DIO IN NOI (2)

DIO IN NOI (2)

[R. PLUS: Dio in noi – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

La Redenzione.

Abbiamo detto che il soprannaturale è la vita divina in noi, la nostra partecipazione alla natura infinita di Dio. Fissiamo meglio il concetto. Abbiamo già un punto di riscontro per apprezzare, al suo giusto valore, la ricchezza di cui siamo gratificati. Prima ancora d’investigare in che consista la mia vita divina, che luce non promana già da questo solo pensiero: Dio ci ha riscattato, e Gesù Cristo si è incarnato per questo solo motivo: renderci il soprannaturale perduto! – È questo un fatto misterioso: Dio che si fa uomo, e poi il presepio, i trenta anni di vita nascosta; tre anni di vita pubblica; la croce; e lo scopo unico di tutto ciò: rifarci uomini divini. Riflettiamoci più addentro. – L’abbiamo già notato: per il peccato di Adamo noi eravamo tantum homo, uomini e nulla più. Dio non può accettare questa formula. Abbiamo saccheggiato la sua opera: Egli la vuole intatta; l’abbiamo cacciato dall’anima nostra: Egli vuole ritornarvi.

« … E il Verbo si è fatto carne ».

S. Ignazio, negli Esercizi spirituali, nella contemplazione sull’Incarnazione, ci invita a penetrare i consigli di Dio e vedervi la Trinità santa che delibera sulla sorte dell’uomo e sui mezzi da scegliere per salvarlo. – Taine, pensando a Dio e alla sua immensa maestà, paragonava l’uomo a una formica e l’Altissimo a un personaggio impassibile che, col suo mantello, spazza il piccolo essere che cammina ai suoi piedi, senza punto curarsi di lui! Crassa ignoranza di ciò che è Dio! Rivolta verso di noi, la Trinità santa si turba per la nostra miseria, e cerca un mezzo di salvarci… Dio non è troppo grande per abbassarsi a questo modo? — Dio è buono, infinitamente buono, e prova per l’uomo una tenerezza particolare, quella tenerezza che rapiva in estasi il Salmista, e lo faceva esclamare: « Che cosa è dunque l’uomo, o Signore, perché Voi pensiate a lui? » (Quid est homo, quod memor es ejus! Ps. VIII, 5). È vero, profonda è la nostra miseria, ma è pur vero che la misericordia di Dio è meravigliosa. Quello che non fece per gli Angeli, lo farà per noi. Ma come risolvere il problema? Il delitto fu commesso da un uomo; bisogna dunque che la riparazione di questo delitto venga compiuta per mezzo di un uomo. D’altra parte l’ingiuria fatta a Dio ha un valore infinito … Allora la seconda Persona, il Verbo, pronunzia, nelle magioni celesti, la parola di salvezza. Egli si incaricherà di tutto. Figlio di Dio, si farà figlio dell’uomo. Prenderà la nostra natura, diventerà uno di noi. Avrà una madre come noi, una vita come la nostra, abbraccerà le sofferenze come noi. La riparazione sarà di un uomo, perché, pur essendo Verbo, Egli si farà carne. La riparazione sarà di un Dio, perché pur fattosi carne, Egli non cesserà di essere Verbo. E l’Incarnazione è stabilita. Il Salvatore si farà fratello nostro per natura, affinché noi diventiamo fratelli suoi per grazia; parteciperà della nostra vita, affinché noi possiamo partecipare della sua. – Ecco il disegno; ed eccone l’attuazione. L’Arcangelo Gabriele si reca da una Vergine e Le dice: «Dio cerca una madre. Volete divenire la Madre del Figlio di Dio? ». Maria consente. Gesù viene al mondo: « Verbo abbreviato », come dicono i Santi Padri, Verbum abbreviatium, figura ridotta, compendio della Parola eterna, adattato alla nostra capacità. Se Dio si fosse appagato di offrirvi una formula di solvenza, un comandamento da osservare, non avremmo capito. Gli Ebrei, nell’Antico Testamento, avevano le Tavole della legge. Una carta è poco per attrarre gli uomini, e la storia d’Israele è la storia dei continui oblìi e dei rinnegamenti, rinnovati senza interruzione. La formula finirà di essere una mera formula, il comandamento cesserà di essere un semplice comandamento. La parola prenderà corpo, e invece di operare secondo le norme scritte su di un pezzo di carta, agirà seguendo le orme di un uomo. – Il Figlio di Dio, divenuto uno di noi, sarà il nostro capo. Egli sarà il primogenito, il grande fratello di cui tutta la famiglia umana si onorerà; e basterà seguirlo per non deviare nel nostro cammino. Ci mostrerà per dove dobbiamo passare: « Io sono la via ». Lo vedremo sempre il primo della fila, e due sbarre incrociate che formano la sua bandiera, per quanto ne siamo lontani, le scorgeremo facilmente, perché in mezzo ad esse risplende un cuore luminoso. Ego lux! — Venite, figliuoli miei — filioli— il cammino è difficile, ma io vi precedo e chiedo da voi unicamente che mettiate i piedi sulle tracce dei miei passi. Credete alla mia parola. « Io sono la Verità ». Colui che ha ricevuto il Battesimo e crederà, sarà salvo. Colui che rifiuterà di ascoltare la mia voce, si perderà. Che cosa fai tu sull’orlo della strada, che hai gettato la croce per terra e non vuoi più andare innanzi?… Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce; solo dopo aver fatto questo, potrà seguirmi… Povero Figliuolo! tu manchi di forze. Io te le do. La vita del Padre è discesa nell’anima tua col Battesimo; questa vita bisognerà custodirla in te stesso, svilupparla; i mezzi, a questo scopo, sono i miei Sacramenti… Se per caso vieni meno, se cadi, bisognerà che ti rialzi. Io caddi tre volte, percorrendo lo stesso cammino, per dare a te l’esempio del coraggio e farti rialzare dalle tue cadute mortali, come Io mi rialzai dalle mie cadute fisiche. Io ti ho dato l’esempio: Io ti ho dato anche i mezzi per ristorare le tue forze esauste. Non hai tu la Confessione? La Confessione, il più divino di tutti i miei Sacramenti, da me immaginato affinché la colpa non imputridisca nel tuo cuore. Come il Padre mio, dopo il fallo di Adamo, poteva astenersi dal perdonare, ugualmente Io potrei, dopo il tuo primo peccato, non concederti alcuna remissione. Considera la mia bontà, non per abusarne, ma perché tu abbia maggior confidenza in me. Ogni qualvolta tu cadrai, un Sacerdote sarà pronto, vicino a te, per perdonarti in mio nome. E quando sarai tormentato dal dubbio o dall’angoscia, ascolta la voce dei miei rappresentanti sulla terra, della mia Chiesa. L’esempio, la regola da seguire, i soccorsi da utilizzare; che cosa più ti manca? Dimmelo, che cosa avrei potuto fare di più, per te, che non l’abbia fatto? E tutto questo, notalo bene, tutto questo unicamente, esclusivamente perché tu viva della vita del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché tu viva della vita divina. Ho agito così, ho fatto un così grande passo — sicut gigas— per farti partecipe, Io Verbo, della mia vita che è la vita del Padre e dello Spirito Santo. Continuerai a stimare come cosa di poco conto, questa vita divina, questa vita soprannaturale? Tu non vi badi, ovvero non ne fai alcun caso. Mentre io… Considera quello che risolvetti di fare e che poi feci. – E cerca, ormai, di capire.

— Signore! Lo so. Aumentate la mia fede. Concedetemi di modellare tutta la mia vita su queste grandi idee. Voi mi avete reso la mia vita divina. Terrò ormai davanti agli occhi, non dimenticherò mai quanto quest’opera insigne vi sia costata.

— Tu non hai ancora compreso tutto. Hai contemplato, sì, con un’occhiata la mia vita e i miei benefizi. Il presepio, per te; la mia vita nascosta, per te; per te la predicazione evangelica; per la tua salvezza la fondazione della mia Chiesa, l’istituzione dei miei Sacramenti. – Hai pensato che su tutto ciò si distendeva una grande ombra, l’ombra sinistra, ma gloriosa, delle due traverse, mal connesse, che in forma di croce, dominavano il Golgota? Potevo vivere felice sulla terra. Non volli farlo: intendevo scrivere nel Vangelo: «Beati i poveri ». Se fossi stato ricco, mi avresti detto: « Voi parlate senza aver provato ». Scelsi la povertà. A Betlem non ebbi nulla. Sulla Croce, nulla. Fra la Croce e Betlem, nulla. Potevo vivere fra gli onori. Volevo poterti dire: «Beati i perseguitati», senza che tu avessi nulla da rimproverarmi. Ascolta. Alla mia nascita sono cercato a morte da Erode. Durante la mia predicazione, parecchie volte, vogliono arrestarmi e mettermi in prigione; prendono di terra le pietre per lapidarmi; la mia bontà è rimunerata con l’insulto. Quanto alla Passione ecco Anna, Caifa, un altro Erode, Pilato, i Giudei che schiamazzano; l’abbandono, l’odio, il tradimento; non mi mancò nulla. Avrei potuto… ma perché continuare? Scelsi la sofferenza, la Croce, volli versare tutto il mio sangue.

Perché?

Perché tu capisca meglio quanto io stimi la vita soprannaturale alla quale è destinata l’anima tua. Io mi annientai, mi ridussi a zero exinanivit— affinchè Dio viva in te. Mi ridussi al minimum, affinché tu potessi avere la vita al maximum.

Ohimè!

Che disdetta non fu la mia, che perdita! Operai a questo modo per amore degli uomini. Ma quanti di loro vi pensano? Quale stima mostrano della vita divina che portano in sé, — che dovrebbero almeno portare? — Il peccato dappertutto, nella strada e nella famiglia, nelle grandi sale, nelle stanze destinate al riposo, perfino nelle chiese e nei chiostri. I peccati dei buoni, specialmente! Essi soli mi ridussero all’agonia. Non potei resistere a tanto orrore, e dovetti sudare sangue. Peccati numerosissimi, grossolani, enormi! Io ne fui schiacciato dal peso, annientato. – Il mio sangue, tutto il mio sangue, inutile! Inutile, non per i soli infedeli di nascita, i pagani, ma per la folla degli infedeli dal cuore troppo gaio; per i Cristiani che sono in peccato mortale. Il povero Giuda, lo sai bene, è il modello delle anime che rifiutano di lasciarsi guadagnare. Misi in opera ogni mezzo, per salvarlo: la bontà, la compassione, la minaccia. M’inginocchiai ai suoi piedi per lavarglieli. Non capì nulla, non si commosse, e Io dovetti lasciarlo in braccio alla perdizione! Tutto il mio sangue è pertanto un prezzo d’infinito valore!… L’uomo mi ha profondamente rattristato. È dunque questo il cuore dell’uomo? E mia Madre, la mia povera Madre ch’Io volli associare con me alla tua redenzione e al mio martirio! Non è Madre tua, solo perché ha, per te, gli stessi sentimenti che una madre nutre per suo figlio, ma perché in realtà — Io la feci tua Madre, — tu Le devi la vita soprannaturale. – Nell’Annunziazione, quando Gabriele si presentò a Maria, ecco la strana proposta che Le fece, il contratto singolare a cui Le domandò di associarsi: « Dio ha stabilito di rendere all’uomo la vita divina. A questo scopo vuole incarnarsi e voi siete scelta per metterlo al mondo. Se accettate, il mondo possederà un Salvatore. Per mezzo suo avrà la salvezza. Senza di voi nulla è possibile. Dite sì, e tutto sarà conchiuso. Ma perché non vi sia un malinteso, sentite quali sono le condizioni del contratto: Gesù morrà sulla Croce. Voi lo alleverete per il sacrificio. Senza il Calvario non vi sarà Redenzione. Per salvare i vostri figli, gli uomini, — figli vostri perché a voi dovranno la vita soprannaturale che dipende unicamente dal vostro fiat, — bisognerà sacrificare il vostro Primogenito. Accettate la morte dell’uno, per salvare tutti gli altri? ».

Maria accetta.

Ella è Madre. È tua Madre, titolo che Maria stima molto, perché riassume il suo ufficio, il suo sacrifizio, la sua missione: Mater Dolorosa, madre dei dolori. In tutta la sua vita, tua Madre — la Madre mia — ebbe dinanzi agli occhi la visione tremenda della Croce che avrebbe dominato la mia e la sua vita, e a ogni momento si rinnovava il triste spettacolo di me, suo Primogenito, inchiodato e sanguinante sopra il legno infame. E Io ho permesso questo, per amor tuo. Senza questa doppia crocifissione, che per me durò trentatrè anni e per mia madre tutta la vita, tu non saresti stato riscattato. Maria rinnovò il fiat dell’Annunziazione in ogni istante della sua esistenza. Ai piedi della Croce ripeterà con me la sua giaculatoria consueta, l’Amen sublime, con cui si associò pienamente, fin da principio, alla mia volontà redentrice. Così si riassume, con l’ufficio di Gesù, l’ufficio di Maria nella nostra rinascita collettiva alla vita soprannaturale (noi non pretendiamo punto che la Vergine abbia avuto, dal primo momento, la conoscenza di tutta la Passione del suo Divino Figliuolo, in tutte le particolarità. Ma diciamo, secondo il giudizio di vari Santi Padri, che l’Angelo verisimilmente poté rivelare alla Vergine la Passione del Figlio, presa nel suo insieme. Come difatti spiegare l’accento di rassegnazione del fiat? Ad una proposta di grande onore si risponde piuttosto: meglio così, anziché: fiat, sia. La sola umiltà di Maria non basta, secondo alcuni, a dare ragione della risposta fatta all’Angelo. La Vergine aveva d’altronde letto Isaia, il vermis et non homo, il virum dolorum. Sapeva quindi che il Messia sarebbe l’uomo dei dolori. Accettando perciò la maternità del Messia, per il fatto stesso accettava di essere una Madre addolorata; e per chi conosce il cuore di una madre, Maria si rassegnava al dolore durante tutta la sua vita. La Vergine dovette averne l’intuizione alle prime parole dell’Angelo. Quanto alle particolarità, non si potrebbe forse ammettere che durante i trent’anni di contatto continuo con Lei, Nostro Signore abbia rivelato a sua Madre, scelta ad essere corredentrice, quale sorta di pene fossero riservate a Lui?). L’umanità deve tutto a Maria; e l’essere costata a Lei tanti dolori, spiega perché la Vergine sia così potente presso Dio, allorquando trattasi di difenderci contro gli attacchi giornalieri dei nemici dell’anima nostra. – Giacché non basta che siamo stati salvati una volta. Noi siamo esposti, ogni giorno, a cadere nel male in mille maniere. Maria, per ciascuno di noi, non dimentica l’ufficio che assunse una volta. Ella accettò il sacrificio del suo Primogenito, per strappare alla morte noi, suoi « secondi » figli. Questo importa molto, ed è la ragione precipua dell’efficacia del suo intervento. Nel secondo libro dei Re si racconta che una madre, avendo due figli, vede un giorno il minore accusato dell’uccisione del fratello. Il reo è condannato a morte, essendo provato il delitto. La madre, presente alla sentenza, si getta ai piedi del giudice, e gli dice : « Che cosa fate, signore? Ho perduto già un figlio, e voi oserete uccidere l’unico che mi resta? ». Possiamo immaginarci lo stesso riguardo Maria — Omnipotentia supplex, l’onnipotenza supplichevole — al momento in cui la morte è sul punto di colpire un suo figliuolo in peccato mortale, per privarlo in eterno dell’eredità dei figli di Dio. Ella allora si prostra ai piedi del Padre, e dice: « Signore, Io ho sacrificato il mio Primogenito. Fate grazia, vi supplico, a questo mio secondogenito, per i dolori sofferti dal Primo; per tutte le pene da me sopportate, perdonatelo… è un mio figliuolo! Non vogliate punirlo in eterno. Mandategli una grazia che lo converta… Abbiate pietà di me! ». Cominciamo a capire il vero valore della nostra vita soprannaturale. Allorché si ignora il valore di un bene, si ricorre a chi è in grado di stimarlo. – Io stimo per nulla la mia vita divina.

Quanto invece fu stimata da Maria?

Quanto da Gesù? L’uno e l’altra capaci, pertanto, di apprezzarla! Bisogna che qualcuno s’inganni; o s’ingannano essi o m’inganno io. Sì, m’inganno io. Bisogna quindi che io rettifichi al più presto il mio falso giudizio, e che, in conseguenza, non trascurando la stima che altri ne ha fatto, mi studii di trovare in me che cosa sia la vita soprannaturale, la presenza di Dio, nell’anima mediante la grazia.

LIBRO SECONDO

L’abitazione divina nell’anima nostra

Le grandi linee del disegno di Dio sono le seguenti:

In principio l’uomo è colmato, al disopra della sua natura, di doni meravigliosi, dei quali il più importante è una partecipazione di amore alla stessa vita della Trinità Santa. – Per il peccato originale, l’uomo perde questo tesoro soprannaturale. Tutto però non è perduto irremissibilmente. – Dio stabilisce di rendere all’uomo la partecipazione ineffabile alla sua vita divina; soltanto non saranno resi alcuni doni accessori e d’ordine temporale. – Per mandare ad effetto tale restituzione, Dio sceglie di venire Egli stesso sulla terra. Il Verbo, seconda Persona della Santa Trinità, si incarna, dopo aver fatto domandare a Maria se accetta l’onore e il martirio di divenire sua Madre. – Grazie a questa redenzione, a questo riscatto, eccoci divenuti uomini divini. Dio ha determinato di venire in terra, unicamente per rientrare nelle nostre anime. Egli non si lasciò attrarre dal presepio di Betlem, ma dal nostro cuore. Vuole rientrare nel dominio del cuore, affinché ridiveniamo quello che eravamo alla nostra origine: portatori di Dio.

Spieghiamo quest’espressione e dimostriamone l’esattezza letterale. Ci riuscirà facile il compito, se avremo provato che per mezzo della grazia santificante Dio fa dell’anima nostra:

1. Un vero tabernacolo;

2. Un cielo;

CAPO I .

” Templum Dei .

Nulla è più spesso ripetuto e affermato, nelle Epistole, di questa verità, che noi dobbiamo considerarci come tabernacoli, vere Chiese, case di Dio: Quæ domus sumus. — Vos estis templum Dei. – S. Paolo, per sostenere questa dottrina, usava lo stesso insegnamento di Nostro Signore. « Se qualcuno mi ama», aveva detto Gesù, vale a dire se qualcuno è fedele ai miei comandamenti, se non pecca, ma vive in stato di grazia, « mio Padre e Io l’ameremo, e verremo a lui, stabiliremo in lui la nostra dimora, la nostra abitazione, il nostro soggiorno ».

« Verremo a lui ». Chi farà questo? Noi, Padre, Verbo, Spirito Santo, che siamo un solo. Verremo, non della venuta necessaria e comune, in virtù dell’immensità divina; ma di una venuta speciale, gratuita, di amore, che ci costituirà non più nelle relazioni di un oggetto con colui che l’ha fatto, di creatura a Creatore, ma nelle relazioni di amico ad amico.

« Noi verremo a lui ».  È una grazia grande venire anche di passaggio, venire per ripartire al più presto. Ma noi faremo di più: Verremo e resteremo; verremo per dimorare, per stabilirci, per operare continuamente la divinizzazione più completa e più perfetta dell’anima. « Noi verremo e resteremo ». Noi resteremo, e da parte nostra, questa presa di possesso sarà irrevocabile, sarà una dimora che non avrà fine. Tu solo, col peccato, potrai pronunziare una sentenza d’espulsione e allora Noi partiremo. Non potremmo fare altrimenti! Ma finché questo non accade, la nostra vita, la nostra presenza in te, è un fatto, una vera realtà. Io impegno la mia parola. – Si conosce da tutti l’espressione di San Pietro, difficile a tradursi, ma bella, chiara, con cui afferma ai primi Cristiani, che se persistono nello stato di grazia, sono in possesso della « partecipazione alla natura divina, divinæ consortes naturæ ». Cerchiamo di rappresentarci in concreto questa presenza di Dio nell’anima nostra. – Abbiamo spesso meditato sul presepio. Supponiamo adesso il presepio, divenuto tutto a un tratto vivente… La culla del Salvatore conteneva Gesù, Uomo-Dio. Noi, divenuti, per la grazia, culle viventi, portiamo, non la santa Umanità del Signore, ma la sua divinità. Secondo il simbolismo delle tre Messe che si celebrano il giorno di Natale, se la prima ci ricorda la nascita eterna del Verbo nel seno del Padre e la seconda la nascita temporale del Cristo a Betlem, la terza, invece, ci rappresenta la nascita spirituale di Dio in ciascuna delle nostre anime con la grazia santificante. Spesso abbiamo meditato sull’Eucaristia. Immaginiamoci la sacra pisside divenuta a un tratto vivente… La pisside racchiude Gesù, l’Uomo-Dio. Per la grazia, noi divenendo pissidi viventi, portiamo non l’Umanità di Nostro Signore, ma quello che in Lui è più grande: la sua Divinità. – Nel 1914 alcune religiose belghe, costrette a fuggire dinanzi all’invasione tedesca, riparando in Olanda, portarono seco la sacra pisside che la superiora aveva tolta dal tabernacolo. Erano fuori di sé per la gioia di portare, una volta nella loro vita, Nostro Signore. Ma la religiosa che teneva con sé il sacro deposito, aveva forse pensato che ogni giorno, per la grazia santificante, ella portava realmente, benché non nello stesso modo, il buon Dio? – Di tutte le lodi tributate al valore durante la guerra, è certamente assai meritata quella di un basco di Urrugna, chiamato Ururétagoyena: « Soldato valoroso… Il 16 giugno 1916, durante l’incendio di X …, non permise che il parroco andasse a prendere il Santissimo in mezzo alle fiamme, ma vi andò egli stesso, malgrado i pezzi infiammati che cadevano da tutti i punti, e, attraversando una finestra, riuscì a portare la pisside al prete ». Essendo quel soldato un fervente Cristiano, come lo sono generalmente i baschi, si può supporre che sia stato santamente orgoglioso di avere portato, anche durante alcuni minuti, il Dio vivente. E per noi, quale dovrebbe essere il nostro nobile orgoglio, se pensassimo che ad ogni momento — se siamo in grazia — portiamo Dio. Lo portiamo dovunque andiamo, non soltanto sopra di noi, come le buone suore di cui abbiamo parlato, ovvero come il bersagliere basco, o come il Papa Alessandro, che si dice portasse continuamente appeso al collo, in una teca d’oro, il SS. Sacramento; ma dentro di noi dove risiede, non corporalmente, — privilegio riservato alla presenza eucaristica dopo ogni Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie; — ma spiritualmente, per la grazia santificante, finché noi lo vogliamo, in virtù della nostra fedeltà. – Noi siamo altrettanti tabernacoli. I Santi vivevano di questo pensiero. Ogni anno la Chiesa ci fa leggere nel breviario le lezioni della festa di Santa Lucia. Il prefetto l’interroga: «Lo Spirito Santo è in te? » — « Sì, coloro che vivono casti e pii sono il tempio dello Spirito Santo ». S. Ignazio martire dice a Traiano che l’insulta, trattandolo di miserabile: — Nessuno osi trattare di miserabile Ignazio, Porta-Cristo. — Come potresti chiamarti Porta-Cristo, Cristoforo? — Perché questa è la verità. Io porto Dio in me. – All’occasione, Nostro Signore stesso s’incarica di dire, ad alcune anime privilegiate, le meraviglie della sua presenza in noi. Un giorno chiamò così S. Angela da Foligno: « Figlia mia carissima, mio tempio, mia delizia… ». – E a Santa Gertrude, la santa per eccellenza, dell’Abitazione in noi, la Santa di cui la Chiesa, nell’orazione per la sua festa, dice: « O Signore, che nel cuore di Gertrude vi siete preparata una dimora deliziosa… » parecchie volte Gesù Cristo rivolge queste parole: « Io ti ho scelta per abitare in te, e per trovare in te le mie delizie ». – La conoscenza che il Divin Salvatore dava alle sue Sante era ben diversa dalla nostra, non era cioè una conoscenza di pura fede, ma una conoscenza sperimentale, sentita, appartenente a quell’ordine mistico di cui noi qui non intendiamo affatto occuparci. Fatta questa riserva, possono valere per noi le parole che Gesù rivolgeva loro. Nessuno negherà che non possa chiamare noi suo tempio e non possa dirci: « Io ti ho scelto per abitare in te ». E difatti nel suo dogma Egli ci chiama e ci parla così. – Nulla di più esatto. I Cristiani istruiti che hanno una fede viva, non ignorano questo. Si conosce il gesto di Leonida, padre di Origene. Inchinandosi sul figlio, adagiato nella culla, per baciarne il petto, risponde a chi si meraviglia: « Io adoro Dio, presente nel cuore di questo piccolo battezzato ». Origene stesso scriverà più tardi, parlando della grazia santificante e della vita divina che la grazia apporta in noi: « Scio animam meam inhabitatam. Habitata est quando plena est Deo, quando habet Christum et Spiritum Sanctum. L’anima mia è un’abitazione. Abitazione di chi? Di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo » (In Jerem., hom. VIII).

Abbiate stima di questo piccolo essere;

Egli è assai grande, ha in sè Dio!

(Prenez garde à ce petit être;

Il est bien grand, il contient Dieu.

VICTOR HUGO).

Credette mai, Victor Hugo, di esprimere, in questi due versi, una verità dogmatica fondamentale ed insieme commovente? Ecco ancora un tratto, forse più bello di quello di Leonida. – Una madre, fervente cristiana, dopo molti anni di sterilità dà alla luce una bambina. A coloro che glie la porgono perché l’abbracci: « No, risponde; lo farò tra breve, quando avrà ricevuto il Battesimo ». Poche madri avrebbero forse una fede simile. Non meno cristiana è l’attitudine di Botrel, bardo bretone, il quale, citato a testimoniare in un tribunale e non scorgendovi più il Crocifisso, rifiuta di sollevare la mano, e la pone invece, premendo forte, sul petto, esclamando: « Dio è almeno qui ». Dalla cittadella di Lilla, in cui era stato rinchiuso come in prigione di rigore, per essersi rifiutato di ubbidire contro coscienza, allorché il governo aveva imposto gl’inventari agli edifici sacri, un ufficiale francese, non potendo visitare il Santissimo Sacramento, si consolava al pensiero che almeno nessuno gli poteva impedire di visitare Dio presente nell’anima sua, per la grazia: «Per fare una buona adorazione, egli scriveva, io rientro in me stesso, o meglio, adoro Dio presente in me. Non siamo forse noi altrettanti tabernacoli?».Pensiero, anche quest’altro, pratico e profondo: « Quanto a me, scriveva prima della guerra il Dottor Périé, presidente del circolo della gioventù cattolica dell’Aveyron, la vita cristiana consiste, tutta quanta, nella fedeltà a questa massima: vivere, ogni momento della nostra vita, con Gesù Cristo. Sentire Lui, Dio, amico, confidente, padrone, presente sempre accanto a noi e dentro di noi ».Quanta forza in questo pensiero, quando lo si è compreso! Poter dire a ogni minuto: io non sono solo, siamo due, Dio e io! Consideriamo come dato a noi il consiglio di Monsignor d’Hulst: « L’anima vostra sia un tabernacolo davanti al quale vi prostrerete spesso, a causa dell’Ospite divino che vi abita ».

CAPO II.

“Cœlum sumus,,.

« Noi siamo un cielo ».

S. AGOSTINO.

Una carmelitana di Digione, morta di recente, dopo solo alcuni anni di vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità, la cui vita spirituale si basa quasi esclusivamente sul dogma dell’Abitazione divina, è un modello di ciò che deve essere l’intimità « interiore ». Il titolo di Carmelitana non deve costituire una difficoltà. Il P. Foch fa osservare, con ragione, in una lettera, citata al principio delle Memorie di suor Elisabetta: « Il carattere singolarmente importante che me la fa assai apprezzare, si è che la perfezione di quest’anima religiosa, in ultima analisi, consiste nell’effusione della grazia, nello sviluppo progressivo, normale, logico delle virtù teologali, quali il Battesimo le infonde in tutti ». Questo importa, che il substratum divino, su cui suor Elisabetta edificò l’edificio della sua santità, è posseduto anche da noi. Non esistono punto due forme di stato di grazia. È pertanto, fuori di dubbio che il posto che noi riserviamo a Dio nell’anima nostra può differire a seconda della capacità delle nostre virtù; ma ciò sarà solo secondo un numero maggiore o minore di gradi, una misura più o meno ristretta. Dio può concedere, è vero, grazie straordinarie che facilitano la vita interiore, come fece con S. Elisabetta. Col solo spirito di fede noi possiamo, nondimeno, avvantaggiarci molto nella conoscenza concreta di Dio in noi. Questo è possibile a tutti, purché si abbia buona volontà. Ecco perchè le « Memorie » di questa religiosa — con le correzioni che noi indichiamo — possono servire di modello a tutti. S. Paolo fornisce la teoria; Suor Elisabetta ce ne mostra la pratica, con gli accomodamenti necessari alla vita di ciascuno di noi. – La serva di Dio dice di avere trovato un gran segreto, il giorno in cui s’accorse che le parole di Gesù Cristo e quelle di S. Paolo su « Dio in noi », non erano da ritenersi come una metafora, ma alla lettera; in altri termini: « Dio in noi » non è semplicemente una formula, ma una vera, una sublime realtà. La pia carmelitana fece, di questa realtà, il centro della sua vita. – « Dio in noi », cioè a dire il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo: « Tre »; secondo una sua espressione favorita. Non bisogna parlare d’un Dio lontano, assente. Il suo Dio è vicinissimo, i suoi « Tre » sono là. E la sua intera esistenza si riassumerà in queste poche parole: «L’intimità interna cogli ospiti dell’anima mia ». A partire da questo momento, una sua idea molto cara, idea vera anche per noi, si è che possedendo Dio, l’anima nostra è un cielo. Noi dicevamo poco fa: tabernacolo, tempio. Possiamo dire, molto esattamente: cielo, paradiso. « Vivere, è comunicare con Dio da mane a sera e dalla sera al mattino… Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato. « Far sì che la nostra « casa di Dio » sia pienamente occupata dai « Tre… », mi pare il segreto della santità, un segreto molto semplice! – Dire che abbiamo in noi il nostro cielo … Quanto sarà bello, quando il velo cadrà, e noi godremo Dio faccia a faccia! ». Scrivendo a sua sorella, le cita la parola dell’Apostolo: « Non siete più ospiti o estranei, ma della città dei santi e della casa di Dio ». E aggiunge: « Questo cielo è al centro dell’anima nostra… Non vi pare semplice e consolante? Malgrado le tue occupazioni e attraverso le tue sollecitudini materne, tu puoi ritirarti in questa solitudine… Allorquando sarai distratta dai tuoi numerosi doveri… se vuoi raccoglierti, entrerai, a ogni ora, nel centro dell’anima tua, là dove dimora l’Ospite divino; potrai pensare alle consolanti parole: Le nostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che abita in voi (1 Cor., III, 16); e a queste altre che sono di Gesù Cristo: Dimorate in me ed Io in voi. Si narra di S. Caterina da Siena che viveva sempre nella sua stanzetta, benché fosse in mezzo al mondo, giacché viveva in quest’abitazione interiore… ». Questo pensiero dominava la serva di Dio nei suoi ritiri spirituali. Ella scrive: «Poiché l’anima mia è un cielo dove io vivo aspettando la Gerusalemme celeste»… E riassume tutto in un’equazione luminosa: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia ». – Grazie speciali davano a Suor Elisabetta una particolare penetrazione del mistero divino. Questa facilità di « rientrare nel suo interno », di vivere « sola con Dio solo », non può appartenere, nello stesso grado, che alle anime prevenute da soccorsi straordinari, ovvero preservate dalle innumerevoli distrazioni della vita del mondo. – In conseguenza noi non vogliamo occuparci di questo. Non pretendiamo che la facilità sia per tutti uguale, ma diciamo che in tutti — in tutti coloro che sono in grazia, — Dio abita, e che dipende da noi, aiutati dalla grazia e secondo le risorse esteriori della nostra devozione, discendere in noi, quando vogliamo pregare;

in noi, poiché Dio vi si trova e in nessun altro posto ci è più vicino. Nostro Signore stesso spiegò una volta, nel giorno dell’Ascensione, a Santa Margherita Maria questa dottrina: « Ho scelto l’anima tua perché sia un cielo di riposo sulla terra e il tuo cuore sia un trono di delizie per il mio divino amore». Presenza sentita per la Santa; presenza semplicemente conosciuta in virtù della fede, quando trattasi di noi, ma identica nel suo fondo, differente solo in un punto accidentale: il modo di percepirla. – I Padri spiegano spesso questa dottrina: « Cœlum es et in cœlum ibis, dice Origene (In Jer., hom. VIII); tu sei cielo e andrai in cielo ».

— E Sant’Agostino: « Portando con noi il Dio del Cielo, siamo cielo. Portando Deum cœli, cœlum sumus». (In Psalm. LXXXVIII).L’Imitazione di Cristo nella sua semplicità dice:« Ubi tu es, ibi cœlum » (III, 59). E il P. Faber traduceva: « Dio produce il cielo, dovunque si trova ». Da ciò si comprende meglio l’agire di Santa Teresa che cadeva in estasi alla vista di un’anima in istato di grazia. « Il cielo, scriveva la Santa, non è l’unica abitazione di N. Signore; ve n’è un’altra nell’anima che può chiamarsi un secondo cielo ».S. Teresa considera specialmente, e nelle Fondazioni e in altri scritti, la verità della presenza di Dio in noi dal punto di vista mistico, come in generale facevano gli scrittori antichi; ma non omette, all’occasione, di ricordare il nostro punto di vista, basandolo sui principii della teologia dogmatica. Valendosi della frase di Origene: Tu coelum es, la Santa chiama l’anima nostra « un piccolo cielo… in cui abita Colui che ha creato il cielo e la terra ». « Vi è mai cosa alcuna più degna d’ammirazione, dice ancora, che di vedere Colui il quale riempirebbe della sua grandezza mille mondi, racchiudersi in una piccolissima dimora come la nostra? ».S. Bernardo, a sua volta, parlando dell’anima scrive: « Non bisogna dirla celeste unicamente a causa della sua origine; bisogna chiamarla il cielo stesso. Puto non modo cœlestem esse propter originem, sed cœlum ipsum posse non immerito appellari » (Dice ancora: « Non mirum si henter habitet hoc cœlum Dominus juxta illud Lucæ: Regnum Dei infra vos est. Nessuna meraviglia se Dio abita volentieri nel cielo dell’anima nostra; per creare il cielo visibile, si contentò di dire il fiat; per il cielo dell’anima nostra, dovette combattere e versare tutto il suo sangue, pugnavit ut aquireret, occubuit ut redimeret. Quindi, dopo quest’immenso lavoro, godendo della sua vittoria, ait: hæc requies mea, hic habitabo, disse: prenderò là il mio riposo, abiterò là dentro » – Serm. XVII in cantica, n. 9). È però indubitato che a differenza del cielo che ci attendiamo nell’eternità, il cielo dell’anima noi possiamo perderlo. Quaggiù portiamo i nostri tesori in vasi di argilla, vasis fictilibusl’altro invece non si può perdere. Questo « cielo» in noi è invisibile. Dio è presente, ma sfugge a qualsiasi percezione dei nostri sensi, e vi è un abisso tra la fede e la visione. Maria de la Bouillerie, che doveva morire religiosa del Sacro Cuore, nel suo ritiro di prima comunione fu colpita da questa frase: « Il nostro corpo è un velo che c’impedisce di vedere Dio ». Fra la grazia e la gloria vi è solo questa distanza — grandissima e piccolissima — il velo. Alla morte cadrà il velo della nostra carne, come un mantello che si squarcia, e allora vedremo. È invisibile, si può perdere e sfugge ai sensi. Con la grazia possediamo l’eredità, ma per goderne bisogna aspettare la gloria ( « Il cielo è Gesù », scriveva Mgr. Gay all’abate Perdrau; « la felicità non consiste nel vederlo, ma nel fatto che esista e che sia nostro. Or ci appartiene qui. È  verissima quindi la definizione che il Dottore Angelico dà della grazia: inchoatio vitæ eternæ… Noi possiamo e dobbiamo esclamare, lodando Dio e congratulandoci gli uni gli altri: portio mea Dominus » (Corresp. t. II, p. 217Monsignor Gay, per la sua devozione personale e per dirigere le anime, si valeva molto del dogma dell’Abitazione divina.).Quale soggetto, pertanto, degno della nostra stima, se vi facessimo attenzione! Io sono «cielo»! E la conclusione da dedurne: lavorare a mettere il « cielo » nell’anima mia, a metterne sempre di «più». Seminare nel tempo, per raccogliere nell’eternità: abbiamo altre ragioni di vivere quaggiù?

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