CONOSCERE SAN PAOLO (34)

 

LIBRO TERZO

CAPO III.

Gesù Cristo uomo.

1. LA NATURA UMANA DEL CRISTO: – 2. IL CRISTO VERAMENTE UOMO, MA UOMO-DIO. — 3. MISTERO DI QUESTA UNIONE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Non vi è nulla che uguagli l’enfasi con cui san Paolo afferma che il Cristo, del quale ha insegnato la preesistenza, è anche veramente uomo, simile a tutti gli altri uomini, eccetto il peccato. Gesù Cristo infatti non può essere mediatore perfetto se non a condizione di partecipare della nostra natura: « Unico è Dio, unico pure il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo (1 Tim., II, 5) ». Egli è vincitore del peccato e della morte unicamente in virtù della solidarietà la quale fa della sua causa la nostra: « La morte deriva da un uomo e la risurrezione dei morti (deve) pure (derivare) da un uomo (I Cor. XV, 21) ». – Queste asserzioni esplicite non devono lasciare nessun dubbio sul vero senso di certe espressioni che per se stesse si potrebbero prestare all’equivoco. Quando san Paolo dice che « il secondo uomo è del cielo (I Cor. XV, 47) », fa allusione alla sua origine eterna; egli lo oppone, sotto questo aspetto, al primo Adamo formato di terra e incapace di trasmettere ai suoi discendenti altra vita che quella psichica. Quando egli afferma che colui il quale era « nella forma di Dio » prese « la forma di schiavo (Fil. II, 6) » e comparve « nella somiglianza degli uomini », ben lungi dal negare la verità della natura umana, soggiunge subito che il Cristo fu « riconosciuto per uomo » per l’esperienza della sua vita intera, poiché fu capace di obbedienza e soggetto alla morte. Finalmente quando parla della missione del Figlio di Dio « nella somiglianza di una carne di peccato », evidentemente intende di escludere la carne peccatrice e non già la stessa carne, poiché tale missione aveva appunto lo scopo di « condannare il peccato nella carne (Rom. VIII, 3) ». – E quale esegesi perversa poté scoprire una qualunque traccia di docetismo nel passo seguente: « Se noi abbiamo conosciuto secondo la carne il Cristo, ora non lo conosciamo più (II Cor. V, 16) » in tale maniera? Altra cosa è il non riconoscere la realtà della carne del Cristo, e altra cosa è non più conoscere il Cristo secondo la carne, cioè secondo le idee, basse, terrene, carnali, degli avversari di Paolo. – Bisogna che il Cristo, per compiere la sua Missione sia veramente uomo; infatti, nell’economia attuale, Egli dev’essere il « secondo Adamo, il primogenito tra i morti, il primogenito tra molti fratelli, il pontefice » ideale (Rom. V, 14, I Cor., XV, 22, etc. ); ora se non fosse veramente uomo, non sarebbe il nuovo Adamo, né risuscitato, né pontefice, e non avrebbe per fratelli i santi. Nell’ordine attuale della Provvidenza, nel quale l’uomo cade e si rialza per il principio della solidarietà, era necessario che il Figlio di Dio assumesse la nostra natura, e non una natura superiore, che fosse uomo e figlio dell’uomo per essere tutto dedicato ai nostri interessi e capace di servirli. Egli doveva prendere la sua carne dalla massa peccatrice per deporre in essa un lievito di santificazione e doveva rivestirsi della somiglianza della carne del peccato per condannare il peccato nella carne. Perciò egli è « apparso nella carne (I Tim. III, 16) »; e la carne, per l’Apostolo, è l’anima unita al corpo, il composto umano. Egli dimostrò di essere veramente uomo con tutta la sua vita terrena e col suo lungo commercio con gli uomini, specialmente con la sua debolezza, con i suoi patimenti, con la sua morte e con la sua risurrezione: Habitu inventus et homo (Fil. II, 8). Egli discende dai patriarchi (Rom. IX, 5); è figlio di Abramo (Gal. III, 16); è figlio di Davide secondo la carne (Rom. I, 3); è nato, o più esattamente «fatto da una donna (Ga. IV, 4) », cioè formato con la sostanza e col sangue di una donna, senza il concorso dell’uomo e contro le leggi della generazione naturale; ma questo privilegio, dovuto alla sua dignità trascendente e al bisogno di spezzare ogni vincolo col peccato che doveva distruggere, non gli impedisce di essere veramente uomo quanto il primo Adamo che uscì direttamente dalle mani del Creatore (Rom. V, 15; I Cor. XV, 21; Fil. II, 8). – Dio e uomo ad un tempo, Gesù Cristo deve ricevere tutti i predicati che convengono a Dio e all’uomo. Questa comunicazione degli idiomi in nessun luogo è più rimarcata che in san Paolo. La preesistenza, l’esistenza storica e l’esistenza glorificata sono assai frequentemente riunite nello stesso periodo e riferite allo stesso soggetto, senza nessuna preoccupazione di quello che noi potremmo chiamare l’ordine cronologico:

a) Sussistendo nella forma di Dio.,… (Preesistenza),

b) prese la forma dello schiavo (Esistenza terrena),

c) perciò Dio lo ha esaltato (Fil. II, 6, 7, 9) (Esistenza gloriosa).

a) Per mezzo di lui fu creata ogni cosa

b) ed è il capo del corpo, della Chiesa,

c) Egli che è il principio, il primogenito dei morti (Rom. I, 3-4).

a) Egli si è fatto povero per noi,

b) egli che era ricco,

c) per arricchirvi con la sua povertà (II Cor. VIII, 9).

a) Riguardo suo Figlio,

b) diventato della stirpe di Davide secondo la carne,

c) stabilito Figlio di Dio dalla risurrezione dei morti (Rom. I, 3-4).

a) In lui abita corporalmente

b) tutta la pienezza della divinità

c) e voi avete parte della sua pienezza (Col. II, 9-10).

Siccome certi attributi non convengono alla natura umana, e altri sono incompatibili con la natura divina, bisogna necessariamente che vi siano in Gesù Cristo due nature: bisogna inoltre che in Lui vi sia una sola Persona, poiché il soggetto delle attribuzioni resta il medesimo.

  1. 2. In che modo si compie il mistero di questa unione? Paolo non lo spiega: egli mette le basi della sua dottrina; toccherà ai teologi il trarne le conseguenze. Tuttavia le sue due formule dell’incarnazione sono degne di attenzione: « In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col. II, 9) ». Gli esegeti riconoscono che la pienezza della divinità non può essere altro che l’integrità dell’essenza divina e perciò la stessa divinità. Difatti θεότης (= teotes) (deitas), astratto di θεός (= teos), non è identico a θειότης (= teiotes) – (divinitas), astratto di θεῖος (=teios). Quest’ultimo termine si potrebbe intendere della qualità; il primo si deve intendere della natura. Questo significato s’imporrà con maggior forza ancora quando Paolo combatterà l’errore dei Colossesi, il quale mette nelle potenze superiori particelle ed emanazioni delle divinità; ma in fondo esso è indipendente da questa ipotesi. Che cosa vuol dire « corporalmente? ». Molti Padri lo traducono con « realmente » e « sostanzialmente »; ma il corpo ha questo significato soltanto quando viene opposto all’ombra. Corporalmente significa « in un corpo, sotto forma di corpo »; questa accezione quadra a capello, e non occorre cercarne altra. La vostra pretesa filosofìa, dice san Paolo, non è che un vano inganno; voi vi indugiate in dottrine elementari, puerili; voi chiedete protettori e mediatori al mondo chimerico della fantasia e trascurate Colui nel quale, sotto una forma visibile e tangibile, esente da errore e da illusione, « risiede corporalmente tutta la pienezza della divinità ». E siccome Egli possiede questa pienezza Assoluta (πᾶν τὸ πλήρωμα = pan to pleroma) per un titolo permanente, Egli la farà riversare sopra di voi in grazie spirituali e voi potete perciò fare a meno di altri intercessori. Questo testo insegna bensì l’unione della divinità e dell’umanità nell’unica Persona del Cristo, ma non ci dice come si fa tale unione. Un altro passo solleva un po’ di più il velo del mistero: « Esistendo nella forma di Dio, non considerò come furto, l’essere (trattato) alla pari di Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini (Fil. II, 7) ». Senza ritornare all’esegesi particolareggiata di questo testo, considereremo come stabiliti questi punti: La forma di Dio è la natura divina, e la forma di schiavo è la natura umana. — Lo spogliamento avviene per il fatto che il Cristo sopraggiunge alla natura divina, che aveva da tutta l’eternità, la natura umana che prende nel tempo. — V i sono dunque in un medesimo soggetto, in una medesima Persona, nel Cristo, due nature, una divina e l’altra umana. — Siccome la natura divina è immutabile, e poi si afferma che il Cristo la conserva, lo spogliamento non può consistere nell’abbandono o nella diminuzione di questa natura. — Lo spogliamento, se non significa l’abbassamento, l’annientamento che risulta dall’assunzione, da parte del Verbo, di una natura inferiore, non può dunque essere altro che l’abbandono spontaneo degli onori divini ai quali il Cristo aveva diritto come Uomo, e che si sarebbe potuto rivendicare in virtù dell’unione ipostatica. — La natura umana non è assorbita in questa unione, poiché il Cristo rimane veramente uomo ed è riconosciuto come uomo per esteriorità (σχήματι= skemati) che non ingannano, e da tutto il corso di una vita di obbedienza, di umiliazioni e di dolori.

II. LA FIGURA STORICA DI GESÙ.

1. CIO’ CHE PAOLO NON DICE INTORNO A GESÙ. — 2. CIO’ CHE NE POTREBBE DIRE.

1. Quando era in gran voga la chiassosa critica tedesca, Renan scriveva: « Paolo ha un bel dire, ma è inferiore agli altri Apostoli: egli non vide Gesù e non intese la sua parola; le divine logie, le parabole, egli appena le conosce: il Cristo che fa a lui rivelazioni personali, è un suo fantasma, e questo egli ascolta credendosi di ascoltare Gesù (Renan, Paris, 1869) » Trent’anni dopo, Renan, col suo carattere malleabile e col suo ingegno versatile, si sarebbe certamente accordato con la critica nuova e forse avrebbe sottoscritto a queste giudiziose riflessioni di Sabatier: « Secondo la scuola di Tubinga, Paolo o avrebbe conosciuto molto imperfettamente la vita e l’insegnamento storico di Gesù, oppure avrebbe avuto a sdegno quella tradizione, come se fosse stata una conoscenza di Gesù secondo la carne, la quale avrebbe reso il suo Vangelo dipendente da quello dei primi apostoli. Ma né l’una né l’altra di queste due ragioni sono ben fondate… Non si riesce a capire come mai la conoscenza tradizionale delle azioni, dei patimenti e degli insegnamenti di Gesù, avrebbe potuto nuocere all’indipendenza del suo apostolato e all’originalità del suo vangelo (Sabatier, 1896) ». D’allora in poi si sono infatti cambiate di molto le posizioni. Oggi si ammette generalmente che Paolo conoscesse la vita e la dottrina del Maestro, che dallo spirito di Lui si ispirasse, che ne riflettesse fedelmente il pensiero. Le allusioni alla vita terrena di Gesù sono altrettanto numerose nelle Lettere di Paolo, quanto negli altri scritti apostolici, eccetto i Vangeli che hanno lo scopo preciso di raccontarla. Vi sono anzi, conservando le debite proporzioni, meno allusioni ai fatti evangelici nell‘Apocalisse, nelle Epistole cattoliche, nell’Epistola agli Ebrei, negli Atti degli Apostoli, che non nelle Lettere del Dottore dei Gentili. Se ne può meglio giudicare dal seguente rapido abbozzo. – Prima di scendere su questa terra, il Cristo preesisteva nella forma di Dio (Fil. II, 6); era ricco di tutte le ricchezze del cielo (II Cor. VIII, 9). Al termine delle preparazioni provvidenziali e nel tempo stabilito dai decreti divini, Egli, il Figlio di Dio, è mandato da suo Padre per compiere l’opera della salvezza (Gal. IV, 4; Rom. VIII, 3). Gesù è il discendente di Abramo (Gal. III, 16), il figlio di Davide (Rom. I, 3; II Tim. II, 8), la gloria del popolo ebreo (Rom. IX, 5). Egli nasce da una donna, sotto il regime della Legge (Ga. IV, 4), vive in mezzo agli Ebrei (Rom. XV, 8), e Gerusalemme è il centro della sua Chiesa (Gal. I, 17; Rom. XV, 19-27). Egli è veramente uomo, in tutto simile a noi (Rom. V, 15), eccetto il peccato (II Cor. V, 21). Egli ha dei fratelli secondo la carne (I Cor. IX, 5), imo dei quali, Giacomo, è indicato col suo nome (Gal. I, 11). Per avere collaboratori e continuatori della sua opera, si circonda di Apostoli (I Cor. IX, 5, 14), in numero di dodici (I Cor. XV, 5); tre di essi, Pietro, Giacomo e Giovanni, sono espressamente nominati (Gal. I, 18-19); ma tra loro Cefa, Pietro, occupa un posto che non ha pari (I Cor. IX, 5). Nel dare ai suoi Apostoli l’incarico di predicare la sua dottrina, dà loro il diritto di vivere del Vangelo (I Cor. IX, 15) e il potere di fare miracoli (II. Cor. XII, 19). Trascorsa su questa terra una vita di povertà (II Cor. VIII, 9), di sommissione (23 Fil. II, 5) di ^obbedienza (Rom. V, 19) e di santità (25), si abbandona volontariamente ai suoi nemici (Gal. I, 4), ai Giudei che lo mettono a morte (I Tess. II, 15). – L’istituzione dell’Eucaristia è raccontata con maggiore precisione e con più particolari che non nei Vangeli. Paolo ricorda in modo speciale il tradimento di quella notte tragica che ricorda la sinistra espressione nox erat, di san Giovanni. Se la passione è descritta con linee generali, noi sappiamo che l’Apostolo ne faceva a viva voce, ai catecumeni, una pittura assai viva (Gal. III, 1). Egli ci parla spesso della croce (I Cor. II, 2 etc.), del sangue (Rom. III, 25), e anche dei chiodi (Col. II, 12). I carnefici di Gesù sono i Giudei (I Tess. II, 15) ed i prìncipi di questo mondo (Ephes. I, 7). L a Passione avviene verso la Pasqua, nel tempo degli azimi (I Cor. V, 6-8), sotto Ponzio Pilato (I Tim. VI, 2). La sepoltura non è dimenticata (I Cor. XV, 4) perché dà al Battesimo il suo valore figurativo (Rom. VI, 4; Col. II, 12). Ma Paolo insiste di più sopra la risurrezione avvenuta il terzo giorno, e sopra le varie apparizioni del risuscitato (I Cor. XV, 4-7). Gesù Cristo è salito al cielo (Ephes. IV, 8-10), siede alla destra del Padre (Ephes. I, 20), ritornerà a giudicare i vivi i morti (I Tess. I, 10). Questi sono articoli del Credo, le cui formule sono prese in larga parte dall’Apostolo dei Gentili. – Tale è in succinto la descrizione che Paolo ci fa di Gesù: è qualche cosa di più che un abbozzo; è un ritratto somigliante e un disegno fatto con precisione e sicurezza, che gli evangelisti potranno completare senza però modificarne l’espressione. Ma questo non è tutto: dopo le azioni vengono le parole, dopo la fisonomia del Maestro, ci è dato il riassunto del suo insegnamento. Paolo ha sottratto dall’oblio questa sentenza di Gesù: « Vi è più felicità nel dare che nel ricevere (Act. XX, 35) ». Egli riproduce le parole della Cena più completamente degli evangelisti, eccetto forse san Luca (I Cor. XI, 24-26). – Nel parlare del matrimonio, si riferisce all’insegnamento del Cristo, quale si trova in san Matteo e in san Marco, e lo distingue espressamente dai suoi propri precetti (I Cor. VII, 10- 12). Quando proclama il diritto che ha l’operaio evangelico di vivere del Vangelo, non si può fare a meno di pensare alle disposizioni prese da Gesù in favore degli araldi della fede (I Cor. IX, 14); e tale impressione si cambia in certezza, nel leggere in san Paolo il passo testuale di san Luca: Dignus est operarius mercede sua (I Tim. V, 18;Luc. X, 7). Quando si appoggia sopra una parola del Signore per istruire i fedeli intorno alla parousia, il senso più naturale è certamente quello di prendere la parola del Signore non già per una rivelazione interiore, ma per una parola realmente detta da Gesù Cristo nel corso della sua vita mortale (I Tess. IV, 15). L’Apostolo non pensa a legiferare a suo proprio nome quando non può invocare un ordine del Signore (I Cor. VII, 25). Egli si appella sempre alla legge del Cristo che suppone sia conosciuta dai suoi neofiti (Gal. IV, 2), legge che obbliga anche lui come i semplici fedeli (I Cor. IX, 21). La regola morale, che egli inculca ai catecumeni, non è sua, ma di Gesù (I Tess. IV, 1-2); il trasgredirla sarebbe un disobbedire a Gesù (I Tim. VI, 3); e il dovere dei fedeli è quello di imparare il Cristo, come quello degli Apostoli è di insegnare il Cristo (Ephes. IV, 20-21). Per verificare e nel tempo stesso per completare questa rapida rassegna, bisognerebbe prendere qualche termine di confronto, per esempio il Discorso della Montagna o il gran Discorso escatologico. Qui le numerose somiglianze di sostanza e di forma sono evidenti e risalgono evidentemente alla stessa fonte che è l’insegnamento di Gesù. Il fatto è così palpabile, che nessun critico di buon senso potrà contestarlo.

2. Dunque se si raccolgono le allusioni alla vita terrena di Gesù, sparse negli scritti di san Paolo, se si confronta la sua dottrina morale con quella di Gesù, se si esaminano le identità di espressione troppo numerose per poter essere casuali, non si potrà dire che l’Apostolo ignori o sdegni il contenuto della storia evangelica. Questo studio è già stato fatto da altri, e non occorre che noi lo rifacciamo qui; noi ci limiteremo a formulare le seguenti conclusioni: Le allusioni, scoperte o latenti, alla vita e alla dottrina di Gesù, sono assai più numerose di quanto lascerebbe supporre un esame superficiale; ve ne sono di più, mantenute le debite proporzioni, che nel resto del Nuovo Testamento, eccetto il Vangelo. Queste allusioni si riferiscono alle volte a minute particolarità e per conseguenza implicano una conoscenza più vasta e più generale dei fatti menzionati appena incidentalmente. La maniera con cui sono fatte, dimostra che tanto nell’autore quanto nei lettori, vi è un fondo comune di istruzioni e di ricordi che basta evocare perché siano capiti da tutti. Finalmente l’immagine che ne risulta è un ritratto fedele, e colui che lo ha tracciato può ben vantarsi di avere « lo spirito del Signore ». Ma non bisogna stancarsi di ripetere che Paolo non intende di fare la biografia di Gesù, che egli la mette tra gli elementi della fede che nessun neofito deve ignorare, che egli ritorna soltanto incidentalmente sopra questa catechesi elementare, che invece di insistervi, per lo più si contenta di una semplice allusione e che finalmente egli ne sa infinitamente più di quanto abbia occasione di scriverne. Se non erano i disordini delle agapi e i dubbi dei Corinzi intorno alla risurrezione, potremmo forse sospettare che egli possedesse, sopra le circostanze dell’istituzione dell’eucaristia e sopra le apparizioni di Gesù risorto, tanti particolari esatti e precisi che gli evangelisti non si curarono di tramandarci!