo amore. Per amor suo, io prendo i miei pasti; soffro la fame, la sete, il freddo ed il caldo, le malattie e tutte le altre miserie. Non ho figli, ho vissuto con mia moglie come mia sorella, e sempre in una grande pace. Ecco tutta la mia vita che è anche quella di mia moglie. — I solitari, meravigliati di vedere delle anime così gradite a Dio, gli domandarono se avesse dei beni. —  Io ho pochi beni, ma questo piccolo gregge di montoni che mio padre mi ha lasciato, mi è sufficiente, non ho altro. Dei miei guadagni ne faccio tre parti: ne do una parte alla Chiesa, un’altra ai poveri, ed il resto fa vivere me e mia moglie. Vivo in povertà, ma non me ne lamento: e soffro tutto questo per amor di Dio. — Avete nemici, gli chiesero i solitari? — Ahimè, padri miei, chi è colui che non ne ha? Io cerco di fare tutto il bene che posso, cerco di piacer loro in ogni circostanza, mi applico a non far male a nessuno. A queste parole i due solitari furono pieni di gioia nell’aver trovato un mezzo così facile di piacere a Dio ed arrivare alla più alta perfezione. Ecco, fratelli miei, che cos’è la santità, e che cos’è un santo agli occhi della religione. Ditemi, è forse cosa molto difficile il santificarsi nello stato, in cui Dio v’ha messo? Padri e madri, imitate que’ due Santi: ecco i vostri modelli: seguiteli e voi pure diverrete Santi. Fate com’essi. In tutte le cose cercate di piacere a Dio, di far tutto per suo amore, e sarete predestinati. Volete anche sapere che cos’è un santo agli occhi della Religione? È un uomo che teme Iddio, l’ama sinceramente e lo serve con fedeltà; è un uomo che non si lascia punto gonfiare dalla superbia, né dominare dall’amor proprio, ma è veramente a’ propri occhi umile e meschino; che, se sprovveduto de’ beni terreni, non li desidera, o, se li possiede, non v’attacca il cuore; è un uomo ch’è nemico d’ogni acquisto ingiusto; è un uomo che con la pazienza e con la giustizia tenendo a freno l’anima sua, non s’offende d’un’ingiuria che gli vien fatta. Ama i suoi nemici, e non cerca di vendicarsi. Rende al prossimo tutti i servigi che può, divide volentieri coi poveri i suoi beni; cerca Dio solo e sprezza i beni e gli onori di questo mondo. Non desiderando che i beni celesti, sente nausea de’ piaceri della vita e trova soltanto nel servizio di Dio la sua felicita. È un uomo assiduo alle funzioni della Chiesa, che frequenta i Sacramenti e lavora seriamente alla propria salvezza; è un uomo, che, avendo orrore di qualsiasi impurità, fugge, quanto può, le cattive compagnie per conservar puri il suo corpo e l’anima sua. È un uomo, che interamente si soggetta alla volontà di Dio in tutte le croci e le avversità che gli sopravvengono; non accusa né l’uno né l’altro, ma riconosce che per cagione de’ suoi peccati pesa su lui la divina giustizia. È un buon padre che cerca solo la salute de’ suoi figli, dando loro egli medesimo buon esempio, e non facendo nulla che possa scandalizzarli. È un padrone caritatevole, che ama i suoi domestici come fratelli e sorelle. È un figlio che rispetta il padre e la madre e li riguarda come posti a tener le veci di Dio medesimo. È un domestico che nella persona de’ suoi padroni vede Gesù Cristo in persona, che gli comanda per bocca loro. Ecco, miei fratelli, quello che voi chiamate un uomo onesto. Ma ecco pure quel che Dio chiama l’uomo del miracolo, il santo, il gran santo. « Chi è costui? chiede il Savio: noi lo colmeremo di lodi, non perché abbia fatto cose meravigliose nel corso della sua vita: ma perché fu provato dalle tribolazioni e ritrovato perfetto: sarà eterna la sua gloria » (Eccli. XXXI, 9, 10). Che deve intendersi per santa fanciulla: Santa fanciulla è quella che fugge i piaceri e la vanità: che mette ogni suo diletto nel piacere a Dio e ai suoi genitori: che frequenta volentieri le funzioni e i Sacramenti: che sa amare la preghiera; quella in una parola che a tutto preferisce Dio. Ne citerò un esempio meraviglioso, ma vero, tratto dalla storia ecclesiastica, su cui ciascuno potrà modellarsi. Nel tempo della persecuzione, che infierì nella città di Tolemaide, le fanciulle cristiane spiccarono per la loro virtù. Ve n’erano moltissime di nascita illustre, ed erano sì pure che amavano meglio incontrare la morte anziché perder la castità: da se stesse si tagliarono le labbra e parte del viso per apparire più orribili agli occhi di chi loro s’accostasse. Furono lacerate con maglie di ferro e sotto i denti de’ leoni. Quelle impareggiabili giovinette vollero piuttosto tollerare sì acerbi tormenti, che esporre il loro corpo alla licenza dei libertini. Oh! qual condanna sarà quest’esempio per quelle fanciulle leggere, che pensano solo a comparire, ad attirarsi gli sguardi della gente, a segno da divenire spregevoli !… Citerò ancora l’esempio di Santa Coleta (Ribadeneira, al 6 Marzo), vergine sì pura e sì riservata, che temeva tanto di farsi vedere quanto le fanciulle mondane han premura di mostrarsi. Udì un giorno in una conversazione lodarsi la sua bellezza: ne arrossì, e corse subito a prostrarsi a’ piedi del suo crocifisso. « Ah! mio Dio, esclamava piangendo, questa bellezza che m’avete data, sarà cagione della perdita dell’anima mia e di quella d’altri con me? ». Da quel momento abbandonò il mondo, e andò a chiudersi in un monastero, ove soggettò il suo corpo ad ogni sorta di macerazioni. Morendo diede visibili segni d’aver serbata l’anima pura, non solo agli occhi del mondo, ma anche a quelli di Dio. Riconosco, sì, che questi due esempi sono un po’ straordinari, e pochi possono imitarli; ma eccone uno che si adatta assolutamente alle condizioni vostre. Udite attentamente, o giovani, e vedrete, che, se vorrete seguire le attrattive della grazia, ben presto sarete disilluse a riguardo de’ piaceri e delle vanità del mondo che vi allontanano da Dio. Si narra d’una giovane damigella della Franca contea, per nome Angelica, che aveva molto spirito, ma era mondana assai. Avendo udito un predicatore predicar contro la vanità e il lusso nel vestire, andò a confessarsi da lui. Egli le fece intender sì bene quanto fosse colpevole e quante anime poteva trarre a perdizione, che, fin dal giorno dopo, lasciò tutte le sue vanità e si vestì in modo semplicissimo, da cristiana. Sua madre, ch’era come la maggior parte di quei poveri ciechi, i quali par non abbiano figliuole che per precipitarle all’inferno riempiendole di vanità, la riprese perché non s’abbigliava più come prima. « Madre mia, le rispose, il predicatore, da cui sono stata a confessarmi, me l’ha proibito. Quella povera madre, accecata dalla collera, va a cercare il confessore, e gli domanda, se veramente ha proibito a sua figlia di abbigliarsi secondo la moda. « Io non so, le rispose il confessore che cosa abbia detto a vostra figlia: ma vi basti sapere che Dio proibisce di vestirsi conforme alla moda, se questa non è secondo Dio, ma colpevole e perniciosa alle anime ». — « Padre mio, qual moda chiamate voi colpevole e perniciosa alle anime? » — « Quella, per es., di portar vesti troopo aperte, o che mettan troppo in rilievo le forme del corpo; o portar abiti troppo ricchi e più costosi di quel che permette il proprio stato ». Le fece quindi vedere i pericoli di queste mode, e come dessero cattivo esempio. — « Padre mio, gli disse la donna, se il mio confessore m’avesse detto quanto m’avete detto voi, non avrei mai permesso a mia figlia di portar tutte quelle vanità, ed io stessa sarei stata più assennata; eppure il mio confessore è dotto assai! Ma che m’importa che sia dotto, se mi lascia vivere a mio capriccio, e in pericolo di perdermi eternamente? » Tornata a casa, disse a sua figlia: « Benedici Iddio d’aver trovato tal confessore e seguine gli avvertimenti ». La giovane damigella ebbe poi a sostenere terribili combattimenti da parte delle altre compagne, che se ne facevan beffe e la mettevano in ridicolo. Ma l’assalto più forte le venne dalla parte di talune che si provarono a farle mutar pensiero. « Perché, le dissero, non vi abbigliate voi come le altre? » — «Non sono punto obbligata a far come le altre, rispose Angelica: mi vesto come quelle che fan bene e non come quelle che fanno male ». — « Ecché? Facciam dunque male ad abbigliarci quali ci vedete? » — « Sì certamente, fate male, perché date scandalo a chi vi guarda ». — « Quanto a me, disse una tra loro, non ho alcuna intenzione cattiva; mi vesto a modo mio, e se alcuno se ne scandalizza, peggio per lui ». — « Peggio anche per voi, riprese Angelica, perché ne siete occasione; se dobbiam temere di cader noi in peccato, dobbiam pur temere di far peccar gli altri ». — « Checché ne sia delle vostre buone ragioni, replicò un’altra, se non vi vestite più come noi, le vostre amiche vi abbandoneranno, e non avrete più coraggio di comparire nelle belle conversazioni e nei balli ». — « Desidero piuttosto, rispose Angelica, la compagnia della mia cara madre, delle mie sorelle e di alcune morigerate giovinette che tutte codeste belle conversazioni e codesti balli. Non mi vesto per piacere, ma per coprirmi; i veri ornamenti d’una fanciulla non istanno negli abiti, ma nella virtù. Del resto, signore, se la pensate così, non la pensate da cristiane, ed è vergogna che, in una Religione santa come la nostra, vi sia chi si permette tali violazioni della modestia ». Dopo tutti questi discorsi una della compagnia disse: « Davvero è vergogna che una giovinetta di diciott’anni debba darci lezione: il suo esempio sarà un giorno nostra condanna. Siam pur cieche in far tanto per piacere al mondo, che poi si burla di noi! » Angelica perseverò sempre nelle sue buone disposizioni, non ostante tutto ciò che poterono dirle. Ebbene, fratelli miei, chi v’impedisce di far come questa giovine contessa? Essa si è santificata vivendo nel mondo. Oh! qual motivo di condanna sarà nel giorno del giudizio quest’esempio per molti e molti Cristiani! Si può farsi Santi anche nello stato coniugale. Lo Spirito Santo nella sacra Scrittura si diletta di farci il ritratto d’una donna santa; e conforme alla descrizione che ce ne fa (1 Tim. II,, V; Ephes. V) vi dirò che donna santa è quella che ama e rispetta il suo sposo, veglia con sollecitudine sui figliuoli e sui domestici, è attenta a farli istruire e farli accostare ai Sacramenti, s’occupa delle faccende domestiche e non della condotta de’ suoi vicini; è riserbata ne’ discorsi, caritatevole nelle opere, nemica dei divertimenti mondani: una donna siffatta, dico, è un’anima giusta: Dio la loda, la canonizza; insomma è una santa. Vedete dunque, fratelli miei, che per esser santi, non è necessario abbandonar tutto; ma adempier bene i doveri dello stato, in cui Dio ci ha messo, e far tutto ciò che facciamo coll’intenzione di piacere a Lui. Lo Spirito Santo ci dice che per esser santi basta allontanarci dal male e fare il bene (Ps. XXXIII, 13-14). Ecco, miei fratelli, qual santità ebbero tutti i Santi, e dobbiamo avere anche noi. Ciò ch’essi han fatto, possiam fare noi pure con la grazia di Dio; poiché abbiamo com’essi i medesimi ostacoli alla nostra salute e gli stessi aiuti per vincerli.

II. — Dico: 1° che i Santi incontrarono i medesimi ostacoli che noi a giungere alla santità: ostacoli di fuori, ostacoli dentro di sé medesimi. Ostacoli da parte del mondo: il mondo era allora qual è a’ tempi nostri, del pari pericoloso ne’ suoi esempi, del pari corrotto nelle sue massime, del pari seducente ne’ suoi piaceri, sempre nemico della pietà e sempre pronto a metterla in ridicolo. N’è prova il fatto che la maggior parte de’ Santi disprezzò e fuggì il mondo con gran cura; preferirono la ritiratezza alle adunanze mondane; anzi molti, temendo di perdervisi, l’abbandonarono del tutto; gli uni per andarsene a passare il resto de’ loro giorni in un monastero, altri nel fondo dei deserti, quali un S. Paolo primo eremita, un S. Antonio (Vita dei Padri del Deserto. T. I), una santa Maria Egiziaca (Ibid. T. V, pag. 379) e tanti altri. – Ostacoli da parte del loro stato: parecchi erano, come voi, impegnati in affari del mondo, aggravati dagli impicci del governo d’una famiglia, dalla cura de’ figliuoli; obbligati, la maggior parte, a guadagnarsi il pane col sudore della loro fronte; ora, ben lungi dal pensar, come noi, che in un altro stato si salverebbero più facilmente, erano persuasi d’aver grazie maggiori in quello nel quale li aveva messi la Provvidenza. Non vediam forse che nel tumulto del mondo e tra gl’impicci d’una famiglia e le faccende domestiche si salvò un gran numero di Santi? Abramo, Isacco, Giacobbe, Tobia, Zaccaria, la casta Susanna, il santo Giobbe, S. Elisabetta: tutti questi illustri santi dell’antico Testamento, non erano stabiliti nel mondo? E nella nuova Legge può forse contarsi il numero di coloro che si santificarono nelle ordinarie condizioni della vita? Perciò S. Paolo ci dice che i Santi giudicheranno le nazioni (1 Cor. VI, 2). Non vuol dirci con ciò che non v’è uomo sulla terra, il quale non trovi qualche Santo nel suo stato, che sarà condanna della sua infingardaggine, facendogli vedere che avrebbe potuto far, come lui, ciò per cui ha meritato il cielo? Se dagli ostacoli esteriori passiamo adesso agli interni, vedremo che i Santi ebbero tentazioni e combattimenti quanti possiamo averne noi, e forse più. Primieramente dalle abitudini cattive. Non crediate, fratelli miei, che tutti i Santi sian sempre stati santi. Quanti ve ne sono che cominciarono male e vissero lungo tempo in peccato. Vedete il santo re David, vedete S. Agostino, vedete S. Maddalena. Facciamoci dunque coraggio, fratelli miei; sebbene peccatori, possiamo pure divenir santi: se non saremo tali per l’innocenza, lo saremo almeno per la penitenza; poiché una gran parte de’ Santi si è santificata così. Ma, direte forse, costa troppo! — Costa troppo, fratelli miei? E credete che ai Santi non abbia costato nulla? Vedete David, che bagna il suo pane con le sue lacrime, e il suo letto col suo pianto (Ps. CI, 10; VI, 7). Credete che ad un re, qual egli era, non costasse nulla? Credete che gli riuscisse indifferente darsi spettacolo a tutto il suo regno, e servire a tutti di zimbello? Vedete santa Maddalena: in mezzo ad una numerosa adunanza, si getta ai piedi del Salvatore, e piangendo dirottamente accusa alla presenza di tutti le sue colpe (S. Luc. VII); segue Gesù Cristo fino a’ piedi della croce (S. GIOVANNI, XIX, 25.), e ripara qualche anno di debolezza con lunghi anni di penitenza: credete forse, fratelli miei, che siffatti sacrifici non le costassero alcuno sforzo? Credo con certezza che chiamerete beati i Santi, i quali han fatto tale penitenza e versato tante lagrime. Ohimè! se potessimo anche noi, come quei Santi, intendere la gravezza dei nostri peccati e la bontà di Dio che abbiamo offeso; se, com’essi, pensassimo all’inferno che abbiamo meritato, all’anima nostra che abbiam perduta, al sangue di Gesù Cristo che abbiam profanato! Ah! se avessimo ne’ nostri cuori tutti questi pensieri, quante penitenze faremmo per cercare di placare la giustizia di Dio da noi irritata! – Credete forse che i Santi sian giunti senza fatica a quella semplicità, a quella dolcezza, ond’eran mossi a rinunziare alla propria volontà, ogni qual volta se ne presentasse l’occasione? Oh! no, miei fratelli! Udite S. Paolo: « Ohimè! io faccio il male che non vorrei, e non faccio il bene che vorrei: sento nelle mie membra una legge che si ribella contro la legge del mio Dio. Ah! me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ». Quali combattimenti non dovettero sostenere i primi Cristiani nel lasciare una religione, che tendeva solo a blandire le loro passioni, per abbracciarne un’altra che mirava invece a crocifiggere la carne? Credete forse che S. Francesco di Sales non si sia dovuto far violenza per divenir dolce com’era? Quanti sacrifizi dovette fare!… I Santi non furon Santi, se non dopo molti sacrifizi e molte violenze!

2° Dico in secondo luogo che noi abbiamo le medesime grazie, da cui essi furono avvalorati. E primieramente il Battesimo non ha egual virtù di parificarci, la Confermazione di fortificarci, l’Eucaristia d’indebolire in noi la concupiscenza e d’accrescere nelle nostre anime la grazia? E la parola di Gesù Cristo non è sempre la stessa? Non udiamo noi ripetercisi ad ogni tratto quel consiglio: « Lasciate tutto e seguitemi? » E questo appunto convertì a santità S. Antonio, S. Arsenio, S. Francesco d’Assisi. Non leggiamo forse nel Vangelo quell’oracolo: « Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo, se poi perde l’anima sua? (Matth. XVI, 26). Queste medesime parole non convertirono S. Francesco Saverio, e d’un ambizioso ne fecero un apostolo. – Non sentiamo pure ogni giorno ripetere: « Vegliate e pregate continuamente » E da questa dottrina appunto furono formati i Santi. Finalmente, fratelli miei, quanto a buoni esempi, per quanto sregolato sia il mondo, non ne abbiam ancor dinanzi agli occhi qualcuno, e certo più di quelli che potremo seguire? Insomma la grazia ci manca più che non ai Santi? E non contiamo per nulla que’ buoni pensieri, quelle salutari ispirazioni di staccarci da quel peccato, di rompere quella cattiva abitudine, di praticare quella virtù, di fare quell’opera buona? Non sono grazie quei rimorsi di coscienza, quei turbamenti, quelle inquietudini che proviamo dopo d’aver litigato? Ohimè! miei fratelli, quanti Santi, che sono adesso in cielo, ebbero meno grazie di noi! Quanti pagani e quanti Cristiani sono all’inferno, che sarebbero divenuti gran Santi, se avessero avuto tante grazie, quante ne abbiam ricevute noi!… – Sì, miei fratelli, possiamo esser Santi, e dobbiamo lavorar tutti a divenirlo. I Santi furono mortali come noi, deboli e soggetti alle passioni come noi; noi abbiamo gli stessi aiuti, le stesse grazie, i medesimi Sacramenti; ma bisogna fare com’essi: rinunciare ai piaceri del mondo, fuggire il mondo, quanto possiamo, esser fedeli alla grazia; prenderli a modello: poiché non dobbiamo dimenticar mai che santi o riprovati dobbiamo essere, vivere pel cielo o per l’inferno: non v’è via di mezzo. – Concludiamo, miei fratelli, dicendo che, se vogliamo, possiamo esser Santi, perché Dio non ci negherà mai la sua grazia, che ci aiuti a divenirlo. È nostro Padre, nostro Salvatore, nostro Amico: desidera ardentemente di vederci liberati dai mali della vita. Vuol ricolmarci d’ogni sorta di beni, dopo averci dato fin da questo mondo immense consolazioni, saggio di quelle del cielo, che io vi desidero.

Credo … 

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta


Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio


Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio


Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

CALENDARIO LITURGICO DI NOVEMBRE 2021

CAQLENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: NOVEMBRE 2021

Novembre è il mese che la Chiesa dedica al ricordo ed al culto dei defunti.

« Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Re-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » [Il curato d’Ars S, Giovanni M. Vianney]

Le feste del mese di Novembre 2021 sono:

1 Novembre  Omnium Sanctorum    Duplex I. classis *L1*

2 Novembre In Commemoratione Omnium Fidelium Defunctorum

                      Duplex I. classis *L1*

4 Novembre S. Caroli Episcopi et Confessoris    Duplex

5 Novembre PRIMO VENERDÌ

6 Novembre PRIMO SABATO

7 Novembre Dominica V Post Epiphaniam III. Nov. Semiduplex Dom. minor *I*

8 Novembre Ss. Quatuor Coronatorum Martyrum    Feria

9 Novembre In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris    Duplex II. classis *L1*

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris    Duplex

11 Novembre S. Martini Episcopi et Confessoris    Duplex *L1*

12 Novembre S. Martini Papæ et Martyris    Semiduplex

13 Novembre S. Didaci Confessoris    Feria

14 Novembre Dominica VI Post Epiphaniam IV. Nov. Semiduplex Dom. minor *I*   

                        S. Josaphat Episcopi et Martyris – Duplex

15 NovembreS. Alberti Magni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

16 Novembre S. Gertrudis Virginis – Duplex

17 Novembre S. Gregorii Thaumaturgi Episcopi et Confessoris    Duplex

18 Novembre In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et Pauli Dupl. L1*

19 Novembre S. Elisabeth Viduæ – Duplex

20 Novembre S. Felicis de Valois Confessoris – Duplex

21 Novembre Dom. XXIV et Ultima Post Pentecosten V. Nov.  Semid. Dom. minor

                      In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis

22 Novembre S. Cæciliæ Virginis et Martyris    Duplex *L1*

23 Novembre S. Clementis I Papæ et Martyris    Duplex

24 Novembre S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

25 Novembre S. Catharinæ Virginis et Martyris    Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis  –  Duplex

28 Novembre Dominica I Adventus  – Semiduplex I. classis *I*

30 Novembre S. Andreæ Apostoli    Duplex II. classis *L1*