LO SCUDO DELLA FEDE (178)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VIII. — Il mistero della Grazia.

D. Dicevi testè che la Redenzione non è resa effettiva se non per la restituzione della vita soprannaturale perduta per la colpa. In che consiste esattamente questa vita?

R. L’abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il fatto essenziale del Cristianesimo, quello in vista del quale sono istituiti o ci sono rivelati tutti gli altri.

D. Ed è anche un mistero?

R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuol fare.

D. La grazia è dunque un disegno di Dio?

R. È il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.

D. Qual disegno? Quale fatto?

È. Il disegno è di farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e che è propriamente la buona novella evangelica, espressa da queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, Egli diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome, e che, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio, son nati » (Prologo).

D. Bisogna dunque nascere di nuovo?

R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando venne di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina: io non posso che ripeterti la risposta di Gesù a Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall’acqua e dallo Spirito, può entrare nel regno di Dio ».

D. Tu dici che lì sta l’essenziale? Io credevo che l’essenziale del Cristianesimo fosse nell’adesione a Cristo.

R. L’adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro effetto che l’effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la grazia, noi diamo a Cristo la sua ragione di essere con quella della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la sorgente di questo fatto, l’Incarnazione come il suo agente, la Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.

D. Vuoi precisarmi che cosa è la grazia?

R. Si chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa, nell’ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie esteriori, come la Redenzione stessa, gli esempi e le esortazioni di Gesù Cristo o dei Santi, il ministero della Chiesa, etc. Ce ne sono delle interiori, come i doni di lume e gli stimoli segreti che ci spingono al bene. In questo dominio segreto, si distinguono due sorta di grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti virtuosi.

D. Queste sono divisioni; io domandavo che cosa è veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest’ordine soprannaturale di cui si tratta dall’inizio dei nostri discorsi.

E. Io aspettavo questo momento per spiegarmi in proposito, e la Spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che abbiamo detto, come quello che deve seguire.

D. La grazia deve affiliarci a Dio?

R. Noi siamo dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle che ci rilegano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e appartenere ad ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci dà un corpo ed un’anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l’uso di questo mondo, e inoltre, per la filosofia nel suo più alto insegnamento o per istinto religioso che la sostituisce, il conoscimento astratto e il culto ragionevole del divino.

D. Non basta questo?

R. Noi non possiamo spingerci più lontano del fatto della nostra natura stessa e del suo funzionamento proprio. Ma, osserva S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è impresso dalla natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se stesso si estende a guisa di velo e sposa la forma del suo pianeta; ma gli astri lo attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle maree, che non gli è naturale se non lo si considera come in composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l’uomo è rilegato a Dio per la sua attività intelligente, poiché l’intelligenza gli permette di raggiungere l’universale a proposito degli oggetti dell’esperienza, mettendolo per questo solo, sulla strada del principio dell’universale, che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme ad un’induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice piano. Quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela l’analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, buono e magnifico, che noi chiamiamo Dio.

D. Questa teoria è interessante; è propria di S. Tommaso d’Aquino?

R. Essa era stata abbozzata da parecchi filosofi dell’antichità. Aristotile ne fornì i lineamenti nella sua celebre interpretazione del genio, genio dell’intelligenza o genio della virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un’irruzione subitanea del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di Eudemo, uscita immediatamente dalla sua intelligenza, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plutarco, in cui si trova un riflesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo meraviglioso che suscitava in Gratry l’entusiasmo: «Il corpo è lo strumento dell’anima e l’anima è io strumento di Dio. E come il corpo ha dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più belli che gli vengono dall’anima, così l’anima ha il suo ordine proprio d’azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che se il fuoco, il vento, l’acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli Elleni? ».

D. È evidentemente la teoria di S. Tommaso.

R. Bada bene; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalle rivelazioni evangeliche, donde vengono per noi le certezze e le ispirazioni superiori. Ciò che l’antichità sospetta, è che Dio opera in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi, per esempio, per farci vedere, nelle ore d’ispirazione, quello che rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest’azione complementare ci spinge, sono nondimeno dei dominii del nostro ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i risultati ottenuti da sforzi virili. La nostra vita resta nella sua essenza, nelle sue operazioni naturali, nel suo valore d’oggetti; non è cambiato altro che l’ampiezza del gesto, e noi non diventiamo divini pur essendo mossi così dalla Divinità.

D. Perché diventare divini?

R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la nostra natura. «Il Vangelo soddisfa la coscienza perché la oltrepassa», serive Carlo Secrétan.

D. Tu dici dunque, lasciando l’antichità

E. Che il pensiero cristiano va più oltre; che esso intende di unirci a Dio non più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà la comunicazione delle vite, in tal maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli oggetti identici, e che io, Cristiano, possa sentire, o ad ogni modo riconoscere « qualcuno che sia in me più me stesso di me» (PAOLO CLAUDEL).

D. Non capisco una tale pretesa.

R. Rappresentati la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L’uno degli estremi è abbastanza bene rappresentato dal razionalismo deista, il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto per l’intermedio delle leggi generali. L’altro estremo sarebbe fornito dal panteismo, che confonde Dio e l’uomo nell’unità d’una stessa sostanza. Tra i due c’è posto per innumerevoli intermedi; ma il più vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale esso si appropria la profondità di dottrina rigettando i suoi eccessi, è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe soprannaturale è Lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna, solidale su ogni punto della nostra.

D. Cristo non è Dio?

R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, Egli realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi possiamo dire, designando la sua Persona: Questi è Dio, come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra, diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e l’essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento di una umanità « piena di grazia ».

D. Io ne richiedo ancora il dato preciso.

R. Si tratta di un’unione di conoscimento e di amore, di un’intuizione dell’intelletto, di un’interpenetrazione dei cuori, di una comunicazione delle vite che introduce l’umanità stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite naturali infinitamente disparate.

D. Parli sempre di Cristo?

R. Parlo di Cristo anzitutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e vedeva Dio, lo provava, lo viveva come noi vediamo e proviamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia — poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d’unione » — questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo ai meriti di Cristo l’adesione dell’anima nostra. Noi non ne godiamo subito come Lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo germe, questo grano di immortalità beatifica, d’intuizione trascendente, d’amore infinito, che noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare verso Dio il compito di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere la sua vita intima, di conoscere Lui stesso e tutto quello che Egli conosce, di amare quello che Egli ama e volere quello che Egli vuole come oggetti oramai nostri, connaturali all’anima nostra trapiantata, come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete, dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo siamo; ma quello che saremo un giorno non e ancora stato manifestato. Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo tal quale Egli è. Per vedere Dio tal quale è, bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale che a Lui. Egli lo rende naturale a noi stessi comunicandoci questa nuova natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.

D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi dell’Areopago ne avrebbero riso di cuore.

R. Essi ridevano anche della follia della croce, che fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi salissimo con Lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole scende nella notte sanguigna, è per preparare l’alba e il meriggio; questa caduta d’astro è un pegno; un tramonto di sole non è che un’aurora anticipata: così la caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il pegno dei nostri supremi fini.

D. Ancora bisogna tenersi nel verosimile.

E. Il verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze, già, nella natura! In fondo, tutto è inverosimile; lo diciamo verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi superiore. «Se si vuole dire che l’uomo è troppo poco per meritare la comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne » (PASCAL).

D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano queste straordinarie pretese?

R. Senza ciò, noi non ci permetteremmo mai di aprire la bocca in proposito. Io ho testè citato Giovanni; ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. « Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai suoi fedeli, e S. Paolo: «Quando il perfetto sarà venuto, quello che è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto » (I Cor., XIII).

D. La grazia, dici, presagisce questo stato; come intendi tu î loro rapporti?

R. Io, per figurarlo, ho usato l’immagine del grano, del germe, e con ciò intendo che in ragione dell’unità della nostra vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza, virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. Ogni termine qualifica le tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione si concepisce se non per trasformazione successiva di un elemento già differenziato e in relazione specifica con l’ultimo effetto. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l’uomo dev’essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito, bisogna che sia tale fin di qui nello stesso senso, con la sola differenza tra la pianta sviluppata e il suo germe.

D. In altre parole?…

R. Voglio dire che l’uomo, portato dalla Divinità così come ogni creatura, deve di più essere pervaso di essa, unito ad essa più a fondo, invaso nel suo essere e nei suoi poteri da quello stesso influsso di cui noi pensiamo che vive Dio e che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’agente proprio della grazia; è Lui che effettua questa compenetrazione del divino e dell’umano nell’uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova. Egli è per questo fatto «l’anima dell’anima nostra », dice S. Agostino, perché la relazione dell’anima al corpo, come principio di vita, si riscontra in un grado superiore tra l’anima nostra e l’influsso divino che la mette in azione. L’anima informa il corpo; la grazia informa l’anima nostra, e per essa tutto l’essere, per renderlo più divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita.

D. Abitazione metaforica!

R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli auspizi della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi nostri tutta la religione, poiché è il vincolo solido, quello, non puramente ideale, che ci lega all’oggetto religioso, alla Divinità in persona.

D. L’individualità umana, in tali condizioni, può ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual libera azione sono ancora suscettibili?

R. Dio non distrugge niente di ciò che Egli tocca, poiché non tocca se non per vivificare. La sua sopracreazione rispetta în tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono sopraelevate e rafforzate per il contributo divino della grazia, senza perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia santificante nell’anima presa nella sua entità fondamentale, nella sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale nell’incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza contradirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre, aggiungendovisi come il genio alla scienza e l’eroismo alla virtù, ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni interiori procedenti a modo dell’istinto, quando le virtù si valgono dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.

D. E qual è qui l’essenziale?

R. È la carità, l’amore. Onde l’ordine soprannaturale è chiamato comunemente l’ordine della carità, come si vede in Pascal. Lì è il centro della nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio organizzatore. La grazia di Dio opera nell’anima il medesimo effetto che lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita divina, che è armonia e dirittura, luce e forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che è l’Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge d’amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei nostri cuori.

D. Ciò esclude evidentemente il male morale?

R. La grazia e il male sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un peccato grave un peccato mortale, perché trae seco la morte dell’anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo. Parimenti chiamiamo la venuta nello stato di grazia una giustificazione, perché l’uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede del regno che Gesù Cristo conquistò, un «tempio » dello Spirito Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell’anima sono uno degli arcani più sottili della fede.

D. Sono questi per te veramente dei fatti psicologici, e non solo dei dati morali?

E. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così posso dire, dei modi reali dell’essere, dei fenomeni di vita.

D. Allora come non ne abbiamo coscienza?

E. Un sommo psicologo non ne converrebbe affatto. Maine de Biran (Journal, 20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione interiore d’uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che vivifica e feconda il nostro Spirito senza confondersi con esso; infatti noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito proprio, quando sappiamo invitarlo o preparargli una dimora dentro, è un vero fatto psicologico, e non di fede soltanto. »Tuttavia bisogna riconoscere che di solito lo stato soprannaturale in se stesso non può essere l’oggetto di una certezza sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l’albero da’ suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro, senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.

D. Resta la stranezza di un’armatura spirituale completa di cui non abbiamo affatto coscienza.

R. Abbiamo noi coscienza dell’incosciente, la cui esistenza è così certa? Abbiamo anzi coscienza della circolazione del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo secoli di studi fisiologici, e certi sapienti non ci vollero punto credere. Una folla di correnti ci attraversano o si sprigionano da noi senza che ne siamo avvertiti dalla minima sensazione.

D. Tu ammetti qui, ad ogni modo, un miracolo permanente.

R. Non è un miracolo più di quello che sia un miracolo il sollevarsi dell’acqua nel fenomeno delle maree. È un ordine nuovo, è vero, ma che si presenta come in continuità con tutti gli altri, nell’interno del piano divino. La vita della grazia si sovrappone alla vita naturale dell’anima che essa impregna, come questa all’attività cerebrale, questa all’azione fisico-chimica del corpo e questa all’inerzia materiale.

D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti i « giusti », non è la rovina delle originalità e delle iniziative? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, questo non è un ideale.

R. Comprendere così le cose sarebbe commettere un grosso controsenso. La grazia è la stessa per tutti come soprannaturale e adattata alla natura comune; ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno secondo le sue particolarità, e, salvo il male, essa rispetta queste ultime. L’Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri individuali, neppure quelli della sua stirpe: a molto più forte ragione la grazia non altera i nostri, giacché la nostra personalità non è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e intende di effettuare superiormente ciò che si potrebbe chiamare la nostra vocazione di natura, essa vuol fare con noi la nostra opera propria; sposa il nostro caso e lo favorisce sotto il nome di grazia di stato. Si può essere sicuri che un essere è molto meglio se stesso, quando per la grazia è purificato da’ suoi difetti e sollevato in tutti i suoi mezzi. Alla fine di questo lavoro, la gloria, che espande la grazia, ciascun uomo apparisce, secondo il celebre detto di Mallarmé: « e quale in se stesso finalmente l’eternità lo cambia ». Egli è cambiato, ma in se stesso, in ciò stesso che ideò il Creatore e che le nostre miserie terrene ricoprivano, e per di più in un se stesso trasposto, realizzato in un modo superiore, come di una melodia scritta in un tono più alto.

D. Hai parlato di grazie attuali: qual è la loro nozione?

R. Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha più un carattere permanente, ma occasionale. Può essere un lume nella nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento felice della nostra sensibilità il tutto in vista del nostro bene spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa ci eccita, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si chiamerà efficace se essa porta fino all’azione, o sufficiente se è lasciata all’uso del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i casi essa esige la nostra cooperazione. Non ci si salva senza di noi.

D. La grazia dunque non è che una prevenienza di Dio.

R. È più che una prevenienza, perché anche alla risposta Iddio coopera, allorché alle sue prevenienze noi non cooperiamo. Dio è sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore. Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche Lui che è dovunque e mescolato a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa si farebbe, o uomini, in questo ordine che sorpassa l’uomo, senza questo compagno divino?

D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia?

E. Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché ne abbiano detto i luterani e i giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salute, che è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza finale.

D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni colpa qualsiasi, anche la più leggera?

R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci sorprendono. Si può evitare ciascuna colpa presa a parte; ma per vincere sempre e non essere mai feriti, noi crediamo indispensabile un privilegio fuori dell’ordinario, che per quanto sappiamo non si è riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.

D. Avendo in sé la grazia che tu chiami santificante, si può  senza la grazia attuale, essere Santi?

R. Anche qui, diamo la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie d’occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzo?

D. Il «rinforzo » è qui assicurato?

R. È di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessarie alla loro perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro conversione e alla loro salute, tutti gl’infedeli le grazie che, se vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi morali e soprannaturali della fede.

D. Pare che questa dottrina sia uno sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle dottrine estreme.

R.. Tommaso scrisse queste belle parole: «La Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben in mezzo alla strada, va con un passo lento ».

D. La dottrina della grazia urta però legittimi orgogli.

R. Quale sorta di orgoglio potrebbe veramente essere qui legittima? « Che bella cosa, scrive Pascal, gridare a un uomo che non conosce se stesso che egli vada da se stesso a Dio! E che bella cosa dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d’un uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne dubita non sa che cosa sia un santo e che cosa sia un UOMO ».

D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che poco fa condannavi?

R. L’uomo s’immagina alternativamente, e alle volte nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente, anche con Dio: la Chiesa gl’insegna che egli non può niente senza Dio e tutto con Dio. In tal modo essa crede di onorarlo e d’incoraggiarlo di più; perché l’onore dell’uomo è in quello di Dio, e in Dio la sua forza.

D. L’uomo da solo compie spesso delle belle opere.

R. Compie delle opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e armandosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è fisicamente che un punto di concentramento. Ve ne sono anche nell’ordine spirituale, e più ancora nell’ordine soprannaturale. La grazia è un collegamento, in noi, per l’utilizzazione delle forze eterne. Vorrà l’uomo compiere senza Dio un’opera divina, dal momento che non può agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi piedi?

D. Ma dov’è allora il merito umano?

R. Il merito umano non può essere un merito solitario, perché l’uomo non è mai solo; ma pure è un merito, perché ciò ch’egli fa con un soccorso normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia il benefizio. Per giunta, quello che Dio ci dà non ci appartiene forse, e i meriti di Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non faccia altro che coronare i suoi propri doni, come dice S. Agostino, ciò non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve; ma ciononostante si cammina.

D. Si può meritare l’aumento della grazia?

R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non si può nulla.

D. Si può dunque meritare la prima grazia?

R. La sua stessa definizione vi si oppone. Ho detto però che uno vi si può disporre.

D. Il peccatore destato da una prima grazia può meritarne altre e la conversione stessa?

R. Strettamente no, poiché non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e compiere l’opera sua.

D. E si merita la gloria?

R. Nelle medesime condizioni, e si merita pure che essa si aumenti.

D. Che dici del merito per altri o in vista di altri?

R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma gli si può meritare soccorso, in ragione della nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione dei santi.

D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e si pecca poi gravemente?

R. I meriti periscono, perché non si può essere a un tempo separato da Dio e meritevole davanti a Lui; ma se si rientra nella sua amicizia, i meriti rivivono.

D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si ricade?

R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio, che ricorda il bene e dimentica il male. Non si può tuttavia fare a meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza; perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più, mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della Penitenza, del resto, noi ritroveremo questo caso.

D. Quali sono, secondo te, i rapporti di questo regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?

R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l’uso di questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la società abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane concezioni e alle utili riforme; calma le impazienze perturbatrici; dà come base alla costruzione sociale una famiglia purificata, consolidata dall’unità e dall’indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di una società veramente in progresso; con la carità unita alla giustizia, essa aiuta la concordia degli elementi del lavoro, la ricerca e l’accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l’elaborazione e il funzionamento d’una buona politica nazionale e d’una politica di pace.

D. Ammetti tu la reciproca?

R. Essa è di diritto. Poiché la grazia si deve adattare a nature individuali definite e attive, non a una materia anonima e inerte, vi è interesse per essa e per il suo lavoro sovrumano a che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben concepiti e funzionanti normalmente. Come base di azione soprannaturale, nulla è meglio che individualità umane « qualificate », e se è possibile superiormente qualificate.

D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un parallelismo individuale?

R. Socialmente come individualmente vi è di fatto un avviamento parallelo e concertato della grazia e della natura. Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è sociale, e solo per astrazione si può distinguere.

D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il tuo soprannaturale?

R. È un modo di essere e di agire che è naturale solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità, nella quale noi entriamo.

D. È dunque una vita in due mondi?

R. La nostra conversazione è in cielo, dice S. Paolo. La nostra società con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe, richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e del godimento.

D. Il divino nell’umano, insomma, e umano nel divino?

R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Eva che sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la magnifica promessa del demonio » (MALEBRANCHE).

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.