DOMENICA DI PASSIONE (2020)

DOMENICA DI PASSIONE (2020)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Pagamenti violacei.

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù ». Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio,  Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito Perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro, e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica» (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. . Gesù doveva dunque nel Suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, e quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

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Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

GESÙ CRISTO SACERDOTE

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

L’Epistola di quest’oggi è tratta dalla lettera agli Ebrei, della quale si è già parlato nella solennità di Natale. Qui si parla della superiorità e della efficacia del Sacrificio di Gesù Cristo, in confronto del sacrificio della legge ebraica. Difatti Gesù Cristo:

1. È il Sacerdote della nuova legge,

2. Che offre a Dio il proprio sangue,

3. E si fa nostro mediatore.

1.

Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri; cioè dei beni del Nuovo Testamento, come: l’espiazione valevole per tutti i tempi, la santificazione interna, l’eterna felicità ecc.; venivano, necessariamente, a perdere tutta la loro importanza i riti del culto levitico. Ciò che è imperfetto dove cedere il posto a ciò che è perfetto. Gesù Cristo è il Sacerdote della nuova legge. Non si assume da sé la dignità sacerdotale: ma vi è destinato da Dio, come da Dio vi fu destinato Aronne. Il Padre, che dall’eternità gli dà l’essere di Figlio, con giuramento solenne, irrevocabile, lo dichiara: «Sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech» (Salm. CIX, 4). Sarà un sacerdote che durerà in eterno. Melchisedech, sacerdote e re, tipo di Gesù Cristo, è introdotto nella Sacra Scrittura, così minuziosa nelle genealogie dei  Patriarchi, senza che si faccia menzione né del padre né della madre, né del tempo della nascita né del tempo della  morte, né di chi l’abbia preceduto né di chi gli sia succeduto nel sacerdozio. Gesù Cristo, come non ebbe antecessori, non avrà successori nel suo sacerdozio. Vivendo Egli in eterno, il suo sacerdozio non avrà mai fine, a differenza del sacerdozio secondo l’ordine di Aronne, che aveva carattere transitorio. Mediante il sacerdozio di Gesù Cristo abbiamo un’espiazione valevole per tutti i tempi. Al pari degli antichi re e sacerdoti, anche il sacerdote della nuova legge, Gesù Cristo, riceve l’unzione, ma in modo più eccellente. Egli viene unto «non con olio visibile, ma col dono della grazia … E deve intendersi unto con questa mistica e invisibile unzione, quando il Verbo di Dio si è fatto carne» (S. Agostino, De Trinit. L . 15. c. 26). In virtù dell’unione ipostatica con la divinità, la natura umana di Gesù Cristo ricevette, fin dal primo momento dell’incarnazione, la pienezza di tutte le grazie e di tutti i doni dello Spirito Santo. Così, la natura umana assunta riceve l’unzione dalla divinità. Gesù è, quindi, sacerdote fin dal principio della sua esistenza. È sacerdote nella culla, è sacerdote nell’esilio, è sacerdote durante la vita nascosta di Nazaret.

2.

Gesù Cristo, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio. Negli antichi sacrifici la vittima che doveva essere immolata veniva trascinata all’altare. Gesù Cristo, che sostituirà se stesso alle vittime del sacrificio levitico, non ha bisogno d’essere condotto per forza al luogo dell’immolazione. Prima di sacrificare il suo corpo sacrifica la sua volontà. Al Padre non piacciono più i sacrifici dell’antica legge, e fa conoscere la sua volontà che il Figlio, assumendo un corpo, lo offra in sacrificio per la salvezza degli uomini. E il Figliuolo, incarnandosi, può ripetere le parole del salmista: «Ecco io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr. X, 7). Ecco, io assumo un corpo, mi faccio uomo, affinché offra me stesso in luogo del sacrificio mosaico. E questa spontanea ubbidienza dimostra in tutte le circostanze della sua vita mortale. La volontà del Padre è volontà sua. È volontaria la povertà di Betlemme, l’amarezza della fuga in Egitto, il sudore della bottega, le fatiche dell’apostolato. Sono volontarie tutte le privazioni, le persecuzioni, i dolori della vita pubblica; è volontario il sacrificio supremo sulla croce. Venuta l’ora dell’immolazione « non ha aperto la sua bocca; come pecorella sarà condotto ad essere ucciso: e come un agnello si sta muto dinanzi a colui che lo tosa, così Egli non aprirà la sua bocca » (Is. LIII, 7). – Siamo al sacrificio cruento. Il sangue scorre; ma questa volta non scorre sangue di capretti e di vitelli; scorre il sangue del Figlio di Dio fatto uomo; sangue d’un valore infinito. Per mezzo di questo sangue offerto a Dio, l’uomo è liberato dalla schiavitù di satana. Gli antichi schiavi che ottenevano la libertà, l’ottenevano depositando essi stessi il prezzo della propria liberazione. Noi pure siamo stati liberati dalla schiavitù mediante un prezzo e « caro prezzo »; (I Cor. VI, 20) ma questo caro prezzo, non l’abbiamo sborsato noi. L’ha sborsato Gesù Cristo « il quale ha dato se stesso quale riscatto per tutti », (I Tim. II, 6) versando il suo prezioso sangue. La pena dovuta ai nostri peccati, e che noi non avremmo mai potuto scontare, con questo sangue è cancellata. La giustizia di Dio è soddisfatta: l’uomo è riconciliato col suo creatore.

3.

E per questo egli è il mediatore del nuovo testamento. – « Egli è il solo mediatore tra Dio e gli uomini » (1 Tim. II, 5). Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini specialmente per mezzo del sacrificio e della preghiera. « Il buon mediatore offre a Dio le preghiere e i voti dei popoli, e porta loro da parte di Dio benedizioni e grazie. Supplica la divina maestà per le mancanze dei peccatori; e redime negli offensori l’ingiuria fatta a Dio» (S. Bernardo, De mor. et off. Epist. c. 3, 10). La preghiera del Sacerdote ha sempre grande valore: è la preghiera dell’uomo di Dio. Qual valore non avrà la preghiera di Gesù Cristo? « Facilmente si ottiene quando prega un figlio ». (Tertulliano, De pœn. 10). E Gesù Cristo è Figlio di Dio: « Figlio diletto », (Luc. III, 22). « Figliuolo dell’amor suo ». (Col. 1. 13) Egli stesso ha assicurato agli Apostoli che otterrebbero dal Padre qualsiasi cosa, se chiesta in nome suo. A maggior ragione si otterrà dal Padre, quanto chiede Egli stesso. Gesù Cristo innalza al Padre la sua efficace preghiera, quando appare in questo mondo; l’innalza durante la sua vita. Egli prega in ogni tempo e in ogni luogo. Prega di giorno, prega di notte. Prega in pubblico, prega nella solitudine. Dopo aver parlato agli uomini di Dio, del suo regno, si ritira a parlare degli uomini a Dio. – Nel tempio, nel deserto, nell’orto s’innalza a Dio il profumo della sua preghiera. Ma sul Calvario specialmente, quando pende dalla Croce, la sua preghiera sacerdotale si innalza ad interporsi tra la giustizia e la misericordia di Dio. – E sui nostri altari continua ancora oggi a innalzare al Padre la sua preghiera in favore dell’umanità. Ogni qualvolta s’immola misticamente il suo Corpo e il suo Sangue offerti all’eterno Padre, hanno forza più efficace di qualsiasi voce sensibile, presso la maestà di Dio offesa, ad ottenere il perdono per gli offensori. Egli continua il suo ufficio sacerdotale di mediatore su in cielo, dove si fa nostro avvocato alla destra del Padre. Lassù Gesù Cristo continua ad essere il nostro sacerdote, che prega, manifestando al Padre il suo vivissimo desiderio della nostra salute, e presentandogli l’umanità assunta, coi segni gloriosi dei misteri in essa compiuti. E continuerà il suo ufficio di mediatore per noi sino alla fine dei secoli. I Sacerdoti, suoi rappresentanti su questa terra, passeranno. Agli uni succederanno gli altri: il loro ministero sarà limitato dal tempo. Ma Gesù, Sacerdote eterno, non passerà « vivendo egli sempre affine di supplicare per noi ». (Ebr. VII, 25). Gesù Cristo, Sacerdote della Nuova Alleanza, s’interessa di noi al punto da offrire al Padre il suo Sangue per i nostri debiti, e continua a far l’ufficio di nostro difensore lassù in cielo. E noi fino a qual punto ci interessiamo di Gesù? Forse l’abbiamo completamente dimenticato. La Serva di Dio suor Benedetta Cambiago, entrata un giorno nella sala da lavoro dell’educandato da lei diretto, ove si trovavano delle fanciulle esterne, domanda: — Mie care, vorrei sapere da voi una cosa. Là vi è il Crocifisso, amor nostro, morto per noi sulla croce. Quanti atti di offerta gli avete fatto oggi? E visto che nessuna di loro si era ricordata di Gesù ripiglia: — Ebbene, chi si scorda di Gesù è indegna di star con Lui. — E senz’altro piglia una sedia, stacca il Crocifisso dalla parete e lo porta via. A questa conclusione le fanciulle si mettono a piangere, e pregano Benedetta che riporti loro il crocifisso. (Vittorio Bondiano, Suor Benedetta Cambiagio, fondatrice delle Suore di N. S.  della Provvidenza ecc. Verona, 1925; p. 92). – Se noi dovessimo piangere sulle giornate trascorse senza fare un’offerta a Gesù, che per noi offrì se stesso, senza rivolgere un pensiero a Lui, che continuamente intercede per noi, forse dovremmo piangere ben frequentemente. Un degno cambio per tutto quello che Gesù Cristo ha fatto, e fa continuamente per noi, non lo potremo mai rendere: nessuno può dubitare. Possiamo però tener sempre presenti i suoi benefici. Sarebbe già qualche cosa: ama chi non oblia. Possiamo offrirgli giornalmente i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre fatiche, i nostri dolori. Possiamo offrirgli le nostre preghiere. « Gesù Cristo nostro Signore — osserva S. Agostino — prega per noi come nostro Sacerdote… è pregato da noi come nostro Dio ». (Enarr. in Ps. LXXXV, 1) Lo preghiamo davvero come nostro Dio? Lo preghiamo frequentemente?

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

Omelia II

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

DISCORSO PER LA DOMENICA DI PASSIONE

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la Contrizione.

Quii ex vobis arguet me de peccato (Joan. VIII)

Non appartiene che a Gesù Cristo, la stessa santità, di sfidare i suoi nemici con santa franchezza, come lo fa nell’odierno Vangelo, di rimproverargli un qualche peccato.  La santa dottrina che loro aveva predicato, gli esempi di virtù che loro aveva dati, lo mettevano in sicuro da ogni censura; era Egli medesimo in diritto di far a tali suoi nemici i più giusti rimproveri sulla perversa resistenza alla verità che loro predicava, perché la sua santa vita era una prova convincente della sua missione. Quanto siamo lontani, Fratelli miei, dal poter renderci una simile testimonianza, come Gesù Cristo rende in quest’oggi alla sua innocenza? Oltre che non havvi alcuno di noi, che non possa, e che non debba dire col Profeta, ch’egli è stato concepito nell’iniquità; havvene alcuno che non abbia avuto la disgrazia di cadere in qualche peccato attuale?  Havvene alcuno che ben lungi di poter dire, con Gesù Cristo, chi mi convincerà di peccato: non debba all’opposto confessare ingenuamente, ch’egli ha incorsa la disgrazia di Dio? Confessiamolo tutti, Fratelli miei, con altrettanto di dolore che di sincerità, che noi siamo rei degni dì portare il peso dell’ira del nostro Dio. Ma benediciamo mille volte la divina misericordia, che ci apre nei suoi tesori un rimedio al nostro male. Qualunque peccato abbiamo noi commesso, essa ce ne offerisce il perdono, purché noi lo domandiamo con un cuore contrito ed umiliato. Questo buon Padre è sempre pronto a ricevere il figliuol prodigo che ritorna dai suoi traviamenti, e che ne fa una confessione sincera con un cuore spezzato dal dolore. Volete voi dunque, peccatori, trovar grazia presso di Dio, quel tenero Padre che avete lasciato? Abbandonate i vostri cuori ai sensi di un vivo dolore: questo è un mezzo sicuro per rientrare nella casa paterna, e per ricuperare il diritto che avete perduto. Dio dimentica tutti i nostri peccati, tosto che noi li detestiamo di tutto cuore: voglio io in quest’oggi ragionarvi di questo dolore che cancella il peccato; soggetto tanto più importante, che la maggior parte delle confessioni che si fanno, principalmente in questo tempo Pasquale, sono nulle e sacrileghe per difetto di questo dolore. Si esaminano i peccati, si accusano; ma ben pochi vi sono che abbiano il dolore necessario per ottenere il perdono. Se v’è qualche confessione difettosa per mancanza di dichiarazione, molte più ve ne sono per mancanza di contrizione. Gli uni mancano affatto di contrizione; gli altri non hanno la contrizione quale Dio la richiede per accordare il perdono al peccatore. Vediamo dunque in quest’oggi la necessità della Contrizione: primo punto. Le qualità della Contrizione: secondo punto.

I Punto. La contrizione che tiene il primo luogo tra gli atti del penitente, come dice il santo Concilio di Trento, è un dolore, ed una detestazione del peccato commesso, con un fermo proponimento di non più commetterlo in avvenire. Non è solamente una interruzione, né anche una cessazione dal peccato, come lo pretendevano gli eretici che furono condannati in quel Concilio; egli è ancora una tristezza, ed un dolor vivo di cuore che ammollisce la sua durezza, gli fa odiare il peccato, e determina efficacemente il peccatore a non più commetterlo. Quindi la contrizione ha due oggetti : l’uno riguarda il passato, e l’altro l’avvenire. Ella affligge il cuore sul passato, dice S. Gregorio, e gli fa prendere delle precauzioni per l’avvenire: Pœnitere est perpetrata piangere, et plangenda non perpetrare. Or questa contrizione, questo dolore, come dice ancora il santo Concilio di Trento, è sempre stato necessario per ottenere il perdono. Egli è la prima porta per rientrare nello stato di giustizia e d’innocenza, da cui l’uomo è decaduto per il peccato. Iddio non ha mai accordato, e non accorderà mai il perdono al peccatore che a questa condizione: ella è una verità, di cui la sacra scrittura e la ragione ci forniscono prove senza replica. Apriamo primieramente i santi libri: che cosa Dio domanda ai peccatori che vogliono rientrare in grazia con lui? Gettate lungi da voi, loro dice per un Profeta, le vostre iniquità, e fatevi un cuor nuovo: Projiecite a vobis omnes prævaricationet vestras, et facite vobis cor novum (Ezech. XVIII). Invano dareste voi tutti i segni esteriori di penitenza; inutilmente coprireste i vostri capi di cenere, e i vostri corpi di cilicio; indarno squarcereste le vostre vestimenta, se i vostri cuori non sono penetrati di rammarico, e spezzati dal dolore: Scindite corda vestra, et non vestimenta vestra (Joel. II). Sì, Fratelli miei, benché per uscire dalla schiavitù del peccato, e ricuperare la libertà dei figliuoli di Dio, voi castigaste il vostro corpo, e lo riduceste in servitù con le penitenze le più austere, coi digiuni i più lunghi, e i più rigorosi; benché vi spogliaste di tutti i vostri beni per darli ai poveri; se il vostro cuore ama ancora l’oggetto di vostra passione, la vostra penitenza è vana, non è che un’ombra, e voi dimorerete sempre sotto l’anatema. Convertitevi a me in tutto il vostro cuore, vi dice il Signore, ed io mi convertirò a voi: Convertimini ad me in toto corde vestro, et ego convertar ad vos (Joel. II). Interrogate su di ciò, Fratelli miei, tutti coloro, cui il Signore ha fatto grazia e misericordia: vi diranno che non han trovata la pace delle loro anime, che nei pianti e nei gemiti; interrogate principalmente il Re Profeta, quel gran modello di penitenza: v’insegnerà che l’afflizione del cuore è l’anima della penitenza: mirate anche i sentimenti di dolore, di cui sono ripieni i suoi Salmi. Egli piange e geme ogni giorno sul suo peccato, che è sempre avanti a lui. L’agitazione e l’inquietudine si sono impadronite della sua anima sino a penetrare la midolla delle sue ossa : Conturbata sunt omnia essa mea ( Psal. VI), Il suo dolore è così grande, che interrompe il suo sonno per dare un libero corso alle lagrime abbondanti che colano dai suoi occhi: Lavabo per singulas noctes lectum meum; lacrymis meis stratum meum rigabo. Qual è l’origine di queste lagrime? Donde viene il dolore, cui questo gran Re si abbandona? Si è, ch’egli ha offeso il suo Dio, e che tutt’altro sacrificio non può appagarlo, che quello d’un cuor contrito ed umiliato: Sacrificium Deo spiritus contribulatus cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. Così non ottiene il perdono del suo peccato, che pel dolore che ne ha concepito; le sue lagrime furono il bagno salutevole che lavarono la sua anima dal suo delitto, e la resero tanto bianca, come la neve. Or se Davide, quell’uomo che Dio aveva eletto secondo il suo cuore, non può trovar grazia dopo il suo peccato, che pel dolore che ne ebbe, invano pretendete, peccatori, ottenerlo altrimenti; mentre questo dolore non è men necessario nella legge di grazia, che nell’antica legge. Infatti, quantunque Gesù Cristo abbia istituito il Sacramento della penitenza per la remissione dei peccati, non vi ha perciò dispensati dal dolore che dovete concepirne; anzi ha voluto ch’egli fosse una parte essenziale del Sacramento, come l’ha dichiarato il santo Concilio di Trento, appoggiato su queste parole dì Gesù Cristo: se voi non fate penitenza, voi perirete tutti: Si pœnitentiam non egeritis, omnes similiter peribitis! (Luc., XIII). Cioè, se voi non vi pentite dei vostri peccati, se il vostro cuore non è tocco, ammollito, cambiato, voi non riceverete giammai il perdono, e per conseguenza non vi sarà giammai salute per voi. Perciocché notate col Crisostomo che, sebbene il nome di penitenza possa estendersi a tutte le opere penose e soddisfattorie, che dispongono il peccatore a riconciliarsi con Dio, la penitenza consiste principalmente nel dolore dei suoi peccati nel cangiamento di cuore, che sono l’anima della penitenza, senza di cui tutte le altre non ne sono che l’ombra e la scorza pœoenitentiæ larva et umbra ista sunt. Invano dunque, Fratelli miei, avreste voi fatto ricorso al Sacramento della riconciliazione; invano dichiarereste tutti i vostri peccati ai ministri che Gesù Cristo ha stabiliti per rimettervegli; invano il ministro del Signore pronuncerebbe su di voi la sentenza dell’assoluzione; tutte le vostre confessioni, tutte le assoluzioni che egli vi darebbe, vi sarebbero inutili, giacché non avreste la contrizione. Si può dirvi in un senso, che la contrizione è più necessaria alla salute che la Confessione; non già che questa non sia di un obbligo indispensabile; ma la contrizione può supplire alla Confessione, e non già la Confessione alla contrizione … Se voi siete in ìstato di peccato mortale, e che per motivo di un puro amor di Dio, voi ne concepiate dolore, qualunque peccato abbiate commesso, vi sarà perdonato; Dio vi renderà la sua amicizia, perché Egli ama coloro che l’amano: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII). Se voi morite in questo stato senza esservi presentati al tribunale della penitenza, purché però non v’abbia alcuna vostra colpa, il Cielo vi è aperto. Convien tuttavia osservare che questa contrizione che viene dalla carità perfetta, deve rinchiudere il proponimento di sottoporre i vostri peccati alle chiavi della Chiesa; senza di che sarebbe di nessun effetto, come dice il Concilio di Trento. Al contrario, non foste voi colpevoli che di un solo peccato mortale, se voi moriste senz’averlo detestato, o con una contrizione perfetta fuori del Sacramento, o con una contrizione imperfetta insieme col Sacramento; aveste voi praticate tutte le altre virtù le più eroiche, voi non potete aspettarvi che un’eterna riprovazione; Comprendete da questo, Fratelli miei, la necessità della buona contrizione; ella è sì grande che nulla può dispensarne, così ha ordinato Iddio per la riconciliazione del peccatore, al cuore Egli si attiene; è la conversione del cuore ch’Egli dimanda, tutt’altro sacrificio non potrebbe essergli gradito. Ne volete voi sapere la ragione sensibile e con vincente? Eccola. Dio non può accordare all’uomo il perdono del suo peccato, che cangiando di disposizione riguardo all’uomo peccatore, cioè rendendogli la sua amicizia invece dell’odio, che aveva contro di Lui concepito. Or Dio non può cangiare di disposizione riguardo all’uomo peccatore, se questo peccatore non cangia egli medesimo di disposizione riguardo a Dio. Che fa l’uomo peccando? Si stacca, e si allontana da Dio per attaccarsi alla creatura, cui dà un’indegna preferenza sul suo Creatore; questa preferenza è l’opera del cuore; bisogna dunque che questo cuor cambi riguardo a Dio, attaccandosi a Lui, dandogli la preferenza che merita sulla creatura; bisogna che questo cuore divenga un cuor nuovo, amando ciò che odiava, ed odiando ciò che amava. Ecco, dice S. Agostino, quel che fa la vera penitenza, l’odio del peccato, e l’amor di Dio: Pœnitentiam non facit, nisi amor Dei, et odium peccati. Or l’odio e l’amore non possono venir che dal cuore. Non havvi dunque alcun perdono a sperare pel peccatore, se il suo cuore non è spezzato, cangiato dalla contrizione, che è nello stesso tempo l’odio del peccato, e l’amor di Dio. Inoltre non è forse il cuore che ha gustato il primo la dolcezza del frutto proibito, che si è abbandonato ai piaceri vietati, seguendo l’attrattiva della sua passione? Deve egli opporre il dolore al piacere, la tristezza al diletto, l’amarezza della penitenza alle false dolcezze che ha egli ricercate nel peccato. – Ed è così, peccatori, che l’avete voi compreso, voi che sino al presente non vi siete attaccati che alla scorza della penitenza, che avete conservato lo stesso cuore, cioè un cuore egualmente attaccato all’oggetto di vostra passione, che non avete concepito né dolore, né tristezza sui vostri peccati? Ohimè! Fratelli miei, quale illusione! Illusione, che vi ha sinora ingannati. Voi avete creduto essere sufficientemente disposti a ricevere il vostro perdono, avete esaminata la vostra coscienza, accusati i vostri peccati, fatti atti di contrizione, gettati sospiri, versate alcune lagrime; ma siccome con tutto questo il vostro cuore non era punto cangiato, e che non detestava il peccato come doveva, la vostra penitenza è stata vana, sterile, ed infruttuosa. Se aveste a fare con un uomo, egli si contenterebbe di questa esterior penitenza; ma Dio non se ne contenterà giammai, perché Egli vede il fondo del cuore; e finché questo cuore amerà i piaceri vietati, con tutte le lagrime che possiate spargere, con qualsivoglia protesta, che facciate di non più ricadere, voi sarete sempre colpevoli avanti a Dio, voi sarete sempre carichi del peso dei vostri peccati; come le vostre parole, che sono altrettanti inganni, e menzogne, ben lungi di giustificarvi, non serviranno che a rendervi più rei. Io so benissimo che per eccitarvi al dolore dei vostri peccati, voi leggete in certi libri alcune formule proprie ad ispirarvelo; ma credere, che queste preghiere bastino, e che a forza di leggere più formule proprie a toccate il cuore, senza che realmente lo sia, si otterrà il perdono del suo peccato, egli è un errore. Leggete tante preghiere che vi piacerà, pronunciate di bocca tanti atti di contrizione, quanti può formarne lo spirito, se il dolor non è nel cuore, se il cuore non è penetrato di pentimento del suo peccato, se il cuore, in una parola, non è cambiato, tutte le preghiere a nulla servono. – Ma in che, mi direte, consiste dunque questo dolore, questa tristezza che aver si deve del peccato? Questo dolore non è una semplice conoscenza che si ha della difformità del peccato; i demoni hanno questa conoscenza, e non hanno la contrizione! Non è neppure una semplice disapprovazione del peccato, che ogni uomo ragionevole non può trattenersi di condannare nel tempo stesso in cui egli si abbandona al peccato. Che convien dunque far di più, direte ancora? Bisogna forse che il cuore sia commosso da qualche dispiacer sensibile, come lo risentiamo quando ci giunge qualche funesta nuova? No, Fratelli miei, questo dolore che Dio ci domanda, non è un sentimento della natura, sovente non dipende da noi; neppure sono lacrime, ch’Egli esige, esse non sono sempre in nostra disposizione; felici tuttavia sono coloro che ne spargono per un vero dolore dei loro peccati! Eccovi dunque in che consiste questa contrizione necessaria per la giustificazione: ella è un atto della volontà che ritratta, che detesta, che odia il peccato, che si pente d’averlo commesso, e che mette il peccatore in tal disposizione, che vorrebbe non averlo mai commesso. –  Giudicate, Fratelli miei, di questa disposizione, in cui deve essere il peccator penitente, da quella in cui vi trovate, allorché vi pentite di aver fatta una qualche azione che vi ha cagionato una perdita di bene, un disonore, la disgrazia di una persona che vi amava, e vi proteggeva; voi ritrattate questa azione, voi avete dispiacere di averla fatta, voi vorreste non averla fatta. Tale è la disposizione in cui dovete essere per rapporto al peccato; non basta non volerlo più commettere, ma bisogna essere disgustato di averlo commesso. Or ecco ciò in che molti penitenti presentemente s’ingannano. Uno crede di detestar bene il peccato, perché non vi vuol più cadere; ma è forse sempre disgustato per questo di averlo commesso? Un altro ha lasciato un’occasione, una persona, che non vuol più frequentare forse perché ne è stato rigettato, o che vi si è determinato di sua elezione. Ma non si richiama egli forse con compiacenza la memoria dell’oggetto di sua passione, i piaceri, ch’egli ha gustati, i disordini, cui si è abbandonato? Non  vuoi più avere alcuna rea compiacenza per certe amate persone; ma si ha forse pentimento di quelle che si ha permesse, che sono state ottenute a prezzo d’argento, che han procurata l’amicizia d’un grande, che hanno aperta la strada ad una certa fortuna, ad uno stabilimento vantaggioso, dove si compiace d’essere pervenuto? Ah! quanto è difficile, quanto è raro di pentirsi di questa sorte di peccati! Non vuole quello più rapire la roba degli altri; ma è forse disgustato d’essersi arricchito a loro spese? Se si pentisse delle sue ingiustizie passate, penserebbe a restituire. Un vendicativo perdona al suo nemico, perché la collera è passata; ma è egli ben pentito di aver soddisfatta la sua vendetta? Questo è ciò che accade molto di rado. Ahi non sono queste, Fratelli miei, penitenze capaci di calmare l’ira di Dio. L’ho detto e non saprei troppo ripeterlo: la penitenza del cuore, che è la contrizione, ha due oggetti; ella è un rammarico, un dispiacere del peccato commesso, con un fermo proponimento di non più commetterlo in avvenire. Contrizione assolutamente necessaria per ottenere la remissione del peccato. Quali ne sono le qualità?

II. Punto. La contrizione per essere gradita a Dio e salutevole ai peccatori, deve essere soprannaturale nel suo principio e nel suo motivo, universale nel suo oggetto, efficace e costante nel suo proponimento. Essa deve esser soprannaturale nel suo principio e suo motivo, cioè deve esser prodotta da un impulso della grazia, e da un motivo soprannaturale. La ragione è che la contrizione è una disposizione prossima alla giustificazione del peccatore; cioè a quel felice passaggio dal peccato alla grazia, per cui il peccatore diventa l’amico di Dio, l’erede del regno eterno. Ora la fede c’insegna che tutto ciò che ci dispone prossimamente alla giustificazione, deve essere soprannaturale, cioè, venire dal Santo Spirito, perché la giustificazione medesima è un dono soprannaturale, che non è dovuto all’uomo, e dove non può pervenire con le sue proprie forze: egli ha dunque bisogno di un soccorso che lo innalzi su di se stesso; egli deve avere una disposizione proporzionata al fine felice che si propone, che è di riconciliarsi con Dio, e di ricuperare i suoi diritti alla celeste eredità. Egli è vero che questo soccorso soprannaturale, questo dono prezioso ci viene dal Padre dei lumi, il quale è la sorgente d’ogni dono perfetto; che è la sua grazia onnipotente che agisce in noi, che ci solleva su di noi medesimi per renderci partecipi della natura divina. La contrizione è un movimento dello Spinto Santo cui solo appartiene di fare scorrere col suo soffio divino le acque salutari della compunzione, che debbono lavare le nostre iniquità: Flabit spiritus ejus, et fluent aquæ (Psal. CXLVII). Ma Dio è sempre pronto a darci il suo aiuto, purché noi glielo domandiamo, e non formiamo alcun ostacolo alle sue operazioni. Bisogna dunque operare dal canto nostro per corrispondere alla grazia, e renderci sensibili ai motivi di dolore, che essa ci propone. Bisogna di concerto con essa proporci noi medesimi questi motivi di dolore, lasciarcene toccare, penetrare, abbandonare i nostri cuori ai sentimenti che essi non mancheranno d’ispirarci. Or quali sono questi motivi soprannaturali che debbono produrre in noi il dolore dei nostri peccati? Sono oggetti che la fede ci propone per farci odiare il peccato, facendoci considerare ciò, ch’egli è per rapporto a Dio e alla nostra salute eterna. Bisogna dunque che la fede operi in questa occasione per sollevarci su di qualunque mira umana, e rappresentarci un Dio oltraggiato pel peccato, i suoi benefici dispregiati, la passione e la morte di Gesù Cristo, di cui il peccato è stata la cagione, una felicità infinita di cui ci ha Egli privati, i castighi eterni che ci ha meritati. Questi sono i motivi soprannaturali che debbono farci detestare il peccato, o come il sommo male di Dio, o come il sommo male dell’uomo. Se voi detestate il peccato come il sommo male di Dio, come un’ingiuria fatta alla sua infinita Maestà, e non in vista delle ricompense che ci promette o dei castighi, di cui ci minaccia, ma unicamente perché il peccato gli dispiace, perché è opposto alle sue infinite perfezioni che meritano tutto l’amore delle sue creature; si è l’effetto della vostra carità perfetta che solo può giustificarvi, come l’abbiamo già detto prima anche di accostarvi al Sacramento della Penitenza; lasciandovi per altro l’obbligo di sottoporre i vostri peccati alle chiavi della Chiesa; questa è la dottrina del Santo Concilio di Trento: Etsi contritionem hanc aliquando charitate perfectam esse contingat, hominemque Deo reconciliare priusquam hoc Sacramentum actu suscipiatur . Felice chi portato sull’ale dell’amore si solleva in tal modo sino a Dio, detesta il peccato per l’opposizione che egli ha alla sua infinità bontà e che con questo si assicura dell’amicizia del suo Dio, il Quale ama coloro che l’amano: ego dìligentes me diligo! – Voi potete ancora, e dovete per lo meno, detestar il peccato come vostro sommo male, in quanto vi priva dell’amicizia di Dio, del possesso della sua gloria, e vi rende l’oggetto delle vendette eterne. Questo dolore che viene da un amor imperfetto, e dal timore delle pene, benché da se stesso insufficiente per giustificarvi fuori del Sacramento, vi dispone nulla dimeno a ricevere nel Sacramento la grazia della riconciliazione; questa è ancora la dottrina del citato Concilio di Trento. Ma bisogna per questo, che esso scacci ogni affetto al peccato, che vi porti a Dio per l’amor della giustizia, e che sia unito alla speranza del perdono. Perciocché se voi non evitate il peccato, che per il timore dei castighi, di modo che non lascereste di commetterlo, se restasse impunito, questo timore è non solo inutile, ma eziandio biasimevole, dice S. Agostino, perché non cambia punto il vostro cuore. Fa d’uopo dunque, che sia accompagnato dall’amor della giustizia, cioè da una volontà di amar Dio, di praticare le virtù, ch’Egli vi comanda. Fa d’uopo ch’Egli vi porti a Dio con un amor di speranza che vi unisca a Lui, come a vostro sommo bene, che merita di esser preferito ad ogni altro, di tal maniera, che voi foste disposti a perdere piuttosto tutti i beni creati, a soffrire tutti i mali, che di perdere l’amicizia di Dio; senza di che questo dolore imperfetto non sarebbe sommo, come deve essere, per giustificarvi anche insieme col Sacramento. – Lungi dunque da qui, Fratelli miei, ogni altro dolore, che sarebbe di un inferiore ordine, che non avrebbe alcun rapporto a Dio, o alla salute eterna dell’uomo. Lungi da qui quei dolori, che non sono prodotti che da motivi umani, e che perciò sono incapaci di toccare il cuor di Dio e di operare la guarigione del peccatore. Tale fu il dolore di Antioco, il quale piangeva i mali, che aveva fatti in Gerusalemme, che prometteva anche di ripararli e che domandava a Dio il suo perdono con lagrime e gemiti; ma il suo dolore non era che l’effetto dei mali di cui Dio l’aveva oppresso: e non ottenne il perdono che domandava: Orabat autem hic scelestus Dominun, a quo non esset misericordiam consecuturus (2. Mach. IX). Tale è ancora il dolore di un gran numero di penitenti, che sono più sensibili ai mali temporali, che sono stati la conseguenza dei loro peccati, che all’oltraggio che han fatto a Dio. Molti piangono, dice S. Agostino, ed io piango anche con essi; ma io piango perché essi piangono male. Quel dissoluto piange la sua vita licenziosa, perché ha messo in disordine i suoi affari, rovinata la sua sanità. Quella figlia sparge molte lagrime, si strugge di dolore, perché il suo peccato l’ha disonorata, perché è divenuta la favola del pubblico. Quella donna racconta con lagrime i suoi affanni e i cattivi trattamenti che gli ha fatti suo marito: ne veggo un altro metter fuori singhiozzi e sospiri, che gli cava la confusione naturale che ha di confessar certe azioni, che vorrebbe poter a se stesso occultare. Chi non vede, Fratelli miei, che questi dolori sono tutti naturali, che sono meno l’effetto della grazia, che della natura, incapaci per conseguenza di riconciliare il peccatore con Dio? Queste sono, dice S. Bernardo, piogge fredde, che cagionano la sterilità, invece di apportar l’abbondanza. Queste tristezze del secolo non sono capaci che di cagionare la morte, dice S. Paolo: laddove la vera Contrizione, che è una tristezza secondo Dio, opera la salute: Quæ secundum Deum tristitia est, pœnitentiam in saluterai stabilem operatur, sæculi autem tristitia mortem operatur (2. Cor. VII). Volete voi, Fratelli miei, che la vostra sia tale? Sollevatevi con la fede sopra di tutti i motivi umani, per non riguardare nel peccato, che l’offesa di Dio, la perdita della sua amicizia, le pene eterne che ne sono la conseguenza. Se il vostro dolore è animato da un motivo soprannaturale, egli sarà universale nel suo oggetto; cioè egli detesterà tutti i vostri peccati senza eccezione, Mentre se voi detestate il peccato, o come sommo male di Dio, o come vostro sommo male, qualunque abbiate commesso, tosto che è mortale, portando questi odiosi caratteri, merita egualmente il vostro odio, ed il vostro dolore. Invano dunque offrireste a Dio il sacrificio di un cuor contrito su certi peccati, mentre questo cuore sarebbe attaccato ad altri oggetti che lo renderebbero colpevole avanti a Dio. Invano detestate voi la vendetta per principio di carità, se il vostro cuore è occupato di un amor profano per l’oggetto di una sregolata passione. Invano, per un principio dì giustizia, non vi impadronirete del bene altrui; se voi prodigate il vostro in folli spese, se voi l’impiegate a mantenere la vostra vanità, se voi lo consumate in dissolutezze. Dio riproverà i vostri sacrifizi, come fece altre fiate quello di Saulle, che nello sterminio degli Amaleciti, aveva risparmiato il Re, contro il divieto che gliene aveva fatto. No, Fratelli miei, Dio non vuole di questi cuori mezzo contriti, come dice S. Agostino, di questi cuori mezzo Cristiani, mezzo pagani, che offrono con una mano incensi al vero Dio, e con l’altra agl’Idoli, che detestano certi vizi, e non si pentono d’altri, di cui non vogliono correggersi. Il sacrificio del cuore per essere accetto a Dio, deve esser intiero; siccome Egli non perdona per metà, e nel perdono che ci accorda, rimette tutti i nostri debiti; così bisogna che il peccatore non riserbi alcun peccato, che la sua contrizione si estenda a tutti, che sia come un mare che gli anneghi, che gli assorbisca tutti nel suo seno: Magna est velut mare contritio tua. La spada del dolore deve tutti sacrificarli. Un solo risparmiato è un ostacolo al perdono. Finalmente la Contrizione deve essere efficace e costante nel buon proponimento di non più peccare. Chiunque infatti è veramente pentito di aver offeso Dio, deve essere ben risoluto di non più ricadere nel peccato. Se la Contrizione, siccome abbiam detto, rinchiude l’odio del peccato e l’amore di Dio, può uno odiar il peccato, senza essere risoluto di evitarlo? Può uno amar Dio come deve essere amato, senza esser disposto ad osservare i suoi divini comandamenti, il che è il segno il più certo dell’amore che si ha per lui? Tali esser debbono, o peccatori, le vostre disposizioni per l’avvenire, se volete ottenere il perdono del passato. Volete voi dunque conoscere se il vostro proponimento è stato sincero ed efficace? Giudicatene dal cangiamento dei vostri costumi, e dalla vostra fedeltà ad osservare la legge del Signore. Quindi ciò che fa la vostra sicurezza, deve accrescere il vostro timore; alla vista dei vostri peccati, voi vi rassicurate sulle vostre confessioni, voi credete averne ottenuto il perdono, perché gli avete accusati: errore, Fratelli miei; confessioni sacrileghe non saprebbero giustificarvi avanti a Dio; confessioni fatte senza un buon proponimento non possono che rendervi più colpevoli. Ora la prontezza e la facilità, con cui siete caduti nel peccato mortale dopo le vostre confessioni, non prova che forse giammai non avete voi avuto un sincero proponimento di non più peccare? Ma che qualità deve avere questo proponimento? Egli deve essere accompagnato da fermezza e da vigilanza: da fermezza per resistere alle tentazioni; da vigilanza per fuggire le occasioni. Che tutti i nemici di vostra salute, per farvi cangiar di risoluzione, si colleghino contro di Voi; che il mondo per guadagnarvi vi presenti lo splendore dei suoi beni, le lusinghe dei suoi piaceri; che il demonio come un leone che rugge giri intorno di voi per divorarvi; che di concerto con le vostre passioni vi solleciti ad accordar loro piaceri che la legge del Signore vi proibisce; voi dovete esser fermi e costanti per resistere e trionfare in tutti questi combattimenti: io l’ho promesso, dovete voi dire col Profeta, io ho risoluto di osservar la legge del Signore: juravi et statui custodire judicia justitiæ tuæ (Ps. CXVIII). Ma per riportare una sicura e piena vittoria , è necessaria la vigilanza per fuggire le occasioni del peccato. Mentre invano, Fratelli miei, vi lusingate di esser fedeli a Dio; se v’impegnate nelle medesime occasioni: qualunque risoluzione abbiate presa, voi soccomberete. Le medesime cagioni produrranno i medesimi effetti; gli oggetti che non vi eccitavano punto allorché n’eravate separati, riaccenderanno con la loro presenza le vostre passioni, e vi strascineranno nei medesimi disordini da cui siete usciti. – Concepite dunque, Fratelli miei, una ferma risoluzione di fuggir il peccato e le occasioni del peccato, di corregger i vostri malvagi abiti, servendovi dei mezzi che vi sono stati prescritti nel tribunale della penitenza, mentre non solo per ricevere il perdono delle vostre colpe dovete voi accostarvene, ma ancora per correggervi. A che vi servirebbe ricuperare per qualche tempo la grazia di Dio, se voi la perdeste per vostra incostanza? Il vostro stato diverrebbe peggiore che non era prima. Ah! è finito, dovete voi dire, già da troppo lungo tempo mi abuso dei Sacramenti. Io mi confesso e sempre ricado; la mia vita non è che una vicissitudine di peccato e di penitenza. Ma voglio che la mia penitenza metta fine ai miei peccati, che questa sia una penitenza ferma e durevole, che non finisca che con la vita. Se il vostro dolore è così costante nel suo proponimento, voi avrete , Fratelli miei , un segno tanto sicuro, quanto avere si possa in questa vita, ch’esso è stato vero, e che avete ottenuto il vostro perdono.

Pratiche – 1.° Domandate a Dio questo dolore; giacché è l’effetto della grazia, si richiedono molte preghiere per ottenerlo . – 2. Per eccitarvi alla contrizione dei vostri paccati, ritiratevi in un luogo conveniente, il più proprio si è la Chiesa; ivi vi proporrete i motivi capaci di muovere il vostro cuore, di penetrarlo dei sentimenti della più viva, della più amara compunzione. Riguardandovi come un figliuol prodigo, che ha lasciato il migliore di tutti i padri, vi getterete dentro le sue braccia, dicendogli: mio Padre, io ho peccato contro il cielo e davanti a Voi, io ne sono molto pentito; io vorrei non averlo mai fatto. Ah! la risoluzione è presa, io faccio sino d’ora un divorzio eterno con il peccato; piuttosto morire, o Signore, che di offendervi, si è la sola grazia ch’io vi domando. – 3. Rappresentatevi Gesù Cristo sulla croce (abbiate, per quanto vi sarà possibile, la sua immagine avanti agli occhi); immaginatevi che vi dica: ecco, peccatore, lo stato in cui tu m’hai ridotto col tuo peccato; la mia morte è opera tua, non ti penti tu di avermi così trattato? Vorresti tu ora non averlo fatto? Indi rispondetegli di tutto vostro cuore: sì, o Signore, io lo vorrei benissimo; io me ne pento sinceramente; ma è finito, non più peccati nella mia vita, non più tiepidezza nel vostro servizio. Per rendere il vostro dolore più gradito a Dio e più salutevole per voi, unitelo a quello che questo divin Mediatore concepì nel giardino degli ulivi sui peccati degli uomini, il quale gli cagionò un sudore di sangue; mischiate le vostre lagrime con quel Sangue prezioso; offrite a Dio i suoi meriti, per supplire a ciò che vi manca. Ma applicatevi altresì i meriti di quel Sangue adorabile col dolore che concepirete dei vostri peccati; non è che a questa condizione, ch’Egli purificherà, come dice l’Apostolo, le vostre coscienze dalle opere morte, cioè, dalle opere di peccato, e che avrete parte all’eredità, che vi è promessa. Gesù Cristo vi è entrato pel suo Sangue, voi dovere entrarvi per le vostre lagrime; dopo aver pianto sulla terra, voi sarete consolati nel Cielo. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (105)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XV.

L’uomo rimirando sé, viene, se vuole, in cognizione di Dio.

I . Due chiare testificazioni ha volute Dio della sua grandezza nell’universo. L’una dalla magnificenza dell’abitazione, che è il mondo. L’altra dalla bellezza dell’abitatore, che è l’uomo: Habet Deus testimonium, totum id quod sumus, et in quo sumus. Così parlò Tertulliano (In Marc. I. 1. c. 1 0): al cui verace sentimento arrendendoci, dopo aver noi già guardo ai bruti, in cui risiede, infallibile rispetto a Dio, da cui proviene come da sua cagion creativa. Negate Dio, o l’istinto rimane inesplicabile ricercata l’attestazione che della divinità ci vien fatta dal mondo grande, non possiam ricusare quella che ci vuol fare anche il mondo piccolo, qual è l’uomo. Senonchè, al guardare un composto così ammirabile, conviene che io qui subito mi ripigli. Mondo piccolo l’uomo nel mondo grande? Tutto al contrario. Anzi egli è il mondo grande nel mondo piccolo; mentre quanto il resto delle creature supera l’uomo nella vastità della mole, tanto l’uomo supera il resto delle creature nel valore della sustanza (Una sola creatura umana vale assai più che tutta l’immensurabil materia dell’universo, perché il pensiero di cui l’uomo va insignito, abbraccia e penetra tutta quanta la materia, mentre la materia non può penetrare, non che il diverso da sé, nemmeno se medesima): ed è però nell’universo, come la gemma nell’anello, cioè il pregio di tutta l’opera, e il fine a cui s i ordinò così bel lavoro.

I.

II. Ed oh così potessi io qui spiegare tutte le vele, ed ingolfarmi sino all’alto in un pelago, qual è questo, di maraviglie! Potessi favellare dell’anima ragionevole, immagine così espressa della divinità: e, se non tanto, potessi almeno discorrere delle sue potenze sensitive, interne ed esterne, e delle operazioni donate a ciascuna d’esse! potessi anche solo riferir meramente il numero, il posto, la proporzione, gli uffizi di quelle parti, le quali costituiscono il corpo umano? potessi tutte ad uno ad uno descrivere le tante ossa con cui si regge, i nervi, i muscoli, le membrane, le vene, le cartilagini, i canaletti, le viscere, le vesciche, gli umori, le giunture, i seni, gli spiriti, e tanto che v’è di più, non ancor terminato di enumerare dopo diligentissime notomie! Si scorgerebbe, che se mondo può dirsi l’uomo, può dirsi anche, in capo a tanti secoli, il mondo nuovo; mentre tuttora egli ha la sua terra incognita da scoprirsi. Ma solcar tanto mare non ci è permesso da più altri viaggi ben faticosi che ci rimangono a fare entro a pochi fogli. Dirò dunque in succinto, che la fabbrica sola del nostro corpo è sì prodigiosa, che Galeno (de usu part. I. 17. c. 3), dopo averla alquanto osservata in diciassette libri, soggiunse di aver con ciò formato un inno perpetuo di lode a Dio, il quale seppe disegnare, poté eseguire, e volle tanto pienamente diffondere la sua bontà sopra sì bel lavoro, composto di molte migliaia di pezzi, e pur congegnato con tale concatenazione, che par composto di un solo; ciascun dei quali contenendo in sé più miracoli, fa che l’uomo a torto stupisca della natura di altra opera, più che di quella, la quale egli rimira nel mirar sé: tanto in ciascuna parte di sé medesimo egli è un prodigio maggiore di qualunque altro. Et mìratur alia homo., cura sit ipse mirator magnum miraculum. (S. Aug. hom.32. ex 50). Certo almen è, che io niuno anatomista ho mai letto, niuno ne ho udito, che favellando dell’arte sua, non prorompa in esclamazioni, nate dalla evidenza con cui tal arte fa scorgere che v’è Dio. Udiamone fra tanti uno celebre per la fama, che fu medico illustre di Enrico quarto : Ingredere tu quisquis es, etiam athæe, così dice egli: Ingredere, quæso, sacram Palladis arcem, etc. An non etiam invitus exclamabis: O architectum admirabilem! o opificem inimitabilem! (Andr. Lauren. Hen. IV. Consil. et Medie. Hist. anat. I . 1. c. 6. Franc. Redi). E questo è il sentimento comune di tutti i professori di tale scienza, uno de’ quali ha detto a me, non trovarne per sé  medesimo verun’altra, la quale più di questa lo innalzi a Dio. Almeno parmi di potere tener per indubitato, non essere finora avvenuto mai, che un uomo insigne nella professione anatomica, sia ateista; convenendo per forza, che egli alla luce delle sue cognizioni sperimentali scorga evidentemente e veneri un nume provvido, perspicace, attentissimo, di cui mira stampate troppo sensibilmente le maestrie su qualunque minimo ordigno del corpo umano (Sono veramente splendide, e degne di essere lette segnatamente da’ giovani studiosi le pagine, nelle quali Cicerone dimostra l’esistenza di una mente divina dalla mirabile struttura del corpo umano, nel suo De natura deorum, lib. 2° cap. 54 e seg.).

III. Pertanto, giacche tal corpo né si può qui trascorrere tutto intero, né tutto intero è dovere che si tralasci, ci restringeremo a quel solo che di lui sempre abbiamo dinanzi agli occhi, non mai velato, che son le mani ed il volto: la cui considerazione, quantunque superficiale, e’ immerge in Dio, senza, per dir così, che ce ne avvediamo.

IV. Or quanto alle mani, due fini ebbe la natura in donarle all’uomo, uno prossimo, uno remoto. Il prossimo fu, perché egli potesse pigliare gli altri oggetti corporei a proprio talento, e adoperarli. Il remoto fu, perché  egli nelle mani avesse un istrumento di tutte le arti. Cominciam dal fine remoto, a cui come a superiore, dovea conformarsi il prossimo.

II.

V. Stimò Anassagora, che l’uomo, in grazia delle mani da lui godute, fosse dotato dalla natura di senno (Arist. de part. anim. I. 4. c. 20. Galen. de usu part. I . 1. c. 1). Nel che egli errò certamente: mentre non perché vi era la cetera fu fatto il suonatore, ma perché  v’era il suonatore fu fabbricata la cetera. Non fu però data la mente all’uomo, perché egli possedeva le mani: ma bensì furono date all’uomo le mani, perchè egli possedeva la mente. Tuttavia questo errore include un gran panegirico delle mani, mentre denota, essere sì stupendo il loro lavorio, che non un uomo del volgo, ma delle scuole, arrivò a potersi persuadere, benché falsamente, che in riguardo delle mani noi fossimo ragionevoli (La mano e la ragione nell’uomo hanno fra di loro una così intima e naturale attinenza, che basterebbe essa sola la struttura della mano a provare la superiorità specifica dell’uomo sul bruto, non che l’esistenza di un supremo infinito Artefice).

VI. Ora lasciando andar ciò, certo è, che come la ragione, al parer del filosofo, è virtualmente ogni cosa per conoscere, così la mano è virtualmente ogni cosa per operare (Arist. 1. c. Galen. de usu part. I. 1. c. 4). Ond’è che la natura, troppo fuor di ragione fu calunniata da chi si dolse, che, producendo ella tutti gli altri animali sì ben guerniti, l’uomo solo produca ignudo ed inerme. Che importa ciò, mentre all’uomo diede le mani, negate agli altri animali, di lui men degni? Quindi è, che gli altri non possono mai mutar abito, mutar armi, mutar nulla di ciò di cui li fornì là natura insieme col nascere; ma debbono così stare, così andare, così adagiarsi, così pigliare i lor sonni: laddove l’uomo può eleggersi a piacer suo e l’abito che vuole, e l’armi che vuole, e le può deporre: tutto in virtù delle mani.

VII. Chi può però dire di quanti beni le mani anche lo provvedano? Queste di alimento, queste di abitazione, queste di rendite, queste di agi, queste di amenità, e queste di infinite ricreazioni da lui godute, or nelle pesche, or nelle caccie, or ne’ conviti, or nei giuochi, or nelle sinfonie, or nelle scene, che se non fosser le mani, sarebbono tutte opere ignote al mondo.

VIII. Quinci in due stati può l’uomo considerarsi: in pace ed in guerra. In pace, che sarebbero tutte le arti proprie di un cuor tranquillo, senza la mano? Anzi neppur vi sarebbero. Non vi sarebbero le meccaniche, quali sono il tessere, il filare, il fabbricare, il cucire, ed altre infinite, che dalla mano hanno tutta la loro forma, benché sì varia. Non vi sarebbero le scientifiche, quali sono l’astronomia, l’architettura, la musica, l’anatomia, l’aritmetica, la geometria, la geografia, che dalla mano hanno tutti i loro istrumenti ammirabilissimi, e tutte anche le operazioni. E meno vi sarebbero ancora le imitatrici, quali sono il delineare, il dipingere, il fondere, l’intagliare, l’incidere, lo scolpire; arti di tutto sì debitrici alla mano. E per qual cagione una pittura, una scultura, una statua, si dicon essere di mano di Raffaello, del Bernini, del Buonarotti, o si negano essere di lor mano? se non perché quanto in tali opere è di stimabile al guardo, si attribuisce più quasi dissi alla mano dei loro valenti artefici, che alla mente.

IX. In guerra poi la mano fa che non solo l’uomo difendasi bravamente, ma ancor che offenda più di qualunque animale. Non ebbe pertanto egli bisogno di corna, come hanno i tori, perciocché di quelle ossa aguzze può molto più una spada di acciaio ch’egli abbia in pugno, un’asta, un arco, e più anche uno schioppo carico. Onde è, che i tori con la loro indomita fronte possono solo offendere da vicino, ma l’uomo con la mano quanto oltre arriva a sfogar lo sdegno! Che però neppure egli ha cagion d’invidiare i denti al cignale, il rostro allo sparviere, le branche allo scorpione, gli artigli all’aquila, le zanne orrende al leone. Che se dal leone è l’uomo superato in velocità, ecco che con la mano arriva l’uomo a soggettarsi il cavallo, sul quale assiso vince il leone nel corso. (Galen. de usu part. I. 1. c. 1). Quindi, lavorando mille armi negli arsenali, assolda egli, per dir così, fino i fulmini nelle bombe: ed arrivando sino a domar gli elementi con la sua mano, ora comanda all’oceano che gli sostenga, benché superbo, sul dosso possenti armate; ed ora imprigiona il fuoco dentro le mine, fino a costringerlo, se si vuole rimettere in libertà, dì servirgli in tal atto di guastatore, mandando all’aria, ove muraglie, ove massi d’immensa mole.

X. Tutte queste arti, o pacifiche, o bellicose (con tante ancora di più che potrebbero annoverarsi) che sarebbero all’uomo senza la mano? Sarebbero come un’aquila senza penne, inabile ad alzarsi un palmo da terra, non che a volare. Laddove col favor della mano a che non si son esse avanzate di perfezione? I soldati di Pirro, per dargli un vanto degno di quella velocità con la quale egli al tempo stesso arrivava, assaltava, abbatteva ogni suo nimico lo chiamarono un giorno col nome di aquila. Il che egli udendo: Sì, disse, soldati miei: mi contento dell’onor che mi fate con dirmi un’aquila, purché sappiate, che voi siete quell’ali su cui m’innalzo. Diansi pur dunque alla mente umana tutte quelle lodi più alte ch’ella si merita, purché confessisi, che le mani son l’ale per cui fa ella, che l’uomo sollevisi sopra gli altri animali, e signoreggi.

III.

XI. Quindi è che restaci a considerare ora il meglio, che è l’artifizio con cui le mani furono architettate dalla natura, affinché servissero all’uomo di esecutrici sì belle ne’ suoi disegni. E giacché questo altro non è che provare il secondo punto (cioè, quanto bene furono le mani adattate al lor fine prossimo, di pigliare, di stringere, di sforzare, di straportare altrove ciò che volessero) ecco che ad esse fu data in prima una figura bislunga, la quale vada a terminare in più parti, e sottili e fesse e flessibili a meraviglia: altrimenti non avrebber le mani potuto afferrare qualunque ragion di corpi, circolari, o concavi, o retti (che son le forme cui si riducono tutti), e molto meno avrebbero potuto afferrare i maggiori, o i minori di sé medesime, e malamente gli eguali. E perché molti ancora di tali corpi sono di mole o disadatta, o pesante, non solamente le mani, in riguardo di essi, furono due, ma furono tanto pari, tanto pieghevoli, e tanto bene inchinate ancor l’una all’altra, che si potessero aiutare insieme con somma facilità, come due sorelle carnali.

XII. Oltre a ciò, la division delle parti, cioè delle dita in cui la mano finisce, doveva essere con tal arte, che quando queste si congiungano insieme, la mano ci serva, come se ella fosse tutta d’un pezzo: e quando si disgiungano, ella ci serva, come se fosse di più. Per lo qual fine si richiese altresì che le dita fossero più di numero, ma non eguali di altezza, per potere al pari comprendere il poco e ‘1 molto: il poco, quale sarebbe un ago al sartore, con l’estremità dello prime due; il molto, quale sarebbe un’alabarda al soldato, con tutte insieme.

XIII. Né dovevano essere tutte disposte tali dita ad un modo: altrimenti se non vi fosse da lato il pollice, qual sarebbe la forza delle altre quattro? A premer bene una cosa, conviene premerla e di sopra e di sotto. Di sopra la premono l’altre dita, di sotto al tempo stesso la preme il pollice, dito però più corto sì, ma più grosso: più corto, perché agli altri non sia d’impaccio; più grosso, perché dovendo da sé solo valere al pari di tutti gli altri, sia più robusto. Quindi è, che come la mano non val più nulla, se perdute le altre quattro dita rimanga col solo pollice; così val poco, se perduto il pollice resti con l’altre quattro. Che però agli Egineti sì prodi in mare, fecero gli ateniesi tagliare il pollice, perché restassero atti a maneggiare il remo a loro piacere, ma non già l’asta. (Aelian. De Var. hist. 1, 2. c. 3).

XIV. E da che i corpi sferici, ad esser ben tenuti, non richiedono manco di cinque dita, cinque le dita sono, ma non son più, perché il sesto, siccome non necessario, sarebbe più d’incomodo a qualunque opera che di aiuto.

XV. Parimente dovevano le dita essere così tenere, così tonde, e così rinforzate in su l’estremo con l’unghie, quali in noi sono. Se non fossero tenere, non sarebbero istrumenti opportuni al tatto, tanto più valido, quanto più risentito: se non fossero tonde, non sarebbero tanto forti a tenere ciò che afferrano: e se non fossero rinforzate dall’ unghie, riuscirebbero inabili a ben tastare, specialmente le cose piccole, e a grattare, a graffiare, a scarnare ciò che sia d’uopo.

XVI. Di vantaggio non bastava alle dita poter piegarsi, affine di afferrare opportunamente ciò che volevano; ma dovevano ancora piegarsi tanto, che si adattassero a qualunque figura; e dall’altra banda non potevano senz’ossa fare gran forza; pertanto ecco che la natura, lavorandole a tal effetto d’ossa e di carne, ha divise ad un’ora l’ossa in più articoli, acciocché la man si potesse e spiegare in un attimo, e ripiegare senza fatica.

XVII. Tre sono gli articoli delle dita minori, perché se fossero più, non si distenderebbero tanto bene; e se meno, non abbraccerebbero ogni figura, ancora rotonda. E due sono gli articoli nel maggiore, cioè nel pollice, perché abbia maggior possanza a resistere quando preme. Ciascuno pòi di questi articoli è legato mollemente non meno che fortemente nella sua giuntura, affinché per qualunque sforzo non si sconvolga: essendo frattanto ciascuna giuntura ripiena di un umor pingue, che facilita il moto per ogni verso; come costumasi di tenere unte le ruote, perché in andare, più speditamente rivolgansi intorno l’asse.

XVIII. E dacché l’ossa non potevano muoversi da sé sole, la natura vi aggiunse i muscoli, provveduti né di tanta carne, dalla parte superior delle dita, che la mano riuscisse troppo pesante; ne di sì poca dalla parte inferiore, che, come emunta, riuscisse poco abile al palpeggiare.

XIX. Ai muscoli è convenuto poi di aggiungere i nervi, le vene, le arterie, le fibre, ed altri legami finissimi, intorno ai quali tante cose osserva Galeno, e tanto vi ammira la sapienza del loro compositore, che pare aver lui cambiate le parti di fisico in quelle di teologo, giungendo a riconoscere nella figura, nella fortezza, e nell’accrescimento dell’unghie stesse una provvidenza bastevole a svergognare qualunque incredulo.

IV.

XX. Ma frattanto interviene a me come ad un pescatore di perle, che mirando sott’acqua uno stuolo di margherite, che vanno a nuoto non sa quale si prendere avidamente, e quale lasciare: né tanto è allegro per la preda che stringe, quanto è afflitto per quella che scappagli dalla mano, angusta al bisogno. Altro libro che questo si converrebbe per discorrere degnamente di tali cose, senza pentirsi di averne impreso a trattare. Stando nondimeno in quel poco che ne ho accennato, vi sarà chi si possa persuadere, che mani lavorate con sì grande attitudine al loro fine, siano senz’arte? Anzi, come saranno giammai senz’arte, se esse son le immediate lavoratrici di quanto tutte le arti hanno in sé di utilità e di vaghezza, che pure è tanto? Quando fosse l’uomo però divenuto muto in predicar le glorie del Creatore, io son certo, che benché privo di lingua me lo darebbe chiaramente a conoscere, come sa fare ogni mutolo, con le mani.

XXI. E voi, che con tale occasione avete ormai scorto, che benefizio sia quello che il Creatore vi conferì con rendervi, in virtù di esse, spedito e sciolto a qualunque opera vostra, vi siete mai ricordato di ringraziarlo di sì gran dono? Figuratevi un poco, che sia di un uomo che nasce monco, o che monco in brieve diviene. Non è spettacolo fino agli stessi nemici di pietà somma? Come volete però, che un benefizio sì nobile, qual è questo, si debba al caso? Il caso (se vogliamo parlar così) il caso può levare ad uno le mani, con fare a cagion d’esempio, che quando egli scarica un archibuso, o un’artiglieria, se le stroppi miseramente; ma non può dargliele. Questo non è mai seguito a memoria d’uomo. Come dunque ritroverassi chi, invece d’impiegar le sue mani in tessere ogni dì novelli serti di gloria a chi gliele diede, le impieghi ingrato a strapparglieli dalla fronte?