–Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA –
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (9)
Si risponde a chi abusa il nome di naturaa negare Iddio.
I .
I . Plinio, istorico grande, ma tracotante, che quanto seppe dell’opere naturali, tanto ne ignorò dell’Artefice; dopo molto dibattere la sua penna per iscancellarsi dal cuore ciò che vi aveva da sé scritto chi lo formò, giunse finalmente a conchiudere che altro Dio non doveva conoscersi al mondo, che la natura: Per quæ declaratur haud dubie naturae potentia: idque esse, quod Deum vocamus (Pl.l.2.c. 7).(1) Queste parole di Plinio contengono la definizione del naturalismo metafisico, dottrina, che pone la natura al posto di Dio). Sembra però, che gli ateisti abbiano appreso dalla scuola caliginosa di un tale autore a non volere altro nume, che questo nume di natura, per altro venerandissimo, tanta è la sua antichità. Ma se è così, calino dunque pure giù la cortina, e ci lascin vedere ciò che si asconde sotto sì degno vocabolo. Intendono forse eglino per natura quella radice di proprietà singolare di ciascuno individuo? Ma ciò sarebbe, come se per levare la gloria a Fidia, si asserisse per autore delle sue statue il marmo, gli scarpelli, le seste, e non la mente di quell’artefice sommo. Conciossiachè, siccome quantunque il marmo sia capacissimo di ricevere la figura d’uomo, e gli scarpelli e le seste sian capacissimi di esser istrumenti a donargliela; contuttociò né quello né questi avrebbero da sé soli mai fatto nulla senza la mano maestra: così forza è che succeda nel nostro caso, anzi molto più; perchè se senz’arte non può mai formarsi verun lavoro dall’arte, molto meno senz’arte può mai formarsene alcuno dalla natura, la quale è quella che dà le regole all’arte.
II.
II. Pigliate in mano una rosa, e domandate a costoro, se sanno dirvi chi le lavorò sì gentilmente quel manto cui cede lo scarlatto ancora reale, e chi segue già, da tanti anni che il mondo dura, a lavorargliene ogni primavera un novello? La terra è cieca e non s’intende di colori, di vistosità, di vaghezza, di proporzioni; cieche sono le spine onde pullula sì bel fiore, cieche le radiche, ciechi i rami: cieche son le rugiade che ella ha per latte; e cieco il sole che le apre sul mattino la boccia su cui pompeggia, e che l’aduggia alla sera, per figurare a quanti vogliono attendervi de’ mortali, la vanità delle loro ambite bellezze: Magna admonitione hominum, quæ spectatissime florent, ertissime arescere. (Pl. . 21, c. 1). Conviene pur dunque trovare a parto sì vago una madre più bella che non è la terra, le spine, le radiche, i rami, l’umore, il sole, e gli influssi che piovono dalle stelle. Convien trovare chi mai fu che vi seppe dispor sì bene il vermiglio di quella porpora, diminuendolo a poco dalle foglie più intrinseche alle più estrinseche, senza svario. Convien trovare chi vi innestò sì profondamente l’odore che esse diffondono con pari soavità da qualunque lato. Convien trovare chi dispose quelle venette che vi scorrono dentro, e insieme vi ripartiscono l’alimento per tante vie, quante l’anatomia loro propria ne ha già scoperte. Convien trovare chi collocò tutte quelle foglie a suo luogo, chi le torse con tanto garbo, chi le agguagliò con tanta misura, chi le attondò con tanta maestria, chi vestì ciascuna di un velo finissimo più che il bisso, chi le coperse di una lanugine delicata, quasi a testificarne la giovinezza, e chi finalmente vi compilò tanto di stupori in un guardo, che la vita di un uomo sarebbe corta, se li dovesse trascorrere ad uno ad uno (S. Th. 1. 2. q. 21. art. 2. in e). Tutto questo doveva di necessità essere artifizio di una cagione sapientissima, la quale si valesse della materia variamente disposta della terra, delle spine, delle radici, de’ rami, delle rugiade, del calor solare, e degli altri influssi, come lo scultore si vale del marmo, degli scalpelli, delle seste, e d’ogni suo ferro, a perfezionare il disegno di quella statua che egli divisò nella mente: onde vano è per questo vocabolo di natura, nel caso nostro, intendere altro che Dio, primo Autore delle opere naturali.
III.
III. Oltre a che non veggiamo noi, come in tutte le parti, benché insensate, dell’universo, spicca una inclinazione, la quale sarebbe mirabile ancor tra quei che professano regole di onestà: ed è, d’intendere al bene del loro tutto, più che al loro proprio? qual dubbio adunque che non può questa in veruna di tali parti venire impressa da altri, che da una cagione universalissima, a cui appartenga la cura del prò comune? Eccovi per figura l’argento vivo. Se egli non fosse predominato da altra propension che da quella del proprio comodo, come volete voi che egli s’inducesse a salire in alto, quasi agile e non gravoso? Eppure egli sale, e sale a questo sol fine di empiere il vacuo, pregiudiziale alla pubblica utilità. Che però questa e più altre simili osservazioni che possono farsi sull’operare delle sostanze in bene non proprio, ci fanno scorgere ad evidenza, che oltre alle nature particolari, le quali a guisa di un padre di famiglia provvedono allo loro case private, v’è al mondo una natura universale, che a guisa di principe supremo invigila tutt’ora al servigio pubblico, valendosi a tal fine delle parti subordinate,, con accorgimento mirabile in prò del tutto. Senza questo supremo intelletto, nessuna delle nature inferiori potrebbe andare sì diretta al suo fine, qual nave al porto. Tolto questo intelletto, ciascuna natura mirerebbe a sé sola, nessuna al bene delle altre (Queste giuste considerazioni ci ricordano i versi di Dante: « … Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma, che l’universo a Dio fa somigliante – Par. c. 1. » ). Tolto questo intelletto, 1’uomo non potrebbe essere uomo, cioè non potrebbe essere ragionevole (S. Th. 1. p. q. 90. art. 1. ad 1.). Conciossiachè non v’essendo tra le cagioni visibili verun’altra, la quale possegga la perfezione d’intendere come lui, non si potrebbe rinvenir mai chi gli desse l’intendimento Che se pure vogliamo dire, che tolto questo intelletto supremo, l’uomo fosse quell’uomo che egli è al presente; l’uomo sarebbe altresì, come ragionevole, la cagione più nobile di quanto noi ne miriamo nel nostro mondo. E chi vi è di maggiore dal cielo ingiù, che la mente umana? Nihil est maius mente humana, nisi Deus; tanto è costretto a confessare ciascuno con Agostino (L. 14. de Trinit. c. 8): onde le invenzioni dell’ uomo, le industrie dell’uomo, i lavori dell’uomo dovrebbero superare tutte lo opere delle cagioni inanimate e prive di senno, e superarle di modo, che a tutte le fatture della natura dovrebbero preferirsi di lunga mano tutte le manifatture dell’arte, come provenienti dall’unico intenditore che in tutto l’universo sensibile rimarrebbe se si verificasse che non v’è Dio.
IV.
IV. Ecco però Dio nascosto insieme e svelato sotto questo nome sì celebre di natura,
che (a metterlo ancor più chiaro) ha due sensi: quello di natura, che chiamano naturata (seppure voi pigliate a sdegno i vocaboli delle cattedre), e quello di natura che chiamano naturante (Natura naturans … est Deus. Natura naturata est rerum omnium creatarum insita vis (Lexicon Peripat.). Con questa metafisica distinzione il naturalismo cade da sé.). La natura naturata è quella inclinazione che spinge qualunque cosa al conseguimento del fine a cui fu prodotta. La natura naturante è l’autore che dà tal inclinazione. Perché, come il volo della saetta, la quale è cieca a conoscere il suo bersaglio, dimostra apertamente, mentre vi va sì risoluta, sì retta, che ella è mandata da qualche direttore di buona vista; così il corso delle cose naturali, che sono cieche a conoscere il loro fine, dimostra più chiaramente (mentre vi tendono) che v’è chi il vede per esse e chi le inclina, o piuttosto ve le necessita; ma con questa diversità, che quella necessità la quale è impressa nelle cose dall’uomo è detta violenza; quella necessità la quale fu impressa nelle cose di Dio vien detta natura (S. Th. 1. p. q. 103. art. 1° ad 3.). Onde, se il veder la saetta necessitata a seguir con aggiustatezza il cinghial fuggente, ci obbliga a dire, evvi arciere che la scoccò: molto più il vedere la terra, l’acqua, l’aria, e tutte le sfere, necessitate a procedere con giudizio tanto più stabile e tanto più sollevato ne’ lor corsi, ci obbliga a dire, evvi nume che le indirizza. Mirate dunque, che come non può fuggirsi dal mondo senza incontrare quel mondo da cui si fugge, così non può negarsi Dio senza confessarlo. Il chiamare natura quella potenza invisibile che dà l’ordine a cose sì belle in sé, sì concatenate, sì comode, sì durevoli, e non volerla chiamare Dio, è un chiamare il sole principe de’ pianeti e non voler per dispetto chiamarlo sole. Può bene la lingua umana cambiargli titoli, ma non può gettarlo dal trono: Nòli intelligis te mutare nomen Deo? Disse già Seneca. Quia est aliud natura, quam Deus, et divino, ratio, toti mundo, et partibus eius inserta (Sen. De ben. 1. 4°. c. 7.). E però torna da capo il mio primo assunto, ed è, che più dovete penare senza paragone a persuadervi che non v’è Dio, che a persuadervi che v’è: tanto gli effetti cospirano unitamente a notificarvi il loro fattore.
V. Finora abbiamo veduto ciò. stando più sulle generali, per abbattere chi non crede. Orail vedremo discendendo maggiormente allocose particolari, per confortare tanto più chicomincia a credere. E perché questo fattoredell’universo è chiamato in ristretto Creatordel cielo e creatore della terra, stimerò difare il pregio dell’opera, se vi mostri, comei l cielo testifica a favor d’ esso, e come laterra.
Quando tante sono le cause per l’esistenza di una realtà, tanto più è evidente che nessuna di esse è la causa principale e unica che dà senso a tutte le cose, perché tutte in sé stesse, non sono la causa certa della crescita delle cose.
Assume perciò grande valore la frase di San Paolo che dice: TIZIO HA SEMINATO, CAIO HA COLTIVATO,…. DIO HA FATTO CRESCERE, cosa questa FONDAMENTALE. Quindi le cause che aiutano, ma non fanno crescere… NON SONO Fondamentali, MENTRE DIO È FONDAMENTALE.