LO SCUDO DELLA FEDE (103)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali dalui addottrinati a combattere ed a curarsi.

I. Non v’è uomo intendente nella pittura, che non vergognisi se richiesto di quale mano sia qualche tavola insigne, non sappia subito dir se è di Raffaello, o del Caracci, o del Correggio, o di Guido. Eppure vi sarà chi non si vergogni, se ricercato di qual mano sieno tante belle opere di natura, non sappia subito dire: di man di Dio. Tal è qualunque ateista. Ben si può pertanto affermare, che egli dunque di opere di natura non è intendente. Se le intendesse, vedrebbe tosto, non potere, queste essere di altro artefice, che dell’Artefice sommo. Finalmente le mani tutte degli uomini, benché grandi, sono capaci di essere contraffatte, e più non sarebbe sì grave fallo non discernere bene l’una dall’altra. Ma la mano di Dio non è mano imitabile mai da niuno. E però non discernerla dalla mano del caso, o di qualunque altro, che non sia Dio, non solamente è fallo, ma iniquità. Noi questa mano sì unica abbiamo dianzi scoperta già quanto basta negli strumenti e negli istinti mirabili dati ai bruti per conservarsi cibandosi. Ora andiam oltre. Conciossiachè tutto ciò che fanno essi per conservarsi, a che gioverebbe, se non sapessero al tempo stesso guardarsi opportunamente da chi gli assale? Eppure anche a ciò fu pensato. I loro assalitori son due: estrinseci e intrinseci. Gl’intrinseci sono i morbi, gli estrinseci sono vari nemici, i quali s’incontrano, come frequenti tra gli uomini, così ancora continui fra gli animali, che a cagione o dell’abitazione, o del pascolo, o della prole o di altro interesse tra loro opposto, mantengono gare eterne.

I.

II. E per dire in prima di questi nemici estrinseci, certo è, che senza avere appresa giammai l’arte militare, sanno i bruti conoscere a meraviglia i vantaggi loro di posto, e li sanno prendere. I rosignuoli, per assicurarsi dagli sparvieri, soggiornano infra le macchie. L’airone, per assicurarsi da’ falchi, si aggira intorno all’acque da lor temute. E l’alce, bestia peraltro sì paurosa, che a qualunque ferita, nel mirar ch’ella faccia il sangue grondante, cade subito a terra di raccapriccio, tuttavia vince i lupi, scegliendo contro di essi per campo di battaglia i fiumi gelati , sopra de’ quali può tenersi ben ella ferma coll’unghia acuta e biforcata ch’ella ha, ma non possono tenervisi fermi i lupi (V. hæc et seq. apud Aldrov. in suis locis, et apud Gasp. Scottum in physica curiosa).

III. Oltre il vantaggio del posto, sanno i bruti conoscere quel delle armi. Quindi è, che l’aquila tiene una cura grandissima de’ suoi artigli: e se ella è ferma, par che sempre li miri, arrotandogli sulla pietra, quando hanno perduto il filo, e risparmiandoli, quando sono affilati, col non camminare tra i sassi. I cervi, i capri ed i tori arruotano anch’essi ai tronchi le loro corna, e le provano, e le riprovano prima di venire a duello cogli avversari. L’ardea si rivolta col becco all’insù tra l’ale, e riceve intrepidamente l’impeto de’ falconi, che calandole sopra furiosamente per farne preda, vi rimangono morti. E il pellicano, per non venire sorpreso dagli altri uccelli assàssinatori, in una simile positura ancor egli piglia i suoi sonni, addormentato ed armato.

IV. Dove manchi la forza, suppliscono coll’unione. Così fanno gli storni, volando sempre a schiere numerosissimo, o procurando in quelle il posto di mezzo per maggior cura di sè. Gli armenti si fanno forti dal lupo, adunandosi insieme in un cerchio fitto, colle teste rivolte contro il nimico: e i giumenti con somigliante ordinanza volgono al lupo, non le teste, ma i piedi, dove hanno il loro valore, e si difendono bravamente coi calci. Che se non è pronto il soccorso, sanno anche i bruti richiederlo colla voce. Così l’upupa, ravvisando la volpe ascosa tra l’erbe, con inusitate e con importune strida l’addita ai cani. Così i cigni, così le’ cicogne, così l’anitre sollecitano le compagne da loro assenti alla difesa comune contro dell’aquila; e così le bertucce, nelle lor selve, fanno contra i medesimi cacciatori, gridando forte, come se gridassero al ladro. Senonchè a schermirsi da questi, tanto gli animali più imbelli, quanto i più forti, son destri al pari. La lepre salta di lancio nella sua tana, per non lasciare quivi impresse vestigia che la rivelino a chi la cerca. L’orso v’entra a ritroso, per mostrare d’esserne uscito, quando v’entrò: ed il leone medesimo (a guisa di guerriero prode, non meno attento ad iscoprir gli andamenti dell’inimico, che a coprire i propri) stampa insieme l’orme, passando sopra l’arena, insieme le guasta, perché non diano sentore de’ suoi viaggi. In una parola tutti gli animali hanno qualche dote lor propria per la difesa: quali con la destrezza, come le scimmie pur anzi dette, che giungono ad afferrare con la mano per l’aria quella saetta che loro voli alla vita: quali con la generosità, come il leone, che mai non fugge, senonchè mostrando la faccia, per dar terrore: quali con la timidità, come i cervi, a cui la paura medesima è sicurezza, tanto sono ratti alla fuga: quali col divenire quasi invisibili, come rendono le seppie nella lor tinta: quali coll’apparir quasi trasformati, come fa il polpo, che piglia tosto il colore di quello scoglio cui sta aggrappato, e così delude ogni guardo: senza che fra lo stuolo sì numeroso degli animali, o terrestri o acquatici, o aerei, pur un si trovi, che o con la forza datagli, o con l’ingegno, non sia bastantemente armato a suo schermo.

V. Né minore hanno l’arte per assaltare, di quella che posseggano a ripararsi. La donnola, quando si vuole cimentar co’ serpenti, vi si apparecchia col mangiare innanzi la ruta, erba a questi di odor troppo intollerabile. E l’icneumone, quando vuol pugnare cogli aspidi, si rivolge tutto nel fango, e se ne fa come una corazza, con assodarlo prima ai raggi sol solari, perché non tema alcun morso. La tigre, per assicurare le altre fiere a cibarsi delle sue carni, si finge morta, e di poi subito è loro sopra a man salva, e ne fa macello. La volpe è stata veduta rivoltarsi dentro la creta rossa, fintanto ch’ella apparisca quasi un cadavere senza pelle, per invitare i volatili meno accorti a un solenne pasto, che poi di loro fa ella, non di lei essi. E la torpedine, con un miracolo più insueto, sa fin rendere stupido chi la tocca e privarlo di moto, non che di audacia. Ma che sciocchezza è la mia? Presumo io forse raccogliere in pochi fogli ciò che altri non arrivarono a compilare in molti volumi? Anzi non altro ho inteso mai, che additarvi quella miniera da cui si possono scavare ogni giorno più nuove meraviglie, tanto è inesausta. Eppure ditemi: a questo piccolo saggio che ve ne porto, non vi accorgete abbastanza che il suo metallo non è metallo nostrale? Chi può dar tanta molteplicità d’invenzioni, di stratagemmi, di scherme ad un solo fine di guerra difensiva e offensiva tra gli animali, salvo l’intelletto divino? Senzachè, discorro così: la natura particolar della lepre, a cagion di esempio, non può amare, che i cani, appena miratala, si mettano ad incalzarla, con tanto pregiudizio della infelice, se sia raggiunta: la natura particolare de’ cani non può amare che la lepre da loro fugga. Chi dunque fu, che diede a un’ora medesima quello istinto, alla lepre di fuggir dai cani, ai cani di seguitarla, se non una natura più alta, la qual mirò a quel sollazzo continovo che poteva fra noi risultare da tale fuga affannosa e la tale caccia? E questa natura più alta è quella appunto che con più degno vocabolo è detta Dio.

II.

VI. Rimane ora a dare un’occhiata ai nemici intrinseci, da cui si sanno tanto bene i bruti salvare col medicarsi. Pochi di verità sono i loro malori al pari de’ nostri: o sia perché gli animali vivono con maggior temperanza, di quella con cui vivono i più degli uomini; o sia perché il loro temperamento, più materiale e più massiccio del nostro, sia men soggetto a ricevere le impressioni de’ suoi contrari; in quella guisa, che un oriuolo da torre è molto più difficile a sconcertarsi di quel che siasi una mostra da tavolino. Qualunque sia la ragione, certo è, che i bruti, guidati da un interno indirizzo della natura, sanno mirabilmente trovar rimedi proporzionati a’ lor mali, e rimedi facili, innocenti e infallibili più dei nostri, perché tanto più chiaro apparisca, che, come il caso non fu mai il loro artefice, così né anche egli è il loro conservatore. Se non che ciò che più riesce ammirabile in tali affari, è, che non solo ogni animale ha la sua medicina propria, che non ha l’altro; ma che, prima ancor di ogni prova, la conosce, la cerca e sa applicarla giustamente al bisogno. La prima volta che si acciechi la rondinella, sa ritrovare la celidonia: la prima volta che si accieca la vipera, sa ritrovare il finocchio; la prima volta che il daino riman ferito, sa far ricorso al suo dittamo. Non ha veleno, contra cui le testuggini non abbiano tosto pronta la loro triaca; e tal è l’origano: siccome il lauro è quella gran panacea che alle colombelle e che a’ corvi suffraga parimente in qualunque morbo. Or vada Ippocrate a logorar negli studi la vita propria, per allungare l’altrui: e poi diffidato di poter giungere a tanto, confessi pure, che l’arte è lunga, che il tempo è breve, e che l’esperimento è fallibile: Ars longa, vita brevis, experimentum fallax. Dica, che a molti mali non si è trovato governo finor che vaglia. I bruti, senza accademie e senza aforismi, sanno ad ogni languore trovare il suo medicamento adattato.E poi non mancherà chi per maestro assegni oro, non l’arte di una intelligenza sovrana,ma la cecità balorda di atomi vagabondi più che birboni?

VII. Poco poi parrebbe, se i bruti più non sapessero che curare il mal sopraggiunto. Sarebbe ciò scacciare il ladro di casa, ma scacciarlo dappoi che la svaligiò. Il più è, che sanno farsi incontro anche al male, serrandogli prontamente le porte in viso (Àrist. hist. anim1. 8. c. 120). A questo fine scelgono i luoghi più atti, senza timore di pellegrinare in paesi anche lontanissimi, come le gru della Scizia settentrionale, che, a fuggir que’ verni sì crudi, sen passano di là sino all’Etiopia, senza rischio che fallino mai la strada. I pesci, ora vanno dai lidi all’alto, ora vanno dall’alto ai lidi, mutando stanza, come fanno i grandi, al mutarsi della stagione. E tra loro molti anco sono, che da’ mari caldi tragittansi al ponto Eussino, e che dal ponto Eussino tragittansi a’ mari caldi. E perché i più deboli sentono prima la intemperie dell’aria che i più gagliardi, quindi è, che quelli fanno il loro passaggio prima di questi, come i rombi all’agosto, i tonni al settembre. Le rondinelle passano in Africa a schivare i ghiacci nostrali: e le quaglie, i tordi e le tortore, hanno anch’essi le loro piagge piacevoli ad isvernarvi. Gli avvoltoi medesimi, benché infami per le carogne di cui si pascono, sono tuttavia sì inimici dell’aria guasta, che il fare essi dimora in qualche paese, più che in un altro, si piglia per indizio di piena salubrità. Che più? Convien che l’uomo superbo si umìli in sì fatte scienze a pigliar lezione dagli animaluzzi più vili. Scrive Aristotile (L. 9. hist. anim.) di non so quale in Bizanzo, che presso il volgo si era acquistata fama grande di astrologo, perché avendo egli allevato in casa da piccolo uno spinoso, osservava, che questo, quando era vicino a muoversi vento opposto, mutava stanza, secondo il talento in nato ch’egli ha di fare alla sua tana di campagna due bocche, una all’austro, una all’aquilone, e dipoi chiudere ora l’una, ora l’altra, secondo che quegli soffiano. Né questa è dote singolare del riccio, mentre pochissimi sono quegli animali i quali nella loro fantasia non portino un tale istinto di presentire le mutazioni di tempo loro nocevoli: tanto che i più meschini paiono in questa parte i più addottrinati. Quinci, non pure il leone, che è sì ingegnoso, sa antivedere la siccità che sovrasti, e la sa scansare, con ritirarsi per tempo in luoghi più acquosi; ma i coccodrilli stessi pare che abbiano misurata già la piena del Nilo prima che egli esca dal letto, mentre san collocare le uova in tal sito, dove non arrivi mai quell’anno per l’inondazione. I corvi indovinano le tempeste, i merghi, l’anatre, le api presagiscono i venti più impetuosi: e le formiche la sterilità della futura stagione, con empir più del solito i lor granai prima che la messe scarseggi. Ora in quale scuola hanno appreso questi animali tanto di astrologia, che mostrino di saperne anche più dell’uomo, il quale nel predire le piogge piglia ne’ suoi lunari più gravi abbagli di quei che pigli una rana? Chi spedisce loro le nuove del futuro, prima che giunga? Qual maestro hanno essi trovato, che gli addottrini, e gli addottrini sì bene, che niuno scolaro mai resti addietro per poco ingegno, su le lezioni a lui date nella sua classe? Sarà credibile da veruno, che il caso, il qual non sa nulla di ciò che egli faccia, sappia formar tali allievi? Se così fosse, sarebbero dunque assai maggiori i discepoli, che il maestro. Violentate pure quanto a voi piace il vostro intelletto, perché s’induca a dirvi, che Dio non v’è: non potrà egli non conoscere l’onta che voi gli fate, e non si dibattere.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.