SALMI BIBLICI: “DOMINE, NE IN FURORE TUO ARGUAS ME” (XXXVII)

SALMO 37: “DOMINE, ne in furore tuo .. quoniam sagittæ”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 37

[1] Psalmus David, in rememorationem de sabbato.

[2] Domine, ne in furore tuo arguas me,

neque in ira tua corripias me;

[3] quoniam sagittæ tuæ infixae sunt mihi, et confirmasti super me manum tuam.

[4] Non est sanitas in carne mea, a facie irae tuae; non est pax ossibus meis, a facie peccatorum meorum:

[5] quoniam iniquitates meae supergressae sunt caput meum, et sicut onus grave gravatæ sunt super me.

[6] Putruerunt et corruptæ sunt cicatrices meæ, a facie insipientiae meæ.

[7] Miser factus sum et curvatus sum usque in finem; tota die contristatus ingrediebar.

[8] Quoniam lumbi mei impleti sunt illusionibus, et non est sanitas in carne mea.

[9] Afflictus sum, et humiliatus sum nimis; rugiebam a gemitu cordis mei.

[10] Domine, ante te omne desiderium meum, et gemitus meus a te non est absconditus.

[11] Cor meum conturbatum est, dereliquit me virtus mea, et lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum.

[12] Amici mei et proximi mei adversum me appropinquaverunt, et steterunt; et qui juxta me erant, de longe steterunt, et vim faciebant qui quaerebant animam meam.

[13] Et qui inquirebant mala mihi, locuti sunt vanitates, et dolos tota die meditabantur.

[14] Ego autem, tamquam surdus, non audiebam; et sicut mutus non aperiens os suum.

[15] Et factus sum sicut homo non audiens, et non habens in ore suo redargutiones.

[16] Quoniam in te, Domine, speravi; tu exaudies me, Domine Deus meus.

[17] Quia dixi: Nequando supergaudeant mihi inimici mei; et dum commoventur pedes mei, super me magna locuti sunt.

[18] Quoniam ego in flagella paratus sum, et dolor meus in conspectu meo semper.

[19] Quoniam iniquitatem meam annuntiabo, et cogitabo pro peccato meo.

[20] Inimici autem mei vivunt, et confirmati sunt super me: et multiplicati sunt qui oderunt me inique.

[21] Qui retribuunt mala pro bonis detrahebant mihi, quoniam sequebar bonitatem.

[22] Ne derelinquas me, Domine Deus meus; ne discesseris a me.

[23] Intende in adjutorium meum, Domine, Deus salutis meæ.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVII

Preghiera d’un penitente, e forse di Davide che fuggiva da Gerusalemme per la persecuzione di Assalonne. Il titolo per commemorazione del sabbato,  è ad indicare la quiete di cui gode la coscienza mentre è in grazia, e di cui con pianto si ricorda il peccatore penitente.

1. Salmo di David, per commemorazione pel giorno di sabato.

2. Signore, non mi riprendere nel tuo furore, e non mi correggere nell’ira tua.

3. Perocché io porto fitte nella mia persona le tue saette ed hai aggravato la mano tua sopra di me.

4. A cagione dell’ira tua ha sanità la mia carne; non hanno pace le ossa mie, a cagione dei miei peccati.

5. Imperocché le mie iniquità sormontano la mia testa e come peso grave mi premono.

6. Si sono imputridite, corrotte le piaghe mie, a cagione di mia stoltezza.

7. Son divenuto miserabile, e sono formisura incurvato: io mi andava tutto il dì carico di tristezza;

8. Perché pieni sono di illusione i miei reni, e nella carne mia non è sanità.

9. Sono abbattuto ed umiliato oltremodo: sfogava in ruggiti i gemiti del mio cuore.

10. Signore, sotto i tuoi occhi è ogni mio desiderio, e non è ascoso a te il mio gemere.

11. Il mio cuore è turbato, la mia forza mi ha abbandonato, e lo stesso lume degli occhi non è più meco.

12. Gli amici miei e i miei congiunti vennero, e si stettero a me dirimpetto. E i miei vicini da lungi si stavano.

13. Ma quelli che cercavano la mia vita, facevano i loro sforzi.

E quei che bramavano di nuocermi, parlavano superbamente, e tutto si studiavano inganni.

14. Ma io, quasi sordo, non udiva, e fui come un mutolo, che non apre sua bocca.

15. E mi diportai qual uomo che nulla intende, e non ha che dire in sua difesa.

16. Perché in te io posi la mia speranza; tu mi esaudirai; Signore Dio mio.

17. Perché io dissi: Non trionfino giammai di me i miei nemici, i quali, ogni volta che i miei piedi vacillino, parlano superbamente contro di me.

18. Perché io son preparalo a flagelli, e sta sempre dinanzi a me il mio dolore.

19. Perché io confesserò la mia iniquità, e penserò al mio peccato.

20. Ma i miei nemici vivono, e son più forti di me, e sono cresciuti di numero quei che mi odiano ingiustamente.

21. Quelli che rendono male per bene, parlavano male di me, perché io cercava il bene.

22. Non abbandonarmi, Signore Dio mio, non ti allontanare da me.

23. Accorri in mio aiuto, o Signore Dio di mia salute.

Sommario analitico

In questo salmo, composto da Davide molto probabilmente durante la rivolta di Assalonne, il Re-Profeta deplora le tristi conseguenze del peccato di impurità nel quale egli era caduto. Bisogna considerare:

I – Che Dio ha in orrore questo peccato: 1° esso provoca il suo furore e la sua collera, ciò che fa sì che David esclami: « Signore. etc.; » (2); 2° esso attira sul peccatore non solo le minacce, ma i dardi della giustizia divina e la mano pesante sul peccatore (3).

II.– Che questo peccato è estremamente nocivo per il peccatore:

al suo corpo, a) è il principio di numerose malattie; b) dissipa la forza ed il vigore del corpo (3); c) ne indica la causa, la molteplicità delle sue iniquità, che diventano un peso schiacciante (4); d) è un principio di corruzione per il corpo e per l’anima (5); e) è causa di tristezza, di illusioni pericolose dei sensi e di umiliazione profonda (6-9).

all’anima, a) turba la volontà e la spoglia della forza necessaria a resistere ai nemici; b) è causa di cecità per l’intelligenza (10).

III. – questo peccato rende colui che ne è colpevole, odioso agli altri:

1° si lamenta per essere stato abbandonato: a) dai suoi amici (11), b) dalle persone della sua casa (12); c) dai suoi nemici che lo hanno perseguitato – 1) con le opere inique, – 2) con i loro discorsi ingiusti, – 3) con i loro disegni criminosi (13).

2° Egli fa conoscere la pazienza con la quale ha sopportato tutte queste pene:

a) chiudendo le sue orecchie con una saggia e prudente dissimulazione (14); b) non aprendo la sua bocca (15), con un silenzio di cui dà tre ragioni: – 1) la speranza che ha nel Signore; – 2) il timore che si renda oltraggio per oltraggio e non sia abbandonato da Dio (17); – 3) la disposizione a soffrire i castighi della giustizia divina (18), ed il ricordo del suo peccato per il quale è pronto a soddisfare (19).

3° Egli implora il soccorso di Dio contro i suoi nemici: a) ne fa vedere la potenza, la moltitudine (20), la malizia (21); b) chiede a Dio: – 1) di non abbandonarlo con la sottrazione delle sue grazie; – 2) di non sottrargli la consolazione della sua presenza (22), – 3) di dargli tutti i soccorsi efficaci per giungere al porto della salvezza (23).

Spiegazioni e Considerazioni

I. 1-2

ff. 1. – Il Re Profeta si riconosce colpevole, vede le sue piaghe, ne domanda la guarigione. Colui che vuole essere guarito non teme di essere ripreso; egli desidera non di essere ripreso col furore, ma con la parola, con il verbo di Dio. La parola di Dio è onnipotente nel guarire le anime: « Egli ha inviato la sua parola, è detto allora, e li ha guariti » (Ps. CVI, 20). – Egli non vuole essere corretto dalla collera, ma dalla dottrina. Così, pregate il medico di non mettere il ferro nella piaga, ma di applicarvi un rimedio efficace. Il dolore che produce questo rimedio è anch’esso vivo, ma non eccessivo; esso è penetrante, ma non fa sgorgare il sangue (S. Ambr.). – Dio, sovranamente giusto, non può non perseguire il peccatore perché esso intacca la sua giustizia. Così non domandiamo che i nostri peccati non siano puniti, ma che Dio li punisca come padre, i cui castighi sono sempre accompagnati dalla tenerezza e dall’amore, e non come nemico, i cui castighi crudeli hanno lo scopo di perdere coloro che li patiscono (Gerem. XXX, 44). – Perché il profeta prega il Signore di non riprenderlo nella sua indignazione, e di non correggerlo nella sua collera? È come se dicesse a Dio: poiché i mali che mi accadono sono già grandi e numerosi, vi supplico di non aumentarli. Egli comincia allora ad enumerarli, come per soddisfare Dio, e Gli offre i suoi dolori per non averne da sopportare di ancor più considerevoli. (S. Agost.).

ff. 2. – Questi dardi del Signore sono il timore dei suoi terribili giudizi che squarciano il cuore; sono i crudeli rimorsi di coscienza che come spine aguzze, penetrano fin in fondo all’anima. Queste frecce che penetrano Davide da ogni parte non sono quelle di cui Giobbe diceva: « I dardi dell’Onnipotente sono su di me, ed il loro furore spossa la mia anima ». (Giob. VI, 3). Sono queste, delle frecce spirituali, forse le parole stesse di Dio, che trafiggono la sua anima ed infliggono alla sua coscienza il castigo che essa meritava. Queste verità che ricordano all’anima i giusti giudizi di Dio, che mostrano al peccatore la vendetta divina sospesa sul capo, sono più penetranti delle frecce più acute, perché penetrano la coscienza da parte a parte, producendo dolorose ferite, e divengono per essa un pungiglione salutare. È quindi con ragione che David, colpito da questi dardi sacri della giustizia divina, prega Iddio di non riprenderlo nel suo furore, di non abbatterlo nel suo furore. E perché? « Perché le vostre frecce mi hanno penetrato ». Questi dardi lanciati dalla vostra mano contro di me, sono un supplizio, un castigo sufficiente per le mie colpe. (S. Bas.).

II – 3-10.

ff. 3. – Davide non fa qui come i peccatori che si rivoltano contro i dardi della collera divina. Egli non attribuisce i suoi dolori alla malizia degli uomini, all’ingiustizia della sorte, al rigore della Provvidenza; egli ne trova la causa nelle sue iniquità, esempio che dovrebbe essere seguito da tutti gli uomini, poiché tutti sono peccatori (Berthier). – Nessuna pace per le potenze dell’anima nostra c’è quando i nostri peccati giungono a presentarsi in massa davanti ai nostri occhi, ed espandersi come una nube spessa sul nostro spirito … i nostri peccati sono i nostri più grandi nemici, essi tormentano coloro che sono in riposo, affliggono le anime che hanno recuperato la salvezza, contristano coloro che sono nella gioia, inquietano gli spiriti più calmi, agitano gli umili, risvegliano le anime dormienti. Noi siamo colpevoli senza che nessuno ci accusi, siamo torturati senza un carnefice, siamo legati senza catene, siamo venduti senza che nessuno ci compri, come dice il profeta Isaia (L, 1): « … voi siete stati venduti a causa dei vostri peccati ». (S. Ambr.).

ff. 4. – Due sono le comparazioni in questo versetto, l’una presa dall’abbondanza delle acque che si elevano sopra la testa di un uomo piombato nell’abisso; l’altra ricavata da un peso che schiaccia colui che intraprende il portarlo. Circostanze che aggravano il peccato di Davide: adulterio, omicidio, scandalo, doppiezza, ingratitudine enorme verso Dio e oblio dei suoi benefici (Berthier). – Ragion per la quale se pochi uomini sentono per i loro peccati il dolore che dovrebbero averne, è perché non ne soppesano tutte le circostanza criminali.

ff. 5. – Vedete come Davide si accusa, non di un solo peccato, ma di tutti quelli che ha commesso; peccati sì grandi, sì enormi, che non possono restare nascosti nella sua anima, ma che si riversano esternamente, e si elevano al di sopra della sua testa, in modo da essere percepiti e conosciuti da tutti. – Impariamo a non nascondere i nostri errori, a non seppellirli nell’interno della nostra anima, a non rinchiudere dentro noi stessi questo marciume, questa corruzione, che imprime sulla nostra coscienza le stimmate dell’ignominia (S. Bas.). – Mai si è adoperato un tal linguaggio per le piaghe corporee. Giobbe stesso, tutto coperto da ulcere orripilanti, Giobbe, nell’eccesso dei suoi mali, nella violenza dei suoi pianti, non ha mai imputato alla sua follia, alla sua stupidità, l’orribile estrema condizione alla quale il suo corpo era ridotto. Ed in effetti l’uomo non fa, non vuole i mali del suo corpo. Egli impiega ogni cura onde preservarlo. Se gli accade un male, ricorre presto all’arte dei medici, alla potenza dei rimedi. Ma in morale, non è così: l’uomo fa, l’uomo vuole i mali della sua anima. Egli li cerca, li attira, li aumenta, li inasprisce; egli vi applica tutte le forze della sua volontà, tutte le luci della sua intelligenza, tutto l’ardore dei suoi desideri. Evidentemente, nel peccatore che scientemente si ingegna nel fare il male, vi è la stupidità, e questa stupidità alla fine corrompe sia l’anima che il corpo, entrambi destinati, nel pensiero di Dio, a gioire eternamente di una gloriosa immortalità (Rendu). – Consideriamo da noi stessi le piaghe della nostra anima, le sue ulcere inveterate, la degenerazione, la gangrena, la morte nelle sue vene, il cuore attaccato e già quasi tutto penetrato dal veleno. – « Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. » (Isai. I, 6). – Le cicatrici qui designano l’azione della penitenza, e la ferita, il peccato stesso. Colui che espia e corregge i suoi peccati con gemiti di penitenza, cicatrizza per così dire le ferite fatte alla sua anima col peccato; ma se il ricordo delle iniquità che gli sono state rimesse l’attira e lo conduce nuovamente verso il peccato, le cicatrici antiche si corrompono, e Davide ne indica la causa, quando aggiunge: « … a causa della mia follia, delle mie imprudenti ricadute » (S. Greg.).

ff. 6. –  « Io sono divenuto miserabile e tutto ricurvo ». Perché curvo? … perché si era elevato! Se siete umile, sarete elevato; se vi siete elevato sarete curvato; perché Dio non mancherà di usare un peso per curvarvi. Questo peso, sarà il fardello dei vostri peccati; e si ripiegherà sulla vostra testa, e voi sarete curvi. Che cos’è dunque l’essere curvato? È il non potersi rialzare. (S. Agost.). – È questa l’immagine di colui che pecca gravemente e che cade sotto la servitù umiliante dei sensi: chi non trova nel suo peccato miseria, avvilimento, dolore, tristezza? La sua anima, che doveva essere continuamente elevata alla contemplazione delle delizie celesti, si è indegnamente abbassata all’infamia dei piaceri sensuali, è diventata tutta curva e tutta carnale. Pressata dai rimproveri della propria coscienza, cammina oppressa da una profonda e continua tristezza.

ff. 7. – Chi è colui la cui anima non soffra queste miserie? Queste pericolose illusioni, questi movimenti vergognosi, cattivi figli di un padre ancora peggiore, ci lasciano appena la volontà di pregare. Noi non possiamo pensare agli oggetti corporali che con l’aiuto di immagini, e spesso quelle che noi cerchiamo non fanno irruzione in noi, fintantoché noi vogliamo uscire dall’una per entrare nell’altra o passare dall’una all’altra (S. Agost.). – Chi non ha gridato spesso come il grande Apostolo: « io sento nelle membra del mio corpo un’altra legge che combatte contro la legge del mio spirito, e che rende prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle membra del mio corpo? Io non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Maledetto uomo io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? »  (Rom. VII, 24).

ff. 8. – Ascoltate il parlare di questo santo penitente: « … io sono afflitto all’eccesso ». Non era un gemito come quello di una colomba, ma un ruggito simile a quello di un leone; era questo il pianto di un uomo irritato contro i propri vizi, che non può soffrire il suo languore, la sua viltà, la sua debolezza. Questa collera lo porta fino ad una specie di furore: « Il furore ha riempito il mio occhio di scompiglio ». Perché non potendo soffrire le sue ricadute, prende delle risoluzioni estreme contro la sua lentezza e lassità: egli non sogna che di sbarazzarsi delle compagnie che lo perdono; … cerca l’ombra e la solitudine. Dirò la parola del profeta? Egli è come quegli uccelli che fuggono la luce del giorno, « come un gufo nella sua casa ». In queste solitudine, in questo ritiro, egli si indigna contro se stesso; egli fa dei grandi e potenti sforzi per prendere delle abitudini contrarie alle sue: « affinché – dice S. Agostino – il costume del peccatore cede alla violenza della penitenza » (Bossuet, Serm. sur la Pénit.). – I servitori di Dio Lo pregano il più sovente con gemiti, e voi ne cercate la causa. Infatti i gemiti di un servitore di Dio non vanno oltre l’orecchio di un uomo posto vicino a lui; e c’è anche un gemito nascosto che l’uomo non intende. Se dunque il cuore è invaso dall’espressione così viva di un qualche desiderio, che la ferita dell’uomo interiore sia rivelata da segni evidenti, se ne cerca la causa e si dice in se stesso: è forse questa cosa che lo fa gemere? Chi può comprendere questi gemiti, se non colui agli occhi e all’orecchio del quale sono indirizzati? Ecco perché il poeta dice: « … io ruggisco per i gemiti del mio cuore, perché se gli uomini intendono talvolta il gemito di un uomo, più spesso essi intendono i gemiti di colui che geme nel suo cuore. Qualcuno, non so chi, ha rapito ciò che quest’uomo possedeva; egli possedeva dei ruggiti, ma non era il suo cuore che ruggisce (S. Agost.).

ff. 9. – E non è davanti agli uomini che non possono vedere il cuore, ma è davanti a voi che ogni mio desiderio è esposto. « che il vostro desiderio sia esposto davanti a lui » e « … il Padre che vede nel segreto, ve lo renderà. » (Matt. VI, 6). – Il vostro desiderio è la vostra preghiera, e se il desiderio è continuo, la vostra preghiera lo è ugualmente. Non è inutilmente che l’Apostolo ha detto: « pregate incessantemente » (I Tess. V, 17). – E incessantemente possiamo flettere il ginocchio, rimanere prosternati, o levare al cielo le mani? A queste condizioni ci è impossibile pregare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore che noi possiamo non interrompere, ed è il desiderio. Se volete incessantemente pregare, non cessate mai il desiderare. Un desiderio continuo da parte vostra è anche per voi una parola continua. Voi tacete se cessate di amare. Chi sono coloro che tacciono? Quelli di cui era detto: « perché l’iniquità si è moltiplicata, la carità di molti si è raffreddeta » (Mat. XXIV, 12). – il raffreddamento della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il grido del cuore. Se il vostro amore sussiste costantemente, voi gridate incessantemente; se gridate incessantemente, è perché desiderate incessantemente; e se desiderate, è perché vi ricordate del riposo eterno (S. Agost.).

ff. 10. – Davide ci mostra a quale triste stato l’ha ridotto la vergognosa caduta che ha compiuto. Quando si rende colpevole di questo crimine che deplora, la penetrazione dell’intelligenza di cui Dio l’aveva dotato soffre, una specie di mancanza, di turbamento, e fu come oscurato e coperto da tenebre da colui che era stato il primo autore del suo peccato. Anche la sua forza l’abbondonò e non poteva dire più « … io posso tutto in colui che mi da forza » (Filip. IV, 15), essendo vinto dalla concupiscenza e completamente spoglio delle sue forze. Perché in coloro che seguono le ispirazioni della virtù, « … lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matt. XXVI, 41); ma in coloro che sono vinti dalla loro bramosia, la carne si eleva, si fortifica, mentre l’anima langue e si debilita (S. Basilio). – Da dove viene questo scompiglio? « La mia forza mi ha abbandonato. E perché la sua forza l’ha abbandonato? E la luce dei miei occhi non è più con me ». La luce dei suoi occhi era Dio stesso che Egli aveva perso a causa del peccato. (S. Agost.). – In quale antro profondo, infatti, si erano ritirate le leggi dell’umanità e della giustizia, che Davide conosceva così perfettamente, quando gli si dovette inviare il profeta Nathan, per fargliene sovvenire nella memoria? Nathan gli parla, Nathan lo intrattiene, ed intende così poco di quello che deve capire, che egli infine è costretto a dire: « O principe! È a voi che si parla », perché incantato dalla sua passione, distratto dai suoi affari, egli lasciava la verità nell’oblio. E allora, sapeva ciò che sapeva? Intendeva ciò che intendeva? Ascoltate la sua deposizione e la sua testimonianza: è lui stesso che si stupisce che i suoi lumi lo abbiano abbandonato in questo stato infelice; non è una luce estranea, è la luce dei miei occhi, dei miei propri occhi, è quella stessa che non avevo più (Bossuet, Prèdicat. Ev. n° P.).

III. — 11-23

ff. 11-13. È questo un quadro molto vivo dello stato di coloro che sono afflitti e che sono abbandonati e pure calunniati e perseguitati dai loro amici, dai loro prossimi, dai loro vicini. – La persecuzione è esercitata contro coloro che vogliono ritornare a Dio ed abbracciare le vie della penitenza. Grande grazia per un penitente è questa persecuzione del mondo: quando il mondo ci cerca, noi restiamo senza i suoi legami; quando ci abbandona noi cominciamo ad essere liberi. « Il mondo vi odia, ha detto Gesu-Cristo, perché Io vi ho scelto; se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me per primo ». – In un altro senso, i miei amici e i miei prossimi si sono avvicinati a me, e si sono fermati per considerarmi. I preti, i confessori, i superiori sono venuti dietro di me, per aiutarmi nel mio male estremo; presi da stupore, si sono fermati, non sapendo più cosa fare; infine essi si sono ritirati, si sono allontanati da me (Bossuet, Retraite sur la Pen.). – Ricordiamoci la rivolta di Assalonne e dei suoi partigiani, le maledizioni di Semei, le perfide trame macchinate da Architophel e da tanti altri!

ff. 14-17. – Considerate la forza di questa espressione: « come se fossi stato sordo ». Egli non dice « io facevo come se non intendessi ciò che dicevano », ma « io non intendevo ». È una determinazione ben ferma del mio spirito che io chiudessi le orecchie alle loro parole, e che io fossi come un muto che non apre bocca. Beato colui la cui virtù è tanto grande da non rispondere ad un attacco ingiusto con la collera, e la cui anima violentemente agitata non cede mai alla furia! I nostri nemici fanno di tutto per provocare la nostra collera: essi ci maledicono affinché noi li malediciamo, ci calunniano perché noi li calunniamo a nostra volta, ci oltraggiano per eccitarci alle rappresaglie. Così San Pietro prende cura di ricordarci la condotta ammirevole di Gesù Cristo « … che, quando Lo maledicevano, non rispondeva con ingiurie; quando veniva maltrattato, non minacciava, ma si abbandonava al potere di colui che lo trattava ingiustamente ». (I Piet. II, 23). – Sul suo esempio, il giusto che vuole uniformarsi alla perfezione, tace quando lo si oltraggia, per imitare Colui che è stato condotto come un agnello al macello, senza aprire bocca, e pur avendo giuste ragioni per poter rispondere, preferisce tacere piuttosto che parlare (S. Ambr.). – Sembra infatti che dalla gloria di Dio, la calunnia sia confusa. È vero, risponde San Bernardo, ma era ancor più della stessa gloria che un giusto calunniato restasse in silenzio … Egli doveva a se stesso la giustificazione della sua vita e della sua condotta, ma il suo Vangelo doveva essere un Vangelo di umiltà, e la sua Chiesa non aver altro fondamento che questo, e trovar la sua strada meglio giustificata dal suo silenzio più che dalle sue parole; e questo fa che Egli non parli affatto (Bourd. 3° Serm. sur la Pass.). – Sono poche le occasioni in cui sia prudente, utile, necessario difendersi, quando ci calunniano. La cura nel giustificarsi causa quasi sempre due mali: il turbamento dell’anima e la cattiva edificazione del prossimo. – Davanti a quelli che vogliono la mia rovina spandendo calunnie contro di me, e meditano ogni giorno nuove perfidie, io sono rimasto senza poter trovare una sola parola a mia difesa. Io, così eloquente altre volte, così pieno di saggezza, sono stato come un sordo che non ascolta, come un muto che non può aprir bocca (S. Basil.). – Legame questo, per il quale il profeta non si giustifica affatto, non rispondendo ai suoi nemici: egli spera nel Signore. Egli vi insegna ciò che dovete fare se sopravviene qualche tribolazione. In effetti, voi cercate di difendervi, e forse nessuno accetta la vostra difesa. Voi siete già turbato, come se aveste perso la vostra causa, perché non c’è nessuno che vi difenda e renda testimonianza in vostro favore. Conservate la vostra innocenza in voi stessi, là dove nessuno può opprimere il vostro buon diritto. La falsa testimonianza ha prevalso contro di voi presso gli uomini; e chi prevarrà al tribunale di Dio, presso il quale sarà portata la vostra causa? Quando Dio sarà vostro giudice, non ci sarà alcun testimone se non la vostra coscienza. Tra questo giusto giudice e la vostra coscienza, non temete se non la vostra stessa causa: se la vostra causa non è cattiva, voi non dovete temere nessun accusatore, alcun falso testimone da respingere, nessun testimone veritiero da chiamare (S. Agost.). – Un secondo motivo del silenzio volontario del Profeta, è che egli stesso ha detto: è per me meglio aver pazienza, sperare nel soccorso del Signore, per timore che se non voglio soffrire gli oltraggi, se io rendo maledizione per maledizione, il Signore non mi abbandoni, e che i miei nemici non siano gioiosi e trionfanti della mia rovina (Bellarm.). – Questi nemici, che sono i demoni e gli uomini dei quali egli si serve per catturarci, si crederanno vittoriosi, e trionferanno effettivamente di noi, se ci vedono troppo sensibili agli oltraggi dai quali siamo sopraffatti, ed ancor più se ci proponiamo di mormorare contro gli ordini della vostra adorabile Provvidenza.

ff. 18, 19. – Ecco un terzo motivo di silenzio volontario di Davide alla presenza dei suoi nemici: egli è prossimo a soddisfare alla giustizia di Dio, perché egli soffre, e per sincera sua disposizione a soffrire. – Qual è questo dolore che è sempre davanti a lui? Forse quello del castigo? Gli uomini, è vero, gemono nell’essere castigati, e non gemono per i peccati per i quali sono castigati. Questo non accade per colui che qui parla. Chiunque sia che prova un malanno è più portato a dire: “io ho sofferto ingiustamente”, che a considerare: perché ho sofferto?; egli geme per aver perso il suo denaro, non geme per aver perduto la sua virtù. Per Davide, il suo dolore non viene dal castigo che subisce, viene dalla sua ferita e non dal trattamento della sua ferita, perché i colpi sono il rimedio del peccato (S. Agost.). – La causa di tutti i tentativi infruttuosi per arrivare alla perfezione, è l’assenza di un dolore costante, eccitato dal ricordo del peccato. Così come ogni culto cade in rovina, se non ha per base i sentimenti di una creatura per il suo Creatore, nessuna conversione è seria se non è la conversione intera di un peccatore; allo stesso modo che le penitenze non portano a nulla, se esse non sono fatte in unione con Gesù-Cristo; così come tutte le buone opere finiscono nella polvere, se non hanno come punto di appoggio Nostro Signore; così la santità ha perso il principio della sua crescita, quando è separata da un rammarico costante per aver peccato. Questo dolore costante ci manterrebbe continuamente in un sentimento della nostra dignità e della nostra dipendenza da Dio; essa ci farebbe ingaggiare una guerra perpetua contro l’amor proprio, ci impedirebbe di concepire la stima per noi stessi, e conserverebbe in noi, senza interruzione, lo spirito di penitenza che la mortificazione esteriore produce ammirevolmente, senza dubbio, ma solo ad intervalli. Essa ci darebbe la calma e la moderazione verso noi stessi, la dolcezza e l’indulgenza nei riguardi degli altri, la pazienza con Dio, che noi otterremmo per l’assenza di alacrità (P. Faber, Progrès de l’ame, Cap. XIX). – David ha fatto conoscere non solo a tutti gli uomini del suo tempo, ma a tutti quelli che dovevano sopraggiungere nello scorrere dei secoli, che egli era un grandissimo peccatore. Egli lo ha scritto a caratteri indelebili, nei suoi ammirevoli Salmi che faranno risuonare in tutte le chiese la storia dei suoi crimini e della sua penitenza. – « Io confesserò il mio peccato », è la confessione; ma occorre aggiungere: « io sarò in pensiero per il mio peccato », farò riflessione su di un sì gran male e sui mezzi per liberarmene. – L’uomo conserva la memoria del male che ha fatto più di quanto non conservi quella del bene ed ancor meglio di quella delle sue povere gioie perseguite per lungo tempo, sì raramente raggiunte, sì velocemente dimenticate, quand’esse non lascino nella coscienza sozzure o rimorsi. – « Io mi prenderò cura del mio peccato ». Quando avete confessato il vostro peccato non abbiate questa falsa sicurezza che voi sareste sempre pronti a confessarlo ed a commetterlo nuovamente. Dichiarate la vostra iniquità, ma prendendo cura di pensare al vostro peccato. Che vuol dire questo, prendendo cura di pensare al vostro peccato? Significa prendersi cura della vostra ferita, prendersi cura di guarirla. Prendere cura della propria ferita, è dunque fare uno sforzo, essere sempre attento, agire sempre con zelo e con cura per guarire il proprio peccato. Ecco che giorno dopo giorno, voi piangerete il vostro peccato, ma forse le vostre lacrime scorrono senza che le vostre mani agiscano; fate allora delle elemosine, riscattate i vostri peccati; il povero si rallegri dei vostri doni, affinché a vostra volta possiate gioire dei doni di Dio (S. Agost.). Ancora c’è il ricordarsi delle proprie colpe e delle cadute passate, che hanno corrotto la bellezza dell’anima: non perché le si amino ancora, ma al contrario per amare Dio maggiormente, affinché questo ricordo faccia meglio gustare la soavità di questa vera dolcezza che offre felicità e sicurezza (S. Agost. Conf. IV, 1).

ff. 20-22. – Il Profeta mette in contrasto con il suo pentimento, la sua rassegnazione, la malvagità dei suoi nemici, e riconosce che la loro condotta al proprio riguardo è un giusto castigo per le sue infedeltà a Dio. Rendendogli il male per il bene che essi hanno ricevuto da lui, essi gli ricordano, senza che lo sappiano, l’ingratitudine con la quale egli aveva sì malamente riconosciuto i favori straordinari dei quali Dio lo aveva ricolmato. – Si ha pena nel figurarsi che un uomo che non pensi che a fare del bene, che lo insegua in tutte le sue azioni, in tutti i suoi pensieri, malgrado ciò, o piuttosto a causa di questo stesso, sia in balia di contraddizioni o inimicizie. Ma anche il cuore dell’uomo lo vede: gli ripugna essere indifferente; ondeggia da un lato all’altro; ama o odia. Se gusta la virtù, la loderà negli altri, la fuggirà per conto suo; se non la gusta, la detesterà, la fuggirà, la temerà come un rimprovero o un giudizio, l’annienterebbe se potesse (Rendu). – Guardiamoci dal credere, quando siamo riconciliati e la grazia del sacramento della Penitenza ci ha tratto dalla morte eterna, che possiamo trascorrere la nostra vita eternamente sicuri. I nostri nemici vivono sempre, sono superati, ma non abbattuti, non disperano di poter rivincerci … aspettano un’ora più propizia ed un’occasione più stringente. Tremiamo anche nella vittoria, è allora che essi fanno i loro sforzi maggiori, e rimescolano le loro macchinazioni più terribili. Se la guerra è continua, se nemici così potenti e numerosi vegliano incessantemente su di noi, chi potrebbe compiutamente esprimere quanto accurata, vigilante previdente ed inquieta debba essere, in ogni momento, la vita cristiana? (Bossuet, Sur les démons). O Signore, Dio della nostra salvezza, che siete l’unico Autore, applicatevi nel nostro soccorso. Apprendiamo da queste parole che occorre fare tutti i nostri sforzi per prendere delle buone risoluzioni; ma ancor più per domandare con tutto il nostro cuore a Dio il suo soccorso, senza il quale nulla si può (Bossuet, Retr. sur la pen.).