SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE…IN CONSILIO” (CX)

SALMO 110: CINFITEBOR TIBI DOMINE, … in consilio”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878 IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 110

Alleluja.

 [1] Confitebor tibi, Domine

in toto corde meo, …

in consilio justorum,

et congregatione.

[2] Magna opera Domini, exquisita in omnes voluntates ejus.

[3] Confessio et magnificentia opus ejus; et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Memoriam fecit mirabilium suorum, misericors et miserator Dominus.

[5] Escam dedit timentibus se; memor erit in saeculum testamenti sui.

[6] Virtutem operum suorum annuntiabit populo suo,

[7] ut det illis hæreditatem gentium. Opera manuum ejus veritas et judicium;

[8] fidelia omnia mandata ejus, confirmata in saeculum sæculi, facta in veritate et æquitate.

[9] Redemptionem misit populo suo; mandavit in æternum testamentum suum. Sanctum et terribile nomen ejus.

[10] Initium sapientiæ timor Domini; intellectus bonus omnibus facientibus eum, laudatio ejus manet in sæculum sæculi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CX.

Lode di Dio per le sue opere. Questo Salmo ha versetti quante sono le lettere alfabetiche ebraiche. Ma i LXX lo ridussero a soli dieci versetti, mirando più alla somiglianza degli altri Salmi che alle lettere.

Alleluja: Lodate Dio.

1. A te darò laude, o Signore, con tutto il cuor mio, nel consesso de’ giusti e nell’adunanza.

2. Grandi sono le opere del Signore; appropriate a tutte le sue volontà.

3. Gloria e magnificenza sono le opere di lui; e la sua giustizia è stabile per tutti i secoli.

4. Ha lasciata memoria di sue meraviglie il Signore, che è benigno e misericordioso; ha dato un cibo a quei che lo temono.

5. Ei sarà memore eternamente di sua alleanza, le opere di sua possanza rivelerà al suo popolo;

6. A’ quali darà l’eredità delle genti: le opere delle sue mani son verità e giustizia.

7. Fedeli tutti i comandamenti di lui; confermati per tutti i secoli, fondali nella verità e nell’equità.

8. Ha mandata la redenzione al suo popolo; ha stabilito per l’eternità il suo testamento.

9. Santo e terribile il nome di lui; principio della sapienza il timor del Signore.

10. Buono intelletto hanno tutti quelli che agiscono con questo timore: sarà egli laudato pe’ secoli de’ secoli.

Sommario analitico

Questo Salmo, è un cantico di lode a Dio a causa delle sue opere e dei suoi benefici generali che effonde sulla sua Chiesa, benefici figurati da quelli che ha effuso sui Giudei (1).

(1) Questo salmo è nel numero dei dodici che iniziano con Alleluja (Ps. CIV, CV, CVI, CX, CXI, CXII, CXIII, CXIV, CXV, CXVI, CXVII, CXVIII), come i cinque che finivano con questo canto di lode. Di questi salmi, ce ne sono cinque che gli ebrei chiamavano i “grandi alleluja“. Venivano cantati in tutte le feste, ma soprattutto nelle grandi solennità di Pasqua e dei Tabernacoli: i salmi CXIII e CXIV si cantavano prima della cena pasquale, ed i seguenti CXV, CXVIII, dopo i pasti. Talvolta si cantavano prima i salmi CX e CXII (Rosen-Muller). 

I. – Il profeta esprime la risoluzione di lodare e ringraziare Dio:

1° Segretamente nel suo cuore;

2° Nella riunione privata dei giusti;

3° Nelle assemblee pubbliche (1)

II. – Egli ne dà per motivo le opere di Dio:

1° Le opere di Dio in generale: – a) esse sono grandi e conformi alle volontà divine (2); – b) esse rendono pubbliche la sua magnificenza e la sua gloria (3).

2° Le sue opere particolari: – a) la manna e l’Eucarestia della quale essa era la figura, il ricordo della sua alleanza con il suo popolo (4, 5). – b) la potenza che ha fatto brillare per mettere i Giudei ed i Cristiani in possesso dell’eredità che ha loro promesso (6, 7); – c) le leggi della natura e della grazia, che Egli ha fatto immutabili e fondate sulla giustizia e sull’equità (8); – d) l’alleanza eterna che ha concluso con il suo popolo, e dei quali il Profeta sottolinea gli effetti. Egli ha inviato la redenzione, etc. (9).

III. Egli indica le disposizioni necessarie per entrare nell’alleanza di Dio:

Il timore di Dio, inizio della sapienza, che bisogna utilizzare e perfezionare con le opere (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – « Io vi loderò, vi renderò grazie. » Tutta la vita del Re-Profeta è passata nel compimento di questi pii doveri; è là che comincia, ed è là che finisce. Tutto il suo soggetto, tutta la sua opera, è stata rendere grazie a Dio, tanto per i benefici che avevano ricevuto, che per le grazie accordate agli altri uomini. (S. Chrys.). –  Quanto questo dovere è oggi dimenticato: l’egoismo si è impadronito del sentimento religioso stesso! Il Cristiano dei nostri giorni chiede ancora solo ciò che gli possa essere utile, cerca i propri interessi; ma il fare tutto per la gloria di Dio – come San Paolo ci raccomanda – celebrare il suo Nome, rendere pubbliche le sue grandezze, le sue perfezioni infinite, tutta questa parte essenziale del culto e della virtù di Religione, è miseramente negletta tra noi o non la comprende più (Mgr. Pichenot, Ps. Du D. p. 116). –  « Con tutto il mio cuore », con tutto l’ardore di cui sono capace, con uno spirito avulso da tutte le preoccupazioni della vita, con un’anima elevata nelle alte regioni che toccano a Dio e staccata dai legami del corpo. Questo non solo con la bocca ed a parole, ma in spirito e cuore (S. Chrys.). – Dio è spirito, ed è in spirito e verità che bisogna adorarlo, lodarlo e pregarlo. A che servirebbe il brusio delle labbra, l’elevazione delle mani, se il cuore resta muto? (S. Agost.). – Nell’anima vi sono più facoltà: lo spirito, la memoria, l’immaginazione, devono essere impiegati al servizio di Colui che ci ha dato tutto; ma è il cuore soprattutto con cui dobbiamo contribuire. L’essenza del culto di Dio, è l’amore e l’assenza della preghiera è soprattutto un atto di volontà, un grido del cuore. – Chi dice “con tutto il cuore”, esclude l’indifferenza, la distrazione, la tiepidezza, e soprattutto le passioni che lo tiranneggiano. (Berthier). – Lodare Dio con tutto il suo cuore, lodarlo in compagnia dei giusti, sia nelle riunioni particolari, ove un piccolo numero di anime pie e ferventi si radunano, si intendono, aprono il loro cuore l’uno all’altro, sia nelle riunioni più numerose e più solenni, come gli esercii pubblici del culto, le feste della parrocchia, le grandi assemblee del popolo cristiano.

II. – 2-9

ff. 2, 3. – Ci sono coloro che rendono grazie a Dio quando sono felici, ma se viene a toccarli il malore, essi lo sopportano appena. Taluni giungono anche a colpevolizzare la Provvidenza negli avvenimento che essa permette. Il Re-Profeta rivela qui il doppio carattere delle opere di Dio in generale: la grandezza dello splendore, l’appropriazione e l’armonia che li distinguono. Egli ci fa qui – ci dice – come un giudice integro, un’assemblea incorruttibile, e si riconoscerà allorché le opere di Dio sono grandi e piene delle più strabilianti meraviglie. La loro grandezza attiene alla loro natura, ma questa grandezza, non appare che agli occhi di un giudice equo. (S. Chrys.). – Grandezza vi è nelle opere della natura, ma grandezza una ancora più ammirevole nelle opere della grazia, della redenzione. – Quanto le opere degli uomini sono piccole e meschine in paragone delle opere di Dio, piccole nell’oggetto che si propongono, piccole nella mobilità che le fa loro intraprendere, piccole nei mezzi che si impiegano, piccole nel fine che vogliono raggiungere, fine questo che ancora sfugge loro il più spesso, malgrado gli sforzi della loro volontà. Le opere di Dio, al contrario, sono grandi e conformi a tutte le sue volontà. Esse sono preparate, disposte con una perfezione che non lascia nulla a desiderare. Esse sono anche conformi alla volontà di Dio, proclamano altamente la sua potenza, e concorrono con un accordo mirabile al compimento degli ordini divini, come il Re-Profeta fa pertanto notare. Esse hanno una missione da compiere possedendo i mezzi e le risorse in sintonia con i disegni del Creatore. Non soltanto tutte le creature eseguono gli ordini di Dio conformemente al fine che si è proposto, creandole, ma obbediscono con una docilità perfetta agli ordini particolari che sono conformi a questo fine. Esse sono disposte in una perfetta sintonia con tutte le sue volontà, con tutti i suoi precetti, con tutti i suoi comandamenti. Ma questo non è il solo fine che si è proposto: Egli vuole essere soprattutto conosciuto dagli uomini; è là la sua volontà primaria e la causa principale della creazione (S. Chrys.). – Fine ultimo di tutte le opere del Creatore è la gloria di Dio e la salvezza delle anime, o meglio ancora – come dice Tertulliano – che così riconduce tutto all’unità: la gloria di Dio per la salvezza delle anime. « Honor Dei salus animarum. » – Che l’uomo faccia tale scelta come gli piacerà tra la giustizia e l’empietà: le opere del Signore sono stabilite in modo tale che la creatura, benché in possesso nel suo libero arbitrio, non possa trionfare della volontà del Creatore, anche quando si tratta di agire contro questa volontà. Dio non vuole che voi pecchiate, perché ve lo proibisce; tuttavia se avete peccato non crediate che l’uomo abbia fatto ciò che ha voluto, e che Dio  abbia sofferto ciò che non ha voluto soffrire; perché anche se Dio vuole che l’uomo non pecchi, Dio ugualmente vuole risparmiarlo quando pecca, affinché ritorni e viva; ugualmente infine Dio vuol punire colui che ha perseverato nel peccato, affinché il colpevole non possa sottrarsi alla potenza della sua giustizia. Così, qualunque cosa facciate, l’Onnipotente non mancherà di mezzi per compiere in voi la sua volontà, perché « le opere di Dio sono grandi e proporzionate a tutte le sue volontà. » – « Le sue opere manifestano le sue lodi e la sua gloria. » In effetti, ciascuna delle opere che vediamo sono sufficienti per eccitare nella nostra anima dei sentimenti di riconoscenza, ed il desiderio di lodare, benedire, glorificare Dio. Noi non abbiamo da dire: Perché questo? Per qual bene questo? Le tenebre come la luce, la fame come l’abbondanza, il deserto, i paesi disabitati come le terre fertili e coperte da ricche messi, la vita come la morte, in una parola, tutto ciò che vediamo, tutto ci porta a rendere a Dio delle azioni di grazie (S. Chrys.). – « La confessione e la magnificenza sono l’opera di Dio. » Cosa di più magnifico che giustificare l’empio? Ma forse l’opera dell’uomo oltrepassa la magnificenza dell’opera di Dio, di modo che merita con la confessione dei suoi peccati, di essere giustificato. In effetti, il pubblicano è disceso dal tempio giustificato e non il fariseo, e non osando levare gli occhi al cielo, si batteva il petto dicendo: « O Dio, siate clemente con me che sono un peccatore. »  Ora la magnificenza del Signore è la giustificazione del peccatore; perché colui che si abbassa sarà elevato, e chi si eleva sarà abbassato. (S. Luc. XVIII, 13, 14). La magnificenza del Signore è quella che a chi è stato perdonato di più, di più ama; (ibid. VII, 42-48); la magnificenza del Signore è che se il peccato è stato abbondante, la grazia è stata sovrabbondante (Rom. VI, 20). Ma è là il frutto delle nostre opere? No, dice l’Apostolo, « perché la grazia non viene dalle opere, affinché nessuno si glorifichi; perché noi siamo l’opera di Dio, essendo stati creati nel Cristo per le buone opere. » (Efes. II, 9-10). – In effetti, « … a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia » (Rom. IV, 5), e si comincia dalla fede, affinché le sue buone opere non abbiano preceduto la sua giustificazione, ma avendole seguita, mostrino non ciò che egli ha meritato, ma ciò che ha ricevuto. Perché dunque questa confessione? In verità essa non è ancora un’opera di giustizia; tuttavia essa è una disapprovazione del peccato; ma qualunque cosa sia, o uomo, non vi glorificate, « affinché chiunque sii glorificherà, si glorifichi nel Signore. » (1 Cor., I, 33).  Non è dunque solamente la magnificenza con la quale è giustificato l’empio, ma la confessione e la magnificenza che sono l’opera di Dio (S. Agost.) [Sant’Agostino dà evidentemente alla parola “confessione” un senso diverso da quello che gli danno la maggior parte degli interpreti, ma la dottrina che egli appoggia sul senso che ha scelto non è meno piena di solidità e verità]. – La Provvidenza di Dio è sì attenta, sì paterna e sì dolce, che per noi è almeno un motivo di riconoscenza, un soggetto di benedizione come la stessa lode, ed un inno sostanziale e pieno di gratitudine ed amore. –  Non soltanto Dio manifesta la sua bontà e provoca le nostre lodi alla condotta della sua Provvidenza quaggiù, ma vi fa splendere la sua gloria e brillare la sua grandezza e maestà. Noi vediamo d’altra parte, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, nella condotta di Dio verso tutte le creature, nella sua condotta sulla sua Chiesa attraverso i secoli, nel mistero incessantemente rinnovato della grazia e della giustificazione, un’abbondanza, una ricchezza, una pienezza, una magnificenza mirabile. – Un terzo ed ultimo carattere quaggiù, è la giustizia e l’equità dalla quale non si disgiunge mai, malgrado il disordine apparente delle cose umane. La giustizia di Dio avrà il suo corso. Dio è paziente, perché è eterno; prima o tardi Egli renderà a ciascuno secondo le sue pere.

ff. 4, 5. –  « Il Signore ha perpetuato il ricordo delle sue meraviglie », vale a dire Egli non ha mai cessato di fare dei miracoli, non ha mai interrotto di generazione in generazione il corso dei suoi prodigi per risvegliare con questo spettacolo straordinario gli spiriti più grossolani. Uno spirito elevato ed applicato allo studio della saggezza, non ha bisogno di miracoli; ma Dio, la cui Provvidenza si estende non solo su questi ultimi, ma anche su coloro il cui spirito è meno aperto, non ha cessato di operare dei prodigi in ogni generazione (S. Chrys.). – Orbene, in un altro senso che non esclude il primo, Dio ha voluto immortalare, eternizzare il ricordo delle sue antiche meraviglie, con un toccante memoriale nel quale ha come riprodotto e oltrepassato tutti gli effetti della sua saggezza, della sua potenza e del suo amore. Per i Giudei questo fu la manna che per quaranta anni cadde dal cielo, e che lungo tempo dopo, eccitava ancora il trasporto e la riconoscenza del Re-Profeta … Per i Cristiani, è la Santa Eucarestia, della quale la manna era una figura, vero e toccante memoriale dell’amore infinito del Salvatore nel mistero della Redenzione: « fate questo in memoria di me » … Tutti coloro che come i protestanti, perdono il memoriale, perdono la memoria: essi mettono in oblio le verità sante, essi cessano di pensarvi, cessano ben presto di credervi; dalla fede cadono nel razionalismo, dal razionalismo nello scetticismo. – La Santa Eucarestia, è ancora memoriale, perché essa richiama e sorpassa da sola tutte le più grandi meraviglie che Dio abbia mai operato … essa è il memoriale e la continuazione della vita stessa e di tutti i misteri del Salvatore. – «Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza. Non c’è in effetti che l’immensa carità di Dio che abbia potuto impegnarsi a fare per noi sì grandi meraviglie, ed a rendere così la sua immolazione eterna (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – Cosa si è proposto soprattutto in questo? « Dare il nutrimento a coloro che lo temono. » Perché parlare qui di coloro che lo temono? Essi sono dunque i soli che Egli nutre? Non è detto nel Vangelo: « Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi? » (S. Matth. V, 45). Perché dunque dire qui: « a coloro che lo temono? » Il Re-Profeta parla qui, non del nutrimento del corpo, ma di quello dell’anima. Ecco perché Egli lo ha ristretto a coloro che temono Dio, perché è ad essi che è destinato (S. Chrys.). – Questi solo che temono Dio e lo servono con fedeltà, meritano di ricevere questo nutrimento. La condizione essenziale per partecipare a questa alimento celeste, è temere il Signore, perché il timore del Signore fa che si porti alla tavola di Gesù-Cristo una coscienza pura; perché questo timore stabilisce nell’anima il desiderio della povertà, delle sofferenze e delle umiliazioni; di conseguenza, essa ci mette nello stato in cui Gesù fu sulla terra (Berthier). – « Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza; Egli ha eternizzato la memoria delle sue meraviglie, ha dato il nutrimento a coloro che lo temono. » È nell’Eucarestia soprattutto che il Signore si mostra così pieno di misericordia e di tenerezza al nostro sguardo: – 1° come un uomo compatisce le miserie che ha provato per primo: « Il Pontefice che noi abbiamo, può compatire le nostre debolezze, perché Egli è stato provato come noi da ogni sorta di mali », (Ebr. IV, 15); – 2° Come un Dio verso la sua creatura: « Io sono come un olivo che si copre di frutti nella casa del Signore; io ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità » (Ps. LI, 8); – 3° Come un liberatore verso prigionieri dei quali rompe le catene; – 4° come un ricco verso un povero, al quale Egli dà in questo Sacramento, la rugiada del cielo e l’adipe della terra, grano e vino in abbondanza, (Gen. XXVII, 28); – 5° Come un pastore verso le sue pecore: « Il Buon Pastore ha fatto ciò che ha raccomandato, ha per primo eseguito ciò di cui ha fatto un precetto: Egli ha dato la sua vita per le sue pecore alfine di cambiare nel sacramento dell’Eucarestia il pane nel suo corpo ed il vino nel suo sangue, e nutrire così con l’alimento sostanziale della sua carne, le pecore che aveva riscattato. » (S. Greg. Homl. XIV in Ev.); – 6° come un padre nei riguardi di suo figlio: Colui che era il pane vero ed il latte perfetto del Padre si è dato lui stesso a noi, affinché fossimo nutriti dalla mammella della sua carne, ed essendo abituati da questo allattamento divino a mangiare e bere il Verbo di Dio, noi possiamo riceverlo e conservarlo dentro di noi (S. Iren., 1, IV, c. 74); 7° come l’anima rispetto al corpo: Gesù-Cristo è in questo sacramento l’anima della nostra anima, lo spirito della nostra bocca, (Lament., IV, 20); come il corpo è morto se non è vivificato dallo spirito, così la nostra anima è morta se Gesù-Cristo non conserva in essa la vita per mezzo di questo nutrimento celeste che Egli dà a coloro che lo temono, l’Eucarestia è veramente l’opera delle mani di Gesù-Cristo, che è ugualmente il Sacerdote e la vittima del Sacrificio dell’altare. – « Il Signore si ricorderà eternamente della sua alleanza. » Il salmista vuol combattere le orgogliose pretese dei Giudei e di tutte le anime superbe, e togliere tutti gli oggetti di vanagloria; o piuttosto Egli vuole loro mostrare che i benefici di cui Dio li ha colmati non sono dovuti ai loro propri meriti, ma all’affezione che Dio aveva per i loro padri, ed all’alleanza che aveva stabilito con essi. (S. Chrys.). – Il nostro Dio è un Dio che si ricorda, che sa tutto, al quale nulla sfugge, che ha sempre davanti agli occhi, in un solo e medesimo punto, il passato, il presente e l’avvenire … Egli si ricorda soprattutto della sua alleanza con noi, rispetta per sempre le condizioni del trattato; ciò che ha promesso, lo esegue; quando giudicherà la terra e si degnerà, per così dire, di regolare i suoi conti, l’avrà vinta sui suoi contraddittori, sarà giustificato da essi (Ps. L, 6).

ff. 6, 7. – « Egli annuncerà al suo popolo la potenza delle sue opere. » Il compimento dei disegni di Dio incontra sempre mille ostacoli, la contraddizione è il prezzo delle sue opere. Ciò che era stato promesso al popolo antico, gli era stato disputato da numerosi nemici: è stato necessario che Dio impiegasse incessantemente in suo favore la forza del suo braccio, e non è questa una figura imperfetta dei prodigi operati fin dall’Incarnazione per stabilire il regno di Dio, sostenere l’istituzione nascente della Chiesa, e decidere il mondo a credere dei misteri incomprensibili e abbracciare una morale scoraggiante per la natura … – Tutti i secoli cristiani hanno così fatto risuonare più o meno nel brusio delle meraviglie di Dio e pubblicato la sua gloria e le sue grandezze (Mgr. Pichenot, abrég.). – Perché questo dispiegamento continuo di forza e di potenza? « Per dare l’eredità delle nazioni al suo popolo, e qui, come dappertutto, la giustizia e la verità brillano nell’opera delle sue mani. Per il popolo giudeo, questa era il possesso della terra promessa che i figli di Cam consideravano loro proprietà e loro eredità; per i Cristiani, nel senso profetico, è la conversione di tutti i popoli al Cristianesimo, e l’intenzione nella quale era il Signore, di dare a Gesù-Cristo ed alla sua Chiesa, l’eredità delle nazioni. « Domandate, dice Dio a suo Figlio che ha generato, ed Io vi darò le nazioni per eredità e la terra per impero. » (Ps. II, 8). – Come gli ebrei trionfarono dei cananei e piantarono la loro tenda su questa terra conquistata, così i ministri della nuova alleanza estenderanno dappertutto l’impero della verità e della giustizia, perché tutte le nazioni sono state promesse in eredità. – Ora, perché Dio cacciò le Nazioni dalla terra che esse abitavano, alfine di darle ai Giudei? Egli lo fece per delle giuste ragioni. « Le opere delle sue mani sono verità e giustizia. » Queste parole non devono restringersi al popolo giudeo ed agli avvenimenti che gli sono propri, ma esse hanno un significato generale. – (S. Chrys.). – « La verità ed il giudizio sono le opere delle sue mani. » Conservino energicamente la verità coloro che sono giudicati quaggiù. I martiri sono giudicati quaggiù, essi sono condotti da Dio al tribunale, ove giudicheranno non solo coloro che li avranno giudicati, ma anche gli Angeli (1 Cor., VI, 3). Non si lascino separare dal Cristo né dalla tribolazione, né dalle angosce, né dalla fame, né dalla nudità, né dalla spada, (Rom. VIII, 35); « … perché tutti i suoi precetti sono fedeli. » Egli non inganna mai; Egli dà sempre ciò che ha promesso. Tuttavia non è quaggiù che dobbiamo attendere o sperare ciò che ha promesso; perché « … i suoi precetti sono stati confermati per i secoli dei secoli, stabiliti come sono sulla verità e la giustizia. » Ora è per la verità e la giustizia che noi soffriamo quaggiù, e ci riposeremo nel cielo. In effetti, « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, e da cosa il suo popolo è riscattato se non dalla cattività del suo viaggio quaggiù? Non c’è dunque riposo da cercare se non nella patria celeste (S. Agost.). – Perché, ad esempio, sotto la nuova legge, nel mondo della redenzione, una contrada è chiamata prima di un’altra? Perché questo popolo passa avanti a quest’altro? Quale cammino segue la fiaccola della fede, e come Dio trasporta il candelabro della rivelazione? È il segreto di Dio; a noi è sufficiente sapere che in Dio non c’è ingiustizia, né preferenza di persone; Egli fa bene tutte le cose, Egli ha le sue ragioni per agire così; esse sono sempre degne della sua saggezza e della sua misericordia. « Tutte le sue opere, qualsiasi esse siano, sono verità e giudizio, cioè giustizia. » (S. Chrys.; Mgr. Pichenot).

ff. 8, 9. – Il Re-Profeta, secondo il suo costume, passa dalla saggezza e dall’ordine che brilla nel dettaglio sì variato della creazione, alle leggi stesse della Provvidenza che comincia ad esporre. Ciò non è solo per lo spettacolo delle opere di questa creazione sì ricca e varia, ma è dando delle leggi agli uomini, che ha loro tracciato una sicura regola di condotta; è così che nel salmo XVIII, egli riunisce queste due cose, che sembrano pertanto non aver tra loro alcun rapporto. (S. Chrys.). – Tre sono i grandi caratteri delle leggi di Dio: esse sono fedeli, cioè non ingannano nessuno; sono stabili e permanenti, perché devono durare per sempre; sono fondate sulla verità e la giustizia, perché hanno per autore Dio stesso, che è la verità e l’equità essenziale. (Berthier). – Il Re-Profeta, comprende qui tutte le leggi di Dio, le leggi della creazione, che reggono gli esseri inanimati ed ai quali questi esseri inferiori si sforzano di obbedire; ma soprattutto, ed è di queste leggi che parla il profeta, le leggi fatte per l’uomo, la legge naturale, la legge scritta sulle due tavole, e la legge del Vangelo. – Ora: 1° Queste leggi sono fedeli, non ingannano mai; tutto ciò che esse promettono viene eseguito, la loro sanzione è inevitabile; le ricompense offerte a coloro che le osservano sono assicurate, così come i castighi di cui minacciano i colpevoli. – 2° Queste leggi sono stabili e affermate per sempre. La legge naturale non cambia, i suoi principi sono fissi ed invariabili, fondati sulla costituzione dell’uomo e sulla natura stessa delle cose. I precetti del decalogo non sono mai più abrogati. Cosa bisogna fare per ereditare la vita eterna … si domanda a nostro Signore? « Se volete giungere alla vita, osservate i Comandamenti. » E quali? Quelli che il decalogo enumera. Il Vangelo è vero oggi come lo era ai tempi degli Apostoli. Invano si tenta, dopo milleottocento anni di alterarli, di sminuirli, di mandarli in frantumi; gli eretici, i filosofi ed i cattivi Cristiani vi hanno perso il loro tempo; essi non hanno potuto cancellare il più piccolo iota, questi sussistono nella loro interezza, immutabili e fondati per tutti i secoli; i tempi ed i luoghi non vi mutano nulla, e mentre vediamo i trattati pretesi immutabili, le costituzioni più sapientemente elaborate cadere e sparire al soffio delle rivoluzioni e dei tempi, il Vangelo resta; il suo regno non avrà mai fine, perché Gesù-Cristo: “era ieri, oggi e sarà nei secoli”. – 3° Queste leggi sono fondate “sulla verità”, su ciò che è, sulla conoscenza esatta e precisa di Dio e dell’uomo, sui rapporti necessari che esistono tra di essi; « sulla giustizia », cioè su ciò che deve essere; perché gli obblighi che Dio ci impone scaturiscono dall’essenza e dalla natura stessa delle cose; non c’è nulla di arbitrario, nulla di inutile … Così qui possiamo notare, con gli interpreti, tutto ciò che entra nella definizione di una legge verace: la volontà formale di colui che stabilisce  le leggi, ed ha diritto di stabilirle, « omnia mandata ejus »; la sanzione che è conferma, “fidelia”; la stabilità che le distingue, « confirmata in sæculum sæculi »; la verità e la giustizia che servono loro come base, « facta in veritate ed æquitate. » (Mgr. Pichenot). –Tre sono le grandi opere di Dio per rapportarci a noi: l’opera della creazione, l’opera della redenzione e l’opera della santificazione. Il Profeta già celebra nel salmo il Dio Creatore, le cui opere sono così grandi e sì ben proporzionate alle sue vedute, di cui la Provvidenza è sì paterna e giusta, di cui le leggi infine riposano tutte sulla ragione e sull’equità; qui, egli canta il Dio Redentore. –  Il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » Nel senso storico, il Re-Profeta vuol parlare della libertà resa ai Giudei; nel senso figurato e profetico, si tratta della liberazione del mondo intero, come vediamo nelle parole seguenti: « Egli ha concluso con lui una alleanza eterna. » Ed è qui questione della Nuova Alleanza: il Profeta ha parlato dell’antica legge e dei suoi precetti, ma siccome essa non è stata osservata e non ha fatto che provocare la collera di Dio, egli aggiunge: « … il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » (S. Chrys.). Bontà infinita di Dio è l’aver inviato agli uomini un Salvatore, un Redentore, per metterli in condizioni di compiere i suoi precetti con l’infusione del suo Spirito e della sua grazia. « Il Figlio dell’uomo è venuto a dare la sua vita per la redenzione di un gran numero. » (Matth. XX, 28). « Ciò che era impossibile che la legge facesse, indebolendosi la carne, Dio lo ha fatto, quado ha inviato il suo Figlio, rivestito da una carne simile a quella del peccato, ed a motivo del peccato, Egli ha condannato il peccato nella carne, affinché la giustizia e la legge fosse compiuta in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. » (Rom. VIII, 3, 4). – E non è solo la redenzione che Egli ci invia, Egli impone una legge a coloro che ha riscattato, affinché la nostra vita sia degna di una sì grande grazia. « Egli ha fatto con lui una alleanza eterna. » (S. Chrys.). – « Il suo Nome è santo e terribile. » Il suo Nome è santo per i santi e per i giusti, è terribile per i peccatori e per i malvagi. (S. Girol.). – Fuggite innanzitutto dai castighi, evitate l’inferno; prima di desiderare le promesse di Dio, sfuggite alle sue minacce; « perché il suo Nome è santo e terribile. » (S. Agost.). Il santo Nome di Dio, è Dio stesso. – Siccome Egli è per sua natura spirituale ed invisibile, non può cadere sotto i nostri sensi, noi siamo ridotti a pronunziare il suo Nome quando vogliamo parlare di Lui, ed il Nome diventa così per la forza stessa delle cose, come è nel genio della lingua ebraica, il simbolo e la personificazione dell’Onnipotente … Dio è santo, Egli detesta il peccato, ha in abominio l’iniquità; il male gli dispiace sovranamente, lo condanna, lo respinge con perseverante energia … questa santità ci obbliga – noi suoi figli, suoi servi – : « siate santi, perché Io sono santo; siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste. » … Ma se siamo così ingrati, temerari nell’infrangere la sua legge, subito qualcosa di nuovo avviene in Lui. La sua potenza affrontata, la sua grandezza oltraggiata, la sua bontà disprezzata, la sua giustizia provocata, tutti i suoi attributi violati fremono, e da Santo che era, diventa minaccioso e terribile. (Mgr. Pichenot). 

III — 10.

ff. 10. – « Il timore del Signore è l’inizio della sapienza. » L’inizio della sapienza considerata nel suo effetto, è l’inizio delle operazioni della sapienza in noi, ed in questo senso il Profeta dice: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Bisogna tuttavia distinguere qui il timore servile dal timore filiale: il timore servile è come un principio estrinseco, che predispone alla saggezza nel senso che allontana dal peccato per la paura del castigo, secondo queste parole dello Spirito-Santo: « Il timore del Signore caccia il peccato; » (Eccli. I); ma il timore casto o filiale è l’inizio della sSpienza come il primo effetto diretto della Sapienza. In effetti, poiché appartiene alla Sapienza dirigere, regolare la vita umana secondo le ragioni divine, è necessario che l’uomo cominci col temere e riverire Dio, e sottomettersi a Lui. È così che come per conseguenza naturale, tutte le sue azioni saranno dirette secondo le regole che Dio stesso ha stabilito. (S. Thom. II; IIæ. q. XIX, art. 7). – Il Profeta-Re, che ha celebrato nel versetto precedente le due alleanze e le due redenzioni, sembra rimarcare in questo, i loro meravigliosi effetti sul cuore, e le disposizioni necessarie per mantenervisi e ben profittarne: il timore che è l’inizio della Sapienza; la Sapienza che è l’effetto ed il coronamento del timore; il timore, che è il carattere proprio della legge antica; la Sapienza che è, con la carità, la gloria della Nuova Alleanza e del santo Vangelo; il timore, che è il primo, il meno perfetto dei doni dello Spirito-Santo e che ci allontana dal male; la Sapienza, che ne è il più eccellente, l’ultimo e che ci porta al bene; il timore e la Sapienza, con i due grandi attributi che li fanno nascere. (Mgr. Pichenot, Ps. de la D.). – Questo timore è buono per il peccatore poiché lo ritrae dal male, dall’abisso dei vizi e delle passioni; quel timore è buono anche per i giusti stessi che, in certi momenti di stanchezza, non hanno più risorse se non nelle terribili minacce, nei pensieri travolgenti degli ultimi fini, nel ricordo della morte che giunge, nelle apprensioni del tribunale che sta per ergersi, negli orrori dell’inferno. In certe occasioni delicate, non c’è che il terrore che possa raffreddare il cuore e fermare la mano; è talvolta l’ultimo freno dello stesso giusto ed è ancora come una schiuma bianca (Ibid.). – Senza dubbio la carità val più del timore; ma il timore precede ordinariamente l’amore e gli serve da furiere, come dice ingegnosamente San Francesco de Sales; è un Giovanni Battista che precede il Salvatore, è l’ago appuntito che buca il tessuto per entrarvi e lasciar passare dopo di esso il filo d’oro o di seta che deve abbellirlo. – « L’intelligenza è buona in coloro che la praticano. L’intelligenza è buone, chi può negarlo? Ma comprendere e non fare, è cosa pericolosa. Di conseguenza, l’intelligenza è vantaggiosa per coloro che agiscono. (S. Agost.). – In effetti la fede non è sufficiente se la nostra vita non è conforme ai suoi divini insegnamenti. Ma come il timor del Signore è l’inizio della Sapienza? Perché esso ci libera da tutti i vizi per insegnarci la pratica di tutte le virtù. Ora la Sapienza di cui parla qui il Profeta, non è quella che consiste nelle parole, ma la Sapienza che si manifesta con le azioni. – Il Re-Profeta non vuole che ci si contenti di ascoltare, bisogna andare fino alla pratica: « Una intelligenza salutare rischiara coloro che la praticano; » cioè coloro che praticano la Sapienza e che la manifestano nella loro condotta, fanno mostra di una vera intelligenza. « Essi possiedono una buona intelligenza; » perché in oggetto c’è una intelligenza cattiva, quella di cui ci parla il Profeta: « essi sono abili e saggi nel fare il male e non sanno fare il bene. » (Ger. IV, 22). – Ciò che il Re-Profeta chiede, è una intelligenza che si metta al servizio della virtù (S. Chrys.). – Sapere tanto per sapere, è mera curiosità; sapere per essere risaputo, è vanità; sapere per vendere la propria scienza, è un vile traffico; ma sapere per edificare gli altri, è prudenza, è chiarezza (S. Bern.). – Aggiungiamo ancora che colui che è intelligente per la buona sorte, cioè – come dice il Re-Profeta – è intelligente e cerca Dio, non solo fa prova di riflessione e di saggezza, ma nel compimento dei propri doveri trova in più una sorgente feconda di attività e di luce. « Una salutare intelligenza rischiara coloro che la praticano. » – E questa pratica non deve gonfiare d’orgoglio, perché è la lode del Signore, « di cui il timore è l’inizio e la Sapienza sussiste per i secoli dei secoli », e questa lode che noi riceveremo da Dio, sarà la nostra ricompensa; colà è il fine ultimo, là è la dimora, là il trono eterno, là si verifica la fedeltà ai precetti del Signore, confermati per i secoli dei secoli, colà si trova l’eredità della nuova alleanza, di cui Dio fa un precetto per l’eternità. (S. Agost.).

PREDICHE QUARESIMALI – (II 2020)

-XIII-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA SECONDA DOMENICA.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Die ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo, etc. Nescitis quid petatis.”

Matth. XX, 21 et 22.

1. Se fa mai veruno, che con arti onestissime cercasse di vantaggiare la sua famiglia, o povera o popolare, fu senza dubbio questa donna evangelica, fortunata madre di Giacomo e di Giovanni. Bramò ben ella di sollevare i suoi cari figli dalla barca al trono, e dalla pescagione al comando; eda tal fine procurò diligentemente che fossero collocati, come principali assessori, l’uno alla destra, e l’altro alla sinistra di Gesù, ch’ella credeva dover tra poco aprir una reggia terrena nella Giudea. Ma nol procurò come avviene comunemente, con arti inique. Non pres’ella per questo a perseguitare veruno di quegli Apostoli, che potevano essere i concorrenti da lei maggiormente temuti; non tessè frodi, non tramò furberie, non si valse di adulazioni, non tenne mano ad usure o aperte o palliate, per comperarsi con frequenti regali la grazia del nuovo principe. Ma che? Dopo aver già qualch’anno tenuti i due suoi figliuoli alla servitù stentata di Cristo: dopo averli notte e giorno mandati dietro a lui, scalzi ne’ piedi, e laceri nelle vesti; dopo avergli esposti per tal cagione assai spesso alle beffe del popolo, all’odio degli Scribi, agl’insulti de’ Farisei: dopo essersi ella medesima ancora data a seguirlo dovunque andasse, senza riguardo della casa rimasta sola, del marito lasciato vedovo, delle faccende trascurate, neglette, dimenticate; dopo tanti meriti, dico, verso di Cristo non altro fece che comparirgli dinanzi, che gittarsegli a’ piedi, e che presentargli una supplica ossequiosa, senza veruna né doppiezza di formule, né perversità di rigiri. Dic ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo. Contuttociò tanto fu da lungi che Cristo desse alcun segno di approvazione o di applauso a quella ambiziosa domanda, che la rigettò piuttosto da sé con gravissima indignazione, la tacciò d’insensata, la riprese di temeraria, e con un nescitis quid petatis colmò di pubblica confusione la faccia de’ supplicanti. – Or dove sono coloro, i quali per ansia d’ingrandir la famiglia, o di straricchirla, si valgono non solo di mezzi onesti, e di sollecitudini non viziose, ma di menzogne inoltre e di trufferie, di oppressioni, di crudeltà, di calunnie, d’iniquità? Dove sono quei che a tal fine ardiscono profferire su’ tribunali sentenze ingiuste? Dove quei che stravolgono i testamenti o le cedole da’ lor sensi? Dove quei che defraudano i mercenarj o le chiese del loro dovere? Dove tutti coloro che attendono solamente ad aggravar gli orfani, a soverchiare le vedove, ad aggirare i pupilli, ed a succhiarsi fino all’ultima stilla il sangue de’ poveretti? – Vengano pure questa mattina costoro ad udirmi tutti, perch’io voglio che scorgano ad evidenza quanto malamente consiglinsi in tant’affare. Come? non condona Cristo a una madre per altro sì meritevole e sì modesta quell’affetto soverchio che la conduce a porgere a lui preghiere per esaltazione della famiglia, e lo condonerà a chi procuri esaltarla a dispetto suo? Oh fatiche male spese! oh vigilie mal impiegate! Su le usure dunque, su le rapacità, su le ruberie, su le rovine dei miseri volete voi stabilire la casa vostra, tanto sviscerato è l’amor che a lei portate? Attendete, e vedrete che questo amore, se pur amore ha da dirsi, è un amor crudele.

II. Ma prima, come esser può che voi da voi medesimi non veggiate quanto poco quest’arti debbano riuscire giovevoli al vostro fine? Certa cosa è che gli eredi vostri, se vorranno operare cristianamente, non potran ritenere punto di ciò che voi loro abbiate lasciato di mal acquisto, e per conseguente indarno voi durate al presente tante fatiche per arricchirli: converrà che, voi morti, calin di nuovo al loro pristino stato, che dismettan que’ lussi, che scemino quei servitori, che spopolino quelle stalle, e, in una parola, che vomitino (per usar la forma di Giobbe), che vomitino quante ricchezze hanno divorate: Divitias, quas devoraverint evoment (Job. XX, 15) pur essi non s’indurranno a ciò fare di buona voglia, che accaderà? Iddio medesimo le verrà loro di propria mano a strappare fin dalle viscere: de ventre ipsorum extrahet eas Deus. Che voglio significarci s’essi vorranno ritener punto di ciò che non si dovrebbe, eccovi Dio divenir nemico giurato di casa vostra; e però ditemi: sembra voi di lasciarla sicura assai con una inimicizia così potente? Mi ricordo aver fatto di Giulio Agrìcola, gran senatore romano, ch’essendo negli ultimi anni della sua vita caduto in odio all’imperador Domiziano, fu da esso però spogliato e di molte splendidissime rendite e di una segnalatissima dignità; anzi, come alcuni anche scrivono, avvelenato. Tollerò egli con prudente dissimulazione tanti disastri; e più della sua famiglia sollecito, che di sé, appigliossi morendo a questo stravagante partito. Fe’ testamento, e quivi in primo luogo chiamò per erede suo principale l’Imperadore, favellando sempre di lui con quelle maggiori espressioni di gratitudine, che avrebbe potuto usare non un Proconsole assassinato, ma un servo creato Console. Restarono stupefatti i meno intendenti a così inaspettata risoluzione, e giudicavan quella di Agricola sconsigliata semplicità di chi aveva prima potuto finir di vivere, che finir di adulare. Ma non così riputavano i più sagaci, i quali molto bene intendevano tornar meglio ad una onorata famiglia aver l’eredità svantaggiosa, e ‘l principe amico, che vantaggiosa l’eredità, ma nemico il principe. E conforme a questo, il successo poi dichiarò aver Agricola adoperato anche in ciò con quell’alto senno che sempre aveva dimostrato. E a dir il vero, ditemi un poco: voi stessi, se vi trovaste in eguali necessità non amereste assai meglio di lasciar la vostra casa men facoltosa, ma col principe favorevole, che di lasciarla più florida, ma col principe disgustato? Anzi ogni inimicizia potente che le lasciaste, ancorché fosse di un cavaliere privato, darebbevi gran pensiero: e se poteste comporla a qualunque costo, prima di partir voi dal mondo, non credo io già che perdonereste a danaro. Or s’è così, come dunque temer sì poco di lasciare ai posteri vostri un Dio per nemico? Vi par dunque egli sì debole, che non pigliar sue giuste vendette; o sì milenso ch’egli non sia per pigliarle? Anzi sentite ciò ch’Egli disse a Malachia di costoro che a suo dispetto, voleano pur far alte le case loro là nella superba Idumea: lasciali, lasciali fare, che al fine si vedrà chi miglior braccio, o essi nell’alzare, o io nell’abbattere; isti ædificabunt, et ego destruam (Mal. I, 4). E che sia così.

III. Andate un poco, ed informatevi, nelle divine Scritture di tutte quelle famiglie, le quali con le ree sostanze paterne ereditarono l’inimicizia divina; e poi tornatemi a riferire, se a veruna di loro giovi mai punto splendor di nascita, appoggio di parentele, ampiezza di possessioni, copia di rendite o grandezza anche somma di principato: anzi vedrete che questo appunto è quel caso, nel quale Iddio si è condotto a far cose insolite. Già voi sapete esser di legge ordinaria, che i figliuoli innocenti nulla patiscono per la malizia de’ padri filius non portabit iniquitatem Patris (Ezech. XVIII. 20). Nondimeno Dio, come signore assoluto, ha derogato talora a questa sua le e per lo peccato de’ padri non solamente egli ha puniti i figliuoli, ma i nipoti, ma i bisnipoti, anche sino alla quarta generazione, dacché la quarta comunemente era l’ultima, della quale un padre, già divenuto decrepito, potess’essere spettatore. Or se considerate per qual misfatto de’ padri usasse Iddio di esercitar ne’ figliuoli sì straordinarie vendette, vedrete che fu per questo reo desiderio di volerli arricchir con iniqui acquisti. – Con iniqui acquisti li volle arricchir quell’Acan, il quale contra la proibizione divina rubò in Jerico certa somma di oro ch’egli occultamente trovò; e però non solo fu dato egli alle fiamme, ma vi fu tutta anche data la sua famiglia (Jos. VII). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Giezi, il quale per via di astute menzogne tolse a Naaman una parte de’ donativi ricusati dal profeta Eliseo; e però non solo fu percosso egli di lebbra, ma ne furon percossi i suoi discendenti (IV Reg. 5). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Saule, il quale contro il divieto di Samuele si riserbò avaramente le spoglio degli Amaleciti sconfitti; e però non solo fu privato del suo regno, ma ne fu tutta privata la sua prosapia. (1 Reg. 15). Con iniqui acquisti li fece arricchir quell’Acabbo, il quale con Aperta ingiustizia tolse a Nabot una vigna che non poté appropriarsi a partiti giusti; e però non solo ei perì di morte violenta, mane perì tutta altresì la sua casa (III Reg. 21). Eppure Acabbo (udite cosa incredibile!), eppure Acabbo lasciò, morendo, la sua casa fondata sopra settantadue suoi figliuoli, e figliuoli maschi, onde pareva che essendo ella per altro provveduta di grossissime rendite, e dilatata in amplissime parentele, durar dovesse per via di generazioni gl’intieri secoli. E in manco di quindici anni tutta perì, tutta, tutta, senza che neppur un’anima sola ne rimanesse o de’ parenti prossimi o de’ rimoti: et percussisunt omnes de domo Achab, donec non remanerent ex eo reliquia (IV. Reg. 10. 11 ) . – Sicché vedete, che per questo delitto di malvagi accumulamenti non solamente ne patiscono i padri, i quali li fanno, ma con essi ancora i figliuoli, per cui son fatti, con essi i nipoti, con essi i pronipoti; essendo convenientissimo che in quello appunto l’uomo porti le pene, per cui commette le colpe. Come dunque, per ingrandire la casa vostra, voi vi inducete ad operare quelle arti, le quali appunto sono le più acconce a distruggerla? Vi par ch’ella possa promettersi una lunga stabilità con avere per suo nemico quel Dio medesimo, che in sì piccolo tempo seppe annientare famiglie sì popolate, anzi sì sublimi, sì splendide, sì potenti? Se non vi pare di aver giusta cagione di dubitare, fate pur voi; ma s’è manifesto il pericolo, che sciocchezza, per lasciare i posteri vostri un poco più agiati, lasciarli sì mal sicuri?

IV. Se voi vi abbiate a fabbricare, uditori, qualche edificio, non credo io già che vi porrete a fabbricarlo nel cuore di un crudo verno, ma aspetterete la primavera, ma aspetterete la state; e qualunque altra stagione voi sceglierete più volentieri di quella ch’è la più aspra. E per qual cagione? Perché gli edifici fabbricati di verno non sono durevoli; i ghiacci istupidiscono la calcina, le piogge ammollan la sabbia, e così i sassi non possono tra loro fare alta presa. Ora sapete voi ciò che sia fabbricarsi la casa con l’oro altrui? È fabbricarla di verno. Qui ædifìcat domum suam impendiis aliens (s’oda lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico), qui ædifìcat domum suam impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suus in hyeme(Eccli. XXI. 9); ch’è quanto dire, ad fabricandum in hyeme, come tutti dichiarano gli espositori. Voi fabbricate di verno,Cristiani miei, voi fabbricate di verno: però fermatevi; altrimenti la casa farà poi pelo,crollerà, caderà, precipiterà, e tutte queste saranno state fatiche gittate al vento; Væ qui ædifìcat domum suam in injustitia, et cœnacula sua non injudicio! così gridava Geremìa (XXII. 13). Vœ qui ædifìcat civitatem in sanguinibus, cioè nel sangue de’ poveri, et præparat urbem in iniquitate! così ripiglia Abacuc (II. 12 ). E voi più credete a’ vostri folli disegni, che alle minacce infallibili de’ Profeti? – Oh quante già fastose famiglie si veggono giornalmente andare in rovina per tal cagione, oh quante, oh quante! non si ricordando le misere, che i torrenti, perché si vogliono ingrossare o ingrassare d’acque non sue, sempre son però meno durevoli d’ogni fiumicello innocente, che del suo viva. Quando Zaccheo ravvedutosi disse a Cristo: Si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum; che rispose il Signore? Hodie salus domui huic  facta est (S. Luc. XIX. 8 et 9). Ma piano un poco. Che risposta fu questa? Pareva che dovesse dire huic homini, perché Zaccheo era stato l’operatore de’ furti, I’operator delle fraudi, che allor volea prontamente rifare i danni; e così pareva che tutta sua dovesse essere la salute. Sì; ma il Signore la intese meglio di noi: e però non disse huic homini, no; huic domui, huic domui; perché vedeva chiaro che se Zaccheo non avesse restituito, non sarebbe stato egli solo a portar le pene di que’ sozzi accumulamenti, quantunque fosse stato solo a commetterli.

V. Ma su, sia così, come voi desiderereste. Diamo che a casa vostra nulla debba arrecare di pregiudizio l’inimicizia divina; diamo che co’ malvagi conquistamenti voi la dobbiate eternare; diamo che le dobbiate accrescere credito, aggiungere autorità, acquistare aderenze; vi par però che vi torni conto di farlo? Infelicissimi hominum (lasciatemi sfogare stamane, ma sin dall’intimo, con le parole del gran prelato Salviano), Infelicissimi hominum, cogitatis quam bene alii post vos vivant, non cogitatis quam male ipsi moriamini! (ad Eccl. 1. 3). E chi mai vi ha insegnato di apprezzar tanto la prosperità temporale della vostra prosapia, che non dubitiate di avventurare per essa, la beatitudine eterna della vostra anima? Oh lagrimevolissima cecità! Dunque sì poco voi siete in pregio a voi stessi, che per verun uomo del mondo vi contentiate di andare ad ardere eternamente nel fuoco, a freneticar co’ dannati, a fremere co’ diavoli? – Io sempre aveva finora sentito dire, amare ogni uomo se stesso sopra d’ogn’altro; e sin da fanciullo mi si era impresso nell’animo il detto di quel Comico latinissimo (Terent.), il quale afferma: omnes sibi melius velle, quam alteri. Ma ohimè, che mi conviene al presente disimparare così celebre verità, mentre mi avveggo trovarsi tanti nel mondo, che co’ suoi stenti procacciano ad altri grandezza, a sé perdizione. Et ut alios affluere faciant deliciis temporariis, se tradunt urendos ignibus sempiternis (Salv. ad Ecc. 1.3). E che potrebbe farvi di peggio il più capitale nemico che aveste in terra? Finalmente ogni altro nemico potrebbe perseguitarvi, questo è verissimo: ma fin dove? fino alla bara, fino alla tomba; ma poi non più: omnis siquidem inimicitia morte dissolvitur, comeragionò l’istesso Salviano (1. 2. ad Eccl.).Ma voi non vi soddisfate per così poco;no, dico, no: vos cantra vos ita agitis, ut inimicitias vestras nec post mortem evadatis.Mentre non solo a benefizio de’ vostri eredi menar volete in questo mondo una vita travagliosissima, ora disputando ne’ tribunali, ora imprigionandovi nelle corti, ora consumandovi ne’ viaggi, ed ora annegandovi, per dir così, tra’ negozj sino alla gola; ma, oltre a ciò, fin dopo la vostra morte voi stendete la vostra persecuzione,e dopo aver per altrui perduta la pace e la sanità, non dubitate ancor di perdere l’anima e ‘l Paradiso. E qual mai de’ vostri avversarj, per inumano che fosse, per implacabile, potrebbe giugnere a farti tanto di male? – Ecco avverato quello che disse Abacucco (II. 6): va; ei, qui multiplicat non sua! Oh sciocco, oh sciocco!se sapesse che fa! Usquequo, et aggravat, contra se densum lutum!Avete notato? Non dice contra alios, no: contra se, contra se;perché, per far bene ad altri, con un amore stranamente crudele rovina sé, gravandosi di quel loto così pesante, da cui dovrà finalmente restare oppresso. E voi frattanto vedete un poco, o Cristiani, come Dio chiami di sua bocca quell’oro che da voi tanto s’ama, tanto s’apprezza: lo chiama fango, densum lutum.

VI. Ma forsechè nell’inferno verrebbevi a cagionare qualche conforto il risaper la grandezza e là gloria de’ vostri eredi? Anzi questo medesimo sarìa quello che forse allor maggiormente vi accorerebbe: considerare che quelli tanto trionfino a spese vostre, e che voi tanto peniate per amor loro. Misero, se a veruno di quanti voi siete qui toccasse (che a Dio non piaccia) una sorte sì luttuosa, di perder l’anima per arricchire la casa! Quante volte il dì si morderebbe lo sfortunato le labbra di si solenne pazzìa! quanto maledirebbe quel giorno ch’egli aperse i suoi lumi a mirare il sole! quanto maledirebbe quell’ora ch’egli snodò la sua lingua a formare accenti: Frattanto, a guisa di finti confortatori, gli verrebbon, credo, d’attorno quei neri spiriti, e con amarissimi insulti.- allegramente (direbbongli), allegramente. Noi veniamo ora dal mondo, ed abbiam quivi potuto ad uno ad uno conoscere tutti i tuoi. Tutti stan sani, prosperosi, gagliardi, ed attendon lieti a godersi quel patrimonio, per cui formare sei tu venuto fra noi. Uno di loro serve ora in corte il tal principe; un altro èssi accasato con la tal dama; un altro si ha buscato il benefizio, e tra poco anche aspira alla prelatura. E di che dunque, o sfortunato, ti attristi? Non ti eleggesti tu di morir dannato per farli grandi: Gli hai fatti: sta allegramente. Già quella femmina, cui per lasciar ricca dote non dubitasti di succhiare il sangue de’ poveri e di schernire i sudori de’ giornalieri, già quella femmina ha ritrovato il partito che tu bramavi; già i nipoti ti crescono, già si sperano i pronipoti: e tu ululi, misero, e ti affliggi? Cristiani miei, pare a voi che questi conforti sarebbon punto bastevoli a consolarvi? Anzi cred’io che parole  tali sarebbonvi tante frecce, sagittas potentis acutæ, violentemente scoccatevi in mezzo al cuore, e cum carbonibus desolatoriis (Ps, CXIX, 4). – Né  mirate all’affetto che or voi sentite verso la vostra prosapia, perché questo allora sarebbe tutto degenerato in rancore, in astio, in asprezza, in ferocità. Di Agrippina, madre dell’ imperatore Nerone, si legge, che essendo ella oltremodo desiderosa di veder lo scettro di Roma in mano al figliuolo, adoperava a questo fine ogni industria più che donnesca. Ne l’ammonirono gl’indovini caldei, chiamati da essa su tanto affare, e tutti ad una voce le dissero ch’egli a lei darebbe la morte, ov’ella a lui conseguisse la dignità. Che importa a me? rispose allora la femmina ambiziosa: occidat, dum imperet; muoja Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, oh quanto diversamente si diportò! Non prima cominciò ella a scorgere i preludj della sua morte, benché lontana, nelle crudeltà del suo parto già dominante, che subito cominciossi a pentir di quello che tanto aveva sospirato. Ed ecco (chi ‘l crederebbe?) ch’ella medesima prese a trattar di rimuovere dall’imperio Neron suo figliuolo, e di sostituirvi Britannico suo figliastro, cui si sarebbe più giustamente dovuto per diritto di successione. Anzi a Nerone stesso fe’ riferire, ch’ella sarebbe ita in persona a trovar l’esercito, e che ivi tanto ella avrebbe attizzati gli animi de’ soldati, tanto avrìa perorato, tanto avrìa pianto, finché si risolvesser di eleggersi nuovo principe. Ma poco valsero alla meschina minacce più feroci che sagge; perché da esse vieppiù irritato Nerone, fece morire Britannico di veleno, e indi a poco, sotto sembiante di onore, custodir la madre in palazzo. – Or che pare a voi? S’uno fosse ito a trovar allora Agrippina, mentre ella smaniava dentro a tal carcere, come leonessa in serraglio, o tigre in catena, o, quasi per consolarla, le avesse dotto: serenissima mia signora, e di che vi dolete voi? Non furono vostre quelle sì animose parole: purché Nerone comandi, Agrippina muoja: occidat, dum imperet? E come dunque ve. ne siete ora sì presto dimenticata? Confortatevi: già il vostro figliuolo siede regnante in quel trono che voi con industrie, così sagaci, per non dirsi maligne, gli procuraste; già riscuote i tributi delle provincia straniere, già riceve gli ossequj delle milizie ubbidienti. Anzi con la morte del giovinetto Britannico, che solo potea contendergli il principato, egli è già sicuro. Dunque né vi amareggi la prigionia ch’or patite, né vi atterrisca la morte qualor verrà; perciocché tutte queste sono miserie da voi previste, e nondimeno volute, purché con esse voi conseguiste l’imperio al vostro amato Nerone. Ditemi di grazia, uditori: se uno avesse favellato ad Agrippina in questo tenore, pare a voi ch’ella sarebbesi consolata? Anzi è credibile ch’ella avrebbe prorotto in maggiori smanie, considerando non poter lei contro di altri sfogar la rabbia, che contro di sé medesima. E di fatto, che tali ragioni non bastassero ad acquietarla, è manifestissimo; perch’ella fin di prigione altrettante arti malvagie seguì a tentare per lor l’imperio al figliuolo, quante n’avea prima impiegata per darglielo, a segno tale, che le convenne, qual rea di lesa maestà, comparire in giudizio a giustificarsi. E finalmente, dopo aver schivata in vano la morte altre volte a lei destinata, ben dimostrò su gli estremi della sua vita, quant’ella odiasse chi prima aveva tanto amato; perché veggendo comparire in sua camera un capitano col ferro ignudo, per segarle la gola, o passarle il petto; ella, quasi frenetica di furore, gli offerse il ventre; e: qui qui ferisci (gli disse), ferisci qui; In mortem Centurioni ferrum distringenti protendens uterum: ventrem feri, exclamavit(Tacit. 1. lo. c. 8); non so se per detestazione o se per vendetta di aver lei dato ricetto in esso ad un mostro, o, per usar più portentoso vocabolo, ad un Nerone. – Or mi perdonerete, cred’io, signori miei cari, se con qualche prolissità io ho voluto qui ponderare un successo profano sì, ma forse ancor profittevole. Perocché sembrami di potere da questo argomentare convincentissimamente così: se una madre cotanto ebbra di amore verso il figliuolo, che si offerse a morire per farlo Cesare, quando poi videsi questa morte vicina, cambiò talmente ed opinione ed affetti; che sarà di quei miserabili, i quali nell’inferno si veggano condannati ad un fuoco eterno, per aver fatto i loro, non Cesari (che finalmente sarebbe stata grandezza assai rilevante), ma o di plebei cittadini, o di cittadini nobili, o di nobili consolari? Pare a voi ch’essi non fremeranno di rabbia più che la sfortunata Agrippina? Parlate voi di presente a qualcuno di questi avidi accumulatori di roba, di cui trattiamo, e ditegli: mio signore, avvertite bene: cotesti vostri censi non sono leciti, cotesti vostri cambi non sono leali; e voi giungerete bensì con le oppressioni che giornalmente voi fate de’ poverelli, a comperare al vostro figliuolo il tale cavalierato, la tal commenda, o il tal titolo di rispetto; ma di poi questo probabilmente sarà l’eterna perdizion dell’anima vostra. Che vi rispondono? Si fanno beffe di voi; e se non con le parole, almeno co’ fatti vi dicono: non importa: occidat, dum imperet, occidat dum imperet. Perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa; perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa. Sì? Oh miseri! voi non capite al presente ciò che voglia dir perder l’anima; ma quando verrà quell’ora che il capirete, e che d’ogn’intorno vi scorgerete orribilmente assediati da fiamme, da mannaje, da ruote, da zagaglie, da vipere, da dragoni, oh quanto subito in voi verranno a cambiarsi sì crudi amori!

VII. – Io certamente mi persuado (sentite bene), se che allora da Dio vi fosse permesso di scappar dagli abissi, e di ritornarvene a’ vostri per piccol’ora, voi nel più cupo della notte entrereste con passo tacito in quella casa che fu vostro antico soggiorno; ed ivi rimirando que’ paramenti, que’ mobili, quegli arredi da voi malvagiamente adunati, non potreste più contenere l’interna smania; ma con le fiamme che avreste d’attorno, ne volereste or in questa parte, or in quella per darle il fuoco. Abbrucereste quelle lettiere dorate, que damaschi magnifici, que’ quadri vani, quegli scrigni preziosi, quelle arche piene, quei vestimenti superbi. Indi calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse ad incendiare le carrozze. Passereste a’ giardini, agli orti, alle ville; e scurendo per quei poderi, da voi comperati con oro di mal acquisto, tutte mandereste in un tratto a fuoco ed a fiamme le viti, gli alberi, e le peschiere, e i boschetti, e i grani, e le biade, per isfogare qual forsennati la rabbia delle vostre miserie contro a ciò che fu la materia delle vostre scelleratezze. – Ma tolga Dio da ciascun di voi questo augurio così funesto; e voi piuttosto confessate frattanto con schiettezza, se non a me, almeno a Salviano che vi domanda (lib. 3 ad Ecc.): non farebbe una pazzìa solennissima chiunque di voi per altrui giugnesse a dannarsi? Oh infelix ac miseranda conditio! bonis suis aliis præparare beatitudinem, sibi afflictionem; aliis gaudia, sibi lacrymas; aliis voluptatem brevem, sibi ignem perennem! La vostra salute siavi raccomandata, la vostra felicità, la vostra anima. Com’è possibile tenerla, voi Cristiani, in pregio sì vile, che la vogliate avventurare per un figliuolo, per un fratello, per un nipote, per un cugino, per un cognato, anzi per un erede talor posticcio, ch’altro del vostro non ha, che un cognome equivoco, se non ancora imprestato? Amate i vostri congiunti (questo va bene, ma dopo l’anima vostra; amate la loro prosperità temporale, ma più la vostra beatitudine eterna; amate la lor grandezza terrena, ma più la vostra gloria celeste: in unaparola: amate, non obsistimus, amate filios vestros, sed tamen secundo vobis gradu, Ita illos diligite(belle parole!), ita illos diligite, ne vos ipsos adisse videamini; inconsultus namque ac stultus amor est, alterius memor, sui immemor. Fin qui Salviano.

VIII. Benché non è questo veramente, non è un amare i congiunti, anzi è un odiarli con furor più che barbaro, più che ostile, e appunto diabolico. Perocché sentite: non vedete voi, che lasciando ai posteri vostri qualunque parte di roba mal acquistata, ponete anch’essi in evidente pericolo della loro dannazione? Ogni ricchezza,  avvengachè procacciala con arti lecite, sempre è pericolosa, quand’è abbondante. Quid enim sunt carnales divitia, così lo dice elegantemente Cirillo (Apol. mor. l. 3. c. 3), nisi blandimenta libidinis, fomenta cupiditatis, onera mortis? Confermalo santo Ambrogio (lib. 2. in Job c. 5; et apud Dan. c. 4. da cui son chiamate materia perfidiæ, illecebra delinquendi. Confermalo Pier Bleseuse (in Job) da cui son dette virtutum subversio, seminarium vitiorum. Confermalo San Giovanni Crisostomo (Hom. 6 de avar.), il quale, oh Dio! che mal non disse di loro? Le chiamò micidiali, le chiamò nemiche implacabili: Homicidæ, crudeles, implacabiles, quæque numquam erga eos, a quibus possidentur, remittunt simultatem. Le chiamò venti che muovono ognor tempesta (Hom.17 ad pop.); le chiamò fiere che sbranano ogn’ora i cuori (Hom. 6. de avar.); le chiamò fiamme che incendiano ogni ora il mondo. Hinc inimicitia, diss’egli, hinc pugnæ, hinc contentiones, hinc bella, hinc suspiciones, hinc convitia, hinc furta, hinc cædes, hinc sacrilegio(Hom. 65. ad pop.).Adunque certa cosa è, che, generalmente parlando, quanto più di ricchezze voi lascerete a qualunque siasi de’ vostri, tanto più lor lascerete ancor di pericoli; né miglior senno farete di chi vada a porre ai bambini in mano un coltello ben aguzzo,ben affilato, perd’egli ha il manico tempestato di gioie. – Or se ciò di tutte le ricchezze si viene a verificare, quanto più dunque di quelle, che siccome son prole d’iniquità, cosi, secondo il bel detto dell’Ecclesiaste, sogliono riuscirsi anche madri di perdizione? Divitiæ conservatæ in malum domini sui (Ecc. V. 12). Quanto rimarrebbe allacciata la coscienza del vostro erede, considerando non poter lui possedere con buona fede punto di ciò che voi gli avete acquistato con male industrie!Ch’egli il restituisca, è troppo difficile; se non lo restituisce, egli è già spedito. Adunque chi non conosce la perdizione che voi loro apportate con tali lasciti? E questo è amore, questa è affezione di padre? anzi è rancore, anzi è rabbia di parricida: inimici hominis domestici ejus (Mich. VII. 6). Meglio sarebbe, dice san Giovanni Crisostomo, che voi li lasciaste mendici: perché finalmente da qualsiasi meschinissima povertà potrebbero cavare qualche ben per l’anima loro, come per la sua ne cavò già tanto Lazaro l’ulceroso; ma da ricchezze inique nessuno. Non enim potest ad bonum proficere quod congregatur de malo (Imperf.hom. 38 in cap. XXII S. Matth.). Non possono con queste né arricchir tempi, né provvedere bisognosi, né soccorrere monasteri, né giovare a’ defunti, né placar Dio; e siccome senza colpa non possono ritenerle, così nemmeno possono spenderle senza colpa. Ditemi dunque, se può nel mondo trovarsi uno più miserabile di chi abbondi di tali beni. E questi beni voi, morendo, volete lasciare per patrimonio a’ vostri più cari? Oh amor crudele! oh stravaganza! oh spietatezza!oh barbarie di mente insana! -Racconta santo Antonino, arcivescovo di Firenze, nella sua Somma un caso atrocissimo.Si trovava già presso morte uno di questi empj ricchi, di cui parliamo; che però fu esortato dal sacerdote a restituire quei mali acquisti, de’ quali era reo; ma egli si stava immobile come un sasso: non si rendeva a preghiere, non si riscuoteva a minacce. Vi s’interposer però fin due suoi stessi figliuoli a persuaderglielo. Ai quali egli: non posso, miei figliuoli, non posso restituire; perché, s’io di poi campassi, mi converrebbe tutto dì mendicare di porta in porta la vita a stento; e s’io morissi, dovresti emendicar voi. Risposer questi, che quanto alle lor persone lasciasse pure diaverne sollecitudine, perché essi meglio amavano il padre salvo e sé poveri, che sé ricchi e il padre dannato. Allora il padre con occhio bieco mirandoli: tacete (disse), o figliuoli senza cervello. Non avete ancor imparato quanto più pietoso sia Dio, che non sono gli uomini? S’io son peccatore, posso sperar che Dio mi usi misericordia; ma se voi sarete mendici, come potrete confidare che gli uomini vi abbiano compassione.E persuaso da questo folle discorso, miserabilmente morì. Fece questo discorso grand’impressione nella mente de’ due fratelli, i quali rimanevano ereditieri delle ree sostanze paterne; nondimeno poi consigliatomi meglio seco medesimo uno di loro, volle fare perfetta restituzione della sua parte;ma non già l’altro la volle far della sua.Che avvenne però? Non andò molto, che di loro, il malvagio fini la vita, e l’innocente si consacrò religioso nell’inclita figliolanza di san Francesco. Or mentre il religioso stava una notte in solitaria contemplazione, ecco mira innanzi a’ suoi occhi spalancarsi una gran voragine, e tra nembi di fumo, tra nuvole di caligine, e tra torrenti di fuoco, tra volume di fiamme scorge il suo padre ed il suo fratello nel mezzo di una foltissima turba di condannati. Qual però credete che fosse l’atteggiamento in cui li mirò? Stavano insieme que’ due meschini afferrati come due mastini rabbiosi, ora svellendosi scambievolmente i capelli, or graffiandosi il viso; e con vicendevoli insulti:per te, maledetto figlio, diceva l’uno, io patisco questi tormenti; ed io, diceva l’altro,per te maledetto padre; meglio era pure ch’io generassi un serpente, diceva il padre; ed io che fossi generato da un orso,rispondevagli il figliuolo. Tu, figlio infame, mi strazi: tu mi braci, padre inumano. E con questi orrendi diverbi, vie più fremendo,avventavano i denti l’un con l’altro,quasi che il lor solo conforto fra tante pene non altro fosse che fare a gara tra lor di mangiarsi vivi, come due mostri legati insieme a una catena medesima. – Or ecco,signori miei, quale per relazion di un Santosi celebre sarà l’emolumento che ritrarranno per tutta l’eternità i padri delle inique ricchezze lasciate a’ figliuoli, ed i figliuoli delle inique ricchezze ereditate da’ padri.Sembra a voi però che si debba a così gran costo comperar la breve fortuna d’una famiglia? Se questo è amare sé stesso, che sarà odiarsi? e se questo è beneficare i congiunti,che sarebbe perseguitarli? Stabilisca dunque, che quando ancora i malvagi accumulamenti punto valessero ad ingrandire la casa, l’ingrandirla così non sarebbe spediente né a voi, né a’ vostri. Pensate poi che sarà, mentre, come da prima noi dimostriamo, questa è la maniera più certa da sterminarla. Væ qui congregat avaritiam malam domui suæ, ut sit in excælso njdus ejus! (Habac. II. 9) Ma perché, santo Profeta?; perché, perché, perché? Cogitasti confusionem domui tuæ (Ib. 10). Voi ponderatelo, ed io mi riposerò.

SECONDA PARTE

IX. Presupposto dunque, che per tante ragioni voi non dobbiate volere, ad ontadi Dio, far la famiglia più ricca di quelch’ell’è, che rimane a dire, se non che deponiate ormai dal cuore quella smoderata sollecitudine, con cui, per provvedervi a’ bisogni de’ vostri eredi, voi trascurate con amor crudo il pensiero della vostra anima? Deh cominciate a prezzar un poco una volta ciò che conviensi apprezzare, e  considerate tra voi: voi per ventura già carichi di anni, già cagionevoli della persona, e per conseguente vicini anche alla morte. Non andrà molto che vi converrà comparire avanti al tribunale divino, per rendere ragion dell’anima vostra: già vi aspettano da una parte gli Angeli come testimoni fedeli di quanto avrete operato;già dall’altra i demonj, come accusatori implacabili: e voi state ancora a pensare che mangeranno gli eredi vostri di buono dopo la vostra morte, come potranno abitare con comodità, come vivere con delizia? Ecce expectat te jam egressurum de ista vita officium tribunalis sacri, ritorna a parlare Salviano (1. 3 ad Eccli.), et tu delicias aliorum mente pertractas; quam bene scilicet post te hæres tuus de tuo prandeat, quibus copiis ventrem expleat, quomodo viscera exsaturata distendat? Queste son dunquele cure vostre più gravi, questi i pensieri più assidui, – come se allora nel tribunale divino doveste essere più sicuri, quando aveste lasciati i vostri più ricchi? So che vi gioverà allora gran fatto di poter dire:Signor, salvatemi. E perché? Perché io,conforme i vostri consigli, ho vestiti tanti ignudi? Perché ho dotate tante fanciulle? Perché ho riscattati tanti prigioni? Perché  ho pasciuti tanti famelici? Perché ho procurato di propagare in mille modi la gloria del vostro Nome? No, Signor mio, non per questo; ma perché ho lasciata la mia casa fornita di molte comodità, perché i miei posteri epulantus quotidie splendide; perché luxuriantur in peristomatis, quæ ego feci; perchè fornicantur in sericis, quæ reliquie (lb. IV, ad Eccl.): però salvatemi. Se dir questo vi par che debba giovarvi,pur ad accumular la roba con sì profonda ansietà; ma se vedete, che ciò piuttosto è per nuocervi, deh convertite l’ansietà in miglior uso, ed in cambio di pensar più tanto ad altri, pensate a voi.Revertere potius in tedirò a ciascuno con le belle parole di santo Eucherio, ut tu sis carior tibi, quam tuis (ep. 1 Parænet.). – Che se pur, de’ giovani vostri voi siete ansiosi, abbiate questa fidanza, che Dio piglierassi continuamente diloro una cura più che paterna, se voi sempre avrete all’amor del sangue anteposto l’onor di Dio. Povera Rut! Non capitò ella in Betlemme, giovane vedovella senza alcun bene? Contottociò, perché Dio n’avea patrocinio, trovò ancora in paese, ov’era straniera, un uomo ricchissimo che la tolse per moglie. Povera Ester! non dimorava ella in Susa, orfana fanciulletta senza alcun nome? Con tutto ciò, perché  Dio n’avea protezione, trovò ancora in paese,dov’era schiava, un potentissimo re che l’assunse al trono. Fidatevi dunque, fidatevi,che Dio non mancherà di pensare egualmente a’ vostri. E se voi frattanto Bramante come un prototipo bello, a cui conformarsi, rappresentatevi quel sì famoso Tobia.

X. Aveva egli nella sua canuta vecchiaia un sol figlioletto, speranza della sua stirpe, sostegno della sua debolezza, e quasi luce della sua cecità. E però, quantunque lo amasse con una svisceratissima tenerezza, era nondimeno sì lungi dal volerlo arricchire per vie men giuste, che udendo un giorno belar in casa un capretto comperatogli dalla madre, cominciò il buon vecchio con alte grida terribili a schiamazzare: ohimè, che sento? un capretto in casa! guardate bene, di grazia, guardate bene ch’egli non sia per ventura scappato qui dalla soglia di alcun vicino; e s’egli è, presto, rendetelo a’ suoi padroni, perché non conviene a noi di mangiare, non conviene a noi di toccare ciò ch’è di altrui. Videte ne forte furtivus sit: feddite eum dominis suis, quia non licet nobis aut edere ex furto aliquid, aut contingere (Tob. II. 21). Anzi, non contento di ciò, tutto quello che poteva mai risparmiare dal quotidiano sostentamento della povera famigliola, tutto veniva ripartito da lui caritatevolmente a persone più bisognose, tutto a’ prigioni, tutto a’ pupilli. Potea parere al giovinetto figliuolo una specie di crudeltà, veder che il padre, già grave di anni, si pigliasse sì poca cura di comporgli un patrimonio, se non fiorito, almeno decente, a potersi poi sostentare. Onde il buon vecchio, quasi che di questo volesse giustificarsi presso il figliuolo, lo chiamò un giorno; e, dopo avergli premessi di molti salutevoli documenti, gli significò lo scarsissimo capitale, ed i sottilissimi censi, che possedevano. Indi con le lagrime agli occhi: non dubitare (soggiunse), figliuol mio caro; bene io veggo quanto sia poco ciò che ti lascio: angustissima abbiamo l’abitazione, meschino il vivere, dispregiato il vestire; ma sappi, figlio, che molto avremo di bene, se non mancheremo d’un timor santo di Dio, e d’un’osservanza esattissima della legge: Noli timere, fili mi: pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, si timuerimus Deum(Tob. IV. 23). Così disse il vecchio Tobia. E non credete che, com’egli promise, così seguisse? Non andò molto, che il giovinetto figliuolo incontrò partito sceltissimo di accasarsi, buona dote, onorevole parentela, grossissima eredità. – Ora da questo vorrei che ancor voi pigliaste salutevole esempio, e che con qualche congiuntura opportuna ragionando da solo a’ giovani vostri: miei figli (diceste loro), voi ben vedete quale condizione sia quella di casa nostra. Anch’io potrei, se volessi, procurar di arricchirvi con quelle malvagie industrie, che oggidì sono in uso presso di molti ancora in questa città: potrei tenere anch’io di mano a cambi malsinceri, a censi malsicuri, a fraudi, a doppiezze, a falsificamenti, a litigi, ed a mille altre fallacie nel negoziare. Ma tolga Dio da me tali vizj: io non farei né a prò vostro, né ad util mio. Figliuoli cari, temete Dio, e non dubitate di nulla, perché vivrete sotto buon protettore. Non invidiate a’ cittadini vostri pari, quando vedrete che con biasimevoli acquisti alzino a fronte di casa vostra palazzi assai maggiori di quelli, ne’ quali nacquero, o piantino vicinoa’ vostri poderi ville maggiori doppiamente di quelle che ereditarono; non gl’invidiate di ciò: nolite attendere ad possessiones iniqua (Eccli, V.1), Come il Savio medesimo vi consiglia; ma piuttosto tenete sempre a memoria, che meglio è un piccolo patrimonio ad un giusto, che un grande ad un peccatore: melius est modicum justo super divitias peccatorum multas(Ps. XXXVI. 16). Lasciate pur ch’essi sfoggino per un poco, lasciate che vi soverchino: a Dio toccherà di far un giorno ad ognuno la sua giustizia. Osservate voi la sua legge, rispettatelo, riveritelo; e s’egli non avrà cura di provvedervi, doletevi poi di me. Pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, multa bona habebimus, si timuerimus Deum. Tali siano gli avvertimenti che, ad imitazion del giusto Tobia, voi diate ai giovani vostri; e frattanto cominciate un poco a raccorvi in età già grave, a pensare più all’anima che alla casa, più alla coscienza che ai traffichi, più a Dio che al mondo. E se per l’addietro aveste, ch’io già non credo, contaminate le vostre mani d’acquisti poco innocenti, presto, presto, scoteteli presto via, soddisfate ormai tanti poveri mercenarj, pagate spedali, pagate chiese, pagate chiostri, adempite legali pii, e non vogliate ritener più presso di voi, neppur un momento brevissimo, quel danaro che non può se non cagionare a voi dannazione, retare ai vostri esterminio, e, come dice Michea, mantener sempre accesa implacabilmente l’inimicizia divina con casa vostra: ignis in domo impii thesauri iniquitatis ( Mich. VI. 10).