SANTO NATALE (2020)
Doppio di I cl. con ottava privileg. di III ord. – Paramenti bianchi.
PRIMA MESSA • DURANTE LA NOTTE.
Stazione a S. Maria Maggiore all’altare del Presepe.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Il Verbo, generato nell’eternità del Padre, (Com. Grad.) ha elevato fino all’unione personale con sé il frutto benedetto del seno verginale di Maria, ciò che significa che la natura umana e la natura divina sono legate in Gesù nell’unità di una sola Persona, che è la seconda Persona della SS. Trinità. E, come quando si parla di figliolanza, è la persona che si designa, si deve dire che Gesù è il Figlio di Dio perché la sua persona è divina; è il Verbo incarnato. Perciò Maria è la Madre di Dio; non perché essa abbia generato il Verbo, ma perché ha generato l’umanità che il Verbo si è unito nel mistero dell’Incarnazione; mistero di cui la nascita di Gesù a Betlemme fu la prima manifestazione al mondo. Si comprende allora perché la Chiesa canti ogni anno a Natale: « Puer natus est nobis et Filius datus est nobis»; un fanciullo è nato per noi, un figlio ci viene dato, (Intr., Allei.). Questo Figlio è il Verbo incarnato, generato come Dio dal Padre nel giorno dell’eternità: Ego hodie genui te, e che Dio genera come uomo nel giorno dell’Incarnazione: Ego hodie genui te; perché con l’assunzione della sua umanità in Dio « assumptione humanitatis in Deum » (Simbolo di S. Atanasio), il Figlio di Maria è nato alla vita divina, ed ha Dio stesso per Padre, perché Egli è unito ipostaticamente a Dio Figlio. – «Con grande amore, dice S. Leone, il Verbo incarnato ha ingaggiato la lotta contro satana per salvarci, perché l’onnipotente Signore ha combattuto con il crudelissimo nemico non nella maestà di Dio, ma nella debolezza della nostra carne » (5a Lez.). E la vittoria che ha riportato, malgrado la sua debolezza, mostra che Egli è Dio. – Fu nel mezzo della notte, che Maria mise al mondo il Figlio primogenito e lo depose in una mangiatoia. Cosi la Messa si celebra a mezzanotte nella Basilica di S. Maria Maggiore, dove si conservano le reliquie della mangiatoia. – Questa nascita in piena notte è simbolica. È il « Dio da Dio, luce da luce » (Credo) che disperde le tenebre del peccato. « Gesù è la vera luce che viene a illuminare il mondo immerso nelle tenebre » (Or.). «Col Mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice il Prefazio, un nuovo raggio di splendore del Padre ha brillato agli occhi della nostra anima, perché, mentre conosciamo Iddio sotto una forma visibile, possiamo esser tratti da Lui all’amore delle cose invisibili ». « La bontà del nostro Dio Salvatore si è dunque manifestata a tutti gli uomini per insegnarci a rinunciate alle cupidigie umane, per redimerci da ogni bassezza e per fare di noi un popolo gradito, e fervente di buone opere» (Ep.). «Si è fatto simile a noi perché noi diventiamo simili a Lui (Secr.) e perché dietro il suo esempio possiamo condurre una vita santa » (Postcom.). « È cosi che vivremo in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, attendendo la lieta speranza e l’avvento della gloria del nostro grande Iddio Salvatore e nostro Gesù Cristo » (Ep.). Come durante l’Avvento, la prima venuta di Gesù ci prepara dunque alla seconda.
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps II: 7.
Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te
(Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Ps II:1
Quare fremuérunt gentes: et pópuli meditáti sunt inánia?
[Perché si agitano le genti: e i popoli ordiscono vani disegni?]
Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te.
[Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato].
Oratio
Orémus.
Deus, qui hanc sacratíssimam noctem veri lúminis fecísti illustratióne claréscere: da, quǽsumus; ut, cujus lucis mystéria in terra cognóvimus, ejus quoque gáudiis in coælo perfruámur:
[O Dio, che questa notta sacratissima hai rischiarato coi fulgori della vera Luce, concedici, Te ne preghiamo, che di Colui del quale abbiamo conosciuto in terra i misteriosi splendori, partecipiamo pure i gaudii in cielo:]
Lectio
Léctio Epístolæ beati Pauli Apóstoli ad Titum
Tit 2:11-15
Caríssime: Appáruit grátia Dei Salvatóris nostri ómnibus homínibus, erúdiens nos, ut, abnegántes impietátem et sæculária desidéria, sóbrie et juste et pie vivámus in hoc sǽculo, exspectántes beátam spem et advéntum glóriæ magni Dei et Salvatóris nostri Jesu Christi: qui dedit semetípsum pro nobis: ut nos redímeret ab omni iniquitáte, et mundáret sibi pópulum acceptábilem, sectatórem bonórum óperum. Hæc lóquere et exhortáre: in Christo Jesu, Dómino nostro.
[Carissimo: La grazia salvatrice di Dio si è manifestata per tutti gli uomini e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le mondane cupidigie, e a vivere in questo mondo con temperanza, giustizia e pietà, aspettando la lieta speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Egli ha dato sé stesso per noi, a fine di riscattarci da ogni iniquità, e purificare per sé un popolo suo proprio, zelante per buone opere. Insegna queste cose e raccomandale: in nome del Cristo Gesù, Signore nostro.]
Aspirazione. Siate benedetto, o mio divin Salvatore, che vi siete degnato di scendere dal cielo e rivestirvi di nostra carne mortale, per venire ad insegnarmi il cammino giustizia! Riconoscente a sì grande amore e per profittare di un sì gran benefizio, rinunzio ad ogni empietà e ad ogni inimicizia, ai piaceri della carne ed a tutte le azioni, parole, pensieri che potessero dispiacervi, e prometto fermamente di vivere con temperanza, giustizia e pietà. Deh! la vostra grazia, o mio Dio, mi renda fedele ai disegni che essa m’ispira!
(Goffinè: Manuale per la santif. della Domenica, etc …)
Graduale
Ps CIX:3; 1
Tecum princípium in die virtútis tuæ: in splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.
[Con te è il principato dal giorno della tua nascita: nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]
V. Dixit Dóminus Dómino meo: Sede a dextris meis: donec ponam inimícos tuos, scabéllum pedum tuórum. Allelúja, allelúja.
[V. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra: finché ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Allelúia, allelúia.]
Ps II: 7
V. Dóminus dixit ad me: Fílius meus es tu, ego hódie génui te. Allelúja.
[V. Il Signore disse a me: tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secundum Lucam
Luc II: 1-14
In illo témpore: Exiit edíctum a Cæsare Augústo, ut describerétur univérsus orbis. Hæc descríptio prima facta est a præside Sýriæ Cyríno: et ibant omnes ut profiteréntur sínguli in suam civitátem. Ascéndit autem et Joseph a Galilæa de civitáte Názareth, in Judæam in civitátem David, quæ vocatur Béthlehem: eo quod esset de domo et fámilia David, ut profiterétur cum María desponsáta sibi uxóre prægnánte. Factum est autem, cum essent ibi, impléti sunt dies, ut páreret. Et péperit fílium suum primogénitum, et pannis eum invólvit, et reclinávit eum in præsépio: quia non erat eis locus in diversório. Et pastóres erant in regióne eádem vigilántes, et custodiéntes vigílias noctis super gregem suum. Et ecce, Angelus Dómini stetit juxta illos, et cláritas Dei circumfúlsit illos, et timuérunt timóre magno. Et dixit illis Angelus: Nolíte timére: ecce enim, evangelízo vobis gáudium magnum, quod erit omni pópulo: quia natus est vobis hódie Salvátor, qui est Christus Dóminus, in civitáte David. Et hoc vobis signum: Inveniétis infántem pannis involútum, et pósitum in præsépio. Et súbito facta est cum Angelo multitúdo milítiæ coeléstis, laudántium Deum et dicéntium: Glória in altíssimis Deo, et in terra pax hóminibus bonæ voluntátis.
[In quel tempo: Uscì un editto di Cesare Augusto che ordinava di fare il censimento di tutto l’impero. Questo primo censimento fu fatto mentre Quirino era preside della Siria. Recandosi ognuno a dare il nome nella propria città, anche Giuseppe, appartenente al casato ed alla famiglia di Davide, andò da Nazareth di Galilea alla città di Davide chiamata Betlemme, in Giudea, per farsi iscrivere con Maria sua sposa, ch’era incinta. E avvenne che mentre si trovavano lì, si compì per lei il tempo del parto; e partorì il suo figlio primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia, perché non avevano trovato posto nell’albergo. Nello stesso paese c’erano dei pastori che pernottavano all’aperto e facevano la guardia al loro gregge. Ed ecco apparire innanzi ad essi un Angelo del Signore e la gloria del Signore circondarli di luce, sicché sbigottirono per il gran timore. L’Angelo disse loro: Non temete, perché annuncio per voi e per tutto il popolo un grande gaudio: infatti oggi nella città di Davide è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore. Questo sia per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. E d’un tratto si raccolse presso l’Angelo una schiera della Milizia celeste che lodava Iddio, dicendo: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.]
Omelia
(Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, I vol. Queriniana, Brescia, 1894)
Il nascimento di Gesù Cristo
Signori! Voi ora avete udita la narrazione che S. Luca, unico dei quattro Evangelisti, ci lasciò del nascimento di Gesù Cristo e dei particolari semplicissimi, che lo accompagnarono. È una narrazione, che abbiamo udito cento e cento volte, eppure ci torna sempre bella e cara come la memoria dell’infanzia. Quella capanna abbandonata, quei poveri sposi, Giuseppe e Maria, che si ricoverano nel cuore della notte, quella mangiatoia, quel Bambino, che avvolto in fasce sopra vi è adagiato, quegli angeli, che aleggiano e cantano sulla capanna e chiamano i pastori, i primi pastori, che accorrono dai vicini colli e adorano il nato Salvatore del mondo, formano un quadro d’una semplicità incantevole, d’ una bellezza impareggiabile, che rapisce il cuore. In quella deserta capanna tutto parla a chi ha scintilla di fede. Quell’Infante celeste, promesso da Dio, annunziato dai patriarchi e dai profeti, simboleggiato nei riti della sinagoga, aspettato confusamente da tutti i popoli, nel quale si concentrano i desideri e le speranze tutte del passato e si concentreranno l’ammirazione, la fede e l’amore dei futuri, quell’Infante celeste non sa articolare un solo accento; piange e vagisce anch’egli come l’ultimo bambino del popolo; ma se tace la lingua parlano le opere. E che dicono l’opere sue? Ciò che più tardi confermeranno le parole, secondo la bella frase di S. Bernardo – lam clamat exæmplo quod postmodum conmaturus est verbo – In questo ragionamento, che è piuttosto una Omelia, noi seguiremo passo passo il racconto evangelico, cavandone quelle pratiche applicazioni che per essere comuni non cessano d’essere interessanti e importantissime. Il racconto evangelico, che vi ho riportato, ha tre parti distinte: la prima comincia dal primo versetto e si chiude col sesto e narra il viaggio di Giuseppe e Maria da Nazaret a Betlemme e la ragione del viaggio: la seconda parte si racchiude tutta nel versetto settimo e narra il nascimento di Gesù Cristo: la terza corre dal settimo al decimo-settimo versetto e contiene l’annunzio angelico datone ai pastori e la loro andata a Betlemme. L’Impero romano, dopo le ferocissime guerre civili, che l’aveano riempiuto di stragi e di sangue, era composto in pace profonda: il tempio di Giano era chiuso e Cesare Augusto vedeva le aquile romane temute e rispettate dal Tigri al Tago, dal Reno al Nilo. La civiltà, quella che era possibile nel paganesimo, avea toccato il supremo fastigio: nel foro risuonavamo ancora le voci di Ortensio e Cicerone, le odi di Orazio si cantavano per le vie e i versi del dolce Virgilio, che salutavano il rinnovamento del secolo e la prole celeste erano sulle bocche di tutti. I tempi erano mutati: lo scettro di Giuda era caduto nelle mani d’uno straniero, si compivano le settanta settimane e il mondo aspettava il Salvatore. Un’umile verginella di Nazaret, a tutti ignota, lo portava nel suo seno intemerato e il giorno, in cui dovea comparire sulla terra era vicino. Ma vi era un vaticinio, celebre in Israele, il vaticinio di Michea (. 2): esso diceva a chiara note che il Promesso duce d’Israele sarebbe nato in Betlemme: ora la Vergine vivea in fondo alla Galilea, a Nazaret, precisamente nella regione più lontana da Betlemme. Come dunque si adempirà la parola del profeta? Tutto è nelle mani di Dio e delle sue parole non cade un apice solo. Gli uomini operano liberamente ed anche seguendo le loro passioni servono inconsci ai suoi disegni e se ne fanno i suoi esecutori fedeli. Udite il Vangelista. « A que’ giorni uscì un editto da Cesare Augusto perché si facesse il censo del mondo intero: questo censo fu il primo, che si facesse, essendo Quirino preside della Siria. Qual’era il fine che mosse Cesare Augusto ad imporre quel censo? La Storia nol dice, ma è troppo naturale che fosse quello di determinare i tributi e regolare l’amministrazione dell’immenso Impero e fora’ anche l’orgoglio di poter dire con certezza: – Tanti milioni si curvano sotto il mio scettro! – Chi mai poteva immaginare, che quel decreto dell’Imperatore romano adempiva il vaticinio d’ un profeta, vissuto sei secoli prima e obbligava a un lungo viaggio il figlio di Dio fatto uomo, i Vicari del quale un giorno si sarebbero assisi sul suo trono istesso! – Impariamo a rispettare e venerare i consigli di Dio in tutti i fatti degli uomini, perché a lui servono i buoni e i cattivi, Davide come Saule, Ciro come Zorobabele. La Palestina allora non era propriamente provincia dell’Impero romano, ma n’era re Erode: re tributario dovette sottostare a quel censimento delle persone e delle sostanze, che preludeva alla prossima unione all’ Impero. Il censimento, secondo l’uso degli Ebrei, richiedeva che ciascuno dovesse recarsi nella tribù o nella città, donde teneva l’origine e perciò Giuseppe dovette recarsi a Betlemme e condursi seco Maria, ancorché già presso a dare alla luce. Entrambi in quel decreto videro il dito di Dio, che li conduceva là dove secondo i Profeti doveva nascere il Salvatore del mondo. Da Nazaret a Betlemme vi sono circa quattro giornate di cammino, che è quanto dire circa 80 chilometri, pigliando la via dritta, che attraversa la pianura di Iesrael, tocca Betulia, Sichem e Gerusalemme, la via battuta dalle carovane. La povera gente camminava a piedi, guidando per lo più 1’umile cavalcatura del povero, il giumento col carico delle provvisioni necessarie e di cui talvolta usava per alleggerire la fatica. La carovana, in cui gli uomini viaggiavano separatamente dalle donne, sostava a quando a quando all’ombra di qualche albero o presso qualche fonte e per difendersi dal calore del sole si raccoglieva nel Khan o caravan-serragli, specie di recinto di pietre gregge, che sorgeva all’ingresso d’ogni villaggio e offriva un miserabile riparo ai viaggiatori ed alle bestie. Allo spuntare dell’alba, la carovana si metteva in cammino, cantando i salmi, che si riferiscono a Gerusalemme e al tempio (Didon, Vol. I, pag. 50). Era uno spettacolo di fede e di pietà, che riflette mirabilmente il carattere dei popoli orientali, grave, solenne e profondamente religioso. – Maria e Giuseppe, seguendo la carovana, attraversata Gerusalemme e fatto ivi secondo ogni verosimiglianza una sosta più o meno lunga, ripresero il cammino alla volta di Betlemme, che dista circa dieci chilometri, nella direzione di mezzogiorno. Il paese è tutto rotto a valli, colli e burroni e Betlemme giace sopra due colline, che si congiungono in forma di semicerchio e formano un grandioso anfiteatro verdeggiante e coperto di viti e di olivi, di fichi e di mandorli. Poco lungi si vede il campo, dove Ruth, la povera moabita, spigolava e lì presso il piccolo colle, su cui era l’aia di Booz. Ecco la patria di Davide, che vi custodiva il gregge paterno: ecco il luogo, che Dio ha scelto e dove vedrà la luce il Figliuol suo. Maria e Giuseppe vi dovettero giungere in sul fare della sera: il carovan-serragli, o albergo di Betlemme, era ingombro e pei due poverelli non v’era più luogo, scrive 1’Evangelista – Non erat eis locus in diversorio -. Nei fianchi dei monti e dei colli di Palestina, che sono calcarei, spesso la natura e talvolta la mano dell’uomo qua e là hanno aperto ampie fessure e caverne e profondi scavi, che si nascondono nelle viscere della terra; in uno di quegli scavi, che talora serviva di riparo agli animali ed anche agli uomini che forse si chiamava la stalla, i due viaggiatori, stanchi del cammino, trovarono un ricovero (Didon, 1. c.) Fratelli! Non vi sia grave udire alcune considerazioni volgari, si, ma sempre belle e acconce ad ogni stato di persone e che scaturiscono dal racconto evangelico. Noi vediamo le due più sante creature, che fossero sulla terra, Giuseppe e Maria, ubbidire con gravissimo loro disagio al comando d’un Imperatore straniero e per giunta pagano; ciò è nulla: noi vediamo lo stesso Figliuol di Dio, il Salvatore del mondo, che sta per nascere, nella Madre e colla Madre ubbidire allo stesso comando, con qual disagio, pensatelo voi, che sapete per fede, Gesù Cristo dal primo istante di sua incarnazione aver avuto perfettissimo conoscimento d’ogni cosa, anzi aver avuto la visione beatifica. Ecco, o signori e fratelli miei, il modello sovrano della nostra condotta per ciò che riguarda le Autorità costituite anche politiche e civili. Se vi erano persone, che potevano sottrarsi al dovere della ubbidienza verso di esse, erano Giuseppe e Maria e sopra tutto il nascituro Figliuolo di Dio, supremo legislatore del cielo e della terra. Eppure ubbidiscono prontamente, non si lagnano del lungo cammino, del rigore della stagione: non mettono innanzi ragioni o privilegi: non cercano se l’autorità che comanda è legittima, né perché comandi: nulla di tutto ciò: obbediscono semplicemente. Noi Cristiani cattolici dobbiamo seguire tanto esempio. La nostra regola immutabile è stabilita da S. Paolo, che dice ai Cristiani di Roma, ai tempi di Nerone « Ogni uomo è sottoposto alle podestà superiori, perché non vi è podestà se non da Dio: e le podestà che sono, sono da Dio ordinate, a talché chi resiste alle podestà resiste all’ordine di Dio ». Noi cristiani cattolici, fissi gli occhi sull’esempio della santa Famiglia e fermi nella dottrina del grande Apostolo, dinnanzi alle Autorità non discutiamo: non domandiamo le prove della loro origine, né esaminiamo i titoli della loro legittimità: al di sopra di loro vediamo Iddio, che regge le cose umane e fa passare lo scettro dall’uno all’altro monarca come e quando gli piace: noi non guardiamo agli uomini che tengono il potere, ma sì al potere, che è nelle loro mani: questo è sempre da Dio anche quando è in mani inique, come sull’altare è sempre il ministro di Dio, che parla e offre i sacri misteri, ancorché indegno. Noi cristiani cattolici non ci rivoltiamo mai contro le Autorità, le rispettiamo ed ubbidiamo, non solo per timore, ma per coscienza, pel sentimento del dovere, perché in una parola, ubbidiamo a Dio. Che se codeste Autorità ci comandano ciò che offende Dio e le sue leggi, allora noi senza timore e con ogni rispetto rispondiamo cogli Apostoli: – Si deve ubbidire prima a Dio e poi agli uomini. Fate ciò che volete di noi, non possiamo calpestare la nostra coscienza e fallire ai nostri doveri verso Dio. E questa la nostra regola in faccia a Diocleziano, come in faccia a Costantino, a Carlo Magno o Enrico VIII, dinnanzi ad una repubblica, come dinnanzi ad un Impero, dinnanzi ad un corpo legislativo, come ad un corpo esecutivo. E questa la libertà, che ci ha portata il Vangelo di Cristo, allorché disse: – Rendete a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che spetta a Cesare -. Vi piaccia contemplare coll’occhio della fede i due viaggiatori, che da Nazaret salgono a Betlemme. Vedeteli questi due sposi, che non si separano un solo istante, sempre a fianco l’uno dell’altro: pieni di affetto riverente mettono ogni studio in compiacersi a vicenda: i loro cuori si intendono a meraviglia; parlano tra loro con voce piana e soave, ma non delle cose della terra: i loro pensieri come i loro discorsi sono tutti di cielo; non un lamento, non ombra di timore o sconforto; in ogni cosa veggono la mano amorosa della Provvidenza e da essa si lasciano docilmente condurre. Sempre lieti e tranquilli portano sulla fronte la serenità imperturbabile dell’animo. Amabili, cortesi con tutti, non cercano, non schivano la compagnia di persona, felici di rendere a tutti qualche servigio se possono: nascondono studiosamente il mistero, del quale essi soli posseggono il segreto e gustano la gioia di trovarsi in mezzo a quella turba di poveri e di anime pie, che con essi salgono verso Betlemme. Quanta pace! Quanta modestia! Quanta umiltà! Quanta fede e quale abbandono in Dìo! I compagni di viaggio li miravano stupiti, li segnavano a dito e li circondavano di rispetto religioso; parea che dagli sguardi, dagli atti e dalla persona di quo’ due sposi raggiasse una luca divina, un’aura di paradiso. L’Uomo-Dio, l’aspettato Redentore del mondo camminava con essi e schiere di angeli invisibili e venerabondi li seguivano e spandevano intorno un profumo di cielo, ammiranti tanta grandezza e tanta povertà, tanta virtù congiunta a tanta umiltà e semplicità. I due pellegrini, come dicevamo, non trovato luogo nel Khan o caravan serragli, si erano ridotti in una di quelle grotte od in uno di quegli scavi, che si vedono ancora a metà costa della collina per trovarvi un riparo nella notte, che cadeva. Grande Iddio! Ed è qui, in questa grotta, che deve venire alla luce il vostro Figliuolo, il sospirato Messia? E questo il palagio, è questa la reggia, che avete preparata a Colui, che deve essere il Re di tutte le nazioni e che voi dalla eternità generate di voi stesso tra gli splendori dei santi? La ragione si confonde, si smarrisce e non ci resta che credere al Vangelo e adorare in silenzio il mistero di fede e di amore, che sta per compirsi. In un cielo limpidissimo, com’è in Oriente, scintillano le stelle e lo dipingono per tutti i seni; il confuso rumore del giorno a poco a poco si è dileguato; qua e là per le capanne sparse lungo le colline e nel gruppo di case, che formano Betlemme, appariscono e spariscono lumi incerti; la notte col nero suo manto avvolge tutte le cose e il silenzio regna profondo e solenne in tutta la valle e intorno alla fortunata grotta. Accostiamoci riverenti e vediamo che cosa avviene in quell’antro, che sta per tramutarsi in un paradiso. Giuseppe, tutto raccolto in sé, in un angolo, prega e medita; la Vergine, le mani giunte, gli occhi fissi in alto e pieni di letizia, circonfusa d’una luce celeste, più simile ad un Angelo che ad una creatura terrestre, sembra estatica e tutta rapita in Dio. – In quel silenzio beato, nel cuore della notte, ecco nato sul duro terreno un bambino, che tende le picciolette e tremanti mani alla Vergine e tacitamente chiede le cure materne. Ella estatica lo contempla, si inginocchia, l’adora, lo piglia tra le sue braccia, cogli occhi ineffabilmente ridenti e gonfi di lagrime lo mostra a Giuseppe, lo bacia, lo avvolge tra le fascia e lo depone sulla paglia della mangiatoia. È il Vangelo che dice tutto questo con una semplicità sublime e inarrivabile. Udite le sue parole: « E partorì il Figliuolo suo primogenito e lo fasciò e lo reclinò in una mangiatoia, perché per loro non vi era un posto nell’albergo ». Il fatto più grande, che si incontri in tutta la storia, a cui e legata la sorte dell’umanità tutta quanta, si contiene in questa sentenza brevissima! Non un accenno di stupore, non una parola di compatimento pel parvolo, che soffre, per la madre sì povera: non un cenno alla durezza ed alla ingratitudine degli uomini, che non hanno un asilo per questi tre abbandonati e nemmeno un cenno alla futura grandezza del nato bambino: nulla: la narrazione nuda, brevissima del fatto e nient’altro! « Colei che era divenuta madre, rimanendo vergine, vergine partorisce. Il Vangelo lo lascia capire: ella non conosce né la debolezza, né lo sfinimento delle madri comuni. E dessa che raccoglie il suo bambino, è dessa che lo colloca nella culla allora trovata. La fede cristiana rimase in ginocchio dinnanzi a questa donna e al bambino, che riposa sul suo seno: contemplandola, apprese dolcezza, la povertà, il sacrificio; di questa scena ineffabile essa si creò in ogni tempo visioni novelle senza stancarsi mai, senza mai esaurirne la forza, la bellezza, l’incanto » (P. Didon, pag. 52). – Ponete mente a questa parola – Primogenito – con cui il Vangelista designa il divino Infante. Forrsechè con essa il Vangelo vuole insinuarci, che Maria ebbe altri figli? Tolga il cielo! Sarebbe manifesta eresia, giacché noi salutiamo Maria quale vergine per eccellenza, sempre vergine. La parola primogenito significa il primo nato? Che può essere primo ed ultimo, unico, come crediamo essere stato Gesù Cristo. E chi può mai credere che Maria, sì tenera e gelosa della sua verginità, ch’era disposta a rifiutare la gloria della maternità divina, se questa le avesse tolta quella, potesse poi farne getto? Chi potrebbe mai immaginare, che dopo essere diventata madre con sì strepitoso miracolo, rimanendo vergine, volontariamente a tanta gloria rinunciasse? Come credere, scrive S. Tommaso, che, avendo ricevuto dal cielo tal Figlio, potesse desiderare d’averne altri? O Maria, o Vergine e Madre! Noi ci prostriamo ai vostri piedi e crediamo che questi due titoli sì gloriosi si accoppiano in voi in guisa, che l’uno abbellisce e compie l’altro e insieme congiunti fanno di voi un miracolo quale il mondo mai non vide, né vedrà l’uguale. Voi foste simile ad un albero gentile, che sotto i raggi del sole e la rugiada del cielo cresce, cresce sempre e di sé germoglia un fiore candido come la neve e nel fiore germoglia il frutto, che maturo si stacca da sé e fiore e frutto sono lavoro della pianta, che non pure non ne riceve offesa, ma bellezza e decoro. Dio, scrisse il Nazianzeno, è la fonte della purezza e della verginità, anzi è la stessa purezza e verginità e perciò quanto più l’anima si avvicina a Dio e tanto più diventa pura e vergine, simile, ad una nube che più si imbianca e si imporpora quanto più si solleva da terra e più diritti riceve i raggi del sole. Maria sì alta levossi e tanto si avvicinò a Dio, che tutta fu penetrata e investita della sua virtù, lo toccò nell’essere suo immediatamente per guisa, che nel proprio seno ricevette il Figlio di lui e lo vestì della propria carne e così vestito lo porse a tutta la progenie di Adamo. Nessuna creatura fu più vergine di Maria e la sua purezza e verginità allora toccò il sommo grado della perfezione quando divenne madre, onde questi due titoli, che nelle altre donne si escludono a vicenda, in Maria si uniscono per modo che a vicenda si perfezionano. Maria concepì vergine e la sua generazione nel tempo è simile alla generazione del Padre nella eternità. Ecce virgo concipiet – Maria diede alla luce vergine – Natus ex Maria Virgine – Il raggio del sole attraversa l’aria, l’acqua e il cristallo, eppure l’aria e l’acqua non tremolano tampoco e il cristallo non si spezza, né si appanna. Io penso e il mio pensiero si genera nel fondo dell’anima mia senza sforzo, senza divisione: penso, e il mio pensiero, pur rimanendo tutto nei penetrali dell’anima mia, invisibile a tutti, tutto intero esce dall’anima mia, si veste del suono e del segno esterno e diventa sensibile e visibile, a tutti si manifesta senza che avvenga dentro o fuori di me ombra di divisione. Similmente Gesù nasce da Maria, rimanendo inviolata la sua verginità – Natus ex Maria Virgine – . Poco lungi da Betlemme, a levante e a mezzogiorno, s’apre una bella e ricca valle. In quella anche nella stagione invernale, giorno e notte, andavano errando e pascendo numerosi greggi, secondo l’uso orientale. Mentre nella grotta si compiva il mistero, che S. Paolo chiama nascosto ai secoli: mentre la piccola città di Betlemme era sepolta nel sonno, lo spirito di Dio comincia quell’opera, che avrà fine col termine dei tempi. Lungo la valle, che si distende ad oriente e a mezzogiorno di Betlemme, alcuni pastori vegliavano e facevano la guardia al loro gregge. Erano forse i soli uomini, che a quell’ora vegliavano ed erano certamente tra più poveri della contrada, 2) (Il P. Didon che per due anni visse e studiò in Palestina, nella Vita di Gesù, pag. 53, scrive: – 1 pastori in Oriente rappresentano la classe infima della popolazione agricola: sono i servi dei servi dei servi. Il padrone del campo non lavora : ha i suoi lavoratori, i suoi operai i guardiani dei greggi. I pastori si vedono ancor oggi, la testa coperta d’un lungo velo nero, una pelle di montone sulle spalle, i pie’ nudi o avvolti in miserabili sanigli, un piccolo bastone di abete o di sicomero in mano.) ma di costumi semplici e pieni di fede antica; a questi uomini, che vegliano, che sono poverissimi, ma ricchi di virtù, è riserbato l’alto onore d’essere chiamati pei primi ad adorare il nato Salvatore, ad essere la primizia dei credenti in Israele. Gran cosa, o fratelli! I primi uomini che sono reputati degni di vedere e adorare il Figlio di Dio fatto uomo, non sono i ricchi, non sono i dotti, non sono i grandi, i re della terra, ma i poveri, gli ignoranti, gli ultimi del popolo. E questo il carattere della Religione, che Gesù Cristo porta sulla terra, la preferenza per le classi spregiate e sofferenti, perché queste dalla povertà e dal dolore meglio preparate al conoscimento della verità, più prontamente ubbidiscono alla sua voce. E in vero come mai i grandi, i ricchi, i potenti della terra, a quell’ora sepolti nel sonno, o intesi ai trastulli e ai piaceri, avrebbero udita la voce di lui e sarebbero accorsi a’ suoi piedi? Come mai, essi pieni di fasto e di orgoglio, si sarebbero prostrati dinnanzi ad un bambino adagiato sulla paglia di una mangiatoia? Dio nell’ordine soprannaturale come nel naturale opera per mezzo delle cause seconde e gli angeli sono gli ordinari messaggeri del suo volere; ed ecco un angelo, credo de’ primi, apparve a que’ pastori « e un fulgore divino li ravvolse, sicché essi forte temettero ». Le apparizioni degli esseri celesti sono quasi sempre accompagnate da irradiamenti di luce. Forsechè gli angeli sono luce e di lor natura diffondono intorno a sé onde luminose? No, per fermo; gli Angeli sono sostanze spirituali di ben altra natura di questa luce, che si spande per ogni dove nell’atmosfera. Gli esseri invisibili (e tali sono gli angeli) a noi esseri visibili non possono far conoscere la loro presenza e la loro azione se non mercé di manifestazioni esterne e perciò devono usare di cose sensibili, e poiché la luce tra le cose sensibili è la più bella e meglio d’ogni altra rappresenta la perfezione degli spiriti, di questa si mostrano ammantati e in questa sogliono far sentire la loro presenza. Quella luce sfolgorante in mezzo alle fìtte tenebre della notte riempì naturalmente di timore qne’ poveri pastori e subitamente l’angelo, per assicurarli, disse: « Non temete. Anzi rallegratevi, perché vi do l’annuncio, che dee riempire voi e tutto Israele d’immensa gioia. A Betlemme, la città di Davide, è nato il Salvatore e lo riconoscerete a questo segno: troverete un bambino, avvolto tra fasce e reclinato in una mangiatoia. » E son questi, o signori, i segni per riconoscere il Messia, il Figlio dell’Eterno, divenuto Figlio dell’uomo? I segni della debolezza, dell’estrema povertà? così è: l’orgoglio umano avea bisogno d’esser fiaccato ed è questa la prima lezione che ci è data a Betlemme. E vero, tanta debolezza e povertà poteva essere uno scandalo, poteva offendere la ragione e mettere a pericolo la fede de’ pastori; ma Dio dispone ogni cosa con somma sapienza e mentre da un lato umilia l’orgoglio degli uomini collo spettacolo della grotta di Betlemme, dall’altro conforta ed avvalora la fede coll’annunzio celeste degli ‘angeli: se le fasce e la mangiatoia mostrano la debolezza e la povertà estrema dell’Infante celeste, il messaggio degli Angeli, la luce che li avvolge, provano ad evidenza ch’egli è veramente il promesso Salvatore. Sempre così: la vita di Gesù Cristo, dalla mangiatoia alla croce, ci dispiega sotto gli occhi l’incessante alternativa della debolezza massima e della massima grandezza, della potenza propria di Dio e della infermità propria dell’uomo: così si rivela costantemente la doppia natura di Cristo, e mentre per una parte siamo costretti a vedere in Lui l’uomo, per l’altra dobbiamo riconoscere in Lui Dio e la nostra fede in Lu i , Dio-Uomo, è perfettamente stabilita. – E mentre così parlava co’ pastori l’Angelo, una moltitudine d’altri Angeli a quello si unì e insieme cantavano lodando Dio: « Gloria nel più alto de’ cieli a Dio e in terra pace agli uomini di buon volere ». Tutto ciò che avviene quaggiù, lassù in Cielo è preveduto e voluto e tutti i fatti, che si svolgono sulla terra, sono l’effetto delle cause invisibili e arcane, che operano in cielo. E bene a ragione si può dire, che tutto il mistero della vita di Cristo, che oggi nasce, si racchiude in queste due parole, che riempiranno lo spazio e i secoli: Gloria e pace! Gloria a Dio in Cielo, pace agli uomini in terra (Didon 1. c.). — E perché gloria a Dio? Perché Dio si è abbassato fino a farsi uomo e perché un uomo ora è Dio! Perché Dio fatto uomo, disvela la smisurata grandezza dell’amore suo e dispiega le ricchezze della sua sapienza, della sua potenza, della sua giustizia, di tutte le sue perfezioni. Gloria a Dio, perché ora si dischiudono le porte de’ cieli e gli uomini, riconciliati con Dio, rifatti secondo la sua immagine, vi potranno entrare e cresceranno le lingue, che lassù lo esaltano e cantano le sue grandezze. Pace agli uomini in terra, perché il maestro divino è comparso in mezzo a loro, perché la vittima espiatrice de’ loro falli è preparata e comincia il sacrificio, che più tardi sarà consumato sul Golgota. Ciò, che porta la pace agli uomini, glorifica Dio, e ciò che glorifica Dio porta la pace agli uomini. In questo giorno Dio dall’alto de’ cieli vede per la prima volta nato sulla terra un figlio innocente, santo, immacolato, eguale a sé e a cui può e deve dire: – Tu sei il Figliuol mio diletto: in te trovo tutte le mie compiacenze -. Oggi per la prima volta dalla terra s’innalza un grido, un gemito, che placa Iddio, e gli rende un onore adeguato, degno di lui. Oggi Iddio dall’ alto de’ cieli vede il Figliuol suo unigenito vestito della forma umana e, abbracciando Lui, non può non abbracciare tutti i fratelli suoi secondo la carne e perciò è fatta la pace tra il cielo e la terra, tra Dio e gli uomini. Gloria adunque a Dio in alto e pace in terra agli uomini. Ma a quali uomini? Agli uomini di buona volontà, bonæ voluntatis: non agli uomini pigri, non agli uomini indolenti, non ai malevoli, ma agli uomini alacri, pronti, benevoli, di buona volontà. – Le anime semplici, rette, di buona volontà, ancorché spesso digiune d’ ogni scienza, illuminate da Dio, non so come, hanno uno sguardo netto, acuto, sicuro più dei dotti; hanno l’attrazione, l’istinto santo della verità e tosto l’afferrano. La fede semplice e docile va dritta a Dio, mentre la scienza gonfia e superba discute, è restìa, e si smarrisce nel labirinto delle prove e dei dubbi. I Pastori hanno veduta la luce, hanno udito la voce degli Angeli, che li invitano a Betlemme; non frappongono indugio e chiamandosi gli uni gli altri, gridano: – Andiamo, andiamo a Betlemme, a vedere questo fatto che è avvenuto e che il Signore ci ha manifestato; e vennero in fretta e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino posto sulla mangiatoia -. Ciò che dicessero e facessero que’ pastorelli là nella grotta di Betlemme, chi ha filo di fede in cuore, può troppo bene immaginarlo. Fratelli dilettissimi! Uomini di buona volontà, pieni di fede e docili come i pastori, in spirito, andiamo, andiamo noi pure a Betlemme; vediamo il mistero d’amore, che vi si è compiuto e, prostrati a’ piedi di quella mangiatoia, facciamo ciò che la fede e l’amore ci domandano.
Credo …
Offertorium
Orémus
Ps XCV:1 1:13
Læténtur cæli et exsúltet terra ante fáciem Dómini: quóniam venit.
[Si allietino i cieli, ed esulti la terra al cospetto del Signore: poiché Egli è venuto.]
Secreta
Acépta tibi sit, Dómine, quǽsumus, hodiérnæ festivitátis oblátio: ut, tua gratia largiénte, per hæc sacrosáncta commércia, in illíus inveniámur forma, in quo tecum est nostra substántia:
[Ti sia gradita, o Signore, Te ne preghiamo, l’offerta dell’odierna solennità: affinché, aiutati dalla tua grazia, mediante questi sacrosanti scambi, siamo ritrovati conformi a Colui nel quale la nostra sostanza è unita alla Tua:]
Prefatio de Nativitate Domini
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ideo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus …
Communio
Ps CIX:3
In splendóribus Sanctórum, ex útero ante lucíferum génui te.
[Nello splendore dei santi, dal mio seno ti ho generato, prima della stella del mattino.]
Postcommunio
Orémus.
Da nobis, quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, qui Nativitátem Dómini nostri Jesu Christi mystériis nos frequentáre gaudémus; dignis conversatiónibus ad ejus mereámur perveníre consórtium:
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, che celebrando con giubilo, mediante questi sacri misteri, la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, meritiamo con una vita santa di pervenire al suo consorzio:]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)