Le sens mystique de l’Apocalypse
Monaco Benedettino
Il Senso Mistico dell’APOCALYSSE (1)
Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa
LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe
Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. ex. off.
Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie
Imprimatur: A. LECLERC. – Lutetiæ Parisiorum die II nov. 1947
Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948
PREFAZIONE
La presente opera non è un trattato di esegesi, almeno nel senso in cui la parola è intesa oggi: lo diciamo espressamente affinché i maestri della scienza biblica non si aspettino di trovarvi alcuna nuova luce, se per caso cadesse nelle loro mani. La sua ambizione molto più modesta si limita a cercare di essere un libro di lettura spirituale. Si rivolge non ai dotti ma alla gente semplice, e si propone, seguendo il filo del racconto di San Giovanni, di parlare loro di Dio, di Gesù Cristo Nostro Signore, delle lotte che la Chiesa militante – e ciascuno di noi con lei – deve sostenere per entrare un giorno nella gloria della Chiesa trionfante. – Inoltre, l’esegesi dell’Apocalisse è stata fatta con un’autorità e una competenza che sfidano tutte le pretese della critica contemporanea; il commento del compianto P. Allô, quello del R. P. Ferret, per non citare che i migliori tra tanti altri, lasciano poche cose da considerare. Tuttavia, se il significato letterale è stato perfezionato da loro; se il significato figurativo è stato studiato con metodo, d’altra parte, il significato spirituale o mistico propriamente detto, è stato generalmente lasciato nell’ombra. Cosa c’è di così sorprendente? – Il senso mistico ha uno svantaggio singolare nel nostro XX secolo, tra gli esegeti di professione. Origene si lamentava già della guerra che coloro che ascoltano solo la lettera della Scrittura stavano conducendo contro le sue esposizioni allegoriche. Oggi, però, l’ostracismo che lo ha colpito ha raggiunto il suo apice. Senza dubbio nessuno osa negare formalmente la sua esistenza, poiché la teologia lo insegna, ma è trattato più come un parente povero: come un minus habens. L’interpretazione spirituale dei nomi ebraici, dei numeri, dei fatti storici è stata riposta nella soffitta della scienza biblica, come un mucchio di paccottiglia fuori moda. Mai, nei Commentari che si pubblicano oggi, sia sull’Antico che sul Nuovo Testamento, un autore si azzarderebbe a introdurlo nella trama delle sue discussioni, a invocarlo per giustificare un passaggio la cui spiegazione letterale si rivela impossibile, infantile o assurda. Si amerà meglio fare al testo tutte le violenze immaginabili, piuttosto che riconoscere, secondo l’insegnamento unanime e costante dei Padri, che questa oscurità è intenzionale, voluta da Dio, proprio per costringere il lettore a passare dal piano della lettera al piano superiore dello spirito. E se, per ravvivare con un po’ di vita, un po’ di calore, un po’ di luce, l’arida monotonia delle esposizioni critiche, si fa una discreta allusione alle realtà che appartengono all’ambito mistico, lo si relega alle “applicazioni messianiche”, agli “usi liturgici”, o a un piccolo “bouquet spirituale” che arriva in forma di conclusione, ma che non ha nulla a che vedere con la spiegazione seria e scientifica del brano studiato. Tuttavia, forse mai il mondo è stato più assetato di misticismo come ai nostri tempi. Indubbiamente nessuna parola è più pericolosa di questa, nessuna parola è più fertile di aberrazioni ed errori di ogni tipo, e la diffidenza della Chiesa nei suoi confronti è fin troppo comprensibile. Ma la realtà che rappresenta non è meno una delle prerogative più nobili dell’uomo. L’uomo è stato definito: un animale religioso. Non basta dire questo, se la religione è intesa come un semplice ritualismo, o un codice morale. Bisogna andare oltre e dire allora che l’uomo è un animale mistico: aspira a fuggire dalla realtà terrena di cui è prigioniero, verso un mondo soprasensibile, verso l’infinito, lui che è della razza degli Angeli, lui che è fatto a immagine di Dio, e che può trovare il suo equilibrio, il suo riposo, la sua felicità solo nella conoscenza e nel possesso di Dio. È questo bisogno di fuga, questo desiderio di estasi, che è alla base di tutti i mistici. L’intensità di questo bisogno è decuplicata oggi, come la forza di un gas troppo compresso, dall’oppressione che il materialismo ed il positivismo hanno portato su di esso; dalla pretesa formulazione della scienza del XIX secolo, nel nome dei suoi progressi, di sottomettere interamente lo spirito umano alla sua tutela, di risolvere da sola tutti i problemi che lo preoccupano, di chiudere tutti gli orizzonti che non sia in grado di controllare. È a questa irresistibile fame di l’aldilà che dobbiamo attribuire l’attuale rinascita delle scienze occulte, la moda della spiritualità orientale in Occidente, il successo di movimenti come quello di Rama-Krishna, la simpatia dimostrata anche da sinceri cristiani per le pratiche dello Yoga, come se non ci fosse, nel Cattolicesimo, una dottrina della contemplazione superiore a tutte le altre! – Perché a questo bisogno di fuggire, o più esattamente di ascendere ad un mondo superiore, quale cibo più sano, quale guida più sicura può esserci data che la Sacra Scrittura, la Parola di Dio, la pura Verità che scaturisce dalle profondità stesse della Santissima Trinità? Non è senza motivo che i maestri di spiritualità del Medioevo, come San Bernardo o Guiguo il Certosino, per esempio, hanno fatto della lettura, la lectio, il primo grado della contemplazione. E la lectio, per loro, era ovviamente la lettura della Sacra Scrittura, poiché la Bibbia era allora il Libro per eccellenza, quello che si rileggeva e meditava senza mai stancarsene. Il significato mistico che vi è avvolto nel senso letterale, ha proprio come scopo, sulla testimonianza di San Tommaso, di farci conoscere “le cose invisibili per mezzo delle cose visibili” (Quodlibet VII, qu. VI, art. 16, in corp.). Sotto il velo dei racconti storici, delle visioni, delle parabole e degli insegnamenti di ogni genere in essa contenuti, ci rivela, per un lato, il fine verso cui camminiamo, quella meravigliosa Città che l’occhio dell’uomo non ha visto, che il suo cuore non può immaginare e che tuttavia dovrà essere un giorno la sua dimora, se saprà rendersene degno; è questa Città che è oggetto del significato detto: anagogico. D’altra parte, ce ne insinua i mezzi con i quali si va a questo fine, e che sono essenzialmente due: uno riguardante l’intelligenza, l’altro la volontà. Queste due facoltà maestre, infatti, hanno ciascuna il proprio sforzo da compiere per assicurare la salvezza dell’uomo ed il suo progresso spirituale: La prima deve essere nutrita dalla fede, dalla vera fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa, e a questo proposito trova un nutrimento di qualità eccezionale nel cosiddetto senso tipico, o allegorico, o messianico, che nasconde sotto le narrazioni e le figure della Scrittura numerose allusioni alla vita del Salvatore, alla sua morte e ai misteri della Redenzione. La volontà, da parte sua, riceve in senso morale, o tropologico, insegnamenti sulla disciplina che deve imporsi e sulle lotte che deve sostenere. – La combinazione degli elementi che abbiamo appena nominato: anagogico, tipico e morale, e sui quali non è il caso di insistere ulteriormente in questa sede, costituisce propriamente quello che si chiama il senso mistico della Scrittura, che non ha nulla a che vedere con le pie divagazioni o le sottili immaginazioni con le quali si pretende di assimilarla. Non è stato inventato né da Origene, né da Sant’Agostino, né da nessuno dei Padri latini e greci. Ha un valore oggettivo assoluto: è stato “voluto e ordinato da Dio stesso”, secondo le recenti parole di Sua Santità. Pio XII. È lo Spirito Santo che ne è l’autore, è Lui che l’ha racchiuso nei Libri Santi sotto le figure del senso letterale. Lungi dall’indebolire il suo valore, lo illumina e lo ravviva. Esso gli si unisce armoniosamente come l’anima al corpo, per fare della Scrittura una parola viva: ma è Lui che ne è l’anima, è Lui che dà alla Bibbia il suo carattere unico e trascendente. La sua inesauribile ricchezza, le sue infinite ramificazioni ne fanno una miniera dove l’uomo che medita e prega, trova costantemente nuovo nutrimento per mantenere la sua intimità con Dio, nuove luci per guidare i suoi passi nelle tenebre del mondo presente. Tutti i Padri della Chiesa, senza eccezione, i Dottori, i Maestri di vita spirituale, i Santi di ogni secolo ne hanno attinto a piene mani, nello stesso tempo in cui l’hanno arricchita con le loro proprie scoperte. – Tutta la Tradizione cattolica, sancita dagli insegnamenti dei Sommi Pontefici – senza eccettuarne l’Enciclica Divino Afflante, alcuni dei quali, però, sarebbero un’arma contro di essa – ha affermato la sua esistenza e sottolineato il suo valore. È grazie ad esso che il Cristianesimo possiede la mistica più trascendente, la più luminosa… la più deliziosa che si possa immaginare, e l’unica vera. Per averne la certezza, basta aprire qualsiasi trattato di qualunque Maestro su questo argomento: San Bernardo, Ugo o Riccardo di San Vittore, San Tommaso o San Bona-venture, Dionigi il Certosino o San Giovanni della Croce, Santa Gertrude o Santa Teresa: vedremo sempre le loro affermazioni costellate di pietre preziose, cioè sostenute, corroborate, illustrate, da testi della Scrittura. E dalla presenza di questi vediamo una tale luce, una tale forza, un tale splendore, una tale certezza di verità, che, quando li confrontiamo, le altre spiritualità vedono subito svanire la loro brillantezza come lanterne alla luce del sole. Lungi da noi, naturalmente, minimizzare l’immenso servizio alla Chiesa di coloro che lavorano per stabilire il testo autentico e per chiarire il significato letterale dei Libri Santi, soprattutto dopo la magnifica testimonianza data loro da Papa Pio XII nell’Enciclica Divino Afflante. – Il senso mistico stesso non può che guadagnare dal loro lavoro, e nuove strade vengono indubbiamente aperte loro dal progresso della scienza biblica, specialmente dalla conoscenza più profonda delle lingue orientali. Ma infine, bisogna capire che accanto agli specialisti che si appassionano alle questioni esegetiche; accanto agli apologeti che hanno bisogno di una base inattaccabile per rispondere agli avversari della fede, c’è una massa immensa di fedeli che non ha difficoltà ad accettare il testo sacro, così come la Chiesa glielo dà nella sua liturgia; che si stancano presto di osservazioni filologiche, confronti di varianti, allusioni alla storia ed alla morale ebraica, e saggi sulla poesia ebraica, ai mezzi con i quali, quasi esclusivamente, si pretende oggi di commentarli; e domandano che l’intelligenza profonda, la spiegazione spirituale sia data loro, in funzione dei misteri della religione cristiana. In prima linea tra i fedeli ci sono i religiosi appartenenti ai cosiddetti ordini contemplativi, che sono votati, per così dire, per stato alla vita mistica, ma che, tuttavia, possono solo con difficoltà avvicinarsi alle opere antiche stesse, dove è esposto il significato spirituale della Scrittura. È per loro, innanzitutto, ma anche per tutti i Cristiani desiderosi di sentir parlare di Dio, che desiderano fuggire dall’atmosfera pesante del mondo attuale, immergersi ogni giorno, almeno per qualche momento, nel pieno soprannaturale, che abbiamo scritto quest’opera. – Avremmo potuto, è vero, limitarci a fare una catena di spiegazioni prese alla lettera dai Padri e dai Dottori, ma, da un lato, le menti moderne non sono sempre in grado di afferrare il pensiero degli Antichi in queste materie, senza una preparazione preliminare, perché il clima intellettuale e spirituale in cui viviamo è troppo diverso da quello delle epoche della fede. D’altra parte, lo studio del significato mistico della Scrittura è, come tutte le parti della teologia, se non nella sua essenza, nella sua formulazione ed applicazione. Esso beneficia del lavoro di esegesi letterale, e noi stessi abbiamo raccolto molti chiarimenti e precisazioni nei commentari moderni. Ma è soprattutto agli Antichi, a coloro che sono i depositari autentici e qualificati del significato mistico della Scrittura, che abbiamo chiesto il segreto del pensiero di San Giovanni, guardandoci bene da ogni interpretazione che si discostasse dalla linea da loro tracciata. Abbiamo preso come opera di base il trattato di Dionigi il Certosino sull’Apocalisse. Abbiamo completato e arricchito le sue spiegazioni con i commenti di Sant’Alberto Magno, Riccardo di San Vittore, Ruperto di Deutz, Walafrid Strabon, Tommaso d’Inghilterra. Non abbiamo ritenuto necessario caricare questo lavoro con un apparato di riferimenti, che sarebbe stato superfluo per lo scopo che ci siamo prefissi. Ma qui dichiariamo espressamente che la giustificazione di tutte le interpretazioni scritturali date in esso può essere trovata senza difficoltà in uno dei commenti elencati sopra. – Che questo modesto lavoro, nonostante le sue imperfezioni e mancanze, possa dare il suo contributo allo sforzo, già in corso vari modi, di ritornare ad un’interpretazione più spirituale, più gustosa della Scrittura, figlia di quella di cui si sono nutrite le epoche della fede! Possa aiutare soprattutto coloro che lo leggeranno a disegnare all’orizzonte dei loro pensieri, al di sopra del caos in cui si dibatte il mondo attuale, la visione radiosa della Città di Dio, che sola assicurerà all’uomo ciò che invano cerca quaggiù: la felicità totale, la felicità senza misture, nel possesso dell’Amore e della Pace eterni.
INTRODUZIONE
Per comprendere lo scopo generale dell’Apocalisse è necessario ricordare brevemente le circostanze in cui quest’opera fu composta. Quando, dopo l’Ascensione del Salvatore, gli Apostoli si sparsero per il mondo, San Giovanni ricevette in sorte l’Asia Minore, che evangelizzò dopo San Paolo. Lì stabilì sette sedi episcopali: Smirne, Pergamo, Tiatira, Filadelfia, Laodicea, Sardi, con Efeso come metropoli; e dopo averle nominate, si dedicò interamente al ministero della parola. Ma il successo della sua predicazione preoccupò le autorità romane, e intorno all’anno 95, fu arrestato per ordine di Domiziano, portato a Roma, processato e condannato ad essere gettato in una vasca di olio bollente. Subì questa tortura alla Porta Latina, e contro ogni aspettativa, lungi dal perdere la vita, ne uscì senza alcun danno, più sano e più indomito di quando n’era entrato. Impressionato da questo prodigio, temendo nell’apostolo qualche potere magico che potesse rivoltarsi contro di lui, l’imperatore non insistette: si contentò semplicemente di esiliare il santo in un’isola del Mar Egeo, a Pathmos. Anche se viveva lì in assoluta solitudine, San Giovanni fu tuttavia informato che gravi disordini si stavano diffondendo nelle sue Chiese a causa della negligenza di alcuni Vescovi. Mentre pensava a come ricordare ai Vescovi il loro dovere, Nostro Signore gli apparve e si degnò di dirgli Egli stesso ciò che doveva scrivere loro: fu questa rivelazione che l’apostolo ripeté sotto il nome di Apocalisse. – Il libro consiste in sette visioni successive, precedute da un Prologo e seguite da una Conclusione. – Il piano generale è comandato dalla Settima Visione, che descrive la Gerusalemme celeste. Questa descrizione finale non solo domina tutta l’Apocalisse, ma anche, si potrebbe dire, tutta l’intera somma della Scrittura, della quale ne è come il coronamento. Tutto l’insegnamento dei Libri Sacri tende infatti ad un solo oggetto: condurre l’uomo da questa terra ingrata, dove i primi capitoli della Genesi lo mostrano esiliato come punizione del suo peccato, alla sua vera patria, al luogo della sua felicità e del suo riposo, alla Città di Dio. Lo scopo dell’autore sacro è quello di ricordare ai Cristiani il termine sublime verso il quale essi stanno camminando, la magnifica ricompensa promessa loro. Ma allo stesso tempo, vuole ricordare loro quella verità costantemente dimenticata, che può essere raggiunta solo passando attraverso ogni tipo di prova. Il numero sette non è stato scelto a caso per i quadri dell’Apocalisse: ed è per questo che, contrariamente ai commentatori più recenti che pensano di poter adattare questo libro pieno di misteri secondo le proprie idee, i Dottori della Chiesa hanno sempre sottolineato che è un libro da ammirare. Questo numero, infatti, segna il parallelismo tra l’opera della creazione e quella della nostra rigenerazione: come Dio non si è riposato se non al settimo giorno, dopo aver completato l’opera della creazione, così la Chiesa in generale – o ogni anima umana in particolare – può sperare di entrare nel suo riposo definitivo, manifestato dalla VII Visione, se non dopo aver sopportato il lavorio della vita presente, simboleggiata dalle sei visioni precedenti, per compiere la sua rigenerazione. – L’opera inizia con un Prologo (I, 1-8) in cui San Giovanni annuncia prima la rivelazione di cui è stato appena oggetto, e poi, secondo l’usanza degli Apostoli, augura la grazia e la pace di Dio a coloro che la leggono. La Prima Visione, che segue, consiste nella Lettera alle Sette Chiese (I, 9 – III, 22). Il Santo si rivolge successivamente ai titolari delle sette sedi sopra elencate, gli avvertimenti, i rimproveri e gli incoraggiamenti di cui ognuno di loro ha bisogno. Ma, al di là dei loro semplici destinatari, le sue esortazioni contengono anche un’istruzione per tutti i fedeli. Il punto importante è: Vincenti dabo, (al vincitore darò) la promessa di ricompensa, rivolta a colui che saprà vincere. Questa formula è ripetuta sette volte, per farci capire che dobbiamo prima trionfare sui sette peccati capitali. Solo allora potremo gustare il dono di Dio; un dono ineffabile, che l’autore descrive con le espressioni più diverse: albero della vita, manna nascosta, pietra scintillante, stella del mattino, ecc… per indicarci la infinita varietà delle ricchezze che racchiude. Ma queste vittorie saranno evidentemente possibili solo se l’uomo avrà l’occasione di affrontare molte battaglie. Ecco perché ai Santi non mancano mai le persecuzioni, e queste assaliranno la Chiesa durante tutto il corso della sua storia. Questo è l’oggetto delle tre rivelazioni seguenti, II, III e IV. La II visione ci mostra innanzitutto che tutta la salvezza del mondo, che deve essere sviluppata fino alla fine dei tempi, si opera mediante il Cristo (cap. IV). Questo mistero è stato registrato in anticipo da Dio in un libro sigillato con sette sigilli, che nessuno ha potuto aprire o comprendere fino ad ora (cap. V). Ma ora che l’opera essenziale della Redenzione è stata consumata nella Passione del Salvatore, il libro è diventato intelligibile ed il segreto è rivelato a San Giovanni. L’Apostolo assiste alla successiva apertura dei sette sigilli: Il primo mostra lo stato della Chiesa alla sua origine; i tre successivi mostrano le persecuzioni che la colpiranno nel corso dei secoli; il quinto mostra la gloria di cui gioiscono, subito dopo la morte, coloro che sapranno sopportare questi tormenti senza fiaccarsi; il sesto mostra la persecuzione particolarmente formidabile che segnerà il regno dell’Anticristo; e il settimo mostra il riposo che la Chiesa sperimenterà durante i suoi ultimi giorni sulla terra, prima di entrare nella gloria eterna (cap. VI e VII). La terza visione (VII, 2 – XI, 18), riprende lo stesso tema sotto la figura di sette angeli che suonano la tromba. Questi rappresentano le generazioni di predicatori che, in ogni periodo della storia, sosterranno successivamente la Chiesa contro i suoi nemici e assicureranno così la sua vittoria sul mondo: come già i sacerdoti giudei suonarono la tromba nel passato, e così fecero crollare le mura di Gerico in sette giorni. – Il primo Angelo personifica gli Apostoli, che sostennero i primi attacchi, prima dei Giudei e poi dei Gentili; il secondo Angelo rappresenta i martiri, la cui voce fu più forte di quella dei padroni della terra e che trionfarono sul potere romano; il terzo, i Dottori dei primi secoli, la cui eloquenza infranse il potere delle grandi eresie cristologiche; il quarto, i predicatori delle età successive (cap. VIII); il quinto, coloro che dovranno combattere contro i precursori dell’Anticristo; il sesto, coloro che subiranno l’urto dell’Anticristo stesso, sostenuto dallo scatenamento di tutte le forze del male (cap. IX). La battaglia sarà così violenta che Cristo interverrà di persona, mettendo il suo piede destro sul mare e il suo piede sinistro sulla terra, per assistere il suo popolo (cap. X). In seguito, manderà loro Enoch ed Elia, e la vittoria ottenuta grazie a questo aiuto straordinario sarà così completa che il settimo Angelo, che rappresenta i predicatori degli ultimi giorni, dovrà solo annunciare l’instaurazione della pace definitiva (cap. XI). – La Quarta Visione (XI, 19 – XIV, 20) mostra la lotta tra la Città di Dio e la Città del Male, a partire dalle origini del mondo, dalla creazione degli Angeli, sotto forma di un duello tra una donna ed un drago. Quest’ultimo è sconfitto, cacciato dal cielo, gettato sulla terra. Ma egli non sopporta la sconfitta e continua a perseguire la donna quaggiù (cap. XII), incapace di vincerla da solo, solleva contro di lei una prima Bestia che sale dal mare, poi una seconda che sale dalla terra. Uno è l’Anticristo e l’altro è il suo collegio di corifei, che saranno padroni della terra per quarantadue mesi (cap. XIII). Ma ecco che l’Agnello appare sul monte Sion, scortato dai centoquarantaquattromila vergini che lo seguono ovunque vada. I suoi Angeli annunciano la rovina di Babilonia, la terribile punizione che attende i seguaci della Bestia e la ricompensa per coloro che rimangono fedeli a Dio. E la visione finisce con una figura del Giudizio Universale, dove i malvagi sono mandati nel grande sragno dell’ira di Dio (cap. XIV). – Dopo lo spettacolo delle lotte dalle quali la Chiesa – e con essa tutte le anime sante – saranno assalite, San Giovanni mostra nelle due visioni successive il castigo che attende i lassi, i tiepidi, i prevaricatori, tutti coloro che non avranno il coraggio di combattere e vincere, come lo richiedeva la lettera alle sette Chiese. La Quinta Visione (XV, 1 – XVII, 18) riprende il tema su cui si era conclusa la Quarta Visione, e presenta nuovamente i mali che attendono i seguaci dell’Anticristo, sotto forma di sette coppe contenenti le piaghe dell’ira di Dio (cap. XV). Successivamente, queste si riversano, ciascuna per il ministero di un Angelo, sulla terra, sul mare, sui fiumi e sulle sorgenti d’acqua, sul sole, sulla sede della Bestia, sul corso dell’Eufrate, e infine sull’aria, provocando ovunque immense devastazioni (cap. XVI). E la visione finisce con l’annuncio della condanna della grande prostituta, cioè di Babilonia, o la Città del Mondo, e la vittoria dell’Agnello (cap. XVII). – La sesta visione (XVIII, 1 – XX, 15), riprendendo la descrizione della rovina di Babilonia, descrive l’angoscia in cui saranno gettati tutti coloro che l’hanno scelta per loro parte (cap. XVIII). A questa notizia, gli eletti lasciano esplodere la loro gioia, perché vedono in essa il segno che l’ora è vicina per la restaurazione del regno di Dio e le nozze dell’Agnello. Ed ecco che il Figlio di Dio appare nello splendore della sua gloria, seguito dal suo esercito, per combattere la Bestia e i suoi seguaci; ed essi sono presi e gettati vivi nel lago di zolfo e fuoco (cap. XIX). Il demonio, tuttavia, non rinuncia alla lotta: in uno sforzo supremo, lancia Gog e Magog contro la Chiesa. Ma il fulmine distrugge l’immensa massa degli assalitori, e satana a sua volta viene gettato nel lago di fuoco, per esservi tormentato per sempre con la Bestia ed i suoi corifei. Poi è il giudizio supremo, la convocazione di tutti i morti davanti al tribunale di Dio, l’apertura delle coscienze, la condanna definitiva e inappellabile di tutti coloro che non sono iscritti nel libro della vita (cap. XX). – Ma l’Apocalisse non può finire con questi spettacoli terrificanti: la “fine” del mondo, nel senso filosofico della parola, non è Morte, rovina, sofferenza, Inferno; al contrario, è Pace, Gioia, Vita, Paradiso. Ecco perché la VII Visione, l’ultima dell’opera, ci mostra in termini di incomparabile bellezza, la gloria che attende la Sposa – cioè la Chiesa, o l’anima fedele – nel giorno delle sue nozze. L’autore descrive successivamente la meravigliosa Città, pavimentata d’oro e di cristallo, costruita con pietre preziose delle specie più rare, che sarà la dimora degli eletti (cap. XXI); il fiume di acqua viva e l’albero della vita con dodici fruttificazioni, che assicureranno loro eternamente sempre nuove delizie. Infine, l’opera si completa con una Conclusione, in cui San Giovanni attesta nel modo più solenne la verità di quanto ha appena scritto, e in un supremo impulso del suo cuore invoca la pronta venuta del suo amato Maestro (cap. XXII).
L’APOCALISSE di S. GIOVANNI APOSTOLO
PROLOGO
Cap. I, (1-8)
“Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli ha data per far conoscere ai suoi servi le cose che debbono tosto accadere: ed egli mandò a significarla per mezzo del suo Angelo al suo servo Giovanni, il quale rendette testimonianza alla parola di Dio, e alla testimonianza di Gesti Cristo in tutto quello che vide. ‘Beato chi legge, e chi ascolta le parole di questa profezia: e serba le cose che in essa sono scritte: poiché il tempo è vicino. “Giovanni alle sette Chiese che sono nell’Asia. Grazia a voi, e pace da colui, che è, e che era, e che è per venire: e dai sette spiriti, che sono dinanzi al trono di lui : ‘e da Gesù Cristo, che è il testimone fedele, il primogenito di tra i morti, e il principe dei re della terra, il quale ci ha amati, e ci ha lavati dai nostri peccati col proprio sangue, e ci ha fatti regno, e sacerdoti a Dio suo Padre: a lui gloria, e impero pei secoli dei secoli : così sia. ‘Ecco che egli viene colle nubi, e ogni occhio lo vedrà, anche coloro che lo trafìssero. E si batteranno il petto a causa di lui tutte le tribù della terra: così è: Amen! Io sono l’alfa e l’omega, il principio e il fine, dice il Signore Iddio, che è, e che era, e che è per venire, l’Onnipotente.”
La parola Apocalisse significa, in greco, rivelazione. Il libro che l’apostolo San Giovanni scrisse con questo titolo non è altro che il resoconto di una rivelazione particolarmente importante che gli fu fatta durante il suo esilio sull’isola di Patmos, e in circostanze che egli preciserà più tardi. L’ha intitolato: Apocalisse di Gesù Cristo. Con questo, vuole indicare che Gesù Cristo è sia l’autore che il soggetto di questa rivelazione. L’Apocalisse parla di Gesù Cristo, che essa mostra nelle sue funzioni di Giudice supremo e di Re dei re; e viene da Gesù Cristo, che ne ha sviluppato i quadri davanti al suo discepolo: San Giovanni lo dichiara, affinché si sappia che egli sta per parlare non di sua iniziativa, ma sotto l’ispirazione del Maestro divino, e che non è uno di quei falsi profeti, così frequenti tra i Giudei, che vi fanno rivelazioni e vi ingannano, diceva Geremia, perché parlano secondo il proprio cuore e non per bocca del Signore (XXIII. 16). Questa rivelazione l’ha ricevuta Gesù Cristo stesso – come del resto tutta la dottrina che ha predicato (Cfr. Jo, VIII 16: La mia dottrina non è la mia, ma quella di Colui che mi ha mandato) – da Suo Padre, con il mandato di farla conoscere, non a tutti gli uomini, ma a coloro che sono i veri servitori di Dio e che, con la pratica della carità e dell’umiltà, lavorano per la Sua gloria. È a loro, e solo a loro, che la divina Sapienza rivela i suoi segreti, come disse il Salvatore: «Vi ringrazio, Padre, Dio del cielo e della terra, perché avete nascosto queste luci ai sapienti e ai prudenti di questo mondo e le avete rivelate ai piccoli. (Luc. X, 21). – La profezia che l’Apostolo sta per farci ascoltare riguarda le cose che devono essere compiute senza indugio, cioè, in senso letterale, le persecuzioni che la Chiesa dovrà presto soffrire, ed in senso spirituale, le tribolazioni che i giusti devono sopportare prima di raggiungere la gloria. Le prove annunciate si compiranno senza indugio, perché il tempo delle prime persecuzioni è vicino, in quanto tutta la durata di questo mondo non è che un istante in confronto all’eternità; o perché le sofferenze sono sempre brevi, se le confrontiamo con la ricompensa infinita che le seguirà. È necessario che si compiano, come era “necessario” che Cristo soffrisse per entrare nella gloria (Lc., XXIV, 26). La sofferenza, in effetti, è necessaria all’uomo per espiare i suoi peccati, per distruggere le tendenze corrutte della sua natura, come dimostra l’esempio di Nostro Padre San Benedetto che chiede alle spine di spegnere il fuoco della passione che si era acceso nella sua carne; per far fiorire la carità nel suo cuore: “Nella tribolazione”, dice il Salmista, “tu mi hai dilatato” (Sal IV, 2); per risvegliare in lui il desiderio della vita eterna, e per metterlo in condizione di acquisire i meriti indispensabili: Beati coloro che soffrono per la giustizia, disse Nostro Signore, perché a loro appartiene il regno dei cieli (Matth. V, 10). – Questa rivelazione fu a sua volta partecipata da Gesù, attraverso il ministero del Suo Angelo, al Suo servo Giovanni. L’ha “significata” (significavit), cioè gliel’ha fatta sentire con segni sensibili. – Ma qui sorge una domanda. I dottori che hanno trattato questo argomento pensano generalmente che l’Apocalisse appartenga all’ordine più alto delle visioni, cioè a quelle che si chiamano visioni “intellettuali”, e nelle quali gli oggetti si manifestano all’anima, senza alcuna dipendenza effettiva dalle immagini sensibili – (La teologia mistica distingue tre tipi di visioni: le corporee, le immaginative e le intellettive. Le prime sono indirizzate ai sensi esterni, ai quali offrono un oggetto in forma materiale e corporea; le seconde sono indirizzate all’immaginazione, alla quale manifestano un oggetto mediante l’impressione interiore di un’immagine sensibile; le ultime sono indirizzate direttamente all’intelligenza pura, senza alcuna rappresentazione sensibile.). – “Si crede – scrive per esempio San Bonaventura – che l’evangelista San Giovanni abbia visto e compreso, senza l’intervento di alcuna figura, tutte le cose di cui tratta nella sua Apocalisse. “. – Perché allora l’autore sacro parla qui di “segni”? Si risponde comunemente che il beato Apostolo, dopo aver contemplato, nella loro essenza e senza velo, le realtà di cui sta per parlare, ricevette da Dio stesso le figure sotto le quali doveva presentarle agli uomini, per stimolare la loro curiosità, per indurli a cercare il significato nascosto di queste descrizioni straordinarie, e quindi per indurli a mettere in pratica gli insegnamenti in esse contenuti. Il Dottore Serafico continua: “È vero che abbia usato delle figure per esprimere ciò che aveva conosciuto, ma nel farlo ha avuto riguardo per la debolezza degli altri, ai quali la verità pura e semplice sarebbe stata impercettibile a causa della luminosità di cui essa è circondata. – Tale oscurità serve ad esercitare la fede dei giusti e difende questi venerabili misteri dagli occhi degli indegni. Del resto, tutte le Scritture sono coperte da veli simili, e questo è significato dal velo steso davanti al Santo dei Santi, in cui solo i sacerdoti, e non il popolo, potevano entrare. (Sul progresso spirituale dei religiosi. L., I, cap. LXXV). – Gesù, dunque, a sua volta, l’ha fatta conoscere al suo servo Giovanni, il discepolo prediletto, che che rese testimonianza alla Parola di Dio, cioè alla divinità di Cristo, attraverso il carattere trascendente della sua predicazione; e che rese testimonianza anche alla sua Umanità, riferendo tutto ciò che aveva visto compiere da Gesù Cristo, facendo conoscere i dettagli della sua vita, della sua morte, della sua resurrezione, ecc… Questa rivelazione fu senza dubbio fatta propriamente solo a San Giovanni: ma tutti coloro che sono in stato di grazia hanno qualche somiglianza con questo Apostolo, il cui nome significa, secondo San Girolamo: pieno di grazia. Nella misura in cui anch’essi testimoniano la divinità di Gesù Cristo con la fermezza della loro fede, e la sua umanità con la diligenza che mettono nell’imitare le sue opere, parteciperanno alla conoscenza delle comunicazioni divine. Beato chi legge attentamente e ascolta, cioè chi comprende e imprime nel suo cuore le parole piene di mistero di questa profezia, e chi osserva fedelmente gli insegnamenti che contiene. Perché il giorno del giudizio è vicino. Infatti il tempo di questa vita è ben poca cosa rispetto all’eternità, e possiamo dire, con San Giacomo, che il giudice è già davanti alla porta. (V, 9).
*
* *
Giovanni, alle sette chiese dell’Asia. Nella lettera, l’Apostolo intende nominare le principali chiese dell’Asia Minore, che saranno designate in seguito, che aveva sotto la sua giurisdizione, e di cui Efeso era la metropoli. Ma il numero sette, nel suo senso mistico, ha il significato di totalità, o pienezza, e le sette chiese rappresentano qui tutta la cristianità, come i “Sette Dolori” abbracciano tutte le sofferenze della Beata Vergine, o come i sette peccati capitali abbracciano la somma dei peccati che si possono commettere. La grazia e la pace siano con voi: la grazia, per portarci la remissione delle nostre colpe; la pace, per spegnere la lotta che la concupiscenza genera, e che lacera l’uomo interiore; e questo, per il dono di Colui che è, che era, e che viene. Queste ultime parole possono essere intese per le tre Persone della Santa Trinità: Dio è, perché possiede la pienezza dell’Essere, secondo la definizione che diede di se stesso a Mosè: Io sono Colui che è (Ex., III, 14). Egli era da tutta l’eternità e deve venire alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti. Alcuni commentatori, tuttavia, li attribuiscono qui al solo Padre, a causa del contesto. Essi vedono nei sette spiriti in piedi davanti al trono lo Spirito Santo, che è uno in Persona, ma settiforme nei suoi doni; e la Santa Trinità è completata dalla presenza di Gesù Cristo nel versetto successivo. Altri – e questi sono i più numerosi – applicano al Verbo stesso le espressioni: che è, che era e che verrà; i sette spiriti rappresentano allora la moltitudine degli Angeli che, secondo la visione di Daniele, si affannano continuamente intorno al trono dell’Altissimo. E le parole che seguono si riferiscono, in questo caso, solo all’Umanità di Cristo. Gesù Cristo, che è un testimone fedele: un testimone fedele perché ha insegnato la verità senza distinzione di persone; perché ha dato al mondo una testimonianza esatta di suo Padre e di se stesso, sigillata con il suo sangue; perché l’evento ha sempre verificato ciò che ha detto; un testimone fedele, ancora, perché testimonierà con rigorosa precisione sul conto di ognuno di noi, nel giorno del giudizio. Egli è il primo a nascere dai morti, cioè il primo a risorgere, il primo a essere generato alla vita eterna; il principe dei re della terra, perché gli è stato dato il potere assoluto su tutte le creature; ci ha amato fino al punto di subire le sofferenze più terribili e la morte più ignominiosa, per purificarci nel suo sangue dai peccati che abbiamo commesso. Egli ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti per il suo Dio e Padre: un regno, perché prima della sua venuta la nostra anima era dominio del demonio, che regnava su di essa con il peccato. Ma Cristo, nella sua passione, ha spogliato i principati e le potenze (Coloss. II, 15): ha distrutto il loro impero, permettendo a Dio di prendere con la sua grazia il possesso su di noi. – E dei sacerdoti: perché tutti i figli della Chiesa sono sacerdoti, dice sant’Ambrogio (Lib. IV, de Sacram., c. I.); non, naturalmente, nel senso che tutti sono investiti del potere sacerdotale, e che possono celebrare indistintamente i misteri, riservati dalla liturgia a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine Santo; ma perché c’è nella Chiesa un doppio sacerdozio, l’uno interiore e l’altro esteriore, dice il Catechismo Romano. Ora sono considerati sacerdoti del sacerdozio interno tutti i fedeli, quando sono stati purificati dall’acqua del Battesimo, e specialmente i giusti che hanno lo spirito di Dio in loro, e che sono diventati, per un beneficio della grazia divina, le membra vive di Gesù Cristo, il sovrano Sacerdote. Questi, infatti, sotto l’influsso di una fede infiammata dalla carità, immolano a Dio, sull’altare del loro cuore, delle ostie spirituali, tra le quali vanno annoverate le buone azioni che portano a Dio… Per questo il Principe degli Apostoli disse: “Voi stessi, come pietre viventi, siete posati su di Lui (cioè su Gesù Cristo), per essere un edificio spirituale ed un sacerdozio santo, per offrire a Dio sacrifici spirituali a Lui graditi per mezzo di Gesù Cristo. (I Pet., Il, 5. — Catéch. Rom. chap. VIII, 23). Da ciò vediamo che, sebbene solo i ministri legittimamente consacrati abbiano il diritto di compiere atti validi di culto pubblico nella Chiesa, tutti i Cristiani hanno il diritto di offrire, in quell’intimo santuario dell’anima dove Nostro Signore ci ha insegnato ad adorare il Padre in spirito e verità (Giov. IV, 23), sacrifici che, sebbene siano interamente spirituali, sono tuttavia veri sacrifici, e quindi presuppongono un reale potere sacerdotale in colui che li compie. Così, Gesù Cristo ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti per il suo Dio e il suo Padre. L’autore sacro dice: il suo Dio, per indicare che Gesù era un uomo; il suo Padre, perché era Dio. A Lui, dunque, gloria e potenza nei secoli, cioè: glorifichiamolo e obbediamogli, nel presente come nell’eternità, per riconoscere tanti benefici. Amen. Ecco, egli viene nelle nuvole, come gli Angeli annunciarono al momento della sua ascensione (Act. I, 9 e 11). In senso spirituale, le nuvole sono la figura degli Apostoli che, stando sopra la terra con la rinuncia, e lasciandosi muovere dal soffio dello Spirito Santo, portano a tutta la terra la pioggia benefica della dottrina evangelica. E ogni occhio, cioè ogni uomo, la vedrà allora: i buoni l’accoglieranno con gioia indicibile; ma i malvagi, quelli che lo hanno crocifisso, la guarderanno con un terrore inesprimibile. Essi riconosceranno con stupore, in questo Giudice pieno di maestà e di gloria, il condannato che avevano pensato di annientare trafiggendolo con i loro colpi. E tutte le tribù della terra faranno cordoglio per Lui. Le tribù della terra sono quelle che sono rimaste schiave dei beni della terra: esse piangeranno, cioè piangeranno la propria miseria, al pensiero che saranno private per sempre di un tale tesoro. L’Apostolo sottolinea ciò che ha appena detto con una doppia affermazione, una in greco e l’altra in ebraico, per marcare la certezza di ciò che sta dicendo sul Giudizio Universale; anche per rendere chiaro che si sta rivolgendo sia ai Gentili che ai Giudei, poiché tutto il genere umano deve essere convocato a questo tribunale finale. E per incidere ancora più profondamente nella mente dei suoi ascoltatori la verità delle sue affermazioni, San Giovanni dà la parola a Cristo stesso: Io sono l’alpha e l’omega, cioè la somma della conoscenza umana: perché come l’alfabeto porta, tra la prima e l’ultima lettera, tutto ciò che l’uomo può conoscere, così l’Umanità di Cristo contiene in sé tutta la verità e tutta la conoscenza, secondo quanto Egli stesso disse a San Filippo: Chi vede me, vede anche il Padre (Giov. XIV, 9). – Io sono, continua, il principio e la fine. Colui prima del quale non c’era nulla, Colui oltre il quale non c’è nulla; Colui dal quale tutte le creature procedono, Colui al quale sono tutte ordinate; Colui che è, che possiede la pienezza, la perfezione e l’invariabilità dell’Essere; Colui che era da tutta l’eternità, e Colui che verrà, nell’ultimo giorno, a giudicare tutte le cose, con un potere al quale nulla può resistere.