Omelia della DOMENICA IV DELL’AVVENTO
[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]
(Vangelo sec. S. Luca III, 1-6)
Via del Piacere.
L’odierno Evangelio mi porta col veloce pensiero alle sponde del Giordano. Seguitemi, ascoltatori devoti. Ecco innanzi a noi il divin precursore Giovanni, che per comando di Dio predica il battesimo della penitenza per la remissione de’ peccati. Non già che quel battesimo avesse in sé una tale virtù, ma perché era una preparazione per arrivare alla remissione de’ peccati, col partecipare de’ meriti del Redentore. Predica dunque la penitenza il Battista, e la predica quasi più colla presenza, che colla voce, più coll’esempio, che colle parole. Osservatelo pallido nel volto, smunto nelle membra, mezzo coperto di rozze spoglie d’agnelli, e di ruvida pelle di cammello: il suo vitto son le locuste del campo e poco miele della selva, la sua bevanda è l’acqua del fiume o del fonte. Comincia la sua predica intimando alle turbe accorse ad ascoltarlo a preparare la via del Signore, “parate viam Domini”. A questo fine fu mandato il Battista nella Giudea, e a questo stesso oggetto io vengo a voi, miei dilettissimi; e vi dico, se volete per la prossima solennità preparare la via del Signore, acciò Egli venga a voi, abbandonate le strade del mondo, tornate addietro dalle vie del peccato e del seducente piacere. L’uscir da queste lubriche vie, sarà lo stesso che disporre i retti sentieri, pei quali l’aspettato Salvatore del mondo venga a rinascere nel Vostro cuore: “parate”, dunque, “parate viam Domini, rectas facite semitas eius”. Per animarvi in questo salutare intraprendimento, io vi farò vedere in una maniera facile e sensibile, quanto la via del mondano piacere sia ingannevole, e quanto dannosa, tanto per la vita presente, che per la vita futura. Se riesco a disingannarvi, io benedirò il Signore, e voi mi saprete grato del vostro disinganno. Di grazia ascoltatemi attentamente. – La via del piacere, (com’io me la figuro) comincia con una porta grandiosa, alta, magnifica, a modo di superbo arco trionfale. La struttura che la rende stupenda è tutta a colonne, a statue vagamente disposte, e a vasi d’ogni forma la più leggiadra. Sull’architrave sui capitelli stanno alati genietti, e di questi chi sparge fiori, chi suona cetre, chi spiega vesti preziose, chi fa le monete d’oro e d’ argento, e chi sul limitare di questa porta col riso sulle labbra, col cenno grazioso delle mani invita ad entrare i passeggeri. Entriamo dunque, uditori: la porta è bella, la strada sarà migliore. “… Adagio, dite voi, adagio, tanti inviti, tanti allettamenti fan nascere un ragionevole sospetto, che qualche inganno si nasconda sotto così lusinghevoli apparenze”. Ottimamente, questo è pensare e riflettere da uomini prudenti, … facciamo dunque così, vediamo qual sorte hanno incontrata coloro che sono entrati per questa porta, e si sono avviati per questa strada. Si possono questi considerare distinti in due schiere. Molti sono entrati e non sono più usciti, altri non pochi sono tornati indietro. Quei che sono entrati senza più uscire, sono primieramente tutti gli uomini che passeggiavano su questa terra a’ tempi di Noè innanzi il diluvio. Correvano questi velocemente la via del piacere, e del piacere più sordido e più fangoso. “Omnis quippe caro corraperat viam suam” (Gen VI, 12). Gridava intanto Noè dai palchi della sua arca: “… ciechi, insensati, tornate indietro, se proseguite, Iddio sdegnato vi coglierà nel più bello del vostro cammino, sarete fra non molto sommersi in un diluvio di acque micidiali”; ma gl’ingannati, rapiti dal dolce delle impure loro voglie, sordi al loro bene, sordi al loro male, sordi alle divine minacce, conobbero troppo tardi e senza rimedio il proprio errore, e la fallacia della via da essi battuta. – Spingete ora lo sguardo entro quella porta da noi immaginata: vedete voi quella lunga, lunghissima strada, che dall’una e dall’altra parte vi presenta un funesto spettacolo di ventiquattromila Ebrei pendenti da altrettanti patiboli? Mirateli se potete senza orrore, e poi dite: ecco quanto loro costò un brutale piacere, contro il divieto di Dio e di Mosè, con le donne Madianite “Occisi sunt viginti quatuor millia . . . in patiboli” (Num XXV, 9 e 4). E chi son eglino quegl’infelici stesi su quel campo, sparso di tronche membra e di teste recise, inondato di tanto sangue, ancor tiepido, ancor fumante? Poco avanti fra canti e suoni, sazi dalla crapula ed allegri dal vino, menavano danze e carole intorno a un idol d’oro, ed ora trucidati dalle spade levitiche in numero di quasi ventiquattro mila, c’insegnano che l’allontanarsi da Dio, che il piacer della gola, e gli estremi del gaudio e dell’allegria, vanno a finire in lutto ed in sterminio. – Passeggia per questa strada Sansone allettato dalle lusinghe di Dalila, e sebbene da’ propri genitori richiamato ad uscirne, non dà ascolto, persiste nel suo cammino, e i suoi piaceri gli fan perdere la libertà, la vista, la riputazione e la vita. Anche Ammone figlio di Davide entra in questo sentiero, rapito dall’avvenenza dì Tamar, e il sozzo incestuoso piacere gli tira addosso un nembo di pugnalate, mentre sedeva a lauto banchetto. Anche i sordidi vecchioni tentatori della casta Susanna corrono la stessa via; e dopo aver sedotte molte figlie d’Israele, s’incontrano finalmente in questa santa matrona, che eroicamente ributtandoli, coll’esecrazione di lutto il popolo, restano sepolti sotto una tempesta di pietre. Di mille altri potrei mostrarvi lo stesso. Per amor di brevità fermiamoci qui, e ditemi uditori miei, non è egli vero che questa strada è fatale per chi vi entra? Le notizie fin qui son molto cattive. Vediamo se si sono trovati contenti almeno quei che ne uscirono! – Il primo che mi viene avanti egli è un re vestito di ruvido cilizio, con un tozzo di pane alla mano, sparso di cenere, e bagnato di lacrime. Ah, sì, lo ravviso, questi è Davide penitente, che abbandonata la via del piacere, si va protestando che odia e abbomina questa strada d’iniquità: “viam iniquam odio habui” (Ps. CXVIII, 128). Un altro mi si presenta. È questi un giovane rabbuffato, pallido, smunto, lacero, mezzo ignudo. Nol conoscete? Egli è il Prodigo, che ritorna da quelle remote contrade che ha corso per qualche tempo affianco delle meretrici “vivendo luxuriose”, ed ora a passo avanzato si conduce a’ piedi del suo buon padre, a pregarlo che voglia ammetterlo per l’ultimo de’ suoi servitori. E questa donna, nobile all’aspetto e al portamento, che si strappa dal crine le gioie e i vani ornamenti, ella è la Maddalena, che pentita de’ suoi traviamenti, corre a lavare di lacrime i piedi al divin Redentore. Una turba immensa, a finirla, sgombra da questa strada, turba di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni clima, ed hanno tutti il pianto sul volto, il digiuno a fianco, il flagello alla mano per vendicare in sé stessi i loro errori nella via seducente dell’iniquità e della perdizione, confessando altamente d’esserne stanchi e pentiti, “lassati sumus in via iniquitatis, et perditionis” (Sap. V, 7). – Che dite ora, miei riveriti ascoltanti? Le notizie da ogni parte son pessime, e senza ricorrere ad antichi esempi, l’esperienza ci fa vedere sovente di queste scene volubili, che dopo una vista dilettevole si cangiano in prospetti di orrore. Voi come più pratici del mondo ne potete narrare a me. Quanti amatori del secolo, gente data al bel tempo, ai giuochi, alle gozzoviglie, agli amori, sono passati dalle delizie alle miserie, da’ piaceri agli affanni, dagli onori all’avvilimento, da uno stato comodo allo spedale, o a morir sulla paglia! – Concedo: la strada del piacere è larga, amena, spaziosa, lo dice il Vangelo, “spatiosa est via”, ma dice altresì che conduce alla perdizione. Or se una via piana, fiorita, deliziosa vi portasse ad un precipizio, avreste voi sì poco senno da incamminarvi per quella? E non sapete ch’è proprio de’ traditori il far precedere le lusinghe, i vezzi, gli allettamenti per riuscire negl’iniqui disegni, ed ingannare gl’incauti ? Caino vuol tradire Abele, e in aria di buon fratello l’invita a diporto, a spaziarsi in un campo. Gioabbo con un saluto, con una carezza al mento di Amasa gli pianta un pugnale nel fianco. Assalonne per vendicarsi d’Ammone l’invita a sontuoso banchetto. Triffone vuol disfarsi del temuto Gionata Maccabeo, e gli offre il comando della sua armata. Giuda tradisce il suo divino Maestro e si serve d’un bacio. In somma quel che gli uomini praticano cogli uccelli, e coi pesci, usano i traditori a sedurre gl’incauti ad ingannar gl’innocenti. – Ma se voi non siete irragionevoli, non sarà una gran pazzia lasciarvi tirar nella rete per un meschino piacere? – Sarà dunque pazzia per voi, giovane mio, l’associarvi con quella brigata di scostumati compagni, che vi traggono al giuoco per spogliarvi, che vi portano alle crapule, ai furti, alle case sospette, alle ree amicizie per non avere il rossore d’esser soli nei bagordi e negli stravizzi, o per voltarne tutta la colpa a voi. – Sarà pazzia per voi lasciarvi tirar dalla gola e imbandire la mensa de’ rubati polli, vendemmiare l’altrui vigna e bere alla salute di chi in coltivarla vi ha speso danari e sudori, per poi temere e tremare per continua paura, di venir ricercato da ministri di giustizia, d’essere scoperto per ladro, ed in pericolo d’infamia, di prigionia e di galera. – E non sarà maggior pazzia per voi, o figlia incauta se vi lasciate adescare dalle dolci lusinghe, dall’amorose parole, da’ seducenti biglietti, dai donativi, dalle promesse anche giurate di matrimonio di quei traditori, che insidiano la vostra onestà, ed han per costume vantarsi della vostra debolezza e della loro riuscita? Non sarete la prima, se vi fidate, se vi arrendete, ad essere abbandonata alla vostra confusione, costretta a ritirarvi per nascondere il vostro fallo, a passare i giorni amari in mesta solitudine, a piangere inutilmente la vostra caduta e la vostra stoltezza, e bestemmiare l’empio traditore, che intrepido giura di non conoscervi, insensibile alle vostre lacrime, insultante alla vostra infamia, infamia che porterete fino alla tomba. – Vedete, miei dilettissimi, che non v’ho parlato sin qui se non di temporali infortuni, i quali sono gli effetti infallibili degli smodati piaceri. Or che diremo quando la fede c’insegna che la via del piacere conduce all’eterna perdizione? Così è, miei cari, conviene disingannarsi. Gli amatori del mondo e de’ fallaci suoi beni, dopo aver gustato per pochi giorni il dolce delle proprie soddisfazioni, vanno, quando non se l’aspettano, a piombare negli abissi infernali. “Ducunt in bonis dies suos, et in punctu ad inferno, descendant” (Iob. XII, 13). Ci descrive con una ingegnosa parabola la cecità e stoltezza di costoro S. Giovanni Damasceno. – Un cert’uomo faceva viaggio in un deserto, quando all’improvviso si vede venir incontro una feroce pantera. Spaventato a questa vista si dà a precipitosa fuga, e nel fuggire agitato e contuso, cade senz’avvedersene dall’orlo d’un precipizio profondissimo: se non che, com’è proprio di chi cade, stender le braccia, fortunatamente si appiglia ad un albero piantato poco sotto il margine del precipizio stesso. Qui si tiene stretto, e va respirando. Osserva però che la pantera non cessa di minacciarlo, e che l’albero, su cui si è salvato dal peso della persona, va declinando al basso, e gli si stacca da terra or l’una, or l’altra radice. Abbassa finalmente lo sguardo, e mira con raccapriccio in fondo del precipizio un enorme dragone, che a bocca spalancata, e artigli aperti sta aspettando la sua caduta. In questa situazione di tanto orrore, in mezzo a tanti oggetti di spavento, leva gli occhi in alto, e osserva in cima di quella pianta un favo di miele, che per l’abbondanza spande su quelle foglie il dolce liquore. A questa vista esulta di giubilo, e allegro e contento non conosce più il suo pericolo, si dimentica della minacciosa pantera, dell’albero che declina, delle radici che si staccano, del dragone che l’attende, e invece, … chi il crederebbe? Col riso in bocca e tutto intento a raccogliere colla punta del dito quelle gocce di miele, le assapora con gusto e se ne pasce con gioia, e si stima felice. La parabola, uditori, vi sorprende? Cesserà la sorpresa in sentirne l’applicazione: l’uomo appena comparso in questa valle di pianto, che si può chiamare un deserto, in qualità di viaggiatore, viene minacciato dalla morte come da rabbiosa pantera. Fugge egli in certo modo l’incontro, ma cade nel comune pericolo di morte, che ad ogn’istante può coglierlo. Si salva egli, diciamo così, sull’albero del proprio corpo. Quest’albero, questo corpo in ogni giorno, in ogni stagione va declinando con il peso degli anni. Si staccano le radici colle infermità, col mancar della vista, col cadere dei denti, col debilitarsi le forze. Intanto al fondo dell’abisso lo sta aspettando il dragone infernale, ed egli in mezzo a tanti pericoli dimentico della morte, della caducità della vita, del baratro su cui sta pendente, e del dragone d’inferno, che per le sue colpe ha diritto, e brama d’attenderlo, s’occupa tutto a raccogliere alcune stille di miele or da questo, or da quel sensuale piacere, e solo intento ad appagare i suoi sensi, a soddisfare le sue voglie, si crede al colmo della contentezza e della felicità. – O uomo miserabile, o cieco e insensato figliuolo di questo secolo! Quel che ora non temi, sarà un giorno il soggetto delle tue lacrime e dell’inutile tuo pentimento. Al termine della strada del piacere, sta il letto della tua morte. Dalla sponda di questo darai un’occhiata alla via che hai corsa; pensa se sarai contento d’averla battuta. Deh! per tuo bene intraprendi in questi sacri giorni la via del Signore; questa è la sola che può condurti all’ eterna salvezza.