SALMI BIBLICI: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO” (CXIII)

SALMO 113: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 113

Alleluja.

[1] In exitu Israel de Ægypto,

domus Jacob de populo barbaro,

[2] facta est Judœa sanctificatio ejus, Israel potestas ejus.

[3] Mare vidit, et fugit; Jordanis conversus est retrorsum.

[4] Montes exsultaverunt ut arietes, et colles sicut agni ovium.

[5] Quid est tibi, mare, quod fugisti? et tu, Jordanis, quia conversus es retrorsum?

[6] montes, exsultastis sicut arietes? et colles sicut agni ovium?

[7] A facie Domini mota est terra, a facie Dei Jacob;

[8] qui convertit petram in stagna aquarum, et rupem in fontes aquarum.

[9]  Non nobis, Domine, non nobis; sed nomini tuo da gloriam,

[10] super misericordia tua et veritate tua; nequando dicant gentes: Ubi est Deus eorum?

[11] Deus autem noster in cœlo; omnia quaecumque voluit fecit.

[12] Simulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum.

[13] Os habent, et non loquentur; oculos habent, et non videbunt.

[14] Aures habent, et non audient; nares habent, et non odorabunt.

[15] Manus habent, et non palpabunt; pedes habent, et non ambulabunt; non clamabunt in gutture suo.

[16] Similes illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis.

[17] Domus Israel speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[18] Domus Aaron speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[19] Qui timent Dominum speraverunt in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[20] Dominus memor fuit nostri, et benedixit nobis. Benedixit domui Israel; benedixit domui Aaron.

[21] Benedixit omnibus qui timent Dominum, pusillis cum majoribus.

[22] Adjiciat Dominus super vos, super vos et super filios vestros.

[23] Benedicti vos a Domino, qui fecit caelum et terram.

[24] Cælum cæli Domino; terram autem dedit filiis hominum.

[25] Non mortui laudabunt te, Domine; neque omnes qui descendunt in infernum.

[26] Sed nos qui vivimus, benedicimus Domino, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXIII.

Il profeta celebra le opere mirabili di Dio, quando trasse i figli di Israele dall’Egitto in Palestina; e questo col fine di muovere il popolo a rimanersi nel culto del vero Dio, ed a sperar sempre la sua protezione.

Alleluja: Lodate il Signore.

1. Allorché dall’Egitto usci Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; (1)

2. La nazione Giudea venne consacrata a Dio; e dominio di lui venne ad essere Israele.

3. Il mare vide, e fuggi; il Giordano si rivolse indietro.

4. I monti saltellarono come aridi, e i colli come gli agnelli delle pecore.

5. Che hai tu, o mare, che se’ fuggito, e tu, o Giordano, che indietro ti se’ rivolto?

6. E voi, monti, che saltaste come gli arieti, e voi, colli, come gli agnelli delle pecore?

7. All’apparir del Signore si scosse la terra, all’apparir del Dio di Giacobbe,

8. Il quale in istagni di acque cangia la pietra, e la rupe in sorgenti di acque.

9. Non a noi, o Signore, non a noi; ma al nome tuo dà gloria. (2)

[Gli Ebrei cominciano qui un altro Salmo; ma i LXX e S. Gerolamo ne fanno uno solo.]

10. Per la tua misericordia e per la tua verità; affinché non dican giammai le nazioni: Il Dio loro dov’è?

11. Or il nostro Dio è nel cielo: egli ha fatto tutto quello che ha voluto.

12. I simulacri delle nazioni argento e oro, lavoro delle mani degli uomini.

13. Hanno bocca, né mai parleranno; hanno occhi e mai non vedranno.

14. Hanno orecchie, ma non udiranno; hanno narici, e son senza odorato.

15. Hanno mani, e non palperanno; hanno piedi e non si muoveranno, e non darà uno strido la loro gola.

16. Sien simili ad essi quei che li fanno, e chiunque in essi confida.

17. Nel Signore ha sperato la casa d’Israele egli è loro aiuto e lor protettore.

18. Nel Signore ha sperato la casa di Aronne: egli e loro aiuto e lor proiettore.

19. Nel Signore hanno sperato quelli che il temono: egli è loro aiuto e lor protettore.

20. Il Signore si e ricordato di noi, e ci ha benedetti. Ha benedetta la casa d’Israele, ha benedetta la casa di Aronne.

21. Ha benedetti tutti quelli che temono il Signore, i piccoli coi più grandi.

22. Aggiunga benedizione il Signore sopra di voi; sopra di voi e sopra de’ vostri figliuoli.

23. Siate benedetti voi dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra.

24. L’altissimo cielo è pel Signore; la terra poi egli l’ha data a’ figliuoli degli uomini.

25. Non i morti daran lode a te, o Signore, né tutti quei che scendono nel sepolcro. (3)

26. Ma noi che viviamo, benediciamo il Signore da questo punto per fino a tutti i secoli.

(1) I Giudei davano il nome di barbaro a tutti coloro che parlavano una lingua a loro sconosciuta.

(2) Se non è questa, dice La Harpe, poesia lirica, e di primo ordine, vuol dire che di essa non ce ne fa mai; e se volessi dare un modello della maniera in cui l’ode debba procedere nei grandi soggetti, non ne sceglierei un altro: non ce n’è di più compiuti. – Qui comincia un atro salmo in ebraico così come è oggi diviso. È ciò che fa Rabbi Kimchi, sulla fede degli antichi e buoni esemplari. San Gerolamo non lo ammette.

(3) “Nell’inferno”, nello scheol, dimorano le anime dopo la morte; queste anime sono la escluse dal culto esteriore e pubblico; è soprattutto ciò che vuol dire il salmista; la cattiva fede vi vede la negazione dell’immortalità dell’anima. La traduzione letterale sarebbe: Omnes descendentes silentii coloro che vanno nello scheol, nel luogo del silenzio (La Hir.). 

Sommario analitico

Il salmista considera l’uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto e, in questo fatto miracoloso, i trionfi altrettanto straordinari operati in favore della Chiesa. (1)

(1) Questo salmo sembrerebbe essere della stessa epoca dei precedenti, e l’oggetto è quasi il medesimo, cioè il ricordare le meraviglie della potenza di Dio in favore del suo popolo, potenza che fa uscire dal contrasto della vanità degli idoli. –  È facile rimarcarlo, leggendo questo salmo, in forma di dialogo, ma non è facile assegnare il numero di interlocutori e la parte di ognuno di loro. Questo salmo sarebbe ben tradotto nella Vulgata, se molti verbi non fossero al passato, invece del futuro e dell’ottativo, cosa che svia notevolmente il senso di molti tratti (Le Hir.). – Il salmista considera uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto: 

I. – Egli proclama la potenza di Dio.

1° Nell’uscita vittoriosa di una sì grande moltitudine dal mezzo di un popolo barbaro. (1)

2° Nella riunione di questo popolo, del quale Dio si fa un popolo che gli è consacrato in modo speciale (2).

3° Nel passaggio miracoloso del mar Rosso e del Giordano (3);

4° Nel fremito delle montagne e delle colline (4-7);

5° Nell’acqua che scaturisce miracolosamente dalla roccia (8).

II. – Esalta la gloria di Dio:

1° essa non appartiene a Lui solo, – a) che ha liberato il popolo di Israele, come aveva promesso, imposto con il silenzio alle blasfemie dei gentili (10); – b) che fa brillare la sua maestà nei cieli e la sua potenza sulla terra (11);

2° L’esclusione dei falsi dèi della gentilità: a) mostra il loro niente e la loro impotenza (12-15); b) i loro adoratori diventeranno simili a loro (16).

III. – Ammira la bontà di Dio:

1° Che soccorre e protegge – a) tutti i Giudei che sperano in Lui (17); – b) la casa di Aronne in particolare (18); tutti coloro che lo temono (19);

2° Che si sovviene di loro e benedice: – a) tutti i Giudei (20); – b) la casa di Aronne in particolare (20); – c) tutti coloro che lo temono, piccoli e grandi (21); – d) tutta la loro posterità, perché è il Dio di tutti, e da loro in uso la terra, riservandosi il cielo (22-24)

IV. – Promette la riconoscenza del popolo:

1° Non sono coloro che sono morti, o che scendono negli inferi, come gli Egiziani inghiottiti nel mar Rosso, che rendono lodi a Dio (25);

2° Ma il popolo fedele, a cui Dio ha conservato la vita, benedirà Dio per tutta l’eternità (26).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-8.

ff. 1, 2. – Non crediate che lo Spirito Santo non abbia in vista di rammentarci il ricordo dei fatti passati, senza eccitarci a ricercarvi fatti simili ancora da venire … Questi fatti sono per noi delle figure, e queste parole ci costringono a riconoscerci in queste figure. Se in effetti noi guardiamo dentro di noi, con cuore fermo, la grazia di Dio che ci è stata data, noi siamo Israele secondo lo spirito; … i figli della promessa, … la posterità di Abramo; è a noi che l’Apostolo dice: « Voi siete dunque razza di Abramo. » (Gal. III, 29). – Ciò che è successo ai Giudei non era dunque che la figura e l’ombra di ciò che Dio ha fatto per noi. Davide raccontava non meno il passato come l’avvenire, e la storia era pure una profezia (S. Agost.) – Il Re-Profeta offre qui una prova della grande bontà e della dolcezza infinita di Dio. E qual è? Egli comincia con il manifestare la sua potenza; chiede in seguito agli uomini di adorarlo; tale è il senso di queste parole: « Quando Israele uscì dall’Egitto, il popolo giudeo fu consacrato al suo servizio …» Gli uomini non sognano di fare del bene se non dopo aver stabilito il loro dominio; ma Dio invece, comincia Egli ad espandere i suoi benefici. (S. Chrys.). – Il mondo figurato dall’Egitto e da questo popolo barbaro di cui parla il Profeta: 1° il suolo dell’Egitto, quasi per intero, composto da limo; il mondo con i suoi molteplici vizi, composto da fango e melma. – 2° Le acque del Nilo sempre torbide (Gerem. II, 18), simbolo delle acque fangose ove vanno ad abbeverarsi i partigiani del mondo. – 3° L’Egitto non è quasi mai irrorato dalle piogge del cielo: così ne è del mondo, esso è come le montagne maledette del Gelboë, e non è mai bagnato né dalla rugiada, né dalle piogge del cielo. – 4° Il popolo dell’Egitto si è dichiarato il persecutore del popolo di Dio: il mondo nemico di Dio è il persecutore irriducibile dei Cristiani. – 5° Il popolo dell’Egitto fu barbaro e crudele: il mondo non è da meno per la crudeltà, dominato com’è dalle tre furie di cui nulla ne sorpassa la crudeltà: l’orgoglio, l’avarizia, la voluttà. – È a partire da questa liberazione che il popolo giudeo diventa soprattutto il popolo di Dio. È il suo unico santuario, è là che viene glorificato, è là che benedice e rende i suoi oracoli. La Giudea era una volta una contrada impura ed abominevole, ma quando il popolo giudeo né prese possesso, divenne il santuario di Dio; esso fu santificato e consacrato al suo servizio dalle osservanze legali, dai sacrifici, dall’insieme del culto e delle cerimonie che prescriveva la legge. Questo fu anche il trono della sua potenza e come il suo carro di trionfo attraverso i popoli (S. Chrys.) – « Il popolo giudeo gli fu consacrato, ed Israele divenne il suo impero. » Due dono i caratteri della Chiesa: Essa è l’eredità di Dio, la sua porzione scelta; fuori di Essa, né perfezione, né salvezza … La Chiesa è anche come l’incarnazione della potenza di Dio, … e le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di Essa; sempre attaccata, sarà sempre vittoriosa (Mgr. Pichenot. Ps du D.). – « Israele diventa il suo impero. » Coloro che sono liberati dalla tirannia del mondo, devono sottomettersi interamente alla potenza di Dio. La gloria perfetta di Dio, è che noi siamo sottomessi alla sua potenza, che vogliamo ciò che Egli vuole, e che tutte le facoltà, i nostri sensi, le nostre opere, siano sotto la sua dipendenza assoluta.

ff. 3-8. – « Il mare lo vide e fuggì, il Giordano risalì alla sua sorgente. » Questi due grandi prodigi, benché separati nella storia da un intervallo di oltre quaranta anni, sono riuniti nello stesso versetto. Senza dubbio perché sono operati sullo stesso elemento, e sono come l’alfa e l’omega del più grande dramma di sempre. Il primo ha introdotto i figli di Giacobbe nel deserto e completato la loro liberazione; il secondo terminò il loro esilio e li mise in possesso della terra promessa (Mgr. Pich.). – Il passaggio del mar Rosso, in cui gli Israeliti furono tutti battezzati sotto la guida di Mosè nella nube e nel mare, (I Cor. X, 1), è la figura del Battesimo dei Cristiani battezzati nella morte di Gesù-Cristo, che ha annegato i loro peccati nel suo sangue. Il passaggio del Giordano, attraverso il quale Giosuè mise il popolo di Dio in possesso della terra promessa: è un’altra figura di ciò che Gesù-Cristo ha fatto lavando il suo popolo dai suoi peccati, per metterli in possesso del cielo, che è la vera terra promessa. – Ciascuno di voi si sovvenga ora di ciò che ha provato quando ha voluto dare il suo cuore a Dio e sottomettere pietosamente il suo spirito a questo giogo pieno di dolcezza, affrancandosi dalle antiche cupidigie della sua ignoranza, quando ha voluto portare il fardello leggero del Cristo, abbandonando e rigettando lontano da sé le azioni carnali di questo mondo in mezzo alle quali soffriva senza frutto, fabbricando mattoni, per così dire, come in Egitto, sotto la rude dominazione del demonio,. Ognuno di voi si ricordi come tutti gli ostacoli di questo mondo si sono dissipati; come tutti coloro che avrebbero voluto dissuaderlo da questo cambiamento non abbiano osato alzare la voce e si sono tutti dileguati vedendo il nome del Cristo esaltato e glorificato su tutta la terra. « Il mare lo ha dunque visto ed è fuggito, » affinché la via che conduce alla libertà spirituale si aprisse davanti a voi senza ostacoli (S. Agost.). – Quando il Creatore comanda alle creature anche insensibili, esse ascoltano la sua voce per l’assoggettamento in cui sono sotto la potenza di Colui che le ha create dal nulla. – Il Profeta in una sublime ampollosità, indirizza la parola alla natura stessa: da dove viene che intorno a me tutto si cancella e si distrugge? Rispondete, fiumi e mare, e anche voi, terra, parlate. « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » È Dio che ha fatto tutto, è la sua presenza spaventosa che ha gettato così agitazione e costernazione sulla terra e sulle acque; la verga di Mosè, l’arca santa, non sono che strumenti della potenza adorata. – E quando tutti questi prodigi si rinnovano nell’ordine della redenzione, quale ne è la causa? La grazia risponde: « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » – Gettate gli occhi sulla terra, voi che sapete ammirare le sue meraviglie, gioirete nell’indirizzare dei cantici al Signore vostro Dio; vedete compiersi tra tutte le nazioni questi prodigi che sono stati operati in figura e predetti tanto tempo prima dell’avverarsi. Interrogate il mare ed il Giordano e dite loro: « O mare, perché siete fuggito, e voi, Giordano, perché siete tornato indietro? Monti, perché siete saltati come arieti? » O mondo come dunque sono spariti gli ostacoli che vi si opponevano? O milioni innumerevoli di fedeli, come dunque avete rinunciato a questo mondo per convertirvi al vostro Dio? Donde viene la vostra gioia a voi che, infine, intenderete questa parola: « Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato preparato fin dalle origini del mondo? » (Matth. XXV, 34). Tutte le cose vi risponderanno, e voi risponderete a voi stessi: « La terra è stata scossa davanti al volto del Signore, davanti al volto del Dio di Giacobbe. » In effetti la terra è stata scossa, ma perché era rimasta nell’inerzia, ed essa è stata scossa per essere più solidamente affermata davanti alla faccia del Signore. (S. Agost.). – Cambiare una pietra dura in un torrente, una roccia in una sorgente d’acqua viva per dar da bere al suo popolo che mancava dell’acqua nel deserto, è un miracolo della potenza di Dio che ci ha resi più credibili nel corso dei secoli, per più di un fatto analogo. – Ma fare uscire le acque della grazia, le lacrime di compunzione da cuori fin là più duri come la pietra della roccia, dissetare e consolare coloro che sospirano i beni celesti nel deserto di questa vita, è un miracolo non meno grande per la potenza, ma ancor più per la bontà di Dio (Duguet). – I sei prodigi che qui ricorda il Profeta si sono rinnovati in senso più elevato, durante la conversione del mondo alla fede di Gesù-Cristo, e si riproducono nel ritorno particolare di ogni peccatore a Dio.

II. – 9-16.

ff. 9-11. – Tutti questi prodigi non avevano avuto come causa i meriti di coloro che ne erano l’oggetto, ma la bontà di Dio e la gloria del suo Nome, come Egli dichiara espressamente: « …  perché il mio Nome non sia disonorato » (Ezech. XX, 9); anche il salmista lo dichiara espressamente: « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dare gloria. » No, il nostro interesse non è quello di avere per noi più considerazione e celebrità, ma far brillare dappertutto gli effetti della vostra potenza (S. Chrys.). – L’Eterno ha fatto tutto per sé medesimo, dice il Saggio; così in tutto ciò che intraprende, è sempre la santificazione del suo Nome e lo stabilirsi del suo regno che Egli ha in vista. Il primo Principio vuole e deve essere anche l’ultimo fine del mondo intero; tutto viene da Lui, tutto deve ritornare a Lui; Egli acconsente a dividere con noi tutti gli altri beni; Egli ci comunica volentieri il suo Essere, la sua potenza, i suoi lumi, la sua libertà, il suo amore, ma non dà la sua gloria; è l’unica cosa che si riserva nelle nostre buone opere, e ce ne lascia tutto il profitto: « Io non darò ad altri la mia gloria. » (Isai. XLVIII, 11). Senza dubbio la vostra luce deve brillare davanti agli uomini, affinché essi vedano le nostre opere buone (Matth. VI, 16); ma ascoltiamo il seguito: « … che essi glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. » (S, Chrys.). – « Al Re dei secoli, al Re immortale ed invisibile, a Dio solo, onore e gloria nei secoli dei secoli (I Tim. I, 17), « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dar gloria. » Dateci il perdono, dateci la grazia, cose che abbisognano a dei miserabili; ma per Voi, fonte del perdono, della grazia e dei meriti, riservate la gloria (S. Bern. Serm. in Synod. N° 2 e 3). Tre sono le ragioni che obbligano Dio a procurare la gloria del suo Nome nel conservare il suo popolo: 1° la sua misericordia; è la ragione che Davide mette prima delle altre; Egli non fa appello alla giustizia, non parla di potenza, non invoca le grandezze, non si indirizza alla santità, si rifugia tra le braccia della misericordia. – 2° La sua verità, la fedeltà alla sua parola, alle sue promesse. Il Signore non deve niente a nessuno; ma Egli si è impegnato con noi liberamente, ci ha fatto delle promesse che deve necessariamente realizzare. – 3° Per non dare occasione agli empi di blasfemare il suo Nome, dicendo che Dio o non è potente per compiere le promesse che ha fatto, o che non ha tanta equità né tanta benevolenza per volerlo fare (Dug.). – Questa è la preghiera che noi dobbiamo indirizzare a Dio per la Francia nelle circostanze difficili che ci attraversano. La perpetuità non è assicurata che alla Chiesa in generale ed alla Santa Sede in particolare; ma noi possiamo ottenere che Dio salvi e conservi liberamente ciò che minaccia di perire, che Egli ripari almeno le nostre perdite, ed agitando il candeliere non lo spenga. Quante volte gli empi hanno gridato: « Dov’è il loro Dio? – Che il Dio in cui essi hanno creduto, venga a liberarli dalle loro prigioni, li sottragga alla spada ed ai denti delle bestie. » Questi erano i loro discorsi, ma essi non potevano distruggere coloro che erano appoggiati sulla pietra. Essi scatenavano contro di essi tutto il loro furore, ma i santi Martiri erano senza timore; essi sapevano dove lasciavano i loro carnefici e dove essi andavano. I martiri erano coronati per aver confessato Gesù-Cristo, ed i giudici restavano ciò che essi erano per averlo rinnegato (S. Agost. Serm. III, XXVI, n.° 2). – « Il nostro Dio è nel cielo. » I Santi dicono agli infedeli che adorano gli idoli: voi toccate i vostri dei con le vostre mani, li considerate con gli occhi del corpo, ma il nostro Dio è nel cielo ben al di sopra di noi. Egli ha fatto ciò che ha voluto nel cielo e sulla terra, e continua a compiere le sue volontà in coloro che, benché imprigionati in una carne terrestre, conducono tuttavia una vita celeste. (S. Gerol.). – Risposta alla domanda che precede: « Dov’è il vostro Dio? » Dio è dappertutto, riempie l’universo con la sua immensità, ma risiede e fa principalmente splendere nel cielo, la sua gloria, il suo splendore, le sue magnificenze. E da dove viene che Egli lascia talvolta per lungo tempo i suoi nell’oppressione? È per il fatto che Egli fa tutto ciò che vuole, e che la sua volontà è non solo misura della sua potenza, ma ancora santa come la regola della sua condotta (Dug.). – Gli uomini creati liberi, possono disobbedire momentaneamente alle sue leggi ed ergersi contro di Lui, ma ciò che resiste al suo amore, cadrà sotto il peso del suo braccio terribile; la sua Provvidenza non è meno infallibile, essa giunge sempre alla fine (Mgr, Pich.).

ff. 12-16. – Dopo aver risposto, il Profeta interroga a sua volta; dopo essersi difeso, attacca. Egli ci ha detto in due parole qual sia il suo Dio: Egli è in cielo ed onnipotente; ora, nazioni, ascoltate, ecco i vostri dei: è la bassezza e l’infermità; sono gli dei materiali, gli dei d’oro e d’argento, opere delle mani dell’uomo (Id.). – Perché lo Spirito-Santo prende tanta cura, in mille passaggi delle sante Scritture, nell’insinuarci queste verità, come se le ignorassimo, ed incolparci come se esse non fossero le più chiare del mondo e le più conosciute da tutti, se non perché queste forme corporee, delle quali abbiamo nozione, secondo le leggi della natura, di veder vivere negli animali e sentir vivere in noi stessi, benché plasmate come semplici emblemi, producono tuttavia in ciascuno, non appena la moltitudine comincia ad adorarle, questo grosso errore di credere che se il movimento vitale non è in questi simulacri, non si trova non di meno in una divinità nascosta (S. Agost.). – È facile far condannare l’errore degli idolatri, ma non è facile difendersene. Nessun Cristiano c’è che non condanni questa empietà, ma ben pochi sono i Cristiani che non la imitino, « gli idoli delle nazioni non erano che oro ed argento; » non sono ora le divinità dei Cristiani? (Dug.). –  Non è che le nazioni non abbiano egualmente scolpito degli idoli con il legno e la pietra; ma, nominando una materia preziosa e che è più cara agli uomini, ha voluto far più sicuramente arrossire del culto che essi vi rendono. (S. Agost.). – Ahinoi se, con questo metallo che è l’opera e la proprietà di Dio, noi ci forgiamo da soli una falsa divinità. L’oro è la più comune divinità degli uomini, esercita su di essi un formidabile impero, e l’autore dell’Ecclesiaste ci esorta a non metterci al suo seguito: « Felice, dice, l’uomo che non corre dietro all’oro (Eccl. XXXI, 8). – Camminare alla ricerca dell’oro, è divenirne schiavi. Non siate schiavi del vostro oro, riprende S. Agostino, ma i padroni; possedete l’oro, ma non vi possegga esso. È Dio che ha fatto l’oro per servire voi, e voi per servire Dio. – In vano la croce ha abbattuto gli idoli per tutta la terra, se noi facciamo tutti i giorni degli idoli nuovi con le nostre passioni sregolate; sacrificando non a Bacco, ma all’ubriachezza; non a Venere, ma all’impudicizia; non a Plutone, ma all’avarizia; non a Marte, ma alla vendetta; immolando loro non degli animali sgozzati, ma i nostri spiriti pieni dello Spirito di Dio, e « i nostri corpi che sono i templi del Dio vivente, e le nostre membra che sono divenute membra di Gesù-Cristo, (I Cor. VI, 19) – (BOSSUET, Vertu de la Croix) – « Coloro che li fanno, mettendo in loro la loro fiducia, divengano simili. » È una gloria il somigliare a Dio, ma qui è una maledizione. Pensate a cosa sono questi dei, poiché la più grande disgrazia che si possa subire, è assomigliare a loro. (S. Chrys.). – Questa terribile parola  si compie  di sovente. In generale, ci si assimila, per l’amore, all’oggetto amato, e S. Agostino ha potuto dire in tutta verità: « Amate la terra, allora siete terra. » Tali sono al presente molti Cristiani, dice Sacy, idolatri delle ricchezze, dei piaceri del mondo e di essi stessi, che illuminati ed attivi per tutto ciò che possa soddisfare le loro differenti passioni, sembrano essere senza luce e senza movimento per tutte le cose della Religione e della salvezza. La grazia di un Dio incarnato è stata da sola capace di ristabilire negli uomini l’uso della loro bocca, per render pubblica lode e confessare la loro miseria; dei loro occhi, per vedere la verità e la loro follia; delle loro orecchie, per ascoltare la voce di Dio; delle loro mani e dei loro piedi, per agire e camminare conformemente alla sua volontà; della loro gola, per innalzare grida salutari verso Colui che è sempre pronto ad esaudirli. »

III.— 17-26.

ff. 17-19. – « La casa di Israele ha riposto la sua speranza nel Signore. » La speranza che si vede, non è speranza; perché ciò che uno vede, come lo spera? E se speriamo ciò che non vediamo ancora, lo attendiamo con l’aiuto della pazienza (Rom. VIII, 24, 25); ma perché la pazienza perseveri fino alla fine, « … il Signore è il suo appoggio ed il suo protettore. » Quanto agli uomini spirituali che istruiscono gli uomini carnali in uno spirito di mansuetudine, perché essendo essi superiori, pregano per coloro che sono inferiori ad essi, e ciò che essi vedono già, possiedono già ciò che fa ancora l’oggetto della speranza dell’uomo carnale? Non è così, perché la casa di Aronne ha messo la sua speranza nel Signore. » Dunque, è affinché tendano anche con perseveranza verso ciò che è davanti a loro, perché corrano con perseveranza fino a conquistare Colui dal quale essi stessi sono conquistati (Filip. III, 12, 14), e conoscano Colui come essi stessi sono conosciuti (I Cor. XIII, 12),  « Dio è loro appoggio e loro protettore. » (S. Agost.). – I veri Cristiani, che sono la vera casa di Israele, l’Israele di Dio, mettono la loro speranza nel Signore che li sostiene e li circonda con la sua protezione. – I ministri degli altari, i Sacerdoti del Signore, che sono la vera casa di Aronne, sono ancor più obbligati dei comuni fedeli, a mettere la loro speranza in Dio. Essi cercano dappertutto degli appoggi, moltiplicano le forze del potere umano per non mancare mai di soccorso, di protezioni di difesa. Cosa succede prima o poi? Tutta questa macchina della potenza mondana si inceppa, si sgretola, e non resta a coloro che l’hanno impiegata, se non confusione, invidia, disperazione. Ma perché dunque la fiducia in Dio è così rara? È perché la fede, la vera fede è di estrema rarità sulla terra. Non si conosce né Dio, né Gesù-Cristo, né il Vangelo, né gli esempi dei Santi; ci si comporta da pagani, e senza rapporto alle verità in cui ci si lusinga di credere. Questa credenza è come una teoria pura o una reminiscenza vaga che non influisce sulla condotta come le speculazioni geometriche. Si cammina così fino all’ultimo giorno, ed allora tutto manca, la fede non dice nulla, o essa non dice nulla se non per allarmare, turbare, disperare, e si muore senza poter dire con il Profeta: « … Io spero nel Signore, Egli sarà mio appoggio e mio protettore. » (Berthier).    

ff. 20-24. – Dio si è ricordato di noi anche nel tempi in cui lo abbiamo obliato. Cosa vuo dire: « Egli li ha benedetti? » Egli li ha colmati di innumerevoli beni. L’uomo può anche benedire Dio, quando dice con il salmista: « La mia anima benedice il Signore (Ps. CII, 1). Ma le sue benedizioni non hanno utilità che per lui; egli aumenta la propria gloria, senza aggiungere nulla a quella di Dio; al contrario, quando Dio ci benedice, è la nostra gloria che se ne accresce, senza che Egli guadagni nulla per se stesso. Dio, in effetti, non ha bisogno di nulla, e in queste due ipotesi, tutto il vantaggio è per noi soli. (S. Chrys.). – Le benedizioni di Dio si sono diffuse dapprima sulla casa di Israele e di Aronne, che per primi ricevettero la grazia del Vangelo, ma non c’è stata nazione esclusa da queste benedizioni; esse si sono diffuse poi su tutti senza eccezione. (S. Chrys.). – Nessuna differenza davanti a Dio tra coloro che sono grandi e considerati nel mondo, e coloro che sono di nascita oscura o di modesta condizione, tra coloro che sono avanzati in età e coloro che sono ancora nell’infanzia; nessun’altra distinzione che quella che la sua grazia mette tra essi. Colui che lo serve con più amore e fedeltà, è il più grande davanti a Lui. (Duguet). –  « Che il Signore dia crescita a voi ed ai vostri figli. » E così fu, perché il numero dei figli di Abramo si è accresciuto, essendo le pietre stesse servite a suscitarne dei figli. (Matth. II, 9). L’ovile si è accresciuto di pecore che all’inizio erano estranee, affinché non ci sia che un solo Pastore. La fede si è sviluppata tra le nazioni, si è visto crescere il numero e di saggi Pontefici, e di popoli sottomessi, il Signore aveva moltiplicato i suoi doni, non solo sui Padri che si sono avanzati verso di Lui alla testa degli imitatori del Cristo, ma ancora sui loro figli che hanno piamente seguito le tracce paterne (S. Agost.). – Le benedizioni dell’antica legge erano temporali, ma le benedizioni della nuova legge sono tutte spirituali e molto più sante: le prime consistevano principalmente nella moltiplicazione dei figli e delle greggi, queste consistono soprattutto nell’accrescimento delle grazie e delle virtù (Dug.). – Benedizione efficace ed onnipotente è l’essere benedetto da Colui la cui parola ha creato i cieli. – Un errore grossolano è immaginare che il Profeta, dicendo : « il Cielo è al Signore, e la terra agli uomini, » divida in qualche modo l’impero dell’universo tra Dio, che ha per sé il cielo, e gli uomini che hanno per essi la terra, di modo tale che questi siano dispensati da tutti i doveri verso Dio. Poiché Dio ha fatto il cielo e la terra, queste due parti dell’universo sono entrambe sue, e tutto ciò che vi si trova, deve obbedirgli. Se ha dato la terra agli uomini, è per usarne, e non per gioirne come di un bene indipendente da Lui. (Berthier). 

ff. 25, 26. – « I morti non vi loderanno, né coloro che scendono nella tomba. » Si apra questa tomba, sostenuta da sì magnifiche colonne, si sgretoli questa pietra di marmo; si troverà un cadavere che fa orrore, delle ossa esalanti un odore fetido, delle ceneri, dei vermi! La tomba ha dell’apparenza, ma ricopre un morto il cui aspetto ispira orrore e spavento. Ora, voi pensate che questo morto possa dire: io benedirò il Signore? No, perché sulla testimonianza della Scrittura: « i morti non vi loderanno, Signore né tutti coloro che discendono nella tomba. Aprite il Vangelo, vedrete il Signore che indirizza queste severe parole al demonio: « Taci. » (Marc. I, 25). Perché? « Perché i morti non vi loderanno, né tutti coloro che scendono nella tomba » Nessuno può lodare colui che non ama, e se la lode esce dalla bocca di un nemico, essa ha per oggetto la virtù che ama fin nel suo nemico. Colui che pecca diviene il nemico di Dio, e non può dunque né lodare Dio, né lodare la virtù di Dio, perché la lode è un bene del quale il peccatore non può essere l’oggetto. La lode che è negata dai sentimenti del cuore, è un insulto, una derisione piuttosto che una lode; vorreste che la menzogna diventi l’apologista della verità, e che la lode di Dio esca dalla stessa fonte che la bestemmi e l’oltraggi? (S. Agost. Serm. III, LXV, n° 1). – I morti di cui parla qui il salmista non sono coloro che hanno lasciato questa vita, ma coloro che erano morti nelle loro empietà o che avevano guazzato nel crimine. Per colui che non ha in prospettiva che una morte immortale, già da questa vita cessa di essere vivente, egli è già morto. Anche il Profeta non dice in generale coloro che vivono, ma : « noi che viviamo. » Egli si esprime qui allo stesso modo di San Paolo in queste parole: « noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono nel sonno della morte (I Tess. IV, 16). L’Apostolo dicendo « noi che viviamo, » non permette di applicare queste parole a tutti i fedeli, ma li restringe a coloro la cui vita è simile alla sua; ed anche con queste parole: « … noi che viviamo », devono intendersi di coloro che, come Davide, passano la loro vita nella pratica della virtù. « Ora e nei secoli dei secoli. » Nuova prova che il Salmista vuole apportare di coloro la cui vita è stata una sequela di buone opere; perché nessuno quaggiù vive nei secoli dei secoli, ma è un privilegio esclusivo di coloro che meritano la vita gloriosa ed eterna. (S. Chrys.).

PREDICHE QUARESIMALI (III 2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

-XIX-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA TERZA DOMENICA.

« Quare Discipuli tui transgrediuntur tradiziones saniorum? non enim manus lavat” antequam panem manducent. ».

[Matth. XV, 2]

I. Se fa mai vero che da que’ medesimi fiori, da cui le pecchie trarrebbono un dolce nettare, traggano veleno i ragni, eveleno putrido, e veleno pestilenziale, ben apparve oggi chiarissimo nelle azioni dei santi Apostoli. S’erano dati i meschini a seguitar Cristo; e però vivendo in somma derelizione, in sommo dispregio, nessun pensiero prendevano di sé stessi, né della loro acconcezza, né de’ lor agi. Chi crederebbe però che ancor in ciò si trovasse di che accusarli? Fu in loro notato (mirate che gran delitto!), non dirò già che gustassero cibi immondi, non dirò già che toccasser cadaveri inverminiti, ma solo che talvolta lasciassero di lavarsi scrupolosamente le mani innanzi al cibarsi, quantunque, a tutto rigore, di solo pane: non manus lavant antequam panem manducent. E laddove ciò si sarebbe in poveri pescatori potuto ascrivere a santa semplicità, fu censurato qual vilipendio di riti, qual dispregio di tradizioni: tanto è ver che l’umana malignità sa d’ogn’erba salubre stillar veleno. – Eppur qual è, Cristiani miei, se non questa, quella malignità, eh? oggi tanto fra noi trionfa, e che qual peste appiccatasi ad ogni lato della città, va per le piazze serpendo, va per le case, va per le Corti, e piaccia a Dio che talor non entri ne’ chiostri anche più murati? Se uno è umile, e però tollera pazientemente ogni offesa, si dice ch’egli è un codardo; se astinente, si dice ch’egli è un avaro; se devoto, si dice ch’egli è un ipocrita; se pudico, si dice ch’egli è un melenso; e così da tutto si trae feconda materia di maldicenza, quasi che ciò ridondi a grande onor nostro, né più confidi verun di noi d’innalzarsi, se non con l’altrui depressione; né di risplendere, se non che dell’altrui discoloramento. E non è cotesta, uditori, una gran viltà? Dobbiamo mirare a divenir noi perfetti, non a far che gli altri appariscano difettosi. – E però contentatevi ch’io stamane tutto m’adoperi a mortificar queste lingue sì libere e sì loquaci, che tra noi sono, e ad impetrare qualche modesto silenzio da’ maldicenti, con esortarli a far quel degno proposito che stabilì dentro suo cuore il buon Davide quando disse: non loquatur os meum opera hominum(Ps. XVIII. 4). Le opere proprie degli uomini quali sono? Le virtù loro? Non già: sono i lor vizi, perché le virtù si han da Dio. Questi dunque, che amano di parlare continuamente de’ fatti altrui, procedano in simil forma: dicano ciò che gli uomini hanno da Dio: tacciano ciò che sol hanno da sé medesimi: e così avverrà che di maldicenti si cambino in lodatori. Temo bensì che in sentirsi costoro da me sferzare, si adireranno, e ne faranno a me misero facilmente portar le pene, con dire tutto il mal che sapranno d’una tal predica, loro odiosa. Contuttociò non voglio io mancare al mio debito; e purché questi non abbiano a mormorare più di alcun altro, io mi contento che a piacer loro si sfoghino contro me, che son degno d’ogni improperio.

II. E prima, bella gloria in vero è la vostra, o mormoratori, mentre così francamente ve la sapete voi prendere contro d’uno, il quale è lontano; né però udendo ciò che da voi viengli apposto, come non può giustificar la sua causa, così né anche può ribatter la vostra garrulità. Fece anticamente Dio nel Levitico un suo divieto, di cui voi forse non terrete gran conto; ma io per me, perché vi ho qualche interesse, lo stimo assai rilevante, assai riguardevole; e questo fu, che niun del popolo osasse dir male alcuno ad un uomo sordo : non maledices surdo (Lev. X. 14). Ma perché ciò? Han dunque i sordi per avventura a godere fra tutti i miseri un privilegio speciale, sicché si possa dir villanìa, quanto piace, ai loschi, ai monchi, ai malfatti, agli scilinguati, ed unicamente non possasi dire a’ sordi? No certamente, perché già per altro si sa la carità voler essere universale: universa delicta operit charitas (Prov. X. 12). Contuttociò, se noi diam fede agl’interpreti, mostrar Dio volle de’ sordi maggior la cura, perciocché sembra una crudeltà troppo strana voler pigliarsela contro a chi non udendo le accuse dategli, nè anche può per conseguente difendersi o discolparsi. Ma dite a me: non è fors’egli, o mormoratore, un medesimo il caso vostro? Surdo maledicere est (così moralizza il pontefice san Gregorio) absenti et non audienti derogare(3 p. Past. adm. 36) . – Voi vi ponete entro quel vostro ridotto a censurare liberamente le azioni di chi non v’ode; e non vi accorgete che ciò non solo è mostrare un’audacia somma, ma è commettere un’ingiustizia spietata? Credete voi che se colui, contra il quale arrotate i denti, vi fosse innanzi, osereste voi favellarne in sì ria maniera? Voi perdonatemi (s’io già comincio a valermi di formole un poco austere), voi dico, chiaramente la fate da’ traditori, perché assalite l’avversario alle spalle: cum ab eis recessissem, diceva Giob. (XIX. 18), cum ab eis recessissem, detrahebant mihi. S’egli ha difetti, che a voi dispiacciano tanto, andate dunque animosamente, investitelo a faccia a faccia, come fe’ Natano a Davide (2 Reg. XII. 1), Aia a Geroboamo (3 Reg. XIV. 7), Michea ad Acabbo (lbid. XXII. 17): rappresentategli la iniquità dei suoi fatti, ammonitelo, riprendetelo, rampognatelo; che in cotal guisa acquisterete gran merito presso Dio. Ma mentre solo il vituperate in assenza, qual segno è ciò, se non che voi, come codardi mastini, gridate al lupo quand’egli già con la pecorella partitosi infra le zanne, già rinselvato nel bosco, già ascososi nella buca, più non può udirvi? – Benché piacesse a Dio che imitaste quel ch’or dicea. Conciossiachè, se mirate a sì fatti cani, vedrete ch’eglino tacciono, è vero, quando il lupo è presente; canes muti, come li chiama Isaia (LVI. 10), canes muti, non valentes latrare; ma non però punto gli approvano que’ suoi furti, nol lisciano, nol lusingano, e molto meno gli tengono quasi mano a sbranar la greggia. Ma quante volte voi, che lontani mormorate con tanta animosità di quel personaggio, o privato o pubblico, perch’egli ha pratiche allato di mal affare, perché giuoca, perché getta, perché non si applica punto alle cure impostegli; quando poi gli siete presenti, voi lo adulate per questi eccessi medesimi di cui prima il mordeste tanto; gli commendate le sensualità, come sfogo di una spiritosa natura; il giuocare, come sollievo; il gettare, come splendidezza; né dubitate di esortarlo a distrarsi alquanto più spesso da quei negozi, a cui voi dite maledici che non bada! E non è questo usare al prossimo vostro un torto evidente? – lo so che veramente grand’anirno si richiede per ammonire uno in faccia de’ suoi difetti, massimamente quand’egli sia collocato in fortuna eccelsa. Converrebbe essere, com’era appunto un Elia, sprezzator di tutto; e che, contento di una ruvida pelle d’intorno a’ lombi (4 Reg. 1. 8), faceva lieto ad un torrente i suoi pasti con quel pan duro di cui lo regalavano i corvi (3 Reg. XVII. 5). Ma se non vi dà cuore a tanto, lasciate almeno di lacerare in assenza chi neppure ardite in presenza di stuzzicare. Conciossiachè, come san Girolamo disse (ep. 4ad Rust.), la verità non ama star ne’ cantoni; veritas non amat angulis; ed il far così non è altro che imitar le talpe, imitare i topi, i quali mordono sì, ma sol di nascosto; o è piuttosto fare, come l’Ecclesiaste affermò di alcune serpette, le quali maliziosamente appiattatesi in fra l’arene, quivi se ne stanno, senza sibilo e senza striscio, a spiar chi passi, per poter incauto addentarlo nelle calcagna. Si mordeat serpens m silentio, nihil eo minus habet, qui occulte detrahit(Eccl. X, 11). – E vi darà di poi l’animo di restituire ad altrui con facilità quella buona fama che a sorte gli avrete tolta? Voglioche v’impieghiate ogni vostro studio, ogni vostro sforzo: oh quanto tuttavia sarà duro che vi riesca! Mosè volea far conoscere a Faraone ch’egli era vero ministro del suo Signore. Però che fece? Aveva in mano una verga; la gettò in terra, e subito la fece trasformare in orribil serpe. Ma che? Non sì tosto poi la ritolse in mano, che la fece di serpe ritornar verga. Gl’incantatori di Faraone vollero far anch’essi una prova eguale; ma non poterono: perché giunsero bensì presto a cambiare le verghe in serpi ma quelle serpi si rimasero serpi, nè mai di serpi ritornarono verghe (Exod. VII. 10 et seq.). Or avete notato? dice qui tosto Origene acutamente (Hom. 13 in c. 22 Num.): ecco fin dove arrivò la virtù diabolica: poté fare del bene male; ma non poté poi rifare del male bene. Non petuit virtus dæmoniaca malum, quod ex bono fecerat, restituere in bonum: potuit ex virga serpentem facere, virgam autem reddere ex serpente non potuit. Or figuratevi che cosi debba succedere ancora a voi. Potrete voi di leggieri far apparire quell’uom dabbene qual orrido serpentaccio; ma come farete a rendergli di poi giusta l’antica forma sarà agevole a fare ch’uno di casto sembri un impuro; ma come a far dipoi che d’impuro si ritorni di nuovo ad apparir casto? Vi sarà agevole a fare ch’un di devoto sembri un ipocrita; ma come a far dipoi che da  ipocrita si ritorni di nuovo a parer devoto? I mali uditi dì altrui, son creduti subii; pronis auribus excipiuntur; ma le ritrattazioni, oh quanto sempre faticano a trovar fede, almeno perfetta! Calumniare dìcea quell’infame politico, calumniare che sarà finita per sempre. Semper aliquid remanet. La serpe resterà serpe. E poi chi non vede che non mai del tutto potrete al prossimo vostro rifare i danni? Restituzioni di fama! restituzioni di fama! Oh  quanto sono difficili a farsi giuste! Non può qui dirsi, come si fa quando trattasi di danaro: si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum(S. Luc. XIX. 8). Quale adunque, qual è la regola vera a fuggir gli scrupoli? Non è tacciare; è tacere: non loquatur os meum opera hominum.

III. – Ma io fin qui solo ho detto il minor de’ mali, ch’è l’aggravio fatto a colui di cui mormorate; aggravio finalmente non d’anima, ma soltanto di riputazione caduca, benché stimabile: maggior mal è, che a color, con cui mormorate, voi ponete fra’ pie’ così grave intoppo, che potrìa fargli agevolmente trascorrere in perdizione. Conciossiachè state a udire. O color, con cui mormorate, son uomini empj, o pur son uomini pii. Che mi rispondete ? Son uomini empj? Oh quanta festa verran pertanto a far essi in udir da voi che loro nel male non mancano de’ compagni! oh quanto conforto prenderanno! oh quanto animo! oh quanto ardire! e, quel ch’è forse anche peggio, oh quanto, per le cadute da voi narrate, oh quanto dico, faranno ad altrui d’insulto! Udito ch’ebbe il re Davide il fier successo dello sventurato Saule’, rimaso estinto su le montagne di Gelboe con tutti e tre i suoi figliuoli, guerrieri sì valorosi, pregò coloro, i quali ciò gli fér noto, che per pietà non ne lasciassero giungere le novelle agli abitatori di Geth ed a’ popoli di Ascalone, per non dar maggiore occasione agli incirconcisi d’imbaldanzire nelle calamità d’Israele. « Nolite annunciare in Geth, neque annuncietis in compitis Ascalonis, ne forte lætentur filiæ Philisthiim, ne exultent filiæ incircumcisorum » (2 Reg. I. 20). – Ma voi che fate, o mormoratori, che fate, quando in quella vostra combriccola vi ponete sì bellamente a raccontare le malvagità di quel personaggio ecclesiastico, le fragilità di quel cherico, il fasto di quel claustrale, se non che dare a gl’incirconcisi occasione di un giubilo più perverso? Gioito avrebbero gli abitatori di Geth, gioito avrebbero i popoli di Ascalone, questo è verissimo; ma di che? Di un mero infortunio; quei ch’odon voi, si rallegrano d’un peccato. Ed oh quante volte avvien però che per li mali portamenti di un solo, da voi descritti, si pongon subito a dire infamie di tutto un Órdine intero! e chi afferma ch’è necessario mortificarlo, o chi replica che dovrebbe scacciarsi, e chi ripiglia che si dovrebbe spiantare, e chi non teme di por sacrilego ancora la bocca in Cielo, e di riprovarne le leggi. Pur troppo avrete con l’esperienza osservato che non così un’importuna cicala, col garrir ch’ella faccia da un arboscello su l’ore estive, solleva ogni altra ad emulare lo strepito ed a moltiplicare lo stordimento, come un sol empio, che mormori, sveglia in tutti un egual talento insoffribile di mal dire. Cora’esser può che voi pertanto non dubitiate addossarvi un fascio così pesante d’iniquità, a cui somministrate occasione?

IV. – Che se pur coloro, co’ quali voi ragionate, sien tutti pii, e come tali abbondano le bruttezze da voi contate, non ne trionfino, vi date creder però che non poniate agevolmente ancor essi in un grave rischio di prevaricar quanto gli empj? V’ingannate assai, v’ingannate: perciocché non solo può avvenir ch’essi imparino molti mali, che loro fin allora non erano sorti in mente! ma oltre a ciò, è facilissimo che, sentendo biasimar altri per quei difetti, di cui sé conoscono esenti, comincino interiormente a vanagloriarsi; e che, ad imitazione del Fariseo, concepiscano anche eglino stolti sensi di compiacimento, di albagia, di alterezza, di presunzione, quasi che non sien uomini come gli altri: non sint sicut cæteri hominum (Luc. XVIII. 11). – È facile che dispregino le persone da voi riprese; è facile che se ne alienino, s’erano loro accette; è facile che se n’adombrino, se sieno lor confidenti; e, se non altro, è facile che, con danno sempre notabile della carità cristiana, diano precipitosa credenza alle accuse altrui, senza aver prima ascoltate ambedue le parti. – E questo è quello che volle intendere il santo profeta Davide, quando disse: sedens adversus fratrem tuum loquebaris, et adversus filium matris tuæ ponebas scandalum(Ps. XLIX. 20). Tu, dicevaegli, sedens; ch’è quanto dire, non alla sfuggita, non leggermente, non brevemente, ma molto posatamente ti ponevi a sparlare contro il tuo prossimo: sedens nell’anticamera di quel principe a cui servivi; sedens sopra de’ marini della tal piazza;  sedens dinanzi all’uscio di tal bottega, sedens sopra le panche di quella chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa; sedens a quella veglia; sedens d’intorno a quel fuoco; sedens in somma, come in un’opera di singolar godimento e di sommo gaudio: sedens adversus fratrem tuum loquebaris. Ma che? Ti pensi che qui però terminasse tutto il tuo male? Non è così, sventurato, non è così; perché nello stesso tempo adversus filium matris tuæ ponebas seandalum. Non ti ricordi tu di quei che ti udivano? Quei, come uomini deboli ed imperfetti, filii matris (che così spiega appunto santo Agostino), quei, dico, per te inciamparono, per te caddero, per te vennero tutti, chi più, chi meno, a peccare anch’essi. Etenim cum detrahitur bonis ab his, qui videntur alicujus esse momenti, in scandalum caduta infirmi, qui adhuc nesciunt judicare (in hunc locum). – E tu non temi? e tu non tremi? e tu com’acqua ti bei le malvagità? Né solamente le proprie, ma ancor le altrui? Fa’ a mio modo, fa il proposito ch’io ti dissi: non loquatur os meum opera hominum.

V. – Eppur v’è di più. Perciocché dovete sapere ch’una lingua mormoratrice è lingua di vipera; ch’è quanto dire, triplicata, trisulca, mercecchè fa, come parlò san Bernardo (de consid.), tre ferite ad un colpo: tres lethaliter infìcit ictu uno. Inficit colui di cui mormora, mentre a lui fa, conforme abbiamo primieramente veduto, un solenne torto; inficit color con cui mormora, mentre lor pone, conforme abbiamo secondariamente provato, un sicuro scandalo; ed inficit finalmente colui che mormora, mentre ad esso reca que’ danni che or a me restano, ma alquanto più estesamente, da dimostrare. Benché chi mi darà mai facondia sì luttuosa, ch’io possa abbastanza esprimere questi danni, e così darvi, o maledici, a di vedere di quanto pregiudizio voi siate anche a voi medesimi con la libertà del dir vostro? – E prima è certo, benché ciò sia forse il meno, che laddove voi così credete di rendervi assai giocondi ed assai graditi (mercé quell’avidità con cui comunemente si ascoltano le altrui tacce), voi vi rendete odiosissimi non si potendo non avverare, quanto a voi pure, quel detto di Salomone, il quale affermò che il maledico è l’abominio del genere umano: abominatio hominum detractor( Prov. XXI. 9). Imperciocché un poco: tenete voi per sì semplici quei con cui ragionate, che tra sé stessi non giungano molto bene a considerai che come voi con esso loro venite a censurar altri, così con altri verrete a censurar loro? Lo veggon essi, lo veggono; e benché paja che col sembiante vi facciano grato applauso, contuttociò nell’interno: or andate (dicono) a capitar sotto il rostro a questo sparviere, e poi salvatevi, se potete le penne. Oh come trincia! oh come taglia! o come, dov’egli efferra, fa tosto piaga! Generatio, cruda formola de’ Proverbj (XXXIX, 14) generatio quæ prò dentibus gladius habet. – Né val che voi con simulato artifizio orpelliate la vostra mormorazione, mischiando que’ vituperj, che di altrui dite, con qualche encomio, che tanto più vi dia credito di sinceri, e biasimando in molti, lodando in poco. È questo già un artificio tritissimo, trivialissimo; e gran cosa vuol essere, se vi è alcuno, il quale non sappia che, quantunque il tirso sia cinto di verdi pampani, non però fa men nocevoli le ferite. Quegl’Israeliti che, ritornati dal riconoscer la Terra di promissione, la vollero porre a fondo presso quel popolò che colà gli aveva inviati, qual modo tennero? Cominciarono in prima dall’esaltarla; e però, tratto fuori un grappolo d’uva sì smisurato, che vi volevan due uomini per portarlo appeso al suo tralcio, e scoperte alcune bellissime melagrane, e dimostrati alcun fichi pinguissimi: ecco (pigliarono a dire) ecco qual sia la fertilità del paese, cui Dio ne mena. Per verità che a guisa d’acqua ivi scorrono il latte e ‘l mele: revera fluit lacte et Melle (Num. XIII. 28). Oh che verdura di pascoli! oh che amenità di colline! oh che chiarezza di fonti! Non si può al mondo vedere terren più lieto. Ma che? Su queste quasi stille di dolce, da lor premesso, versarono poco appresso tanto di assenzio, rappresentando gli abitatori di un tal paese come uomini giganteschi, le città come inespugnabili, il cielo come infettato, che amareggiato però tutto quel popolo, il quale udigli, si sollevò, si scompigliò, mosse tosto contro Mosè, contra Aronne, anzi contra Dio stesso il più fier tumulto che fino allor sorto fosse fra tende ebree. Sicché vedete che cotesto vostro artifizio di biasimare in molto, e lodare in poco, non è artifizio sì nuovo, come a voi sembra, ma rancidissimo; e però qual dubbio che nulla può concorrere a rendervi meno odiosi? Si sa, si sa che non è zelo ciò che vi muove a tacciare sì crudelmente le azioni altrui; ma ch’è acerbità, ch’è rabbia, ma ch’è rancore travestito alquanto da zelo: e però è forza che chi v’ode vi tema come molossi terribili di macello, che in ogni sangue godono ad egual modo lor darle labbra; e che temendovi, per conseguente vi abborra: abominatio hominum detractor.

VI. – Ma su figuriamo (ciò che non può mai succedere) che questo detto del Savio in voi sia fallace, sicché non solo non vi rendiate agli uomini punto odiosi col mormorare, ma che anzi siate loro ameni ed accetti: non sapete voi però bene che vi rendete, se non altro, odiosissimi innanzi a Dio? Detractores Deo odibiles (ad Rom. 1. 30); così l’Apostolo favellando ai Romani. Né è meraviglia, perché un tal vizio par totalmente opposto al genio di Dio. E qual è il genio di Dio? dice san Tommaso (in Gen. c. XVIII, n. 17). Civilissimo, cortesissimo. Oh quanto egli è ritroso a scoprire, finché viviamo, i difetti nostri! valde difficilis est ad publicanda occulta crimina nostra; non volendo egli che noi siam punto di peggior condizione di quel che sieno i pittori, a cui si fa grave incarico se loro vassi ad alzar di dietro la tela, infintantochè rimossa non hanno la man dall’opera, ed ancora vi possono, se lor piace, dar su di spugna liberamente, e mostrare che la disapprovano. – Si vide egli una volta venire innanzi quel figliuolo scialacquatore, che, tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame, a gran fatica potea più regger lo spirito in su le labbra. Contuttociò qual fu il primo pensier che di lui si prese? Fu riscaldarlo? fu ristorarlo? Non già, uditori: fu ricoprirlo: cito offerte stolàm prima (Luc. XV. 22). E finché questa non venne, egli talmente sel tenne abbracciato a sé, che niun de’ servi, come notò Pier Grisologo (Serm. 2 de fil. prod.), che niun de’ servi veder ignudo il potesse, niuno deridere: ante vestiri voluit, quam videri. – Così coperse la nudità dell’adultera, a lui condotta nel tempio, quando non prima dir parola le volle di correzione, che dileguato si fosse ogni accusatore (Jo. VIII). Così coperse la nudità della Samaritana, a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimproverare la volle di disonesta, che ritirato si fosse ciascun Apostolo (Jo. IV). Così coperse la nudità fin di quel Giuda medesimo, il qual tradillo; mentre, per quanto interrogato ne fosse importunamente anche da Giovanni, ch’è quanto dir dal diletto, dal favorito, dal segretario di tutti i suoi grandi arcani; contuttociò né anche il volle a Giovanni far manifesto, se non in gergo (Joan. XIII 26): tanto è vero sempre, che Dio valde diffìcilis est ad publicanda occulta crimina nostra. – Come dunque volete, o mormoratori, che Dio non vi odii, mentre a rovescio di lui non altro fate giammai che andar discoprendo le magagne più internate, più intime, più riposte del vostro prossimo, e, sfacciati ancor più dell’antico Cam (Gen. IX. 21), non dubitate per beffa nudar chi dorme, non che soltanto invitare di molti a mirarne la nudità? Sì che v’odia, sì; non è cosa da dubitarne. Conciossiachè vi addimando: credete forse voi che sia virtù vostra, se voi non siete sì peccatori, com’è quel vostro fratello? Tutt’è grazia di Dio, tutt’è sua mercede, tutt’è suo merito. E voi per ciò inalberarvi sopra degli altri? e voi per ciò morderli? e voi per ciò maltrattarli? Ch’altro potete da tal superbia aspettare, se non che Dio sottragga ad ora ad ora il suo braccio dal sostenervi, e che per giusto giudizio cader vi lasci in quegli eccessi medesimi, benché enormi, benché  brutali, per cui sì acerbamente venite a tacciare altrui? Sentite ciò ch’egli affermaci ne’ Proverbj (XIII. 5): impius confundit et confundetur; il peccatore confonde, e sarà confuso. Sì, miei signori, il peccatore confonde, e sarà confuso. – Ed oh così mi potess’io qui distendere a piacer mio, come io vi mostrerei ciò sempre avverato in ogni età, in ogni popolo, in ogni affare! Ma questa volta mi sia per tutti bastevole un Assalonne, il cui successo, se non fosse di fede, non potrìa credersi. Questi, udita che egli ebbe la brutta forza che un suo fratello maggiore, chiamato Aminone, usata avea verso Tamar, del cui amore era divenuto frenetico, se ne sdegnò, se ne stomacò, n’arse in modo, che non credette potersi cancellar tal obbrobrio dalla sorella, se non col sangue dell’empio violatore. E così che fece? Dissimulò tal notizia per lungo tempo; finche venutagli, come siam soliti dire, la palla al balzo, convitò Ammone con tutti i regi fratelli ad un lauto banchetto; e quivi fattolo a tradimento assaltare da’ suoi famigli, nol trucidò propriamente lo macellò (2 Reg. XIII). Or chi, presupposto ciò, non sarebbesi persuaso che un Assalonne star dovesse dipoi molto circospetto a non apparir egli lordo di quella macchia che in altri avea detestata con tanto orrore? Qui detrahit alicui rei, come dice il Savio, ipse se se in futurum obligate (Prov. XIII. 13). E però non direste voi certamente, che da indi innanzi un zelatore sì tremendo dell’onestà viver dovesse più casto d’ogni agnelletto, e più intatto d’ogni armellino? Eppure udite ciò che vi farà senza dubbio arricciar le chiome. Fece egli poi tanto peggio di quel medesimo che aveva abbominato in Ammone; chequando il re suo padre, fuggitosi di palazzo, glielo cede tutto libero, tutto aperto, egli fece ergersi in una pubblica loggia un gran padiglione, e quivi alla presenza di popolo innumerabile tutte francamente oltraggiò le mogli paterne, che pur non erano in numero men di dieci; e con isfacciatezza neppure usata fra’ barbari, neppure universale fra’ bruti, ìngressus est (debbo dirlo ?), ingressus est ad concubinas patris sui coram universo Israel (2 Reg. XVI, 22). E questi dunque èquell’Assalon sì zelante, il quale tanto di romor fatto avea per un solo incesto che d’altri avea risaputo? Che mutazione èquesta mai? che stranezza? che novità? Finalmente Ammone peccò (non si può negare), ma chetamente, ma occultamente, ma in un gabinetto di casa il più solitario, dov’egli avea simulato, per verecondia maggiore, di giacere infermo. Laddove Assalonne non temé peccare in pubblico, a suon di trombe, a voce di banditore, e , quel che sembra del tutto orribile, in faccia allo stesso sole, il quale non so veder come a mezzo corso non rivoltasse di subito il cocchio indietro, per non assistere a sì mostruosa laidezza. Eppur è certo, uditori, che così fu: un Assalon, un Assalon venne a tanto d’iniquità. E perché vi venne? dica pur ciascuno ciò che vuole; io per me tengo, ch’Egli per questo medesimo vi venisse, perché per una iniquità somigliante fatto avea già tante strepito contro Ammone: Impius confundetur. Egli non avea compatito il proprio fratello, ma con solenne vendetta lo avea voluto pubblicamente confondere, e svergognare; e Dio permise ch’egli venisse quindi a poco a far peggio di quel medesimo ch’avea fatto il fratello. – Applichiamo a nostro proposito. Voi lacerate con lingua così spietata il prossimo vostro per una fragilità, nella quale è incorso, per uno slogamento di senso, per uno accendimento di bile, per una intemperanza di vitto, per una tal debolezza di vanità; e non temete che Dio vi lasci per suo giudizio cadere in più gravi colpe? Mi rimetto a voi: ma sol voglio con riverenza umilissima supplicarvi a non vi fidar ornai tanto di voi medesimi: Corripe amicum, corripe proximum: ciò va bene, ma fate insieme quello che l’Ecclesiastico dice appresso: et da locum timori Altissimi (Eccli. XIX, 13, 14, 18). Perché par quanto di presente a voi paja d’esser perfetti, non però potete sapere ciò che dovrà di voi essere in altro tempo. Chi avrebbe  detto che Jeù, quel re d’Israele, il quale con zelo sì fervoroso distrusse l’altare di Baal, e ne sterminò i sacerdoti, dovesse anch’egli piegare un dì le ginocchia dinante agl’idoli? (4 Reg. X). Chi avrebbe detto che Gioas, quel re di Giuda, il quale con  pietà sì magnifica ristorò le mura del tempio, e riempinne gli erarj, dovesse anch’egli  stendere un dì le mani a rapirne i doni? (ib. XII). Chi avrebbe detto che Salomone medesimo, Salomone, quello che nei Proverbj parlò sì bene contro l’amor delle donne, e ne svelò le doppiezze, e ne scorse i danni, dovesse poi dare maculuam in gloria sua, e cadere anch’ei bruttamente in quell’alta fossa, che agli altri avea dimostrata con tanto lume? (ìbid. 11) Non vogliate dunque sì presto far gl’impeccabili, perché, a mio credere, voi non siete finor raffermati in grazia; siete ancora labili, siete ancora caduchi, e piaccia a Dio (giacché conviene finalmente ch’io parli con libertà), e piaccia a Dio, che già non siate peggiori di que’ medesimi, de’ quali voi mormorate. Ah, così va, così va. Quei che sepolti perpetuamente si giacciono dentro il fango, come le rane, questi son quei che più gridano, che più gracidano, quasi che vogliano rimproverare a chi passa le sue lordure. I buoni, dice il Savio, i buoni sono agevolissimi a credere ben di tutti: innocens credit omni verbo(Prov. XIV. 15), come il credé Giosuè pei Gabaoniti (Jos. IX), Giacobbe di Labano (Gen. XXXI), Gionata di Trifone (1 Mac. 12). I più dissoluti, i più discoli, non contenti di quei difetti che in altrui veggono, vi veggono spesso ancor quei che non vi sono: tutto notano, tutto sbeffano, tutto sprezzano, e non sanno mai d’altrui persuadersi se non il peggio. Sed et in via stultus ambulans, udite belle parole dell’Ecclesiaste (X. 3), cum ipse insipiens sit, omnes stultos æstimat. – E sarà questa dinanzi a Dio presunzione da tollerarsi? Ah che pur troppo conviene ch’ei la gastighi! Posciachè s’egli neppur volea nella sua legge (Lev. XIII) che i sani condannassero alcuno mai per lebbroso, se non premessa per mezzo del sacerdote una lunga pruova, come potrà sopportare or che i lebbrosi lìberamente condannino ancora i sani?’ Non loquatur os meum opera hominum, non loquatur; perché questo è un voler esporsi a pericoli troppo atroci. E qui voi riputerete aver io già detto a terrore de’ maldicenti il più che può dirsi; ma riposiamoci, e poi vedrete che forse ho fin qui scherzato.

SECONDA PARTE.

VII. – Io non vorrei presso voi guadagnarmi fama di predicatore funesto; perciocché a che vale che, quasi vago di spaventarvi, io vi stia tutto giorno, a fare o predizioni infelici, o presagi infausti’, se voi, per non udirli, n’andrete a mettervi in fuga? Contuttociò convien pure, se punto v’amo, ch’io non v’inganni. Badate bene, perché gravissimo è il rischio, o mormoratori, che vi sovrasta, d’incorrere quanto prima una morte orrenda. Ma che so io di ciò? Mi è per sorte calato un Angelo a confidare dal cielo sì gran segreto? n’ho qualche rivelazione? n’ho alcun ragguaglio? L’ho, e l’ho maggiore anche di quello che voi non dite. Conciossiachè non è stato un Angelo, no, ma il Signor degli Angeli, quel che, parlandomi ne’ Proverbj, mi ha detto che propria pena dei detrattori è morire improvvisamente. Time Dominum, fili mi, et cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum (Prov. XXIV. 2 1 et 22). Repented! Sì, sì, repente, repente (avete sentito!), repente consurget perditio eorum. Ah noi malavveduti! che facciam dunque, mentre sì poco ci riscotiamo a pericolo sì tremendo? Può mentire Iddio per ventura? può amplificare? può far bravate a credenza? Io, quanto a ciò, mi rimetto; ma dite a me: mi sapreste voi riferire qual fine sortisse quel linguacciuto di Alcimo, il quale avea sì liberamente pigliato a sparlar di Giuda, nobilissimo Maccabeo? (1 Macchab. IX, 55). Perde ad un tratto la parola su labbri, e così insieme ammutolito ed attonito si morì di goccia improvvisa. Qual fine fece un Datano, qual fine un Core, qual fine un Abiron, quei dispregiatori maledici di Mosè? (Num. XVI, 24 a 33). Non furon tutti e tre dalla terra, che di repente si aperse, ingojati vivi? E quei tanti altri, che contra Mosè medesimo mormorarono nelle campagne di Edom (Ibid. XVI. 35 et seq.), qual fine anch’essi sortirono? Dite un poco: vi è tra voi niuno ch’or lo ritenga a memoria? Si vider tutti venire addosso improvvisamente un esercito di ceraste, di aspidi, di saettoni, e d’altre mille pestilentissime serpi che, quasi vomitassero fuoco e vibrasser fiamme, ne fecer entro brev’ora una strage immensa. Sicché non credo far Dio bravate a credenza, quando Egli afferma che repentina succederà la lor morte a’ mormoratori; repente consurget perditio eorum; mentre ciò non solo è famoso per la sperienza, ma pare ancor conformissimo alla ragione. Imperocché se i detrattori son uomini, i quali assaltano, come da principio dicemmo, l’avversario alle spalle, né contro d’esso procedono alla scoperta, ma insidiosamente, ma ingannevolmente, ma quasi da traditori; qual meraviglia sarà, che quasi a tradimento si trovino anch’essi colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere una mala lingua?

VIII. – Ma io (guardate quanto voglio sempre essere liberale con esso voi) voglio concedervi che in voi non debba una tal minaccia eseguirsi con tanta severità, ma che vi sia conceduto innanzi al morire qualche comodo spazio di ravvedervi, di riconoscervi, di chiedere perdonanza del mal commesso: con qual ardir, con qual animo, con qual fronte potrete a Cristo ricorrere in su gli estremi per ottenerla? Non siete voi stati quei così dispietati, che niuna colpa avete mai perdonata cortesemente al prossimo vostro, ma l’avete ognora avvilito con alterigia, accusato con arroganza, e, senza mai punto usargli misericordia, n’avete fatto in ogni conversazione un solenne scempio? E come dunque esser può che gran misericordia dobbiate sperar da Dio? Ahimè! credetemi che questo sopra d’ogn’altro sarà il pericolo che incorrerete morendo, perdere affatto ogni special confidenza nella divina bontà. Né ciò senza fondamento: conciossiachè, non so come, par che Dio contro a’ mormoratori dimostrisi tutto sdegno, tutto rigore, e che propriamente abbia preso, conforme disse nel salmo, a perseguitarli; detrahentem secreto proximo suo, hunc persequebar (Ps. 100, 5). Non è tra voi chi non sappia quanta già fosse l’autorità di Mosè per rendere Dio pietoso co’ delinquenti. Avea il suo popolo fabbricato già, com’è noto, un vitello d’oro, incensatolo, idolatratolo; sicché Dio, tosto montato in furore altissimo, determinò di venire contr’uomini sì perversi a ferro ed a fuoco, e di sterminarne la razza. Contuttociò, credereste? non prima si frappone Mosè con alcune acconce parole d’intercessione a pregar per essi, che senza una minima replica ottien l’indulto, e fa che Dio ritranquillisi assai più tosto che non fan l’onde di turbata peschiera al posar de’ venti. Placatusque est Dominus, ne faceret malum, quod locutus fiierat, adversus populum suum (Exod. XXXII. 14). Qual però di voi non sarebbesi immaginato che chi per gente sì perfida avea potuto ottener perdono sì pronto, non mai dovesse in futuro temer ripulsa? Eppur che succede? Vuol egli quindi a qualche tempo intercedere per Maria, sua propria sorella, percossa in volto da schifosissima lebbra (Num. XII): e tuttavia, benché supplichi, benché gridi non ottien nulla; e a tutti i patti conviene a lui di vederla esclusa dal pubblico, ritirata, ristretta, pagar più giorni ai contumacia obbrobriosa Ma perché ciò? Era costei per avventura trascorsa in qualche delitto peggior dell’idolatria? Che aveva mai fatto la misera? ch’avea detto? ch’avea trattato? Già v’è notissimo. Ella, abusandosi di certa loquacità naturale data alle donne, affinchè incitino i lor figlioletti a parlar con facilità, avea, non so come, tacciato assai suo fratello a cagion di certa Etiopessa, non saprei direse di sembiante o di stirpe, da lui sposata. Ma perché appunto quest’era mormorazione, ch’è quanto a dire, poca pietà verso le altrui debolezze, Iddio non volle (come osservò san Basilio) accettar per essa discolpe di sorta alcuna, non raccomandazioni, non suppliche, non clamori; e laddove fu facilissimo in rilassare, ad intercession di Mosè, tanti gravi oltraggi fatti alla propria Persona, benché divina, non volle rilassarne un piccolo succeduto contro la persona medesima’ di Mosè. Vedete dunque s’è vero ciò ch’io vi dissi? – Questo, uditori, queste è  il terribile effetto che la mormorazione produce nel cuor di Dio, renderlo quasi duro, implacabile, inesorabile: e però chi può dubitare che quando voi vorrete ad esso moribondi ricorrere, per pregarlo a pietà, non saprete farlo, e vi parrà che troppa audacia sia chiedere compassione di quelle colpe che altro non furono in verità che mancanza di compassione? Così rispose un certo Religioso infelice, rammemoratoci da gravissimi autori, (Jo. Mayor. Spec. esempl. etc.). Si trovava già egli vicino a morte, quando sentendosi con grand’affetto esortare da’ circostanti ad aver fiducia nella misericordia divina: che misericordia? (gridò) che misericordia? Non è questa per me, che sì poca n’ebbi. Indi tratta fuori la lingua, accennò loro col dito che la mirassero; e poi: questa lingua (soggiunse) mi ha condannato; questa, con la quale mi avete sì frequentemente sentito condannar altri, questa ora fa che disperato io precipiti in perdizione. Disse; e perché più manifesto apparisse aver lui per giusto giudizio così parlato, se gli enfiò tutta di repente la lingua per modo orribile, sicché più non potendo ritrarla a sé, cominciò a metter muggiti ed a mandar urli, non altrimenti d’un toro ch’è sotto il maglio; e così dopo un’agonia penosissima uscì di vita. Un altro mormoratore tutta, morendo, si lacerò dispettosamente la lingua co’ suoi medesimi denti; ad un altro s’istupidì; ad un altro s’inveranno: tanto fu lungi che la sapessero su quegli estremi impiegare in chieder a Dio pietà de’ commessi errori. Ma voi che dite? – Pare a voi spediente di mettervi a sì gran rischio per una mera sfrenatezza di labbra mal custodite? Non loquatur os meum opera hominum; ditelo, ditelo; non loquatur os meum opera hominum; perché importa troppo risolvere questo punto, e fermarlo bene. Che in considerazione è mai la nostra? che abbaglio? che cecità? Sarà possibile adunque che non vogliamo determinarci oggimai di badare a noi, giacché finalmente nel tribunale divino non ci verrà domandata d’altri ragione, che di noi stessi? Gran cosa in vero che ci vogliam noi prendere tanto affanno, tanta ansietà delle altrui coscienze; mentre ciò sol dee servire a gravar le nostre! Che vale al fiume, che, uscendo gonfio dal letto con la sua piena, lavi le ripe, e via ne porti mormorando ogni feccia, ogni fracidume, s’egli vien con tal atto a lordar se stesso, e a rimaner tutto sozzo, tutto schifoso? Non è già la vita sì lunga, se noi vogliamo spenderla saviamente, come dovremmo, per nostro prò, che debba tanto tempo avanzarci da perdere oziosamente ne’ fatti altrui. Una cosa sol è di necessità, se crediamo a Cristo: porro unum est necessarium (S. Luc.X, 42), né altro è questo, che assicurare il negozio della nostra eterna salute, negozio ahi quanto spinoso! ahi quanto difficile! E noi ci stiamo, come se ciò fosse nulla, ad addossar tante cure affatto superflue, né solamente superflue, ma ancor dannose? Lasciamo pureche gli Esaù vagabondi (Ge, XXV, 27) con la faretra al fianco, e con l’arco in mano non altro facciano tuttodì ch’ire a caccia degli altrui falli, come di prede lautissime ai lor palati: noi, a similitudine di Giacob, conteniamoci in essa, e con santa semplicità reputiam ciascuno in cuor nostro miglior di noi. Questo è da buon Cristiano, questo è da considerato, questo è da cauto: fare altrimenti è da uomo nulla sollecito di salvarsi.