Omelia della Domenica XII dopo Pentecoste
[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]
[Vangelo sec. S. Luca X, 23-33]
-Carità-
Di quella carità, ch’è il compimento della legge di quella carità necessaria per la vita eterna, il nostro divin Redentore ci presenta una viva immagine nell’odierno Vangelo. Udite: “Un cert’uomo faceva suo viaggio da Gerusalemme a Gerico, quando all’improvviso vien assalito da masnadieri che di tutto lo spogliano, e ignudo, ferito ed insanguinato lo lasciano semivivo sulla pubblica strada. Poco dopo il crudele assassinio arriva in quel luogo un sacerdote Ebreo, e sul misero impiagato lascia cadere un’occhiata indifferente, e prosegue il suo cammino. Passa indi un levita, e anch’egli appena lo degna di un freddo sguardo, e tira avanti. Sopraggiunge finalmente un Samaritano, e veduto il dolente spettacolo, tocco in cuore da tenero senso di compassione, smonta di sella, si adopera intorno al misero languente, lava con vino le sue ferite, le medica con olio, le fascia con bende, l’adatta sul suo giumento, lo segue alla staffa, e lo conduce al più vicino albergo. Qui giunto, lo pone a letto, l’assiste nel resto del giorno, lo veglia la notte, e obbligato dopo a partire pe’ suoi affari, chiama l’albergatore, gli raccomanda l’infermo, gli mette in mano due monete di argento dicendogli, provvedetelo di tutto il bisognevole, e se alcuna spesa sarà occorsa di più, al mio ritorno vi renderò soddisfatto.” Ecco un tratto di esimia carità operante, che non risparmia né fatica, né dispendio. È tale la carità de’ moderni Cristiani? Se ben si considera, una gran parte di Cristiani ha una carità, che non è carità. A distinguere la vera dalla falsa carità, ci dà S. Paolo in mano la pietra del paragone in quelle sue parole: “Charitas non quaerit quae sua sunt” (Ad Cor. I; XIII, 5). La carità non cerca il proprio interesse, e se lo cerca, non è più carità. Vediamo come vada intesa la dottrina del santo Apostolo, e di qual sorta sia la nostra carità. – Varie sono le specie di amore, con cui gli uomini si amano vicendevolmente. Amore di amicizia, amore di riconoscenza, amor di genio, amor di concupiscenza. Tutti questi amori non sono carità, perciocché hanno tutti per oggetto e per fondamento il proprio gusto, la propria soddisfazione, il proprio interesse. Oltre a ciò sono amori che non sono durevoli, amori che mancano al mancar del pascolo che gli alimenta. Per l’opposto la carità non cerca sé stessa, e non è soggetta a venir meno; “Charitas numquam excidit”. Io riscontro questi diversi amori in quei metalli, che componevano la statua veduta in sogno da Nabucco. Aveva questa il capo d’oro, il petto d’argento, il ventre di bronzo, le gambe di ferro, i piedi di terra; quando un picciolo sasso, staccatosi dal vicino monte, rotolando venne a dar ne’ piedi del gran simulacro; ed ecco sull’istante atterrata la statua, e quel che è più sorprendente, tutt’i metalli ridotti in minutissima polvere. Oro è l’amor di amicizia, argento l’amor di gratitudine, bronzo e ferro l’amor di genio, di naturale inclinazione o di altra bassa lega, terra finalmente e fango l’amor di concupiscenza; ma ad incenerir questi amori basta un sassolino, una parola, un motto mal inteso, un gesto mal interpretato, un sospetto, un dubbio, un geloso pensiero: dunque nessuno di questi amori appartiene alla carità, perché la carità ha per carattere di non venir mai meno: “Charitas numquam excidit”. – Di questa falsa carità abbiamo un esempio nel re Saul. Si vide appena comparire innanzi il pastorello Davide biondo nel crine, leggiadro nel volto e robusto nel corpo, tanto che piacque agli occhi suoi. Crebbe il suo genio per lui in sentir la sua abilità in suonar l’arpa: crebbe il suo amore in udire che era pronto a cimentarsi in singolar tenzone col temuto Golia. Bellezza, abilità, coraggio legano il cuor del regnante ad amarlo: il suo amore fa che lo dissuada dal periglioso cimento, non consente che un inesperto garzone vada contro un gigante agguerrito, che fa spavento alle falangi di tutto Israele: e all’ascoltare che con mano inerme aveva strozzato alla foresta gli orsi ed i leoni, sempre più si aumenta il suo amore; ordina che sia vestito delle stesse sue reali armature: anzi egli di sua mano gli adatta l’elmo alla fronte, al petto l’usbergo. Che dite di tanta degnazione, di tanta benevolenza? Sospendete di grazia il vostro giudizio e la vostra risposta. Ritorna Davide vincitor glorioso dalla valle di Teberinto, l’accolgono con canti e musicali strumenti le donzelle ebree, “e re Saul, vanno esclamando, ha ucciso mille Filistei, Davide ne ha atterrati diecimila in un sol colpo”. Ohimè! Questa lode ferisce l’animo di Saul, produce un tarlo di gelosia, un verme d’invidia, per cui non lo guarda più di buon occhio. Questo è ancor poco, gli nega in sposa la promessa sua figlia: più, cerca che resti ucciso dall’armi de’ Filistei; più ancora, tenta per ben due volte trafiggerlo con una lancia, e non riuscendogli il colpo lo perseguita apertamente come suo singolare nemico sulle più alte montagne. Ecco ove andò e terminare un amor geniale, sensibile, interessato. – Eh! che la carità è un fuoco che non arde dell’altrui legna, un fuoco che non ha mistura di fumo, la carità è un fuoco tutto semplice, tutto puro che mai non ispegne le sue fiamme quand’anche le molte acque delle umane vicissitudini tentino estinguerlo: “Charitas numquam excidit”. – Questa carità è un amore, al dir de’ Teologi, che può chiamarsi amor teologale, perché l’amor del prossimo non si distingue dall’amor di Dio. Questi due amori sono due fiamme, ma d’uno stesso fuoco: sono come le due pupille degli occhi nostri, che collo stesso moto si portano, si fissano ad un sol oggetto. Da ciò ne segue che amando noi il nostro prossimo per amore di Dio, amiamo Iddio nel prossimo, e il prossimo in Dio. Pura allora sarà la nostra carità per l’oggetto che è Dio, durevole pel fondamento che è lo stesso Dio; e siccome in ogni tempo, in ogni occasione siamo tenuti ad amare Iddio; così in ogni qualunque occorrenza dobbiamo amare il prossimo in Dio, e per Dio, come immagine del medesimo Dio. – A far ciò meglio comprendere ai men colti, interrogo così: “L’immagine del santo Crocifisso è ella degna di venerazione?” Non vi è dubbio. “E qual ‘è più degno di adorazione: un Crocifisso fuso in oro o in argento, scolpito in legno o in avorio, impresso sulla seta o sulla carta?” Tanto, voi rispondete, la sua immagine in oro, come quella sulla semplice carta; poiché non è la preziosità del metallo o la viltà della materia, che dà norma al nostro culto, ma il prototipo, ma la Persona che rappresenta, cioè l’Uomo Dio, Cristo Gesù nostro Redentore. Ottimamente. “Ora io ripiglio, il nostro prossimo è non una morta, ma una viva immagine di Dio, sia dunque quest’immagine d’oro per il merito, sia d’argento per l’eccellenza, sia di legno per la bassezza, sia di carta per la leggerezza, è sempre immagine di Dio, e sempre degna di amore e di rispetto. Sia dunque il nostro prossimo per noi benevolo o maligno, sia per noi utile o nocivo, piacevole o disgustoso, favorevole o contrario, amico o nemico, egli è sempre immagine di Dio, e come tale in ogni tempo, in ogni avvenimento meritevole del nostro amore”. – Amava Mosè il suo popolo, di cui era legislatore e condottiero: lo aveva a forza di portenti liberato dalla schiavitù in Egitto, pasciuto e dissetato nel deserto; e pure questo popolo beneficato, oltre il mormorare sovente della sua guida, giunse per fino un dì a dar di mano alle pietre per lapidarlo: e Mosè a tratti d’ingratitudine così mostruosa non cessava di corrispondere con un amore a tutte prove costante. Iddio, Iddio medesimo era così mal soddisfatto di quella gente di dura cervice, e di cuore perverso, che voleva abbandonarla al suo furore. Che farà Mosè in vista di un Dio che prende le sue parti, che vuol castigare esemplarmente i suoi oltraggiatori? Che farà Mose? Lo chiedete a me? Chiedetelo al suo cuore acceso d’inestinguibile carità. Proteso innanzi l’Altissimo Lo prega a calmar la sua collera, a rimettere la spada della sua giustizia, a perdonare a’ suoi offensori; e trovando in Dio resistenza, mirate a che partito ei appiglia la sua carità: come un che per soverchio amore delira, si abbandona ad una strana enfatica espressione, e “Signore, dice, se non volete perdonare al mio popolo, ingrato è vero e prevaricatore, scancellate il nome mio dal libro della vita”. Di questi sentimenti non è capace se non un cuore infiammato di arditissima carità, come dopo Mosè leggeremo dell’Apostolo Paolo, che per la salvezza de’ suoi fratelli desiderava, se fosse stato spediente: “Anathema esse a Christo” (Rom. IX, 3). – A questo modello, Cristiani uditori, è lavorata e somigliante la nostra carità? Ohimè! Io temo, e non vorrei avere ragione di temerlo, io temo che la carità d’una gran parte de fedeli sia simile a quell’amore che comunemente si ha per un albero. Di grazia non vi offendete del paragone. Si ama un albero, o perché ci fa goder l’ombra delle sue fronde, o perché ci ricrea colla vaghezza de’suoi fiori, o perché ci pasce colla dolcezza de’ suoi frutti. Ma se poi l’albero stesso inaridisce, quei che più l’amavano sono i primi ad armarsi di scure, a tagliarlo a pezzi, a gettarlo ai fuoco. Quel padre di famiglia era prima un albero, che accoglieva all’ombra delle sue fronde e figli e congiunti e amici e vicini; ora o per vecchiezza o per lunga infermità, o per occorse disavventure, ritrovasi come un albero secco, a cui tutti fan legna. Quella moglie finché, come la donna forte, coi suoi lavori, industrie, diligenze fu di sollievo e di vantaggio alla casa, era amata come una pianta fruttifera. Ora che da qualche tempo è confinata in un letto, si riguarda come un aggravio alla famiglia, come una pianta inaridita, a cui e marito e figli e domestici fan sentire i tagli delle loro lingue e de’ mali loro trattamenti. Quella serva, finché robusta come una quercia, sostenne per lungo tempo le fatiche di casa e di campagna, era da’ padroni ben vista e meglio trattata; ora che à consumata la sua gioventù e la sua vita, divenuta pianta vecchia ed inutile, si abbandona alle fiamme, si caccia fuori di casa, si ha cuore di vederla mendicare per città, e finir poi allo spedale. – È forse questa la carità, di cui ci ha dato comando ed esempio il nostro Redentore? A rivederci al suo tribunale! Quivi Egli ci domanderà conto rigorosissimo di questo precetto: “questo precetto, dirà Egli, Io l’ho chiamato mio singolarmente per farvi conoscere quanto mi preme che sia adempiuto: “Hoc est praeceptum meum, ut diligatis invicem” (Jon. XIII, 12)”. Questo precetto Io l’ho chiamato nuovo, perché è l’apice della nuova legge e dell’evangelica perfezione; come l’avete voi osservato? Doveva osservarsi da voi a norma di quella carità di cui vi ho dato l’esempio: “Ut diligatis invicem sicut dilexi vos”. “Io per amarvi non ho cercato in voi né merito, né bontà; vi ho anzi amati in attuale nimistà con Me, e col mio Padre, vi ho amati immondi per l’originale peccato, impiagati per tante colpe attuali, vi ho amati sconoscenti, ingrati, offensori, nemici, e l’amor mio non è stato un affetto sterile ed ozioso, ma mi ha portato fino a dare per voi la vita, e tutto il sangue delle mie vene. Maggior carità niun può avere, che dar la vita per i suoi amici; or che sarà l’averla data per i suoi attuali nemici? Tale fu la mia carità, è questo l’esempio, la regola, la misura della vostra verso dei vostri fratelli”. Regge la vostra carità a questo confronto? Indegni! Amaste i vostri prossimi, ma in essi avete amato il vostro gusto, il vostro vantaggio, laonde in quelli amaste turpemente voi stessi. È stato simile il vostro amore a quel che aveste pel vostro cane che amaste, perché vi faceva carezze, perché vi seguiva alla caccia, perché vi custodiva la casa. Cessato il piacere e l’interesse, il vostro amore si è cangiato in indifferenza, in freddezza, sovente in corruccio e disprezzo, talvolta in odio e indignazione. Or che potete aspettarvi da Me, se non i rigori della mia giustizia, come tralignanti dal mio esempio, come trasgressori del mio precetto? A queste giustissime invettive quale risposta potremo noi dare, quale scusa addurre? – Deh preveniamo, Cristiani amatissimi, il colpo irreparabile d’una sentenza fatale al tremendo giudizio di Dio. Eviteremo questo colpo se la carità sarà diffusa nel nostro cuore, ma quella carità ch’è propria dei figli di Dio. Udite S. Giovanni l’evangelista, predicatore della carità, e ponderate bene le sue parole: “Dedit potestàtem filios Dei fieri” (Joan. I), avranno dritto ad essere computati figli di Dio tutti coloro che animati dalla fede nel santo suo nome adempiono i suoi precetti, “his qui credunt in nomine eius”, tutti coloro l’amor de’ quali verso de’ prossimi non avrà per base né l’attenenza del sangue, né l’inclinazione della natura “non ex sanguinibus”; molto meno se sarà fondato sull’avvenenza, sul genio, sull’interesse, su qualche altra passione, cose tutte che secondo le divine Scritture vengono sotto il nome di carne, “neque ex voluntate carnis; neppure sull’umana ragione o sulla mondana prudenza, “neque ex voluntate viri”; ma per soprannaturali motivi avrà Dio per fondamento, avrà per fine Iddio, Iddio, da Cui hanno la vita e la filiazione: “sed ex Deo nati sunt”. – La sola carità, conchiudo con S. Agostino, è il distintivo de’ figli di Dio: “Sola dilectio discernitur inter filios Dei, et filios Diaboli” (Ad Rom. VIII). Siate figli di Dio per una vera, pura, disinteressata carità, e sarete eredi del suo beato regno, “si filii, et haeredes”, che Dio vel conceda!