SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, ET INVOCATE NOMEN EJUS” (CIV)

SALMO 104: “Confitemini Domino, et invocate nomen ejus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 104

Alleluja.

[1] Confitemini Domino, et invocate nomen ejus;

annuntiate inter gentes opera ejus.

[2] Cantate ei, et psallite ei; narrate omnia mirabilia ejus.

[3] Laudamini in nomine sancto ejus; lætetur cor quærentium Dominum.

[4] Quærite Dominum, et confirmamini; quærite faciem ejus semper.

[5] Mementote mirabilium ejus quae fecit, prodigia ejus, et judicia oris ejus.

[6] Semen Abraham, servi ejus; filii Jacob, electi ejus.

[7] Ipse Dominus Deus noster; in universa terra judicia ejus.

[8] Memor fuit in sæculum testamenti sui; verbi quod mandavit in mille generationes;

[9] quod disposuit ad Abraham, et juramenti sui ad Isaac;

[10] et statuit illud Jacob in præceptum, et Israel in testamentum æternum:

[11] dicens: Tibi dabo terram Chanaan, funiculum hæreditatis vestræ;

[12] cum essent numero brevi, paucissimi et incolæ ejus.

[13] Et pertransierunt de gente in gentem, et de regno ad populum alterum.

[14] Non reliquit hominem nocere eis; et corripuit pro eis reges.

[15] Nolite tangere christos meos, et in prophetis meis nolite malignari.

[16] Et vocavit famem super terram; et omne firmamentum panis contrivit.

[17] Misit ante eos virum; in servum venundatus est Joseph.

[18] Humiliaverunt in compedibus pedes ejus; ferrum pertransiit animam ejus;

[19] donec veniret verbum ejus, eloquium Domini inflammavit eum.

[20] Misit rex, et solvit eum; princeps populorum, et dimisit eum.

[21] Constituit eum dominum domus suæ, et principem omnis possessionis suæ;

[22] ut erudiret principes ejus sicut semetipsum, et senes ejus prudentiam doceret.

[23] Et intravit Israel in Ægyptum; et Jacob accola fuit in terra Cham.

[24] Et auxit populum suum vehementer, et firmavit eum super inimicos ejus.

[25] Convertit cor eorum, ut odirent populum ejus, et dolum facerent in servos ejus.

[26] Misit Moysen, servum suum, Aaron quem elegit ipsum.

[27] Posuit in eis verba signorum suorum, et prodigiorum in terra Cham.

[28] Misit tenebras, et obscuravit; et non exacerbavit sermones suos.

[29] Convertit aquas eorum in sanguinem, et occidit pisces eorum.

[30] Edidit terra eorum ranas in penetralibus regum ipsorum.

[31] Dixit, et venit cœnomyia, et ciniphes in omnibus finibus eorum.

[32] Posuit pluvias eorum grandinem, ignem comburentem in terra ipsorum.

[33] Et percussit vineas eorum, et ficulneas eorum, et contrivit lignum finium eorum.

[34] Dixit, et venit locusta, et bruchus cujus non erat numerus;

[35] et comedit omne foenum in terra eorum; et comedit omnem fructum terræ eorum.

[36] Et percussit omne primogenitum in terra eorum, primitias omnis laboris eorum.

[37] Et eduxit eos cum argento et auro, et non erat in tribubus eorum infirmus.

[38] Lætata est Ægyptus in profectione eorum, quia incubuit timor eorum super eos.

[39] Expandit nubem in protectionem eorum, et ignem ut luceret eis per noctem.

[40] Petierunt, et venit coturnix, et pane cœli saturavit eos.

[41] Dirupit petram, et fluxerunt aquae, abierunt in sicco flumina;

[42] quoniam memor fuit verbi sancti sui, quod habuit ad Abraham, puerum suum.

[43] Et eduxit populum suum in exsultatione, et electos suos in lœtitia.

[44] Et dedit illis regiones gentium, et labores populorum possederunt:

[45] ut custodiant justificationes ejus, et legem ejus requirant.

SALMO CIV

Titolo del Salmo è Alleluia “lodate il Signore”, come lo è degli altri due Salmi che seguono; poiché in questi si narrano i beneficii di Dio al suo popolo, pei quali è Dio degno di ogni lode. Presso gli Ebrei l’Alleluia è in finti del Salmo superiore. — Ma i LXX e la Chiesa, a ragione, lo pongono in capo dei Salmi suddetti.

Alleluja, (cioè) lodate il Signore,

1. Date lode al Signore, e invocate il suo nome; annunziate le opere di lui tra le genti.

2. Cantate la gloria di lui sugli strumenti di musica, raccontate tutte le sue meraviglie.

3. Gloriatevi nel santo nome di lui; sia nell’allegrezza il cuore di quelli che cercano il Signore.

4. Cercate il Signore, e fatevi forti; cercate mai sempre la sua presenza.

5. Ricordatevi delle meraviglie che egli fece: de’ suoi prodigi, delle leggi ch’ei pronunziò di sua bocca,

6. O voi seme di Abramo, servi di lui; o voi figliuoli di Giacobbe, gli eletti di lui.

7. Egli il Signore Dio nostro; i giudizi di lui sono noti a tutta quanta la terra.

8. Egli si è ricordato sempre della sua all’alleanza: della parola fermata da lui per mille generazioni.

9. Della parola ch’ei diede ad Abramo, e del giuramento suo ad Isacco.

10. Giuramento ch’ei confermò quasi legge a Giacobbe, e ad Israele qual patto sempiterno;

11. Dicendo: A te darò la terra di Chanaan, divisa come vostra eredità.

12. Benché e’ fossero in piccol numero, pochissimi di numero, e in essa stranieri:

13. E passarono da una nazione ad un’altra, e da un regno ad un altro popolo. (1)

14. Non permise che uomo facesse loro alcun male, e per essi castigò de’ re. (2)

15. Non toccate i miei cristi, e non malignate contro de’ miei profeti.

16. E chiamò sulla terra la fame, e tolse tutto il sostegno del pane. (3)

17. Mandò avanti di lui un uomo: Giuseppe fu venduto per ischiavo. (4)

18. Lo umiliarono inceppandogli i piedi; il ferro trapassò l’anima di lui,

19. fino a tanto che si adempisse la sua parola. La legge del Signore lo avea messo nel fuoco;

20. il re mandò a scioglierlo: il principe de’ popoli lo liberò.

21. Lo costituì padrone della sua casa, e principe di quanto ei possedeva.

22. Affinché egli sua sapienza comunicasse ai suoi grandi, e al senato di lui insegnasse prudenza. (5)

23. E Israele entrò nell’Egitto, e Giacobbe pellegrinò nella terra di Chain.

24. E (Dio) moltiplicò grandemente il popol suo, e lo rendette più forte de’ suoi nemici.

25. Ei cangiò il cuor di coloro, perché prendesser in odio il popol suo e facesser soverchieria a’ suoi servi.

26. Spedi il suo servo Mosè, e Aronne, cui pur egli elesse.

27. E pose nelle lor mani i suoi miracoli, e i prodigi da farsi nella terra di Cham.

28. Mandò le tenebre, e tutto fu oscurità; ed egli non rendette vane le sue parole. (6)

29. Cangiò in sangue le loro acque, e uccise i loro pesci.

30. La terra mandò fuora i ranocchi nelle più segrete stanze de’ regi stessi.

31. A una sua parola venner le mosche e i mosconi per tutto quanto il loro paese.

32. Mutò in grandine le loro pioggia: piovve sulla loro terra un fuoco divoratore.

33. E percosse le loro viti e le loro e fece in pezzi le piante delle loro re.

34. A una parola di lui venne la lo il bruco, ed erano senza numero;

35. E mangiaron tutta l’erba de’ lor reni, e mangiarono tutti i frutti dei loro campi.

36. E percosse tutti i primogeniti nel terra, le primizie di lor robustezza.

37. E menò via Israele coll’argento l’oro; e nelle lor tribù non era un malato.

38. Si rallegrò della loro partenza l’Egitto perché era sopraffatto dal timore che aveva di essi.

39. Stese una nuvola che li coprisse e fe’ che il fuoco gl’illuminasse di notte.

40. Chiesero e venner le quaglie; e li iniziò con pane del cielo.

41. Fendette la pietra, e scorser le sgorgaron fiumi in un luogo di siccità.

42. Perché  egli ebbe memoria di questa santa parola, detta ad Abramo suo servo.

43. E il suo popolo trasse fuora tutto esultante, e i suoi eletti pieni di allegrezza.

44. E diede loro i paesi delle nazioni, furon padroni delle fatiche dei popoli,

45. Affinché  osservino i suoi comandamenti e amino la sua legge.

(1) De gente in gentem, dalla Palestina in Egitto.

(2) Allusione al modo in cui Dio libererà Sara dalle mani di Abimelech e del faraone e Rebecca dalle mani di Abimelech.

(3) In ebraico: Omnem baculum panis, il pane è chiamato bastone, perché sostiene coloro che se ne nutrono, come il bastone sostiene coloro che vi si appoggiano.

(4) Egli fu gettato ai ferri finché non si fu compiuta la profezia che aveva fatto al gran panettiere, ed al gran coppiere del faraone.

(5) In modo tale che rese tutti I suoi principi dipendenti di Giuseppe, e Giuseppe formò in saggezza tutti gli anziani del faraone.

(6) Non exacerbavit, significa: Dio non ha annullato le sue parole.

(7) In tutte le tribù di Israele non si trovò un solo malato che fosse obbligato a restare in Egitto.

Sommario analitico

Questo salmo, che è come il seguito del salmo CIII, il salmista, dopo aver raccontato le meraviglie della creazione, mostra quelle della Provvidenza nel governo del popolo di Dio; il Profeta, ricorda la condotta paterna e provvidenziale di Dio nei riguardi del suo popolo. (I Paralip. ,XVI, 8-23) – [I primi quindici versetti di questo salmo si leggono nel primo libro dei Paralipomeni (XVI, 8-23); vi sono riportati come cantati alla traslazione dell’arca. È dunque probabile che siano stati composti da Davide stesso. Quanto al resto del salmo, non è certo che sia dello stesso periodo e dello stesso autore. Tuttavia, malgrado l’opinione di qualche esegeta che ne sposta la composizione a dopo la cattività, crediamo che l’uniformità dello stile sia una ragione per credere che sia interamente del medesimo autore.]

I. – Esorta gli israeliti a lodare, a celebrare Dio:

1° In parole, – a) per la confessione e la riconoscenza del suo sovrano ambito; – b) con l’invocazione del suo nome (1); – c) annunciando in pubblico le sue opere (2);

2° Nelle loro opere, – a) praticando delle virtù degne di lui; – b) applicandosi a cercare Dio con generosità (3, 4);

3° Nei loro pensieri: – a) conservando un vivo ricordo dei suoi benefici e dei suoi precetti (5).

II. – Gli fa conoscere le ragioni di questo dovere, che invita ad adempiere, che sono cioè i benefici di Dio:

1° Prima della loro entrata in Egitto: – a) l’alleanza fatta con Dio l’Onnipotente, con Abramo, Isacco e Giacobbe e la loro posterità, e la promessa che fece loro di donare la terra di Canaan (6-12); – b) la protezione con cui li ricoprì durante il loro viaggio (13-25); – c) la cura con la quale provvide alla sussistenza dei patriarchi durante la carestia, con la venuta di Giuseppe, la sua prigionia e la sua elevazione in Egitto (16-22);

2° Durante il loro soggiorno in Egitto: – a) la libertà che fu loro data dello stabilirsi in Egitto, la loro crescita, ed infine i prodigi operati da Mosè, la libertà che ottiene di uscire dall’Egitto con le ricchezze degli Egiziani (23-38);

3° Dopo la loro uscita dall’Egitto, – a) il loro viaggio miracoloso attraverso il deserto; – b) i prodigi operati in loro favore, la colonna di nubi e fuoco, il nutrimento che venne loro dal cielo, e l’acqua che zampillò miracolosamente dalla roccia, per la ragione di questi benefici passati e a venire, che è la promessa fatta ad Abramo (39-42);

4° Nella loro entrata nella terra di Chanaan: – a) Dio li mette in possesso di questa terra, tra i trasporti della più viva allegrezza (43-44). Il disegno di Dio, colmando così il suo popolo di benefici, era di renderlo fedele alle leggi che Egli gli donava (45).

Spiegazioni e Considerazioni (1)

I. — 1-5.

(1) N. B. Questo salmo ed i due seguenti, essendo per lo più una enumerazione dei benefici di Dio al suo popolo, dei suoi lamenti, della sua ingratitudine, della sua idolatria e dei suoi castighi che ne furono la giusta punizione, non hanno bisogno se non di un’analisi ragionata alla quale ci contentiamo di aggiungere qualche riflessione che sono un riassunto sommario della dottrina dei Padri.

ff. 1-5. – Tre sono i grandi oggetti dei nostri doveri: Dio, noi stessi, ed il nostro prossimo.  1° Noi dobbiamo offrire a Dio il tributo delle nostre lodi; 2° dobbiamo chiedergli le sue grazie; 3° dobbiamo far conoscere agli altri i doni di Dio. Noi compiamo il primo dovere con la fede, il secondo con la speranza, la terza con la carità. Aggiungiamo uno zelo puro e disinteressato, che non ci faccia cercare la nostra gloria, ma quella di Dio. Tale è il soggetto del salmo, come enunciano i primi tre versetti. – C’è una specie di gradazione in questo invito del Profeta: riconoscere dapprima la grandezza di Dio, e concepire delle idee sublimi della sua potenza, della sua maestà, della sua eternità, di tutto il suo essere. – Questo primo esercizio ci condurrà facilmente ad invocare il suo santo Nome, perché la conoscenza del bisogno che noi abbiamo della sua protezione ci porterà senza sforzo ad implorare il suo soccorso. Ma lo zelo della sua gloria e l’amore che dobbiamo ai nostri simili non ci permetteranno di mantenere il silenzio sulle opere della potenza divina; di là scaturisce l’obbligo di rendergli un culto pubblico nell’assemblea dei fedeli, di aggiungere i nostri canti di lode e le azioni di grazie a quelle dei ministri del santuario. – Alla lode succede ordinariamente l’invocazione, nella quale il peccatore forma come un fascio di tutto ciò che desidera; è così che l’orazione domenicale comincia con una breve lode a Dio, così concepita: « Padre nostro che sei nei cieli. » (S. Agost.). Glorificatevi non per le vostre virtù, né per il vostro coraggio, ma nel Nome di Dio che vi è stato predicato, secondo questa parla dell’Apostolo: « Chi si glorifica, si glorifichi nel Signore. » (I Cor., XI). – Nessuna vera gloria che c’è se non quella che si trova in Dio; nessuna vera gioia che quella che si gusta nel cercarlo (Dug.). – Che cos’è la faccia del Signore, se non la sua presenza? Ma che significa: « Cercate sempre il volto del Signore ? ». Con la parola “sempre”, il Profeta ha voluto dire che durante tutta la nostra vita quaggiù, come la viviamo dal momento in cui sappiamo che dobbiamo cercare Dio, noi dobbiamo cercarlo ancora dopo averlo trovato. Perché la fede lo ha già trovato, ma la speranza lo cerca ancora; e la carità che l’ha già trovato con la fede, cerca di possederlo con la visione nella quale Egli sarà sì pienamente trovato e che ci sarà sufficiente, e non avremo più da cercarlo. … Cercare il Signore significa che si ama il Signore, l’averlo trovato non ci impedirà di cercarlo ancora; ed al contrario, non facendo che accrescersi l’amore di Dio, la ricerca di Dio non farà che accrescersi pure, anche dopo che si sarà trovato (S. Agost.) – Nessuno si avvicina di più alla conoscenza della verità, di colui che comprende nelle cose divine in cui già ha fatto grandi progressi, ché restano ancora molte cose da cercare, da acquisire. (S. Leon, Serm. IX de Nativ.). – Per noi è un dovere cercare Dio sempre nelle nostre azioni senza far nulla senza la sua guida; di cercarlo sempre nella preghiera che deve essere continua, per essere uguale ai nostri bisogni; di cercarlo con il ricordo dei suoi giudizi e dei suoi benefici; di cercarlo sempre finché non godremo della chiara visione dei cieli. –  Noi dobbiamo sempre cercare la presenza di Dio ed applicarci con zelo perseverante affinché Dio ci conceda di gioire in sua presenza e non si allontani da noi. Durante questa vita, è la fede che cerca la presenza di Dio, la speranza che lo trova; ma è la carità che lo ottiene pienamente nella vita eterna, là dove l’amore della vera presenza non può né diminuire né estendersi. (S. PROSPER, in hunc psalm.).

II — 6-22.

ff. 6-22. – Il Profeta lascia l’entusiasmo ardente delle sue lodi e scende a parole proporzionate alla nostra intelligenza, per nutrire il nostro amore ancora debole e per così dire ancora da lattanti, per lo spettacolo delle meraviglie che Dio ha operato nei tempi. « o voi, razza di Abramo; o voi, figli di Giacobbe, ricordatevi delle meraviglie che Egli ha operato, dei suoi prodigi e dei giudizi della sua bocca. » Ma il salmista non vuole lasciar credere che egli si indirizzi alla sola nazione di Israeliti secondo la carne, senza comprendere di preferenza nella razza di Abramo i figli della promessa, piuttosto che i figli della carne (S. Agost.). – Questi figli di Giacobbe, che Dio ha cercato fin dall’eternità, e che sono i figli della promessa, sono soprattutto coloro che devono ricordarsi delle meraviglie che Dio ha operato, di ciò che Egli ha fatto e di ciò che fa tutti i giorni a favore degli uomini; dei prodigi di grazia che ha compiuto per farli uscire dal vero Egitto, che è il peccato; dei giudizi di giustizia e di misericordia che Egli esercita su chi gli piace. – Sono questi i sentimenti e le disposizioni dei veri Israeliti, che non hanno altro Dio che il Signore, e che adorano con profondo rispetto ed intera sottomissione, i giudizi che Dio esercita sulla terra quali essi siano. –  Dio non dimentica mai l’alleanza che ha concluso con gli uomini. La promessa di Dio non è soggetta a cambiamenti, come quelle degli uomini; essa non si affievolisce con la lunghezza dei tempi, ma si estende per tutte le età future. – Dio fa un giuramento, come per imporre a se stesso la necessità di eseguire ciò che ha promesso e di farne un decreto irrevocabile. – Terra di Canaan, eredità degli Israeliti, secondo la carne. – Felicità del cielo, vera terra dei viventi, eredità degli Israeliti secondo lo spirito. Piccolo gregge di eletti scelti nell’universalità delle nazioni, figura terribile del piccolo numero di coloro che devono possedere l’eredità del cielo. – La vita errante dei Patriarchi, è figura dei Cristiani che non hanno dimora fissa e stabile sulla terra, ove sono pellegrini e stranieri. (Dug. – Bellarm.). – Questa Chiesa antica era debole ed ancor giovane; dei pastori erranti ne erano i rappresentanti, e tuttavia Dio aveva con essa tutto il suo cuore, faceva riposare in essa tutte le sue speranze e far brillare per esse prodigi di ogni sorta. I castighi spaventosi con cui Dio puniva il re d’Egitto ed il suo popolo, quando da protettori degli Israeliti ne divennero i persecutori accaniti, sono i preludi ed i simboli degli spaventosi castighi che la giustizia divina ha fatto piombare sui numerosi persecutori che, secolo dopo secolo, hanno cercato di opprimere la Chiesa. – « Badate di non toccare coloro che sono consacrati con la mia unzione santa, e di esercitare malignità sui miei profeti. – Giudicare severamente i nostri fratelli è un disordine universalmente condannato da Dio; ma è condannabile in particolar modo quando ci attacchiamo alle potenze stesse; che noi osiamo giudicare da noi stessi coloro dai quali dipendiamo, coloro che Dio ha stabilito per condurci, che ci ha dato per pastori e maestri: i prelati ed i ministri della Chiesa. Perché? Perché in essi c’è un carattere che dobbiamo singolarmente rispettare e del quale non possiamo toccare senza ledere Dio fin nella pupilla del suo occhio, secondo questa parola di Zaccaria; « colui che vi tocca la pupilla del mio occhio. » (Zacc. II, 8). Ecco perché ci fa ancora questa divieto sì espressivo: non toccate coloro che sono gli unti del Signore, e guardatevi dall’esercitare su di essi la malignità dei vostri giudizi. Disordine essenziale opposto a questa subordinazione di cui Dio è l’Autore, e di conseguenza il conservatore ed il vendicatore, poiché, dal momento che censuro la vita e la condotta di chiunque sia al di sopra di me, mi elevo al di sopra di lui, mi faccio giudice del mio giudice, e pertanto inverto l’ordine in cui Dio mi ha posto, e mi espongo alle infelici sequele che l’Apostolo ci fa temere per una tale inversione. Disordine che indebolisce e che snerva; diciamo meglio: che rovina e che annienta l’obbedienza degli inferiori; perché è impossibile che questa facilità nel giudicare e nel giudicare male, non produca mano a mano un segreto disprezzo di colui anche di cui si giudica, e che questo disprezzo non faccia nascere la contraddizione, i lamenti, le rivolte dello spirito e del cuore; da ciò si arriva, anche nelle società più regolate, per lo più ad una obbedienza esteriore, un’obbedienza politica, un’obbedienza senza merito; perché questa non è un’obbedienza cristiana (Bourd. sur le jug. tém.). – « Essi sono passati da una nazione all’altra e da un regno all’altro. Egli ha chiamato la fame sulla terra, ha distrutto ogni forza del pane ». Non dimentichiamo l’esame dei termini impiegati dalla Sante Scritture: « Egli ha chiamato la fame sulla terra, » come se la fame fosse un personaggio o un corpo animato, o uno spirito capace di obbedire a colui che lo chiamasse, mentre che la fame non è che causa di distruzione provocata dalla mancanza di nutrimento, che diviene come una malattia per coloro che la provano … « Egli ha chiamato la fame, » nel senso che ha ordinato che la fame servisse, di modo che chiamare, significa nominare, e nominare significa dire, e dire significa ordinare; perché Egli ha chiamato la fame, « Egli che chiama le cose che non sono, come quelle che sono. » (Rom. IV, 17). Dio ha chiamato la fame. Vale a dire che ha fatto scoppiare questo flagello che già esisteva in una disposizione segreta della sua volontà (S. Agost.). – Fame spirituale delle anime tanto più spaventosa quando è meno sensibile. – Dio rimuove la forza del pane con la sua parola, quando permette che la verità sia annunciata in maniera sì umana, da divenire inutile a coloro che l’intendono. – « Egli ha mandato un uomo davanti ad essi. » Quale uomo? Giuseppe. Come lo ha inviato? « Giuseppe è venduto per essere schiavo. » Sicuramente questa vendita è stata il crimine dei fratelli di Giuseppe, e tuttavia Dio ha inviato Giuseppe in Egitto. Egli ci fa ben comprendere questa grande verità, che Dio estrae il bene dal male che gli uomini fanno, come gli uomini estraggono del male da ciò che di bene Dio fa … il ferro che secondo il Profeta, ha trapassato la sua anima, rappresenta la sofferenza di una dura necessità e l’afflizione di Giuseppe fino a che la sua parola fu compiuta e l’avvenimento fu giustificato dalla sua interpretazione dei sogni (S. Agost.). – Cosa delle più infelici, quella di Giuseppe, se si giudicano le sue prove con lo spirito del mondo; ma cosa molto felice se si giudicano con le regole della saggezza di Dio! – Noi vediamo nella missione di Giuseppe le caratteristiche principali della missione data ai pastori delle anime, al predicatore del Vangelo: – 1° bisogna che sia “inviato”, “misit”; – 2° egli deve camminare davanti agli altri con il buono esempio che da loro, “ante eos”; – 3° deve essere dotato di una forza poco comune, di una forza virile “virum”; – 4° deve essere umile, fino a diventare il servitore, lo schiavo di tutti, « in servum venundatus est Joseph »: – 5° deve avere una pazienza a tutta prova e sopportare, se Dio lo permette, i trattamenti peggiori e più rudi, « umiliaverunt in compedibus pedes ejus »; – 6° deve essere pieno di zelo e di fervore, « eloquiam Domini inflammavit eum »; – 7° deve considerarsi come posto alla testa della casa di Dio, « costituit cum Dominum domus suæ »: – 8° deve istruire tutti coloro che vi sono sottomessi, anche i re ed i grandi della terra, « ut erudiret principes sicut semetipsum ». – Sant’Ambrogio considera Giacobbe come il modello di tutti coloro che vogliono vivere felici sulla terra. – Che può mancare in effetti a colui che è sempre accompagnato dalla virtù? In quale situazione non sarà potente? In quale stato di povertà non sarà ricco? In quale oscurità non sarà brillante? In quale inazione non sarà laborioso? In quale infermità non sarà vigoroso? In quale debolezza non sarà pieno di forza? In qual solitudine non sarà accompagnato? Egli avrà per compagna la speranza di una vita felice; per vestito la grazia dell’Altissimo, per ornamento le promesse della gloria (S. AMBR., de Jacob et vita beata.). – « Egli cambiò il loro cuore affinché prendessero il suo popolo in odio ». Bisogna prendere questa parola alla lettera e credere che Dio cambia il cuore dell’uomo perché commetta il peccato? O forse questa non era una colpa, o una colpa leggera odiare il popolo di Dio ed eliminare l’inganno contro i suoi servi? Non senza dubbio, gli Egiziani non erano buoni prima di odiare il suo popolo; essi erano al contrario molto malvagi ed empi da portare facilmente invidia verso il benessere degli stranieri stabiliti presso di loro. Moltiplicando il suo popolo, Dio, per questo stesso beneficio, indusse questi malvagi all’invidia. In effetti l’invidia è l’odio del benessere degli altri; è così che Egli portò il loro cuore all’odio verso il suo popolo con l’invidia ed a sopraffare i suoi servitori con mille inganni. Non è quindi facendo del male, ma facendo del bene al suo popolo che egli eccitò all’odio il cuore degli Egiziani, già malvagi di per se stessi. Non ha pervertito un cuore retto, ma ha diretto verso l’odio per il suo popolo il loro cuore già di per sé malvagio, alfine da estrarre il bene dal male che essi avrebbero fatto (S. Agost.).   

III. — 23-45.

ff. 23-45. – La mirabile moltiplicazione del popolo di Dio nell’Egitto, è figura della Chiesa che agli inizi era ridotta a poche persone, e che il Signore ha moltiplicato al punto in cui la vediamo ora. – Impossibile era per i veri servi di Dio essere per lungo tempo d’accordo con gli Egiziani, cioè con i mondani: essi li odieranno sempre, perché non possono soffrire né le loro massime, né la loro condotta, e non mancheranno mai di trovare mille artifici per sopraffarli. Missione divina, quella di Mosè ed Aronne. – più una missione è nuova e straordinaria , più essa ha bisogno di essere confermata da miracoli straordinari. – Piaghe d’Egitto- (V. Ps, LXXXVIII). – Uscita trionfante degli Israeliti. – Uscire da una dura prova caricati di enormi ricchezze, qual inestimabile felicità! – Nessuna malattia corporale nelle tribù d’Israele; né alcuno che non sia malato nell’anima e in Israele ed anche tra i Cristiani. – Era per paura e non per coscienza e per amore, che gli Egiziani diedero la libertà agli Israeliti: immagine troppo fedele delle disposizioni di tanti Cristiani che non fanno nulla se non per timore interessato, sempre pronti a rivoltarsi contro Dio, senza mai cedere se non con colpi tanto sensibili, o almeno alle minacce della sua rigorosa giustizia. – « Il Signore fece uscire gli Israeliti con molto oro ed argento, » perché non erano ancora capaci di disprezzare il salario temporale, senza dubbio, ma legittimo, dovuto ai loro lavori. Ora, se gli Israeliti hanno ingannato gli Egiziani, prendendo loro dell’oro e dell’argento, non bisogna credere che Dio comandi simili trucchi a coloro il cui cuore è rivolto al cielo, o che li approvi se li mettono in opera. In effetti Dio, secondo queste parole, ha permesso piuttosto che prescrivere questa azione a questo popolo del quale vedeva il cuore e del quale conosceva l’avarizia. Tuttavia delle anime carnali potrebbero allegare come motivo di approvazione per la condotta degli Israeliti, che gli Egiziani non hanno sofferto per parte loro ciò che avrebbero meritato e che, se gli Israeliti hanno impiegato l’inganno, non hanno fatto altro che riprendere da uomini ingiusti il salario che era loro dovuto. Ma rispondiamo semplicemente che Dio si è servito tanto dell’ingiustizia degli Egiziani, che della debolezza degli Israeliti, per figurare e predire con questi fatti le cose che un giorno avrebbe compiuto. (S. Agost.). – Provvidenza di Dio su di un popolo nel deserto, benefici nuovi, ragione di questi benefici, e fine che Dio si proponeva; – la densa nube che Egli stende per proteggerli, è figura della fede e dei due rapporti che la caratterizzano: la sua oscurità e la sua luce. Essa è oscura perché ha Dio per oggetto; luminosa perché è data all’uomo; oscura perché l’uomo è limitato; luminosa perché è ragionevole; oscura per non confonderla con le verità che ingannano sotto i sensi; luminosa per distinguerla dall’errore; oscura alfine perché deve sottometterci, e luminosa, perché deve confonderci (Mgr. De Boulog. “sur la Foi”). – « E diede loro in possesso i paesi delle nazioni, e li fece entrare in possesso dei lavori dei popoli. » Come se noi comandassimo quale è il valore di questi beni dati agli Ebrei, e nel timore che non si pensi che questa felicità temporale accordata da Dio al suo popolo sia il sovrano bene, il Profeta ci porta di seguito alla ricerca del sovrano Bene, e ci segnala nel corpo del salmo, l’anima che vi si trova in qualche modo nascosta: « affinché – egli dice – essi riguardino le sue ordinanze piene di giustizia e ricerchino la sua legge. » Bisogna concludere che se i servi e gli eletti di Dio, figli della promessa, vera e legittima razza di Abramo ed imitatori della sua fede, ricevono da Dio i suoi beni terreni, non è perché sprofondino nel lusso, e si intorpidiscano in una colpevole sicurezza. Essi devono, al contrario, possedere questi beni che la misericordia divina ha preparato loro e nella ricerca dei quali potrebbero lasciarsi assorbire da laboriose preoccupazioni, in modo tale che si applichino alla ricerca di ciò che può loro procurare il Bene eterno, cioè che attendano ai suoi ordini e ricerchino la sua legge. (S. Agos.).

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: MERCOLEDI’ DELLE CENERI: SULLA PENITENZA

MERCOLEDÌ DELLE CENERI

[Discorsi di san G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, Quarta Ed.; Torino – Roma, Marietti Edit. 1933 –

Nihil obstat Torino, 25 Nov. 1931

 Teol. Tommaso Castagno, Rev. Deleg.;

Imprimatur

C. Franciscus Paleari, Prov. Gen.]

[Si diffidano i fedeli Cattolici dalla lettura di versioni dubbie e senza alcuna garanzia di autenticità, dei Sermoni del Curato d’Ars presenti su Siti eretico-Modernisti o proposte da Case edit. Moderniste, senza che siano indicate le fonti originali, e soprattutto prive di nihil obstat ed imprimatur indispensabili, secondo le regole imposte dalla Cost. Ap. “Officiorum ac munerum” di S. S. Leone XIII e dall’Encicl. Pascendi di S. S. Pio X, la cui violazione comporta scomunica latæ sententiæ, riservata in modo speciale alla Sede Apostolica]

Sulla Penitenza

Pœnitemini igitur, et convertimini, ut deleantur peccata vestra.

(Act. III, 19).

Ecco, M. F.,  il solo spediente che S. Pietro annuncia ai Giudei colpevoli della morte di Gesù Cristo. Sì, loro dice questo grande Apostolo, il vostro delitto è orribile, perché avete rigettato la predicazione del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo, perché avete disprezzato i suoi benefizi e i suoi prodigi, e perché non contenti di tutto ciò, voi l’avete rinnegato e condannato alla morte più crudele e più infame. Dopo un tal delitto, quale spediente può restarvi, se non quello della conversione e della penitenza? A queste parole, tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto ed esclamarono: « Ah! che faremo noi, grande Apostolo, per ottenere misericordia? » S. Pietro per consolarli disse loro: « Non gettatevi alla disperazione, il medesimo Gesù Cristo che voi avete crocifisso è risuscitato, e ciò che maggiormente importa è diventato il salvamento di tutti coloro che sperano in lui; Egli è morto per la remissione di tutti i peccati del mondo. Fate penitenza, e convertitevi, e i vostri peccati saranno cancellati. » Ecco lo stesso linguaggio che la Chiesa tiene a tutti i peccatori che sono commossi della gravezza dei loro peccati e che desiderano di ritornare sinceramente a Dio. Ah! M. F., quanti di noi sono assai più colpevoli dei Giudei, perché costoro hanno fatto morire Gesù Cristo per ignoranza! Quanti che hanno rinnegato e condannato Gesù Cristo alla morte col disprezzo della sua santa parola, con la profanazione che abbiamo fatto dei suoi misteri, con l’omissione dei nostri doveri, con l’abbandono dei Sacramenti e con una profonda dimenticanza di Dio e del salvamento della povera anima nostra! Ora, M. F., qual rimedio può restarci in questo abisso di corruzione e di peccato, in questo diluvio che contamina la terra e provoca la vendetta del cielo? Non altro che quello della penitenza e della conversione. Ditemi, non sono troppi gli anni passati nel peccato? Non basta l’essere vissuto per il mondo e per il demonio? Non è giunto il tempo per vivere per il buon Dio e per assicurarci una eternità felice? Che ciascuno di noi si rimetta la propria vita davanti agli occhi, e noi vedremo che tutti abbiamo bisogno di far penitenza. Ma per determinarvi a far ciò, io voglio dimostrarvi quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, il dolore che noi ne proviamo e le penitenze che ne facciamo, ci consolano e ci rassicurano all’ora della morte; in secondo luogo, noi vedremo che dopo di aver peccato, noi dobbiamo farne penitenza in questo mondo o nell’altro; in terzo luogo esamineremo in qual modo un Cristiano può mortificarsi per fare penitenza.

I . — Noi diciamo che nulla vi è che ci procuri consolazione in questa vita e ci rassicuri all’ora della morte quanto le lagrime che noi spargiamo sopra i nostri peccati, quanto il dolore che ne proviamo e la penitenza che ne facciamo; ciò che è facile da comprendere, perché è con ciò che noi abbiamo la sorte di espiare i nostri peccati, con altre parole, di soddisfare alla giustizia di Dio. Sì, M. F., è con ciò che noi meriteremo nuove grazie per avere la sorte di perseverare. S. Agostino scrive, che assolutamente è necessario che il peccato sia punito o da colui che lo ha commesso o da colui contro il quale è stato commesso. Se voi non volete che il buon Dio vi punisca, punitevi voi medesimi. Noi vediamo che Gesù Cristo medesimo, per dimostrarci quanto la penitenza ci è necessaria dopo il peccato, Egli medesimo si mette nel ceto dei peccatori (S. Marc. II, 16). Egli ci dice che, senza il Battesimo, nessuno entrerà nel regno dei cieli (S. Giov. III, 5); e, in altro luogo, che se non facciamo penitenza, noi tutti periremo (S. Luc. XIII, 3, 5). Ciò è facilissimo da comprendere. Dopo che l’uomo ha peccato, tutti i suoi sensi si sono ribellati contro la ragione; e quindi, se noi vogliamo che la carne sia sottomessa allo spirito ed alla ragione, è necessario mortificarla; se noi vogliamo che il nostro corpo non muova guerra all’anima nostra, è necessario mortificarlo con tutti i suoi sensi; se noi vogliamo andare a Dio, è necessario mortificare l’anima nostra con tutte le sue potenze. E se voi bramate di essere convinti della necessità della penitenza, non avete che da aprire la santa Scrittura, e voi vedrete che tutti coloro che hanno peccato ed hanno voluto ritornare al buon Dio, hanno versato lagrime, si sono pentiti dei loro peccati ed hanno fatto penitenza. – Vedete Adamo: dacché ebbe peccato egli si consacrò alla penitenza onde poter placare la giustizia di Dio. La sua penitenza durò più di novecento anni (Gen. III, 17; V, 5); ed una penitenza che fa fremere, tanto sembra superiore alle forze della natura. Vedete Davide dopo il suo peccato: egli faceva risuonare il suo palazzo delle sue grida e dei suoi singhiozzi; e spinse i suoi digiuni ad un tale eccesso, che i suoi piedi non potevano più sostenerlo (Genua mea infirmata sunt a jejunio. Ps. CXVIII, 24). Quando si voleva consolarlo dicendogli che, poiché il Signore l’aveva assicurato che il suo peccato gli era perdonato, egli doveva moderare il suo dolore, egli esclamava: Ah! infelice, che cosa ho fatto? Io ho perduto il mio Dio, ho venduto l’anima mia al demonio; ah! no, no, il mio dolore durerà quanto la mia vita, discenderà con me nella tomba. Le sue lagrime piovvero dagli occhi suoi in tanta copia che era temprato il suo pane e ne era bagnato il suo letto(Ps. CI, 10; VI, 7).

S. Pietro … (« S. Pietro  » Questa parola collocata in margine indica che il Beato pensava di raccontare la penitenza del Principe degli Apostoli, il quale « pianse amaramente » il suo triplice rinnegamento tutti i giorni della sua vita.)

Perché sentiamo tanta ripugnanza per la penitenza, e che proviamo sì poco dolore dei nostri peccati? Ah! perché non conosciamo né gli oltraggi che il peccato reca a Gesù Cristo, né i mali che ci prepara per la eternità. Noi siamo appieno convinti che dopo il peccato è necessario fare penitenza. Ma ecco quello che facciamo: noi rimandiamo tutto ciò ad un tempo lontano, quasi noi fossimo padroni del tempo e delle grazie del buon Dio. Ah! M. F., chi di noi non tremerà, poiché non abbiamo un momento di sicuro? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che vi ha una misura di grazie, oltre la quale il buon Dio altre non ne concede? Chi non fremerà pensando che vi ha una misura di misericordia dopo di che tutto è finito ? Ah! chi di noi non fremerà, pensando che occorre un certo numero di peccati, dopo il quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se medesimo? Ah! M. F., quando la misura è colma, è necessario che trabocchi. Sì, dopo che il peccatore ha ripiena la misura, è necessario che sia punito e che cada nell’inferno non ostante le sue lagrime e il suo dolore… Vi avvisate voi, che dopo di essere vissuti un numero d’anni nel peccato non ostante tutti i rimorsi che la vostra coscienza ha eccitati per muovervi a ritornare a Dio; avvisate voi, che dopo di essere vissuti da empi e da libertini, disprezzando tutto ciò che la Religione ha di più santo e di più sacro, vomitando contro di essa tutto ciò che la corruzione del vostro cuore ha potuto produrre; avvisate voi, che quando vorrete dire: Mio Dio, perdonatemi, voi avrete fatto ogni cosa, che voi non avrete più che da entrare in cielo? No, no, non siamo così temerari, né così ciechi per sperar ciò. Ah! M. F., è precisamente in questo momento che si compie questa terribile sentenza di Gesù Cristo il quale ci dice: « Voi mi avete disprezzato nel corso della vostra vita, voi vi siete riso delle mie leggi, ma ora che voi avete ricorso a me, che mi cercate, Io vi volgerò le spalle per non vedere le vostre sciagure (Ger. XVIII, 17); Io mi chiuderò le orecchie per non udire le vostre grida; io fuggirò lontano da voi per non lasciarmi commuovere dalle vostre lagrime. » Ah! per essere convinti di tutto ciò, non abbiamo che da aprire la santa Scrittura e la storia dove sono consegnatele azioni di questi famosi empi; noi vedremo che tutti questi castighi sono più terribili che non potete pensare. – Ascoltate l’empio Antioco tra gli altri famoso. Vedendosi colpito in modo visibile dalla mano dell’Onnipotente, si umilia, piange, dicendo: « È giusto, o Signore, che la creatura riconosca il suo creatore » (II Macc. IX, 12)  Egli promette a Dio di far penitenza, di riparare tutti i mali che ha fatti nel corso della sua vita, tutti i mali che ha cagionati a Gerusalemme, e che elargirà dei grandi beni per conservare il culto del Signore, che si farà giudeo; finalmente che tutta la sua vita non sarà che una vita rispettosa della legge di Dio. Se voi l’aveste udito, voi avreste detto con gioia: Ecco un peccatore che è un santo penitente. Tuttavolta noi udiamo lo Spirito Santo dirci: « Questo empio domanda un perdono che non gli sarà concesso; egli piange, ma piangendo discende nell’inferno. » Ma perché essere più particolari per trovare degli esempi spaventevoli della giustizia di Dio verso il peccatore che ha disprezzato la grazia di Dio? Vedete lo spettacolo che ci hanno presentato gli empi, quegli increduli e quei libertini dell’ultimo secolo: vedete la loro vita empia, incredula e libertina. Non sono sempre vissuti da empi, con la speranza che il buon Dio loro perdonerebbe quando piacesse loro di domandar perdono? Vedete Voltaire. Tutte le volte che cadeva ammalato, non diceva: Misericordia? Non domandava perdono a quel medesimo Dio che insultava quando godeva buona salute, contro il quale non cessava di vomitare tutto ciò che la corruzione del suo cuore poteva produrre? D’Alembert, Diderot e Rousseau, come tutti i suoi compagni di libertinaggio, credevano che quando sarebbe di lor gusto domandare perdono a Dio, sarebbero perdonati; ma noi possiamo dir loro quello che lo Spirito Santo disse ad Antioco: « Questi empi domandano un perdono che non sarà loro concesso. E perché questi empi non hanno ottenuto il perdono nonostante le loro lagrime? Perché il loro dolore proveniva non dal rammarico dei loro peccati, né dall’amore di Dio, ma solamente dal timore del castigo. Ah! per quanto terribili e spaventose siano queste minacce, esse non fanno aprire gli occhi a coloro che battono la stessa via. Ah! M. F., che colui che, essendo peccatore ed empio nutra la speranza che un giorno egli cesserà di esserlo, quanto è infelice e cieco! Ah! quanti il demonio ne conduce all’inferno in questo modo! la giustizia di Dio li colpisce nel momento che essi punto non vi pensano. Vedete Saulo, egli non sapeva che ridendosi degli ordini che gli dava il profeta, egli metteva il suggello alla sua riprovazione e ad essere abbandonato da Dio (I Reg. XV, 23). Vedete Amano, se egli pensava che preparando il patibolo a Mardocheo, egli medesimo vi sarebbe appeso per perdervi la vita (Esth.VII, 9). Vedete il re Baldassare, se egli pensava che il delitto che commetteva bevendo nei vasi sacri che il padre suo aveva involati a Gerusalemme, era l’ultimo delitto che Dio doveva lasciargli commettere Dan. V, 23). Vedete ancora i due infami vecchiardi, se essi menomamente dubitavano che tentando la casta Susanna sarebbero lapidati e cadrebbero nell’inferno (Dan. XIII, 61). No, certamente. Tuttavia questi empi e questi libertini benché nulla sappiano di tutto questo, essi non lasciano di arrivare al punto nel quale i loro delitti essendo giunti al colmo devono essere necessariamente puniti. Ora, che cosa pensate voi di tutto ciò, voi segnatamente che forse avete concepito il disegno spaventevole di rimanere nel peccato ancora alcuni anni, forse fino alla morte? Tuttavolta, sono questi esempi terribili che hanno mossi tanti peccatori ad abbandonare il peccato, per far penitenza, che hanno popolato i deserti di solitari, riempito i chiostri di santi religiosi e che hanno fatto salire tanti martiri sui patiboli, con gioia più grande che non i re sui loro troni, per il timore di provare gli stessi castighi. Se voi ne dubitate, ascoltatemi un istante, e se voi non siete indurati a questo punto nel quale il buon Dio abbandona il peccatore in balia di se stesso, voi sentirete i vostri rimorsi di coscienza risvegliarsi e straziarvi l’anima. S. Griov. Climaco ci racconta (La Scala Santa, quinto grado) che si recò un giorno in un monastero; i religiosi che lo abitavano avevano talmente la grandezza della giustizia divina impressa nel loro cuore, essi avevano un timore tale di essere arrivati a quello stato nel quale i nostri peccati hanno stancato la misericordia di Dio, che la loro vita sarebbe stata per voi uno spettacolo capace di farvi morire di spavento; essi conducevano una vita così umile, così mortificata e così crocifissa; essi sentivano talmente il peso delle loro colpe; le loro lagrime erano così copiose e le loro grida così strazianti, che quando si avesse avuto il cuore più duro delle pietre, non si sarebbe potuto trattenere di versar lagrime. Quando ebbi aperta la porta del monastero – così il medesimo Santo – io vidi delle azioni veramente eroiche; io udii delle grida capaci di fare violenza al cielo; vi erano dei penitenti che si condannavano di restare tutta la notte sulla punta dei loro piedi; e quando il loro povero corpo cadeva per debolezza, essi si rimproveravano la loro viltà: « Infelice, dicevano a se stessi, se hai così poco coraggio per soddisfare alla giustizia di Dio, in qual modo potrai soffrire le fiamme vendicatrici dell’altra vita? » Altri, avendo sempre gli occhi e le mani innalzate al cielo, mandavano grida capaci di farvi rompere in pianto, siffattamente erano penetrati della gravezza dei loro peccati; altri si facevano legare le mani al dorso come colpevoli; essi si consideravano come indegni di guardare il cielo e si gettavano col volto contro terra: « Ah! mio Dio, esclamavano, ricevete, se così a voi piace, le nostre lagrime, i dolori nostri. » Ve ne erano che erano siffattamente coperti di ulceri, il loro povero corpo era così consunto ed esalava un odore così ributtante che era impossibile rimanere vicino a loro senza morire. Ve ne erano che non bevevano dell’acqua che per non morire; essi avevano sempre l’immagine della morte davanti agli occhi, e si dicevano gli uni gli altri: « Ah! che cosa diventeremo noi? Credete voi che noi progrediamo qualche poco nella virtù? Corriamo, miei amici, nella via della penitenza, uccidiamo questi sciagurati corpi come essi hanno ucciso le nostre povere anime. » Ma quello che era più spaventoso, è, quando uno di essi era vicino ad uscire da questo mondo; tutti i religiosi erano vicini al morente con un volto abbattuto, cogli occhi bagnati di lagrime, si volgevano a lui, dicendogli: « Che pensate di voi stesso ora che siete sul punto di morire? Sperate, credete che le lagrime vostre, il dolor vostro e le vostre penitenze vi abbiano meritato il perdono? Non temete di udire queste terribili parole cadere dalla bocca di Gesù Cristo medesimo: « Ritiratevi da me, maledetto, andate al fuoco eterno? »Ah! rispondevano questi poveri morenti, chi sa se le nostre lagrime hanno placato la giusta collera di Dio? Chi sa se i nostri peccati sono scomparsi dagli occhi di Dio? Che possiamo fare? Abbandonarci alla giustizia di Dio. Essi pregavano il loro superiore di non dar loro sepoltura, ma di gettarli nel mondezzaio, per servire di cibo alle bestie selvagge. – S. Giov. Climaco ci dice che questo spettacolo lo aveva siffattamente spaventato che non poté restare che un mese nel monastero; egli non poteva più vivere. « Quando fui di ritorno – così egli – il mio superiore vide che io ero così cangiato che appena poteva riconoscermi. Or bene! mio fratello, voi avete veduto le fatiche ed i combattimenti dei nostri generosi soldati. Io non potei rispondergli che con le lagrime, tanto questo genere di vita mi aveva spaventato e aveva reso il mio corpo debole e macilento. » – Ora, M. F., ecco Cristiani come noi e meno peccatori di noi; ecco penitenti che non aspettavano che il medesimo cielo di noi, che non avevano che un’anima da salvare come noi. Perché dunque tante lagrime, tanti dolori e tante penitenze? Perché sentivano la gravezza del peso dei loro peccati, e come l’oltraggio che il peccato reca a Dio sia orribile; ecco quello che hanno fatto coloro che hanno compreso la grandezza della sventura di perdere il cielo. O mio Dio! essere insensibili a tante e tante sciagure, non è la più grande di tutte le disgrazie? O mio Dio! Cristiani che mi ascoltano e che hanno la coscienza carica di peccati e che non hanno altra sorte da aspettare che quella dei riprovati! Mio Dio! Possono essi vivere tranquilli? Ah! quanto è sventurato colui che ha smarrita la fede!

II. — Noi diciamo che necessariamente dopo il peccato bisogna far penitenza in questo mondo o nell’altro. Se la Chiesa ha stabilito i giorni di digiuno e di astinenza, è per richiamarci alla mente che essendo peccatori, noi dobbiamo fare penitenza, se vogliamo che il buon Dio ci perdoni; e molto più noi possiamo dire che il digiuno, la penitenza, hanno cominciato col mondo. Vedete Adamo; vediamo Mose che digiunò quaranta giorni. Noi vediamo pure Gesù Cristo il quale era la stessa santità, restare quaranta giorni in un deserto senza bere né mangiare, per addimostrarci che la nostra vita deve essere una vita di lagrime, di penitenza e di mortificazione. Ah! M. F., dacché un Cristiano abbandona le lagrime, il dolore dei suoi peccati e la mortificazione, è cosa fatta per la religione. Sì, per conservare in noi la fede, è necessario che noi siamo sempre occupati a combattere le nostre tendenze ed a gemere sopra le nostre miserie. – Ecco un esempio che assoda come dobbiamo stare sull’avviso per non concedere alle nostre inclinazioni tutto quello che domandano. Noi leggiamo nella storia che eravi uno sposo unito in matrimonio con una moglie molto virtuosa ed un figlio che camminava sopra le sue tracce. Essi facevano consistere tutta la loro felicità nella preghiera e nella frequenza dei Sacramenti. I santi giorni di domenica, dopo gli uffici, non avevano altra occupazione ed altro piacere che di fare del bene; essi si recavano a visitare gli ammalati e fornivano loro tutti i soccorsi che era nel loro potere. Essendo in casa, passavano il loro tempo a fare delle letture di pietà capaci di animarli nel servizio di Dio. Essi in tal modo nutrivano la loro anima nella grazia di Dio, ciò che formava tutta la loro felicità. Ma come il padre era un empio e un libertino, non cessava di biasimarli e di ridersi di loro, dicendo che il loro genere di vita gli recava grande dispiacere e che un tal modo di vivere non poteva convenire che a persone ignoranti; egli procurava di mettere sotto i loro occhi i libri i più infami e meglio capaci di allontanarli dalla strada della virtù che essi battevano. La povera madre piangeva udendo questo linguaggio e il figlio dalla parte sua ne gemeva. Ma, a forza di vedersi perseguitati, trovando continuamente questi libri davanti a sé, sventuratamente, vollero vedere quello che contenevano; e, ah! senza avvedersene, presero gusto per queste letture che traboccavano di lordure contro la Religione e i buoni costumi. Ah! i loro poveri cuori, altra volta affezionati al buon Dio, si volsero ben presto al male; il loro modo di vivere cangiò interamente; cominciarono ad abbandonare tutte le loro pratiche; non fu più questione né di digiuno, né di penitenza, né di confessione, né di Comunione, di guisa che essi abbandonarono affatto i doveri di Cristiani. Il marito che si avvide, fu contento di vederli voltarsi da questa parte. Come la madre era ancora giovane, tutta la sua occupazione fu di adornarsi, di frequentare i balli e le commedie e prender parte ai piaceri che poteva trovare. Il figlio, dalla parte sua, seguiva le tracce della madre; diventò quindi un grande libertino che scandalizzò il paese che prima aveva edificato. Si abbandonò interamente ai piaceri ed allo stravizzo, di guisa che la madre e il figlio facevano spese enormi e le loro sostanze furono ben presto assottigliate. Il padre, vedendosi indebitato, volle sapere se i suoi beni potrebbero bastare a lasciar loro continuare questo genere di vita di cui egli medesimo era l’autore; ma fu ben sorpreso quando vide che i suoi beni non potevano nemmeno far fronte ai suoi debiti. Allora una specie di disperazione si impadronì di lui; un bel mattino si alza, a mente fredda, ed anzi con riflessione, carica tre pistole, entra nella camera della moglie, e le brucia le cervella; passa nella camera del figlio, gli scarica contro il secondo colpo, l’ultimo fu riserbato per se. Ah! padre sventurato, avesti almeno lasciato questa povera moglie e questo povero figlio nella preghiera, nelle lagrime e nella penitenza, sarebbero esistiti per il cielo, mentre li hai gettati nell’inferno cadendovi tu stesso. Ora, M. F., quale fu la causa di questa grande sciagura, se non perché avevano cessato di praticare la nostra santa Religione? Ah! M. F., qual castigo può essere paragonato a quello di un’anima, alla quale il buon Dio toglie la fede in punizione dei suoi peccati? Sì, M. F., se noi vogliamo salvare le anime nostre, la penitenza ci è necessaria per perseverare nella grazia di Dio come il respiro per vivere, per conservare la vita del corpo. Sì, siamo ben persuasi che, se noi vogliamo che la nostra carne sia sottomessa al nostro spirito ed alla ragione, è necessario assolutamente mortificarla con tutti i suoi sensi: se noi vogliamo che l’anima nostra sia sottomessa a Dio, è necessario mortificarla con tutte le sue potenze. – Noi leggiamo nella S. Scrittura che quando il Signore comandò a Gedeone di combattere contro i Madianiti, gli ordinò di comandare a tutti i suoi soldati timidi e paurosi di ritirarsi. Parecchie migliaia si ritirarono. Ne rimanevano ancora dieci mila. Il Signore disse a Gedeone: « Tu hai ancora troppi soldati; fa una piccola rivista, ed osserva tutti coloro che bevono attingendo l’acqua nel cavo della mano, ma senza fermarsi; sono questi che tu condurrai al combattimento. » Di diecimila non ne rimasero che trecento (Giud. VII, 6). Lo Spirito Santo presenta questo esempio per farci vedere come esiguo è il numero delle persone che praticano la mortificazione e che saranno salve. E vero, M. F., che la mortificazione non consiste tutta nella privazione del bere e del mangiare, benché sia necessario di non conceder tutto ciò che il nostro corpo domanda, dicendoci S. Paolo: « Io tratto duramente il mio corpo per tema che dopo di aver predicato agli altri, io non sia riprovato. »  – Ma è parimente certo, che una persona che ama i suoi piaceri, che cerca i suoi comodi, che fugge l’occasione di patire, che si inquieta, che mormora e che s’impazienta per la menoma cosa che non riesce secondo i desideri suoi e la sua volontà, non ha che il nome di cristiana; essa non è atta che a disonorare la sua Religione, perché Gesù Cristo ci dice: « Che colui che vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua; che rinunci a se stesso; che prenda la sua croce tutti i giorni della sua vita e mi segua. » (S. Luc. IX, 23). Non occorre dire, M. F., che una persona sensuale non avrà mai quelle virtù che ci rendono accettevoli a Dio e ci assicurano il cielo. Se noi vogliamo avere la più bella di tutte le virtù, che è la castità, sappiamo che è una rosa che non si coglie che fra le spine; e quindi che non si incontrerà, come tutte le altre virtù, che in una persona mortificata. Noi leggiamo nella santa Scrittura (Dan. IX, 3, 22) che l’Angelo Gabriele, essendo apparso al profeta Daniele, gli disse: « Il Signore ha ascoltata la tua preghiera, perché è stata fatta nel digiuno e nella cenere: »; la cenere indica l’umiltà. Noi leggiamo nella storia che due missionari gesuiti (Questi due missionari sono S. Francesco Borgia ed il Padre Bustamante.), essendo a dormire insieme, ve ne ebbe uno che, essendo colto da infreddatura, sputò tutta la notte sopra il suo compagno senza saperlo. Il mattino, vedendo l’altro che si lavava, ne fu sommamente addolorato, e gli domandò perdono. L’altro gli disse: « Mio amico, voi non potevate sputare in un luogo più vile che sputando sopra di me. » Ecco, M. F., un esempio che dimostra fino a qual grado questo buon Padre spingeva la mortificazione.

III. — Ma, mi direte voi, quante sorta di mortificazioni vi sono? — Ecco, ve ne sono due: 1’una è interna, l’ultra è esterna, ma vanno sempre associate. Per la mortificazione esterna, essa consiste nel mortificare il nostro corpo in tutti i suoi sensi:

1° Noi dobbiamo mortificare i nostri occhi; non guardar nulla per curiosità, né diversi oggetti che potrebbero risvegliare in noi cattivi pensieri; né leggere libri che non siano capaci che farci praticare la virtù, e che all’opposto possano allontanarci ed estinguere il resto di fede che abbiamo.

2° Noi dobbiamo mortificare le nostre orecchie; non ascoltare con piacere tutte quelle canzoni, quei discorsi che possono adularci e che a nulla approdano: è sempre un tempo mal speso e rapito alle cure che dobbiamo consacrare alla nostra anima; mai prender piacere ad ascoltare le maldicenze e le calunnie. Sì, M. F., noi dobbiamo mortificarci in tutto questo e non essere nel numero di quelle persone curiose le quali vogliono saper tutto quello che si è detto, quello che si è fatto.

3° Noi diciamo che dobbiamo mortificarci nel nostro odorato: mai provar piacere nel sentire ciò che può soddisfare il nostro gusto. – Noi leggiamo nella vita di S. Francesco Borgia che egli non ha mai sentito i fiori, ma che all’opposto si metteva spesso in bocca delle pillole e le masticava(Catapotia dentibus eadem de caussa mandere solitus: « Egli aveva il costume di masticare delle pillole con i denti, per mortificarsi. » Vita di S. Franc. Borgia, cap. xv, Act. SS. t. V oct..,286) onde punire se medesimo del piacere che poteva aver provato sentendo qualche buon odore o mangiando cibi delicati.

4° In quarto luogo, dico che noi dobbiamo mortificare la nostra bocca; non devesi mangiare per golosità, né più del necessario; non bisogna concedere al corpo nulla che possa eccitare le passioni, non mangiare fuori di pasto senza una necessità. Un buon Cristiano non prende mai il suo cibo senza mortificarsi in qualche cosa.

5° Un buon Cristiano deve mortificare la sua lingua non parlando che in quanto sia necessario per adempiere il proprio dovere e per la gloria di Dio e il bene del prossimo. Vedete Gesù Cristo: per dimostrarci quanto il silenzio sia una virtù che gli è aggradevole e per muoverci ad imitarlo, Egli ha conservato il silenzio per il volgere di trent’anni. Vedete la Ss. Vergine: il Vangelo ci fa vedere che non ha parlato che quattro volte solamente, quando la gloria di Dio e il salvamento del prossimo lo domandavano. Ella parlò quando l’Angelo le annunziò che sarebbe Madre di Dio (S. Luc. I, 34-38) parlò quando si recò a visitare la sua cugina Elisabetta, per metterla a parte della sua felicità (ibid.., 46); parlò al suo Figlio, quando lo ritrovò nel tempio (ibid. II, 48); parlò quando intervenne alle nozze di Cana, rappresentando al suoi Figlio il bisogno di quella gente (S. Giov. II, 3). Noi vediamo pure che, in tutte le comunità religiose, un gran punto delle loro regole è il silenzio; per la qual cosa S. Agostino scrive che colui che non pecca colla lingua è perfetto. (Questa parola è altresì dell’apostolo S. Giacomo: Si quis in verbo non offendit, hic perfeclus est vir. S. Giac. III, 2). Noi dobbiamo segnatamente mortificare la nostra lingua quando il demonio ci inspira di dire cattive ragioni,di cantare cattive canzoni, di lasciarci cadere di bocca delle maldicenze e delle calunnie contro il prossimo, di non pronunciare giuramenti e parole triviali.

6° Io dico che dobbiamo mortificare il nostro corpo non concedendogli tutto il riposo che esige, è una virtù di tutti i santi. Mortificazione interna. In secondo luogo, abbiamo detto che dobbiamo praticare la mortificazione interna. E dapprima, mortifichiamo la nostra immaginazione. Non bisogna lasciarla vagare qua e là, né lasciare che si riempia di cose inutili, segnatamente non lasciarla aggirarsi sopra cose che possano condurre al male, come pensare a certe persone che hanno commesso qualche turpe peccato contro la santa virtù della purità, come pure pensare ai giovani che si maritano; tutto ciò non è che un’insidia che il demonio ci tende per trascinarci al male. Quanti di questi pensieri si presentano è necessario discacciarli. Neppure bisogna lasciarci occupare l’immaginazione, che cosa diventerei, che cosa farei, se fossi… se avessi questo, se mi si concedesse quello, se potessi guadagnare quest’altro. Tutte queste cose a nulla giovano se non a farci gettare un tempo nel quale potremmo pensare a Dio ed al salvamento dell’anima nostra. E necessario, all’opposto, occupare la nostra immaginazione nel pensare ai nostri peccati per gemerne e per correggerci; spesso pensare all’inferno, per studiare di evitarlo; spesso pensare al cielo, per vivere in modo da meritarlo; spesso pensare alla morte e alla passione di nostro Signore Gesù Cristo, per aiutarci a sopportare i mali della vita in ispirito di penitenza. – Noi dobbiamo di giunta mortificare il nostro spirito: mai voler esaminare se la nostra Religione non è buona, né voler cercare di comprendere i misteri, ma solamente ragionare! nel modo più sicuro col quale condurci per piacere a Dio e salvare l’anima nostra. Poscia noi dobbiamo mortificare la nostra volontà, cedendo sempre alla volontà degli altri quando la nostra coscienza non corra pericolo. E farlo senza mostrare che ciò reca pena; all’opposto essere contenti di trovare un’occasione di mortificarci per poteri espiare i peccati della nostra volontà. Eccole, M. F., in generale, le piccole mortificazioni che possiamo praticare ad ogni istante, comi pure di sopportare i difetti e le sconvenienze di coloro coi quali viviamo. Egli è certo che le persone che non cercano che di accontentarsi nel bere e nel mangiare e nei piaceri che il loro corpo e il loro spirito possono desiderare non piaceranno a Dio, perché la nostra vita deve essere una imitazione di Gesù Cristo. Io vi domando quale rassomiglianza si potrà trovare tra la vita di un ubbriacone e quella di Gesù Cristo, il quale ha passato la sua vita nel digiuno e nelle lagrime; tra quella d’un impudico e la purità di Gesù Cristo; tra un vendicativo e la carità di Gesù Cristo e via dicendo. Ah! che sarà di noi quando Gesù Cristo confronterà la nostra vita con la sua? Facciamo almeno qualche cosa che possa essere capace di piacergli. Abbiamo detto, cominciando, che la penitenza, le lacrime ed il dolore de’ nostri peccati ci consolano grandemente al punto della morte, e di ciò non è a dubitare. Qual felicità per un Cristiano, in quell’estremo momento, in cui egli si esamina per bene  a coscienza, di ricordarsi d’aver non solo osservato i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma d’aver trascorsa la sua vita nelle lacrime e nella penitenza, nel dolore de’ suoi peccati e in una continua mortificazione di tutto quanto poteva contentare i suoi gusti. Se noi abbiamo qualche timore, non potremmo dire, come S. Ilarione: « Di che temi, anima mia? sono molti anni che lavori a fare la volontà di Dio e non la tua! abbi fiducia, il Signore avrà pietà di te! » (Vita dei  Padri del deserto, t. V, pag. 208) Per meglio farvelo comprendere vi citerò un bell’esempio: Narra S. Giovanni Climaco (La scala santa), ch’eravi un giovane il quale aveva concepito un gran desiderio di passare la sua vita nella penitenza e di prepararsi in tal modo alla morte; egli non pose alcun limite alle sue penitenze. Allorché la .morte giunse, fece chiamare il suo superiore, e gli disse: « Ah! padre mio, qual felicità per me! Oh! quanto sono lieto d’aver vissuto nelle lacrime, nel dolore dei miei peccati e nella penitenza! Il buon Dio, che è sì buono, mi ha promesso il cielo. Addio, padre, io vado a riunirmi al mio Dio del quale ho procurato d’imitare la vita per quanto mi fu possibile: addio, padre mio, io vi ringrazio d’avermi incoraggiato a camminare per questa fortunata strada. » Qual contento per noi, M. F., in quell’istante d’aver vissuto per il buon Dio; d’aver fuggito e temuto il peccato, di esserci privati non solo dei cattivi e vietati piaceri, ma altresì dei piaceri leciti ed innocenti; d’aver frequentato sovente e degnamente i Sacramenti dove abbiamo trovato tante grazie e virtù per combattere il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni. Ma ditemi, M. F., che si può sperare in quello spaventoso momento in cui il peccatore vede davanti ai suoi occhi una vita che non fu che una sequela di delitti? Che si può sperare per un peccatore che ha vissuto come se non avesse avuto un’anima da salvare e che credeva che quando fosse morto tutto sarebbe finito; che non ha quasi mai frequentato i Sacramenti, e che, ogni volta che li ha frequentati, non ha fatto che profanarli con cattive disposizioni; un peccatore che, non contento di aver deriso e disprezzato la sua Religione e coloro che avevano il bene di praticarla, fece ogni sforzo per indurre gli altri a battere la sua via d’infamia e di libertinaggio? Ah! qual fremito di disperazione per questo povero disgraziato di riconoscere allora ch’egli non è vissuto che per far soffrire Gesù Cristo, perdere l’anima sua e piombare nell’inferno! Dio mio, quale sventura! tanto più che egli sapeva benissimo che poteva ottenere il perdono de’ propri peccati purché lo avesse voluto. Dio mio, che disperazione per tutta l’eternità! Ecco un ammirabile esempio che ci fa vedere che, se noi siamo dannati, si è perché non abbiamo voluto salvarci. Narrasi nella Storia  (Vita dei Padri, t. I , cap. xv, S. Pafnuzio.) che S. Taide era stata nella sua giovinezza una delle più famose cortigiane che avesse sopportata la terra: nullameno essa era cristiana. Sprofondossi in tutto ciò che il suo cuore, che altro non era che un braciere di fuoco impuro, potesse desiderare; profanò nella crapula tutto ciò che il cielo l’aveva favorita di spirito e di bellezza; la stessa sua madre fu lo strumento di cui l’inferno si servì per gettarla con spaventevole furore in ogni sorta di laidezze, di modo che la sua povera giovinezza trascorse nelle sregolatezze più infami e disonorevoli per una donna. Gli uni si rovinarono per farle dei regali, molti si pugnalarono per non averla potuto possedere. Insomma le sregolatezze di questa commediante formavano lo scandalo di tutta la provincia e motivo di lamento per tutti i buoni. Potete immaginarvi il male che essa faceva, le anime che perdeva, gli oltraggi che infliggeva a Gesù Cristo per le anime che induceva al peccato. Nella sua infanzia era stata bene istruita, ma i suoi disordini e la violenza delle sue passioni avevano estinto in essa tutte le verità della Religione. Nonostante, il buon Dio volle manifestare la grandezza delle sue misericordie, ben sapendo che la sua conversione ne produrrebbe altre; e, gettando su di essa uno sguardo di compassione, andolla a cercare Lui stesso in mezzo alle lordure più infami. Per compiere questo gran miracolo della sua grazia si servì d’un santo solitario al quale fece conoscere questa famosa peccatrice con tutti i suoi disordini. Il Signore gli comandò di andare a trovare questa cortigiana. Questo solitario era S. Pafnuzio. Egli assunse l’abito di cavaliere, si fornì di denaro, e partì per alla volta della città ove essa abitava. Siccome egli era guidato da Dio stesso, giunse direttamente ove ella stava, e chiese di parlarle. Taide che nulla sapeva di tutto ciò, lo condusse in una camera remota e magnificamente arredata. Allora il santo le domandò se essa non ne aveva altra più remota ove potesse sottrarsi agli occhi di Dio medesimo. « Eh! state sicuro, gli disse la cortigiana, che nessuno verrà: ma se voi temete la presenza di Dio, non è ch’Egli è da per tutto? »  Il santo fu grandemente meravigliato a sentirla parlare del buon Dio: « Come! le disse, conoscete voi il buon Dio? » — « Sì, rispose ella; ed oltre a ciò, io so che vi è un paradiso per coloro che lo servono fedelmente, ed un inferno per coloro che lo disprezzano. » — « Ma come va – soggiunse il santo – che con tutte queste conoscenze potete vivere nel modo che vivete, e da molti anni, preparandovi a voi stessa un inferno? » Queste sole parole del santo, avvalorate dalla grazia del buon Dio, furono come un colpo di fulmine che abbatterono la nostra cortigiana come S. Paolo sulla via di Damasco. Ella si gettò ai suoi piedi profondendosi in lacrime e pregandolo in grazia di aver pietà di lei, di impetrare misericordia per essa dal Signore. Si protestò pronta a compiere tutto quanto ordinasse, per provare se il buon Dio volesse ancora perdonarla. Non domandò che una dilazione di tre ore per metter ordine alle sue faccende: dopo si recherebbe nel luogo da lui assegnato per non pensare più ad altro che a piangere i propri peccati. Avendole il santo concesso tal dilazione, radunò ella quanti poté dei libertini che si erano profondati con essa nel peccato, li condusse sulla pubblica piazza, e là, in loro presenza, si spogliò di tutti i suoi vezzi: fece portare i mobili acquistati con l’oro delle sue infamie, ne fece una catasta e vi appiccò il fuoco, senza nulla dire perché così operasse. Dopo ciò lasciò la piazza per recarsi presso il santo che l’aspettava, il quale la condusse in un monastero di donzelle. Egli la chiuse in una cella di cui suggellò la porta, e pregò una religiosa di portarle qualche pezzo di pane e un po’ d’acqua. Taide domandò al santo qual preghiera dovesse fare nel suo ritiro per muovere il cuore di Dio. Il santo le rispose: « Tu non sei degna di pronunziare il nome di Dio, né di innalzare le tue mani impure al cielo. Ti basti di volgerti verso l’oriente e dire con tutto il dolore del tuo cuore e nell’amarezza dell’anima tua: « O voi che mi avete creata, abbiate pietà di me. » Ecco tutta la preghiera ch’ella fece pel corso di tre anni che rimase in quel bugigattolo, durante i quali non perdette mai di memoria i suoi peccati. Ella pianse sì tanto, maltrattò sì crudelmente il suo corpo, che quando S. Pafnuzio andò a consultare S. Antonio per sapere da lui se il buon Dio le avesse usato misericordia, S. Antonio, dopo aver passata la notte in orazione co’ suoi religiosi per tal fine, gli disse, che il buon Dio aveva rivelato a uno dei suoi religiosi, il quale era S. Paolo il Semplice, che uno splendido trono stava preparato in cielo per la penitente Taide. Allora il santo pien di gioia e d’ammirazione che in così poco tempo avesse ella soddisfatto alla giustizia di Dio, andolla a trovare per dirle che i suoi peccati le erano perdonati, e che doveva lasciare la sua cella. Il santo le domandò ciò ch’essa avesse fatto in questi tre anni. Ella rispose: « Padre mio, io misi i miei peccati al mio cospetto come un mucchio, e non ho cessato di piangerli e d’invocar misericordia. » — « Ed è appunto per questo – ripigliò S. Pafnuzio – che tu hai conquistato il cuore di Dio, e non per altre tue penitenze. » Avendo abbandonata la sua cella per recarsi in un monastero, ella non sopravvisse che quindici giorni, dopo i quali andò a cantare in cielo la grandezza della divina misericordia. – Da quest’esempio, M. F., noi vediamo quanto presto possiamo guadagnare il cuore di Dio, purché il vogliamo, senza ricorrere a grandi penitenze. Qual rimpianto pel volgere dell’eternità per non aver voluto farci alquanta violenza per abbandonar il peccato! Sì, M. F., noi lo vedremo un giorno che noi avremo potuto soddisfare alla giustizia di Dio con null’altro che con le piccole miserie della vita, che siamo costretti a sopportare nella condizione a cui il buon Dio ci ha posti, se noi vorremo nello stesso tempo aggiungere qualche lacrima ed un sincero dolore de’ nostri peccati. Qual rammarico d’esser vissuti e d’esser morti nel peccato, allorché vedremo che Gesù Cristo ha tanto patito per noi e che tanto desiderava di perdonarci, se gli avessimo domandato perdono! Dio mio, quanto è cieco e sventurato il peccatore! Noi abbiamo timore della penitenza. Ma osservate, M. F., come si comportavano coi peccatori ne’ primordi della Chiesa. Coloro che volevano riconciliarsi col buon Dio si recavano nel mercoledì delle Ceneri alla porta della chiesa cogli abiti sucidi e laceri. Entrati in chiesa si spargeva loro la testa di cenere, si dava loro un cilizio cui dovevano portare tutto il tempo della loro penitenza. Dopo ciò si imponeva loro di prostrarsi contro terra, mentre si cantavano i sette salmi penitenziali per implorare sur essi la misericordia di Dio; poscia si faceva loro un’esortazione per indurli a praticar la penitenza con tutto lo zelo possibile, sperando che forse il buon Dio si lascerebbe placare. Dopo tutto ciò erano avvisati che sarebbero scacciati dalla chiesa con ignominia, come Dio scacciò Adamo dal paradiso terrestre dopo il suo peccato. Non appena usciti si chiudeva sopra di loro la porta della chiesa. Ma se desiderate sapere in qual modo passavano questo tempo, quanto durava questa penitenza, eccolo: primieramente erano obbligati a vivere ritirati, oppure ad occuparsi in lavori penosi; avevano alcuni giorni nella settimana in cui dovevano digiunare a pane ed acqua, secondo la gravità de’ loro peccati; lunghe preghiere durante la notte prosternati con la faccia contro terra; si coricavano sopra tavole; si alzavano più volte la notte per piangere i loro peccati. Si facevano passare per vari gradi di penitenza; le domeniche comparivano alla porta della chiesa vestiti di cilicio, col capo cosparso di cenere, rimanendo fuori esposti all’intemperie; si prosternavano dinanzi ai fedeli che entravano in chiesa, scongiurandoli con le lacrime agli occhi di pregare per loro. A capo di un certo tempo, era loro concesso di ascoltare la parola di Dio, ma appena fatta l’istruzione erano cacciati di chiesa; molti non erano ammessi alla grazia dell’assoluzione se non in punto di morte; e ciò era ancora tenuto per un gran favore che faceva loro la Chiesa, dopo aver passati dieci o vent’anni o più ancora nelle lacrime e nella penitenza. Ecco, M. F., come la Chiesa si comportava altra volta verso i peccatori che volevano davvero convertirsi. Se ora desiderate sapere chi erano coloro che si sottomettevano a queste aspre penitenze, vi dirò che erano tutti, dal mandriano all’imperatore. Se ne volete un esempio, eccone uno che abbiamo nella persona dell’imperatore Teodosio. Costui avendo peccato più per sorpresa che per malizia, S. Ambrogio gli scrisse, dicendogli: « Questa notte ho avuto una visione in cui il buon Dio m’ha fatto conoscere che voi venivate alla chiesa, e mi comandò di non lasciarvi entrare. » Leggendo questa lettera, l’imperatore pianse amaramente; tuttavia egli andò a prostrarsi, come al solito, alla porta della chiesa con la speranza che le sue lacrime e il suo pentimento commuoverebbero il santo vescovo. Quando S. Ambrogio lo vide avanzarsi, gli disse: « Fermatevi, o imperatore, voi non siete degno di entrare nella casa del Signore. » L’imperatore a lui: « È vero, ma anche Davide peccò, ed il Signore lo ha perdonato. » — « Ebbene, replicò gli S. Ambrogio, poiché voi lo avete imitato nel peccato, seguitelo nella penitenza. » A tali parole l’imperatore si ritira, senza nulla dire, nel suo palazzo, si toglie le insegne imperiali, si prosterna con la faccia contro terra e si abbandona a tutto il dolore di cui era capace il suo cuore. Per ben sette mesi non mise più piede nella chiesa. Allorché vedeva andarvi i suoi famigliari, mentre a lui era proibito, lo si udiva gridare in modo tale da commuovere i cuori più induriti. Quando poi gli si permetteva di assistere alle pubbliche preghiere, egli stava, non come gli altri, in piedi o in ginocchio, ma col volto prosternato a terra, nella maniera la più commovente, battendosi il petto, strappandosi i capelli ed amaramente piangendo. Per tutta la vita non dimenticò il suo peccato; non poteva pensarvi senza spargere lacrime. E così, M. F., voi vedete ciò che fece un imperatore che non volle perdere l’anima sua. – Che dobbiamo conchiudere, M. F.? Ecco: Giacché è assolutamente necessario piangere i nostri peccati, farne penitenza o in questo mondo o nell’altro, scegliamo la meno rigorosa e la meno lunga. Qual rammarico, F. M., giungere al punto di morte senza nulla aver fatto per soddisfare alla giustizia di Dio! Quale sventura l’aver non curato tanti mezzi che abbiamo di patir qualche miseria, che se noi le avessimo sopportate in pace per amor del buon Dio, ci avrebbero meritato il perdono! Quale sventura l’aver vissuto nei peccato, sperando sempre che lo avremmo lasciato, e morire senza averlo fatto! Prendiamo, F. M., un’altra strada che vantaggiosamente ci consolerà in quel momento; lasciano ilmale, cominciamo dal piangere i nostri peccati e tolleriamo tutto ciò che il buon Dio a  lui piacerà d’inviarci. Che la nostra vita sia che una vita di rimordimenti, di pentimento de’ nostri peccati e d’amor di Dio, finché noi abbiamo la felicità d’unirci a Lui per tutta l’eternità. E quanto vi auguro.