Dal redattore del sito www. shepherdandsailor.com, Ms. Nellie Villegas riceviamo il libro, mai ufficialmente pubblicato, di S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri. Si tratta di un’opera biografica, o meglio autobiografica, scritta nel ricordo affettuoso del padre, figura di altri tempi, per amici e parenti che avevano avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne le qualità. La sua lettura serve a farci comprendere la personalità profondamente spirituale di questo uomo umilissimo, pieno dello Spirito di Dio, che con la condotta di una vita cristiana esemplare, vissuta in famiglia e tra gente comune, ha saputo gettare, senza forse nemmeno sospettarlo, le fondamenta spirituali nell’anima del futuro Santo Padre Gregorio XVII, il Papa della “Chiesa eclissata”. La sua lettura è fonte di pace interiore, di considerazioni spirituali nella conoscenza di un uomo, apparentemente insignificante, che ha vissuto nel timore di Dio, che come sentenzia il Re-Profeta, è l’origine della Sapienza divina [Ps. CX, 10], sapienza che non ha bisogno di titoli o onorificenze accademiche: lo stesso “timore di Dio” che sempre doveva animare l’apostolato e tutto l’operato del figlio Giuseppe, scelto da Nostro Signore Gesù Cristo come suo Vicario in terra nel momento forse più terribile e buio della vita della Chiesa di ogni tempo, nel tempo di Giuda, dell’Apostasia, dei tradimenti sfacciati, dell’apparente trionfo del vicario dell’anticristo. Conoscere perciò Niccolò Siri è capire meglio la grandezza spirituale del figlio, immagine vivente di Cristo nel Getsemani. La lettura umile di questo scritto, offre un grande beneficio all’anima dell’umile seguace di Cristo. [Dal sito citato è pure possibile scaricare il libro in formato PDF: [http://www.shepherdandsailor.com/419891893]. ]
GIUSEPPE Card. SIRI
Mio Padre
PROFILO
A cura di Nellie Villegas
Lontano nel tempo, dopo che Lui morì, considerando nell’insieme la sua vita, ho scoperto la vera dimensione spirituale di mio padre. Prima vedevo, registravo, ma mi sfuggiva lo sguardo di insieme. – Scoprendolo, ho capito che il suo profilo doveva essere delineato, non solo per il conforto di quanti gli hanno voluto bene, ma perché la sua figura può insegnare qualcosa. Un uomo umile, che rimane coerente a se stesso per oltre novantadue anni, colla sua virtù rivela le infinite possibilità nascoste di una vita in Dio, senza alcun intento terrestre, nessuna risonanza, nessun vanto terreno.
I.
LE ORIGINI
Il 16 luglio 1887 alla età di soli sessantatre anni moriva mio nonno, Giuseppe. Quel giorno accadde un fatto semplice e commovente che segnò una vita. Il vecchio era stato perseguitato dalle disgrazie. Era stato sposato e dalla prima donna aveva avuto tre figli. Subito dopo la morte di questa donna e la vedovanza, si era risposato con Rosa Siri, mia nonna. Questa gli donò altri quattro figli, ultimo nato il 21 giugno 1874, mio padre. Dopo soli trentotto giorni dalla nascita di mio padre la nonna Rosa moriva e si apriva un’altra penosa vedovanza. Le malattie, le spese, avevano distrutto quasi tutto il patrimonio paterno. Era rimasta solo la casa dei vecchi col terreno attorno. Fino a questo momento la famiglia del nonno era vissuta a Vara Superiore di Martina Olba. C’era da secoli: le prime tracce si ritrovano nei primi registri della nuova parrocchia di Martina, nel 1621. Ammalato lui stesso, il nonno cercò scampo più vicino al mare e così, passando il monte, la famiglia si trapiantò in Gameragna, una frazione di Celle Ligure. La morte del nonno avvenne qui. – Ed eccoci al fatto interessante. Il nonno morente chiamò tutti i sette figli attorno al letto e disse le ultime parole: “Vi raccomando di pregare, di pregare sempre.” Mio padre aveva allora solo tredici anni. Quelle parole furono la consegna che mio padre impresse e che rannoda e spiega tutta la sua vita. Troppe volte lo sentii ripetere quelle parole di suo padre morente. Le ripeté anche a me. – Davanti alla casa paterna in Vara, il nonno, lo stesso giorno della nascita di mio padre, aveva piantato un melo. Ho sempre tenuto d’occhio quel melo altissimo e che morì press’a poco quando morì mio padre. Anche il melo aveva passato la novantina. – L’orfano più piccolo, mio padre, si trovò intorno i fratelli. Gli volevano bene; aveva tredici anni. Capofamiglia era Bernardo che toccava allora i trentadue anni. Questo mio zio assolse mirabilmente il compito di portare avanti la notevole famiglia fino a che tutti ebbero presa la loro strada. – Era una figura unica. La onestà, il senso cristiano in tutto, la osservanza, l’esempio integerrimo, la chioma argentea (quando io lo conobbi) ne hanno fatto il patriarca dell’Olba. Del patriarca aveva gli accenti, il discorso a proposizioni scultoree epigrammatiche, il tono della voce. La sua straordinaria memoria gli permetteva di ricordare i confini di tutti i terreni della valle, al punto che il suo verdetto nei conflitti di proprietà era riguardato da tutti il verdetto di un giudice. La sua parola era ascoltata da tutti. Le disgrazie sopportate con perfetta rassegnazione gli aggiunsero una venerabilità. Perse il primogenito nella prima guerra mondiale, ebbe la moglie – l’angelica zia Geronima – per decenni ammalata, una figlia per lunghi anni ammalata e che precedette i genitori nella tomba. Questo contesto nulla turbò in quella casa — era quella del nonno, dove era nato mio padre – ed io, ragazzo, d’estate vi andavo quasi tutti i giorni per la soavità e la pace che vi si godeva. Morì a settantacinque anni, ma non era stato il primo ad andarsene. La più anziana delle sorelle di mio padre, Geronima, era andata sposa a Savona: morì presto; io ne sentivo parlare come di una santa. Altro fratello era Antonio: morì poco più che quarantenne per uno di quei mali che oggi si curano sempre; ma allora la valle dell’Olba non aveva né medici né medicine. Annunziata – la zia Nunzia – si sposò e ben presto la sua famiglia, la più vicina e la più cara alla mia, si fissò a Sestri. Fu veramente la donna forte; ebbe da combattere tutta la vita, il marito suo dovette essere molte volte e per lunghissimi periodi ricoverato ed ella affrontò la situazione in modo da tirarsi avanti una famiglia di sei figli (uno morì nella prima guerra; un altro, mio coetaneo morì per difetto cardiaco a 17 anni). Ricordo che quando un ciclone le scoperchiò il tetto della casa, essa ebbe il coraggio e l’abilità di rifarselo. Questa donna meriterebbe una biografia a parte. Giovanni Battista (Baciccia) fu un cristiano completo e un saggio. I parroci della valle mi dicevano che era il miglior uomo della valle. Parlava poco, ma i suoi detti erano setenze; anche lui era chiamato ad arbitrare e comporre liti, serio, paziente, incredibilmente buono. Una parte delle mie campagne all’Olba da bambino le ho passate in casa sua. Anche lui restò vedovo quando la moglie gli donava il quarto figlio. Si risposò molti anni più tardi con una donna semplice e angelica – la zia Angiolina – l’ultima di tutti a morire, prima di mio padre. La sorella mitissima, vecchia solo di due anni più di lui, Maria, fu per sempre la più vicina e la più simile a mio padre. Anche questa zia fu dolorosamente colpita dalla sventura. Gli morì giovanissimo il marito, lasciandola con cinque figli dei quali una morì in fasce. Tirò avanti, fu accolta nella casa dello zio Baciccia e curò i figli suoi e quelli del fratello rimasti senza madre. Tutti la chiamavano “mamma” e quando andavo lassù la chiamavo “mamma” anch’io. Mio padre era il più piccolo. Questo contorno familiare permette di capire mio padre. – Fino al termine della vita non fu mai chiassoso, ridanciano: la serietà gli era abituale ed il suo volto, il suo sguardo dolce celavano una piccola ombra di malinconia: non aveva conosciuto sua madre! Ho notato la stessa ombra in genere su quelli che non hanno conosciuto la mamma. Lui evitava di parlare di sua madre; era certamente un modo per difendere la intima pena che aveva portato con sé tutta la vita. Da ragazzo conobbi bene due sorelle di mia nonna. Di una, Maria, i vecchi mi dicevano che assomigliava moltissimo alla sorella defunta. La ricordo: quasi ottantenne dirigeva in modo del tutto disinvolto, autoritario l’allevamento che aveva al di là dei Canaloni dell’Olba. Andavo ogni tanto a trovarla e questo le faceva un gran piacere. La sorella, Antonia, che morì ultranovantenne e stava al di qua dell’Olba in una località detta Canai, era tipo completamente diverso. Riservata, quasi scompariva, col suo Rosario in mano. Capisco che il non potere parlare della mamma sua, deve essere stato una ferita inguaribile per tutta la vita di mio padre. – L’orfano di tredici anni aveva imparato a leggere e scrivere da un buon prete di Gameragna; pensò anche di farsi o religioso o sacerdote. Ma le condizioni della famiglia non erano favorevoli e l’ideale, appena intravisto, svanì. Per la vita, mio padre aveva solo il Rosario in mano, anche lui. Tre anni restò a Gameragna, poi capì che era tempo ormai di intraprendere la sua via e guadagnarsi il suo pane. A sedici anni trovò un posto da garzone nella azienda ortolana di Domenico Servetto a Voltri. Allora ebbe per madre la Vergine delle Grazie. Le Grazie di Voltri restarono il suo centro ideale per quel motivo: vi tornò sempre finché visse. E finché visse Domenico Servetto, facendo la salita del Santuario si fermava a salutare, sempre affettuosamente accolto, il suo vecchio padrone. Più d’una volta portò anche me. Quando molti anni più tardi toccò a me di consacrare il vetusto Santuario, fu felice. Altro punto di riferimento era il Santuario dell’Acquasanta. Credo fosse una tradizione di famiglia passare il monte e scendere a piedi all’Acquasanta; egli la conservò sino alla fine. Quando, a dieci anni di età, il stavo per entrare in Seminario volle portarmi all’Acquasanta; forse per mettermi nelle mani della Madonna. Là comperò l’acquasantino che doveva far parte del mio corredo. Io ho sentito tante volte nella mia vita la presenza della Santissima Vergine: credo di doverlo a mio padre. Del resto quando io nascituro ero in pericolo di vita, Egli, me lo disse molti anni dopo, mi aveva offerto alla Madonna.
II.
LA GIOVINEZZA
Fu una giovinezza laboriosa, riservata, controllata. Non conobbe nessuno dei passatempi, buoni o cattivi che fossero. Il mistero di questa giovinezza conscia e già perfettamente matura, scappò di bocca a mio padre già vecchio quando discorrendo col suo confessore ebbe a dirgli che aveva passata la sua, intatta. Si trattava della stola battesimale illesa. – Il naturale riserbo di quest’uomo, assolutamente schivo a parlare di sé o a farsi qualunque genere di elogi o a raccattarne dagli altri, copre certamente molte cose perché una giovinezza di un uomo, intelligente, dalla memoria ferrea, non la si può pensare come un sonno indisturbato. Bisogna però concluderne che questo giovane ebbe una vita spirituale singolarmente intensa e non comune. I riflessi di quella giovinezza li traggo dal parlare che egli fece con noi delle vicende dell’ambiente esterno nel quale visse, nonché dai ricordi di mia madre. – Dopo alcuni anni di servizio negli orti coltivati da Domenico Servetto, passò alle dipendenze di Casa Viacava. L’Onorevole Deputato di questo nome passava parte del suo tempo nelle sue due ville in Voltri. Fu questa l’occasione per cui conobbe mio padre e lo assunse. A Voltri la famiglia Viacava passava il caldo dell’estate nella villa dei Colletti in alto, poco discosto dalla strada mulattiera che da Prà sale per discendere poi al Santuario dell’Acquasanta. In autunno la famiglia discendeva alla villa più in basso, sullo stesso pendìo di fronte a Carnoli, nella località detta Serrea, quella ove fu poi la casa degli Orfani dei Marinai. L’inverno la famiglia stava a Genova in un appartamento, allora lussuoso, sito al numero 3 di Distacco Piazza Marsala. Le occupazioni di mio padre erano di domestico e nello stesso tempo di uomo di fiducia; quando il figlio dell’onorevole in uno sgraziato incidente perdette l’equilibrio mentale e poteva in taluni momenti diventare pericoloso, era affidato alla amorevole custodia di mio Padre: si trattava del Signor Andrea. C’era la moglie dell’onorevole, Serafina, la quale, prima lavandaia, fu voluta per la sua bellezza dall’uomo allora il più ricco di Voltri. Era donna di notevole intelligenza e saggezza, ma non perdette mai le tracce della sua limitatissima educazione. Il figlio Andrea aveva sposato Maria Avogadro. Questa signora sarebbe stata la mia cara madrina, dona equilibrata, diplomatica, di una autorità reale, ma bonaria. La famiglia Viacava era tutta qui. – In un tale quadro con tali complicati rapporti facilmente intuibili, mio padre visse fino al matrimonio. La cosa che oggi mi stupisce è che io ho sentito tante volte ricordare con una punta di affettuosa nostalgia questo ambiente coi personaggi secondari che rotavano intorno al piccolo potentato: non ho mai sentito una sola parola di malevolo apprezzamento, un pettegolezzo acido. Per tanti anni mi è sembrato, ascoltando mio padre, che non esistesse a questo mondo il parlare male degli altri. Più tardi mi convinsi che esisteva e solo allora ho imparato a conoscere la virtù di mio padre. Quando a riandare quei tempi, specialmente nella vivacità colorita, al tutto romagnola di mia madre, c’era pericolo che i ricordi di un tempo prendessero una strada meno delicata, papà aveva un’arte impareggiabile per deviare il discorso. La sua virtù non si esibiva mai. Eppure i ricordi di quel tempo esibivano tipi ameni, forse discutibili, ricchi delle contraddizioni piccole e salaci di un mondo popolaresco per quanto inserito nell’alta borghesia. – In casa Viacava papà conobbe mia madre. Debbo presentare questa donna singolare. Si chiamava Giulia Bellavista, alta, distinta, disinvolta e bella. La intelligenza di questa giovane era affascinante. A soli 17 anni aveva dovuto partire dal suo paese, Gatteo in provincia di Forlì, per guadagnarsi il pane. Gli affari di mio nonno erano andati male e bisognava sfoltire la numerosa famiglia. Mio nonno materno Giuseppe, morto poi tranquillamente come la nonna Mariuccia a 89 anni, era un bel tipo. Nobile e generoso, amava il canto, correva a Bologna per sentire l’opera, faceva spacconate, come quella di vestirsi da damerino e accendersi sulla piazza del paese il sigaro, bruciando davanti a tutti un biglietto (allora!) da venticinque lire! Quest’uomo, che proprio per le sue non disoneste fantasie si era giocata una prosperità, non si accasciò mai, mai cessò di scherzare, di aiutare gli altri. Aveva una sorta di semiseria superiorità, alle dolorose vicende di questo mondo, alle quali non attribuì mai troppa importanza. Un indipendente dal cuore buono e che avrebbe portato fieramente e nobilmente la divisa di un giullare o di un cavaliere del Medioevo. Così poté campare fino a 89 anni. Era una tradizione di casa: suo padre (mio bisnonno materno), quando fu per morire chiamò il sacerdote, ricevette tutti i Sacramenti, poi volle ancora fare una cantatina e cantò – credo una romanza d’allora – “morir senza un centesimo coi creditori accanto…”. Dopo di ché, pienamente soddisfatto, si addormentò nella pace di Dio. Tutto questo ambiente, luminoso, cavalleresco, intelligente, con mia madre sarebbe poi entrato in casa mia. – Dopo lunghi anni in cui ebbero modo di studiarsi a vicenda, i due si fidanzarono e si sposarono; fu il 25 febbraio 1905, alle ore sei del mattino nella Basilica dell’Immacolata, all’altare del Santo Rosario. Celebrò il Matrimonio il Canonico Gaspare Odino, lo stesso che poi avrebbe battezzato me e mia sorella. – Accadde 43 anni dopo, la sera del 5 marzo 1948. La mamma si era spenta serenamente alle 21,10. Nessuno pianse, uscimmo tutti dalla camera, anche papà. Ma lui arrivato alla porta si voltò a riguardare la campagna della sua vita ed uscì in queste parole “Come sono contento di non averle mancato di rispetto in nessun momento”. Illuminava un lungo cammino. Col matrimonio a 32 anni finiva una giovinezza che si era retta e mantenuta illibata per un segreto lavorìo divino ed umano. Non si arriva ad un equilibrio perfetto se non per averlo sempre curato. Noi, nella abitudine ordinaria, solo molto tardi l’abbiamo, nel pio ricordo, rilevato.
III.
NEL MATRIMONIO
Gli sposi, dall’appartamento di Distacco Piazza Marsala 3 scesero alla portineria del numero 4, che assunsero. Alla portineria attendeva mia madre, mio padre lavorava: era specializzato nella manutenzione degli appartamenti signorili in cui lui faceva tutto, dalle pulizie alle lucidature, alle sistemazioni. Questa impostazione economica permise di vivere sempre, nella modestia, ma anche in una relativa prosperità. – Mio padre lavorava sodo; aveva una larga e distinta clientela e fino a quasi sessant’anni non lavorava solo nelle ore diurne, ma in quelle mattutine e, quasi sempre, in quelle dopo cena. La giornata di questo lavoratore ricercato, stimato e amato da tutti cominciava alle 5 del mattino e finiva verso le dieci, ed anche oltre. Alle cinque cominciava così: faceva in modo di andare alla Messa delle 5,30 alla Immacolata. Si comunicava tutti i giorni. Prima di uscire di casa, quando ebbi appena gli anni sufficienti, svegliava me, perché potessi trovarmi in Basilica alle 6 e servire la Messa al Prevosto, Mons. Marcello Grondona. Di questo mio incomparabile Parroco, avrò modo di parlare altra volta. Poi: il lavoro per lui, per me la scuola. – Non riesco a spiegarmi come abbia fatto quest’uomo, che arrivò fresco alla soglia dei 93 anni, a resistere in tanto lavoro. Mai un lamento sulla durezza e continuità del lavoro. Quand’era a casa, salvo i giorni festivi che rispettava scrupolosamente, lavorava sempre. Siccome era anche un cuoco speciale, alla domenica dispensava mia madre dai lavori domestici, perché si riposasse e faceva lui cucina. Molte volte alla sera lo accompagnavo io dopo cena per le sue appendici lavorative. Nell’andata e nel ritorno (passavamo sempre tutta via Luccoli) parlavamo. Il suo parlare, mai prolisso, mai pettegolo, sempre buono e saggio nelle osservazioni sulle cose più elementari, era la grande scuola di educazione per me. – Quando aveva un po’ di tempo andava a qualche sacra funzione. Era caratteristico: la domenica si leggeva la Settimana Religiosa dalla prima all’ultima parola (per lunghi anni la lesse a mezza voce in modo che si potesse intendere anche noi), imparava a memoria l’ultima pagina, quella del calendario delle sacre funzioni in tutta Genova e in tal modo sapeva come impiegare tutti i ritagli di tempo nella settimana, oltreché nei giorni di festa. A due anni cominciò a portarmi con sè e così accadde che io, prima di andare a scuola conoscessi tutte le principali e non principali Chiese di Genova, tutti i predicatori, allora in uso, tutti gli addobbi, tutti i parati. Per quella esperienza molti anni dopo, nella mia prima visita pastorale in Città, fui in grado di chiedere che cosa ne era stato di quei candelieri, di quelle pezze da addobbo, di quei parati, di quell’ostensorio. Ero divertitissimo di vedere la faccia meravigliata dei Parroci. Poi spiegavo la cosa e tutto diventava naturale. Ma fu così che in taluni posti poterono ricuperare parati preziosi, nascosti e dimenticati durante la guerra. Nessuno pensi che in tutto questo ci fosse della costrizione: ero io che volevo andare, perché stare con mio padre mi dava il senso della protezione assoluta, perché da lui emanava, irradiava, qualcosa che, senza svelarsi avvinceva e poi perché tutte quelle cose di Chiesa mi attraevano indicibilmente. Fu così che mi trovai prete, come se ciò fosse per me l’unica cosa possibile e desiderabile al mondo. E’ passato ben più di mezzo secolo e non ho da cambiare giudizio. Tutto fu così semplice, naturale ed onesto. Non so perché, ma in tutta la mia vita mai presi gusto a nessun divertimento, che fosse diverso dal camminare e dall’inerpicarsi e pertanto non ebbi mai difficoltà e merito di lasciare qualsiasi sorta di divertimenti, anche se talvolta giocavo, con poca passione, coi coetanei che mia madre mi permetteva. Rivedo quelle passeggiate serotine, appeso alla mano di mio padre. Ricordo benissimo i Vespri Pontificali del giorno dell’Immacolata, celebrati da Mons. Pulciano: avevo due anni e mezzo e mi godetti la scena e lo sfarzo al punto che ancor oggi sono in grado di ricordare i più piccoli particolari di quella cerimonia. Mi colpiva l’ondeggiare del pastorale dell’Arcivescovo che andava e veniva. Io ero a cavalluccio delle spalle di mio zio Romeo, che ci aveva accompagnati. Finita la funzione spingemmo tanto da arrivare in sacristia a vedere l’Arcivescovo che si toglieva il camice. Quella figura per me non si è mossa mai più dalla mia mente. Con papà rividi, credo a quattro anni, l’Arcivescovo sulla scalinata di San Lorenzo; credo fosse per la Processione delle Ceneri di San Giovanni Battista. Lo rividi morto sul cataletto nel Salone dell’episcopio; mio padre mi portò lui a vederlo, dicendo che se fosse stato per un altro, non avrebbe condotto un bimbo di cinque anni a vedere un morto, ma si trattava dell’Arcivescovo . . . Rividi intatte e perfette quelle venerate spoglie 55 anni dopo, quando nel marzo del 1966, le tolsi dal Chiappeto e le riportai in San Lorenzo. La valutazione delle cose ecclesiastiche, la gioia della Liturgia, il massimo concetto della autorità della Chiesa, il modo di vedere tutte queste cose dall’angolo esatto ed amorevole sono il frutto dei pii pellegrinaggi fatti con mio padre. Quando nel 1910 fu inaugurata la nuova Chiesa del Sacro Cuore in Carignano, avevo quattro anni, ero presente e ricordo tutti i particolari della cerimonia. Mi ci aveva portato papà. Ora capisco che l’atmosfera creata da quell’uomo saggio e lungimirante mi ha risparmiato il peggio di taluni problemi e mi ha semplificata la vita. – Per lui c’era evidentemente un punto vuoto, nel quale secondo lui “non operava”; era il tempo “di andare e venire”. Suppliva così; teneva in mano la corona del Rosario e lo diceva in continuazione. – Questa è stata la vita di mio padre lavoratore. – Non ricordo che sia mai entrato in un bar (entrava solo nella gelateria di via Orefici, per comperarmi a titolo di premio un gelato, cosa che non era però frequente, perché lui non voleva farmi prendere vizi), mai allora andò al cinema, al teatro … Se conobbe un cinematografo dovette aspettare a conoscerlo in qualche sala parrocchiale, già vecchio. Fu, credo, nel cinema di San Fruttuoso dopo che i miei genitori andarono ad abitare nel loro appartamento di Via Giovanni Torti, 26. – Fu sempre come l’ho descritto, senza un lamento, senza una recriminazione, sereno sempre, dolce. A lui bastavano il Signore e tutti noi. Non finiva però qui. – Ogni tanto scompariva per assistere o curare qualche ammalato, per vegliarlo di notte, così il quadro è completo. Moltissimi anni dopo seppi da un egregio professionista, già Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica che dopo l’estenuante lavoro per molto tempo andava nel chiostro delle Vigne a piegare le copie di “Azione Giovanile” per la spedizione. Era quello che poteva fare, ma a noi non disse nulla. Di questa vita niente è caduto in terra! – A questo punto debbo parlare di mia madre. Non ho conosciuto matrimonio più completo e da ragazzo ero perfettamente convinto che la nostra fosse la famiglia più felice. Io ero nato nel 1906 dopo poco più di un anno di matrimonio. Mia sorella nacque cinque anni dopo nel marzo 1911. Questa unità perfetta fino alla morte, si fondava sulla grazia di Dio, sulla virtù e sulla intelligenza. – Mia madre era un tipo unico. Vivacissima, ardita, di una intelligenza che colpiva e che le permetteva – a lei ricca solo della istruzione elementare – di tenere decorosamente la conversazione con chiunque. Aveva il senso della dignità e ne aveva un singolare prestigio. Retta, generosissima, aitante, era l’umorismo in persona. Riempiva lo ambiente; senza paure e senza complessi, di tutte le cose vedeva sempre anche il lato comico e lo sapeva sfruttare. Aveva la tempra da generale e spesso il piglio e l’accento. – Un giorno un ladro, io potevo avere cinque o sei anni, le rubò un cappotto steso a prendere aria. Ebbe il fegato di rincorrere il ladro, si associò per via una guardia municipale trovata a caso, tra tutti e due acciuffarono il reo e lo portarono in Palazzo Ducale, dove allora aveva sede la Questura. Ecco la conclusione: quando chiesero a mia madre se intendeva sporgere denuncia, essa guardò a lungo il malcapitato ladro. Gli disse: “avevi fame, vero, poveretto?” Gli spuntarono due lacrimoni, perché era vero; ella aprì il borsellino e diede al ladro uno scudo d’argento (si pensi al valore di allora) dicendo: “prendi e va a mangiare; ma non rubare più”. Volta agli ufficiali disse: “Non faccio alcuna denuncia. Non vedete che ha fame?”. I due, mia madre col cappotto recuperato sul braccio e il ladro uscirono insieme. – Mia madre, quando poteva, cantava sempre ed aveva una voce bellissima. Lei scioglieva tutte le questioni, per sé e per gli altri, aveva il tono e il piglio della gran signora e imperava con estrema naturalezza. Nel quartiere – e si trattava di una piazza ed alcune vie – lei era la donna più celebre e quando succedeva qualcosa, per mettere in pace dei litiganti, per malati improvvisi, soccorsi d’urgenza, liti in famiglia, la cercavano continuamente. Poi a raccontare l’accaduto era uno spasso, perché in casa a noi ripeteva la scena colle stesse parole, imitando tutti i gesti e tutte le voci. Naturalmente senza ombra di dileggio o di disprezzo. La sua personalità era talmente forte nell’ambiente, che una parte dei bottegai non mi chiamavano col mio nome, ma semplicemente Giulietto, perché davanti a tutti io ero solo un riflesso di mia madre. Senza mai diventar volgare nel linguaggio, sapeva farsi rispettare. Era il carattere opposto a quello di mio padre. Si sarebbe avuta l’impressione che a comandare in casa fosse lei. – Mio padre era felice che si credesse così da tutti, non ebbe mai una parola per rimproverare la mamma, amava riconoscere umilmente che sua moglie era più intelligente di lui. Guardava, ascoltava tutto con quella sua faccia seria o atteggiata a un leggero sorriso dolcissimo e tutto era a posto. Egli accettava di essere pienamente integrato dalla moglie. Oggi valuto quella umiltà paziente e saggia e non posso spiegarmela che con un grado non comune di virtù. – Però non è a credere che lui scomparisse. Tutt’altro: mia madre la luminosità, il brio, l’apparenza del comando li scaricava su di lui. In più mio padre, sebbene partisse più lento e con minore manifestazioni pittoresche di sua moglie, aveva un vantaggio su di lei: una incredibile pazienza e una singolare costanza. Dolcissimamente finiva coll’avere ragione lui, dove sapeva di doverla avere e i due filavano benissimo. Anche perché quando non ne valeva la pena, papà saggiamente non ingaggiava la tenzone e lasciava che le cose si dipanassero da sé. Non era stupida remissività; era rara saggezza. – Mia madre era munifica, papà si preoccupava dell’andamento di casa e del domani serenamente. Ma le cose erano poi sempre d’accordo. – Voglio richiamare alcuni punti di questa singolare ed esemplare convivenza dei due coniugi. Si trattava della nostra educazione. Era terreno sul quale potevano sorgere contrasti, che non sorsero invece mai. – Mia madre aveva con me una maniera forte. Fece benissimo e credo che se non l’avesse usata sarei diventato un delinquente. Di manrovesci ne ho presi a non finire, tutti i ramoscelli diritti del nostro piccolo giardino finivano regolarmente sulle mie gambe; quando di trappette non ce n’erano più, prendeva il battipanni. Ero vivacissimo e bisognava pure che imparassi per tempo a sapermi contenere. Oggi ci sono altre teorie. Io so che quella di mia madre andò benissimo per me. Un giorno – avevo sette anni e facevo già la terza elementare, — fui pigro ad alzarmi e tutto venne spostato. Mia madre capì che sarei arrivato tardi a scuola (la Descalzi di Via Vincenzo Ricci). Venne ad accompagnarmi lei per darmi una lezione, sapendo che la porta sarebbe stata sbarrata. Quando fummo davanti a tale porta mi prese per il colletto, mi sollevò, mi fece toccare la porta poi mi sculacciò per la strada davanti a tutti. Io morivo di vergogna per la mia dignità offesa. Mi intimò di marciare davanti a lei; ogni tanto si fermava e mi dava, davanti a tutti naturalmente, un paio di schiaffi. Così fino a casa. Se ancor oggi io ho il pallino della puntualità lo devo a mia madre. I discorsi me li faceva mio padre, le busse me le dava mia madre. Non ci fu mai un contrasto: si erano divisi la parte. Ed in mia madre era saggezza. Infatti con mia sorella, minuta, timida allora ed emotiva, ebbe sempre un sistema diverso. Mia sorella non la toccò mai in tutta la vita, la esercitò invece pazientemente in tutto quello che sarebbe valso a fugare il complesso della timidezza e ci riuscì. – Così sull’argomento i due andarono sempre d’accordo; nessuno intralciò l’altro e si completavano a vicenda. Mio padre vedeva lontano e lasciava fare tutto quello che intuiva utile ai suoi figli. Non fece mai prediche; mi intratteneva solo in quel saggio conversare, dosato, da amico perché sapessi giudicare rettamente delle cose e perché non avessi da inciampare malamente – già seminarista – negli scogli della adolescenza; ma fu discretissimo. E poi c’era il suo esempio. – Ricordo un episodio che fu per me fondamentale. Un giorno mi diede i soldi per prendere il tram, andata e ritorno, credo per fare una commissione. La feci e ritornai. Mi ordinò di ripartire; stava per darmi i soldi occorrenti alla corsa. Io dissi: “Papà, ho ancora il biglietto di ritorno buono, perché per la calca il bigliettaio non è arrivato a forarmelo”. Mi guardò: “Dammi quel biglietto; vedi, non ha importanza che non te lo abbia forato; tu hai goduto della corsa pagata da questo biglietto. Non puoi più servirtene”. E lo ridusse in pezzi piccolissimi. – Ritengo di dovere riportare integralmente il profilo che fa mia sorella. “. . . Sopportava con pazienza tutte le piccole contrarietà della vita, commentando le situazioni con un sorriso a fior di labbra e con quel suo caratteristico muovere lento del capo; non giudicava mai le apparenze, non criticava mai l’operato altrui. Se talvolta lo sollecitavo a farlo, mi guardava diritto negli occhi e mi ammoniva: non dire mai niente di nessuno, se non puoi dirne bene! Quando alla sera rientrava a tarda ora dopo una giornata de estenuante fatica (oh! quel cadenzato passo, che la stanchezza rendeva lento e strisciante sulle selci!), io gli correvo incontro e ponevo la mia nella sua grande mano, che tutta l’avvolgeva. Egli vi imprimeva una leggera pressione – tacita intesa tra noi. Allora mi sentivo serena, tranquilla. Era stanca, ma serenamente mi faceva dire le mie preghiere, mi teneva compagnia finché il sonno non mi vinceva al monotono suono delle semplici filastrocche che a lui avevano cantato i fratelli maggiori quando era piccolo e – orfano della mamma – chiedeva ad essi tenerezza ed affetto. Per tutta la vita portò il segno di quella carenza affettiva: raramente l’ho sentito ridere a gola spiegata. Più tardi ho ripensato sovente a tutto questo ed ho capito che egli con l’esempio mi insegnava a non far pesare sugli altri le diuturne, piccole, estenuanti difficoltà della vita”. – Mia sorella riassume così il profilo, nella vita familiare, che poté godere fino al momento del suo matrimonio, mentre io ero in Seminario: “La sua vita si può compendiare in tre parole: Religione, lavoro, pazienza”. “La Religione la manifestava colle azioni della giornata: al mattino con la Santa Messa e la Santa Comunione, al pomeriggio con la recita del Rosario e a sera con la frequenza alle funzioni nelle principali Chiese”. – “La Signora Maria Varallo, madre di Suor Ginevra, Superiora Generale dell’Istituto Ravasco, amava raccontare in proposito, che più di una volta si era trovata con mio padre prima delle 5,30 alla porta della Basilica dell’Immacolata ad attendere che il sagrestano aprisse le porte. – Continua mia sorella: “Pochi e pacati erano i consigli espressi in semplici parole; essi però tradivano un imperativo categorico su precise norme di vita che nulla concedevano all’equivoco e alla evasione… Tutte le azioni della giornata denunciavano chiaramente l’abbandono alla Divina Volontà. In lui tale virtù era consapevole, perché derivata dalla sicurezza che “tutto era a fin di bene”, perché la volontà di Dio “non poteva portare il male”. Non tralasciava nessuna fatica, anche la più umile e modesta, incurante di un falso amor proprio; che fa sembrare disonorante un povero lavoro. Era attento, metodico, preciso ed ordinato nella sua modestia schiva di elogi… La pazienza, unitamente alla dolcezza del suo carattere, arricchite da una congenita saggezza, lo facevano sovente confidente, quasi confessore ed arbitro in situazioni difficili. Col suo semplice modo di esprimersi, quasi scusandosi del suo modesto parlare, riusciva stranamente con poche parole e chiarire le idee, a suggerire soluzioni”. – Un altro punto che poteva diventare una questione era la educazione religiosa: mio padre mi portava sempre con sé nelle chiese di Genova. Non sentii mai che mia madre sollevasse la più piccola obiezione. Alle feste era lei a portarmi a Messa, fino a che, divenuto chierichetto, andai in parrocchia quasi sempre da solo. – La carità fu la più grande lezione imparata a casa mia. Mia madre ne aveva per tutti. Se occorreva se lo levava, il cibo, dalla bocca. Lo spettacolo che vidi per tanto tempo in casa mia fu il seguente. I miei conoscevano molta gente. Allora, non vigendo un sistema di protezione e previdenza sociale come nel nostro tempo, erano frequenti i casi di persone che arrivate ad una certa età e perdendo il loro impiego, senza figli, venissero a trovarsi in vera e grave miseria. Ne ricordo con tenerezza un certo numero. Quando qualcuno di questi aveva fame – ed erano persone per bene – arrivavano da noi poco prima di mezzogiorno. Mia madre capiva subito, con una delicatezza suprema, dopo averli salutati, aggiungeva un posto a tavola e automaticamente si aveva un commensale in più. Io e mia sorella ci meravigliavamo quando non c’era nessuno. Papà vedeva, taceva, approvava. Fu la più grande educazione alla carità che io abbia avuto in tutta la vita. I due erano diversi, ma non ebbero mai a fare una parola sull’aiuto da dare al prossimo. Mia madre si occupava molto di parenti suoi, venuti a Genova. Fece loro tutto il bene ed era con loro molto severa quando occorreva. Quando morì mia madre si fece viva a poco a poco una quantità di gente che aveva aiutato, indirizzato, addirittura salvato. Noi ignoravamo quasi tutto. Quando morì mio padre accadde lo stesso. – I due non potevano essere tra loro più differenti, eppure non potevano essere maggiormente uniti. Nel 1934 lasciarono la portineria di Distacco piazza Marsala e si ritirarono in un appartamentino dello stesso stabile. Nel 1937 traslocarono – mio padre era stato nel frattempo pensionato – in via S. Ugo 8. Fu solamente a questo punto che, dopo una vita di strenuo lavoro, mio padre accettò di andare qualche volta in campagna. – I miei genitori andarono un anno a Rosano in Val Borbera, due anni a Vara. Poi fu la guerra accanita. Dopo, quando era con me in Episcopio, accettò solo negli ultimi anni della vita. Nel 1964 venne con noi a Trivero: aveva 90 anni. L’anno appresso venne pure con noi a Peveragno. Negli anni antecedenti restava in episcopio in compagnia del nostro fedele autista Ugo ed era felice, perché faceva lui la cucina, aggiustava tutto, faceva riparare quello che lui scovava e noi non avevamo visto. Ma, soprattutto aveva vicine le sue Chiese per la adorazione al Santissimo Sacramento.
IV.
LE GUERRE
Nel 1894 papà compì il servizio di leva. Allora era di due anni. Fu alpino e venne assegnato alla artiglieria di montagna. Trascorse quasi tutto il tempo nella provincia di Cuneo. Conservò sempre un ricordo sereno e quasi entusiasta di quel tempo; riandava compagni, superiori, situazioni e, a sentirlo lui, mai una noia, mai gente fastidiosa, mai alterchi, mai rimembranze relative alle facili miserie morali della vita militare. – Ora capisco che quella esperienza giungeva a noi filtrata dalla sua bontà e dal suo perfetto contegno morale. Non conobbe bruttura alcuna e questo negli ultimi anni lo disse ad un confessore, conversando, con sensi di piena riconoscenza a Dio. Per lui fu esperienza limpida. Ricordava tutto: nomi dei paesi, dei compagni, episodi. Quando a 91 anni venne in campagna con noi a Peveragno, volle rivedere tutti i luoghi della sua vita militare, Roccavione, Robilant, Vernante, Demonte, Vinadio, Cuneo. Era lieto come un bimbo (lo poteva essere!), portava il suo cappello da alpino, che il Sindaco di Peveragno gli aveva donato. – Venne richiamato per pochi mesi nel 1898 al tempo della considdetta rivoluzione di Milano, sotto il governo Pelloux. – La guerra di Libia nel 1911 non lo toccò. Quell’anno ci fu, disastroso, il colera. Papà restò solo a casa a lavorare e a badare a tutto. Mandò la mamma, mia sorella e me, nella casa della zia Annunziata sulle alture di Sestri. La casa era isolata: ricordo che non si faceva altro che far bollire roba per evitare il contagio. Papà, per non portarci il contagio, non venne mai lassù, a quanto ricordo. – Si arrivò alla prima guerra mondiale. Quando la guerra travolse anche l’Italia, nel 1915 papà aveva 41 anni. Quando le condizioni della guerra imposero il richiamo anche dell’ultima classe, mio padre riprese la divisa grigio-verde. Fu nel Gennaio 1917. Io ero entrato in Seminario al Chiappeto il 16 Ottobre precedente. Per prima cosa lo misero a fare il guardiano in porto. Fu un lavoro duro e pericoloso. Mia madre fu eroica: pensò a tutti, a me che ero in Seminario, a mia sorella che aveva sei anni, a mio padre che stava in porto. Come quella donna coraggiosa e indomita si facesse a passare le linee per portare a mio padre qualcosa di caldo da mangiare, non l’ho mai capito, ma conosco l’ingegno e le incredibili risorse di mia madre. Nell’estate il colonnello Dogliotti chiese mio padre come piantone del suo ufficio sito in piazza del Carmine. Il Colonnello era molto buono ed umano; aveva l’arte di evitare le severità inutili: mio padre poteva venire, qualche poco, ogni giorno a casa. Io andavo da lui spesso. Non lo vidi mai alterato, agitato, rammaricato. Aveva la Chiesa del Carmine a due passi e la frequentava continuamente, appena poteva. Con lui tutto, nella sua mite serenità diventava normale, anche se la guerra era dura. Finì. – Nel 1940 la nostra Patria si trovò una seconda volta in guerra. Mia sorella era sposata da sette anni. I miei genitori abitavano nella loro casa di via Giovanni Torti. Il 22 ottobre 1942 Genova che, ad eccezione del bombardamento navale del 9 febbraio 1941, non era mai stata gravemente disturbata, si trovò improvvisamente sotto i bombardamenti a tappeto. I miei genitori, quando potevano, si rifugiavano in una galleria, ma non volevano allontanarsi. Tentai un giorno di portarli a Campomorone. Non vi stettero neppure quarantotto ore. Una mattina in cui io andavo dal Seminario a vedere che ne era della nostra casa, trovai le finestre spalancate e capii che erano ritornati. Pensai allora di accettare l’offerta gentile fattaci con tanta spontaneità dai Signori Adamini e l’11 novembre, con un viaggio che parve una odissea, li condussi nella loro casa di Montalto Pavese. Erano sulla collina, erano fuori dei probabili insulti bellici; non erano difficili i rifornimenti. In seguito dalla casa dei Signori Adamini passarono alla canonica, dove avevano affittate alcune stanze libere. Li indussi a tornare prima della fine della guerra sulla fine d’inverno 1945 e li sistemai a Fontanegli, posto sicuro e vicinissimo, perché capivo bene che quando la situazione fosse precipitata da quelle parti sarebbero stati vicini attacchi frontali o – più probabilmente – ritirate rovinose. Comunque non ci sarebbe stato per qualche tempo il contatto con Genova. Nel frattempo dal 7 maggio 1944 io ero Vescovo Ausiliare di Genova. – Ma prima che l’esilio si concludesse, accadde qualcosa, mia madre si era rotto un piede ed accorsi; non ero ancora legato al mio ufficio di Ausiliare. – Il 7 luglio 1944 il Cardinale Boetto mi mandò alla Guardia l’ordine di fuggire e nascondermi: era decisa la mia sorte; il meno che mi sarebbe toccato era l’internamento in campo di concentramento in Germania. Con un viaggio pieno di peripezie riparai nei monti liguri presso il mio antico compagno di scuola don Reggiardo. Ebbi la avvertenza di dire a nessuno che mi nascondevo, di spargere invece la voce che stavo male di nervi e mi ritiravo per un periodo di assoluto riposo in campagna. A Carsi Ligure, dove mi rifugiai, mi guardai dal dire a chicchessia che ero fuggito. Tappai la bocca a due miei alunni che stavano lassù sfollati e che capirono subito perché era necessario il silenzio assoluto. Infatti se io avessi detto qualcosa a chicchessia, sarebbe stato riferito a Radio Londra, questa lo avrebbe fatto sapere a tutto il mondo ed io non avrei potuto più scendere a Genova a fare il mio dovere accanto al Cardinale Boetto [A Genova, il comandante tedesco aveva dato l’ordine di bombardare il porto prima della ritirata, per far poi distruggere la città. Grazie ai continui sforzi ed ai suoi rapporti con il comandante Cattolico, Siri riuscì a convincerlo a non bombardare la città. In realtà furono le forze americane che, avanzando per liberare Genova, bombardarono la città. –n.d.editore-]. Secondo i miei calcoli gli eventi bellici prendevano una piega che avrebbe tolto a tedeschi e italiani la voglia di occuparsi di me. Allora sarei ritornato. Stetti a Carsi venti giorni e nessuno mi riconobbe, poi di notte mi trasferii con un viaggio assai avventuroso al Santuario della Guardia dove rimasi a lungo. – Furono due mesi e mezzo di assenza. Ai miei genitori scrivevo impostando in località differenti. Qualcosa, non so come, seppero e la loro angustia fu grande. Per otto mesi non li vidi: infatti per recarmi a Montalto Pavese mi sarebbero occorsi tre giorni ed io non potevo abbandonare il mio posto per questo grave ed agitatissimo periodo. Fu soltanto nel Gennaio del 1945 che il mio caro e sempre compianto amico Malcovati, coraggiosamente mi portò a Montalto Pavese per rivedere i miei. Di là partimmo a girar la Lombardia tra neve, ghiaccio ed attacchi aerei a cercare da mangiare per la città di Genova. – A fine Febbraio 1945 era chiaro, ormai, che la guerra avrebbe durato poco. Pensai di portare nei dintorni immediati di Genova i miei Genitori. Infatti nella pianura padana e nelle colline adiacenti i fatti bellici avrebbero potuto travolgere, se non fosse intervenuta la vittoria degli Alleati in Francia, anche la collina Pavese. Per questo portai via i miei Genitori e li trasferii a Fontanegli in alcuni ambienti presi in affitto. Là attesero – e fu breve l’attesa – la fine della guerra. – Tutte le vicissitudini mio padre le prese come cose del tutto ordinarie: “così permetteva il Signore e basta!” Le vicissitudini significavano disagi anche notevoli. Ma la serenità era più forte: la preghiera e le opere buone stavano anche nel disagio. Era tutto per lui.
V.
IL GIUSTO
Il giusto non è un attore. La sua giustizia sta dentro. Mio padre parlò per la gran parte della sua vita assai poco di se stesso: gli era congeniale sentirsi all’ultimo gradino davanti a Dio. Per questo motivo noi abbiamo sempre per tanti anni saputo assai poco della vita interiore. Ci erano chiare le sue opere: mai lo abbiamo udito dir male di qualcuno, mai riferire pettegolezzi, mai azzardare giudizi duri e spregiudicati. Tutto questo ci portava a concludere sulla sua straordinaria capacità di controllarsi e vedere equilibratamente le cose. Quando qualcuno nella conversazione tendeva a condannare altri, lui era, sempre con discrezione, l’avvocato difensore: voleva si vedesse il bene che c’era e così stornava la attenzione dal male. Vedevamo la sua serenità abituale e fu per noi talmente abituale che non pensavamo al poderoso supporto che una serenità richiede. – Fu negli ultimi due decenni della sua vita che cominciò a parlare di sé, non con noi ma, per averne consiglio, con alcuni rispettabili Religiosi che egli frequentava e che lo visitavano. Così abbiamo conosciuto il più della sua vita interiore. La preghiera, quella orale la vedevamo, la sua assiduità alle opere di pietà era chiara. Soprattutto la perfetta assenza di ogni interesse mondano. Ho già avuto occasione di dire che egli non frequentò alcun divertimento, mai, che “mai” mostrò interesse o desiderio a passatempi mondani, talvolta amava la conversazione con vecchi amici, coi nostri parenti e intorno a questi era curioso di sapere tutto. Non era la curiosità leggera, era una forma di affetto. Quello con cui si apriva meno ero io. La riverenza portata sempre al figlio Sacerdote e poi Vescovo lo faceva chiudere in un pudico silenzio. A ragionarci su, in taluni momenti, il suo comportamento doveva rivelarci una solidità interiore. Quando fui fatto Vescovo, né si commosse, né si alterò; a me disse solo “avrai da fare” e tutto finì lì. Quando venne la notizia della mia elevazione al Cardinalato, gliela comunicai io, avendolo incontrato nel salotto dove tutti ci radunavamo in qualche momento della giornata. Non si scompose, solo mi fece una leggera carezza dicendo: “Povero figlio, adesso avrai da partire di più”. Detto questo, se ne ritornò in camera, poi venne a pranzo e non si parlò più di nulla. Era per lui un giorno come un altro. Siccome aveva allora già 79 anni e si era di Gennaio io ritenni più prudente non si esponesse al freddo ed ai bruschi cambiamenti di temperatura degli ambienti romani. [La parola “ambienti” potrebbe pure assumere altri significati, ad esempio: “circoli e ambienti politici”, probabilmente indicando pure gli sconvolgimenti in corso in Vaticano. L’anno sarebbe il 1953 – n.d. ed.]. Dissi che se ne stesse a Genova tranquillo. Quando ritornai diede una semplice occhiata ai miei abiti rossi e tutto finì lì. – Ma con altri, a poco a poco parlò. E questi, lui morto, misero in iscritto quanto avevano saputo, ciò facendo di loro iniziativa. E fu svelato il mistero di una vita tanto coerente, rettilinea, semplicissima, umile, probabilmente perfetta. – La unione con Dio era durata, nell’animo di questo orfano, tutta la vita. Tale unione era la ragione della sua inalterabile pazienza, della incredibile dedizione al lavoro, senza soste, senza ferie mai, senza requie, senza lamenti. – In questa unione mantenne sempre l’anima in grazia di Dio. Novantenne gli scappò di dire che né da ragazzo, né da giovane, né mai, si era macchiata l’anima di peccato mortale: era entrato nella età dei patriarchi colla stola battesimale. – Aveva la preoccupazione della perfezione nelle più piccole cose. Un giorno gli parve di non aver lavorato tanto da meritare il salario; prolungò di qualche ora il suo lavoro e così fu soddisfatto. – Questa precisione interiore di assoluta aderenza alla Legge di Dio riluceva dall’esterno: per tutta la vita ebbe una proprietà che ha impressionato tutti. Ne dovrò riparlare.
Il saggio svelava il giusto.
Non era di molte parole e raramente nella conversazione si animava. Ogni parola era per lui una questione di coscienza ed usciva dalla sua bocca dopo essere stata accuratamente ponderata. I fatti in lui assumevano una dimensione interiore, che durava lungamente, ma che gli permetteva talvolta al momento di dare la indicazione succinta, saggia, esauriente. – A nove anni io avevo già ottenuta la maturità (così si chiamava allora) elementare e perciò diventavo capace di adire alle scuole medie. Una sera dissi a mio padre – e non doveva essere una cosa nuova per lui che da sempre mi stava discretamente osservando – che mi sarei fatto prete e volevo entrare in Seminario. Mi disse semplicemente: “Hai nove anni, capisci quello che vuoi? E’ una cosa grave essere Sacerdote. Pensaci bene”. Risposi: “Sì, papà” e il discorso finì lì. In casa si era parlato di mandarmi alle tecniche in via Vallechiara dove insegnava scienze il buon canonico Morelli dell’Immacolata. Poi si convinsero che ero troppo piccolo per mandarmi con quei ragazzi, tutti più grandi, più adulti di me e spesso maleducati e maneschi. Così sentii dire. Si finì col mandarmi a fare in qualità di “uditore” la quinta elementare nella mia cara scuola “Descalzi”, dove incontrai il primo ed unico maestro dal quale sentii parlare di DIO! Era il signor Marcer, un veneto esemplare, col quale rimasi in comunicazione fino al termine della sua vita. Ricordo il vecchio ottuagenario che talvolta passava da me in Arcivescovado e che io riaccompagnavo a casa colla nostra macchina. – Passò l’anno. Al principio dell’estate io feci a mio padre questo semplice discorso: “Papà, ci ho pensato e sono ben deciso: voglio entrare in Seminario”. Mi disse: “Ci hai pensato davvero? Ebbene allora va”. E la partita fu chiusa. Mia madre non fece obiezioni. Ricordo quando mio padre mi portò dal Prevosto per dirgli della mia decisione. Fummo ricevuti nella grande sala della canonica dell’Immacolata. Ricordo esattamente il posto in cui ci sedemmo: fu cosa presto intesa. Del resto all’Immacolata, che era la mia seconda casa e dove io fungevo da capo dei chierichetti, capivano tutti che non potevo aver altra strada davanti a me. – La saggezza che lo rendeva uomo di consiglio per tutti, invocato e rispettato era la irradiazione di tutta la vita interiore. Non che questa fosse sempre facile e tranquilla: ebbe momenti di dubbio, ebbe periodi dolorosi di scrupoli e questo me lo disse lui quando mi parlava della sapienza e decisione con cui il suo confessore d’allora, Mons. Marcello Grondona – il mio grande parroco – glieli aveva curati. In età avanzata con qualche sacerdote parlò di periodi di tentazioni e persecuzioni morali fattegli da altri. Egli non declinò mai minimamente, e lo disse, perché aveva in mano sempre la sua grande arma: la preghiera. – Il controllo suo sulle parole quando riguardavano il prossimo era assoluto e non ammetteva infrazioni di sorta. Quando in casa dal di fuori arrivava qualche pettegolezzo, con un gesto che gli era abituale – una piccola sventolata di mano – accompagnata da un piccolo sorriso, disperdeva il discorso e tutto restava lì. Quanto sia stato un giusto lo vedremo nei capitoli che seguono e in un tempo in cui, morta la nostra mamma, non fummo solo io e mia sorella ad essere i testimoni della sua ordinatissima, ferma, serena e mite vita spirituale.
VI.
L’APOSTOLATO
Pensava sempre all’anima e alla salute eterna di quanti avvicinava. Noi abbiamo visto solo qualcosa di quello che ha fatto. Fu lui ad occuparsi di persone amiche perché ricevessero gli ultimi Sacramenti prima di morire. Li preparava lui. Come si facesse a persuadere certa gente io non lo so, perché io non assistevo mai alla scena, ma lui ci riusciva. – Era specialista per l’apostolato della Messa Domenicale; quanta gente ha portato a Messa quest’uomo che, per farla sentire agli altri, sentiva più Messe la festa! Ricordo che per parecchi anni ebbe la costanza di accompagnare un cieco. Si trattava di un vero miscredente, ma fu tale la pazienza con cui lo accompagnava a passeggio, furono tali i discorsi, che il pover’uomo accettò di cominciare a fare il cristiano e dovette a mio padre una fine serena, completamente illuminata dalla grazia di Dio. Fu solo per questo caso che mio padre una volta mi accennò alla gratitudine dimostratagli dal paziente prima di morire. – Il servire caritatevolmente gli altri in tutto, con l’arte di nascondere a noi, la sua preoccupazione per la loro salvezza irradiò da mio padre in modo che non posso chiamare ordinario.
Nascondeva.
In tutti gli anni in cui io stetti in Seminario, seminarista, professore, Vescovo e cioè dal 1916 al 1948 quando egli venne ad abitare con me dopo la ricostruzione del palazzo arcivescovile, io non potei molto osservare mio padre: vivevo fuori di casa. – Un giorno con don Mino andò a visitare l’Ospedale Gaslini ed ecco la scena rivelatrice che accadde. Fu condotto al secondo piano del reparto poliomielitici di lunga degenza, privi solitamente di visite familiari e per questo desiderosi di conversare con qualcuno. Papà si sedette in mezzo alla corsia: immediatamente una dozzina di bambini gli fu intorno ed egli li trattò con tanta dolcezza ed amabilità che gli si strinsero sempre più addosso; uno si rifugiò tra le sue braccia. Chiese loro notizie del loro papà e della loro mamma, si animò, rispose a tutte le infantili domande che i bimbi gli ponevano e seppe avviare tutta quella conversazione sulle verità del Catechismo. – Quelli che erano presenti dissero di avere ascoltata una meravigliosa lezione di Catechismo. I bambini andavano a gara nel dimostrargli che sapevano questo e quello della Religione, si entusiasmarono talmente che l’incontro rischiava di non finire più e dovette intervenire il Vicario dell’ospedale per interromperla, ché si era fatto ormai tardi. Si allontanò promettendo che sarebbe tornato. Chi era presente non si capacitava –e me lo scrisse – della forza di attrattiva e di comunicazione che, con tanta semplicità aveva il buon vecchio. Questa osservazione fu fatta molte volte da testimoni seri. E non sapevano che quel vecchio non era neppure andato a scuola ed aveva imparato a leggere e a scrivere da un vecchio sacerdote di Gameragna! – Io ho visto troppo poco di mio Padre, ma da quel che ho visto posso dedurne che il Catechismo doveva averlo insegnato a qualcuno tutta la vita. – Fece parte della Associazione Uomini di Azione Cattolica, perché questo gli sembrava un dovere indiscutibile: la Chiesa voleva così e non c’era niente da dire, bisognava fare così. – Alla Azione Cattolica mi ci portò lui. Ho ancora presente una sera del lontano ottobre 1914. Mi portò al Circolo parrocchiale della nostra parrocchia, fece la iscrizione, mi lasciò là e se ne andò. Ho conservato per molti decenni quel libretto di iscrizione dove erano segnate tutte le quote versate. In esse le mie quote si fermavano al mio ingresso in Seminario. Quella sera non c’era bisogno mi presentasse all’Assistente Canonico Enrico Ravano; mi conosceva perché da tempo ero chierichetto in parrocchia. – Ma dove egli era al suo posto più intimamente era il Terz’Ordine Francescano. Faceva parte della Congregazione del Terz’Ordine presso i Cappuccini del Padre Santo. Non mancò mai ed era esemplare il suo contegno. Quando fui in età di capire qualcosa di un Terz’Ordine, portò anche me e mi ascrisse. Tutte le domeniche ascoltava le pie esortazioni che taluni Confratelli più letterati facevano. A casa ripeteva tutto quello che avevano detto. Il compianto onorevole Antonio Boggiano Pico, che faceva parte della stessa congregazione del Terz’Ordine, finché visse mi parlò sempre della edificazione avuta da mio Padre. Mio Padre mi diceva della edificazione avuta da Lui. Lo stesso accadeva con l’Avv. Giuseppe Sciaccaluga. Noi si seppe niente, perché la regola di quest’uomo, forse la più eroica, era di nascondere tutto il bene che operava, ma credo di non essere stato il solo a venir portato al Terz’Ordine da mio Padre. Per San Francesco aveva una ammirazione ed una devozione particolarissima. – Ma c’è un altro aspetto del suo apostolato: quella di tacito e convinto sostenitore di quanto operava mia madre. Questa donna instancabile e generosa trovava modo di occuparsi di tutti nell’anima e nel corpo. Aveva un stile suo, completamente diverso da quello di mio padre. Ma tutto questo mette in risalto la sua silenziosa virtù. Sempre approvazione, consenso, incoraggiamento, riservandosi magari le parti più umili e meno appariscenti. – Non era contrario per noi ragazzi a qualche dosato passatempo. Io avevo licenza di frequentare il Cinema di Santa Marta ogni domenica. Era una appendice dei “Catechismi di Perseveranza”, magnifica opera fondata dal buon Canonico dell’Immacolata Mons. G. B. Pedersini. Ci potevo andare perché era provatamente serio quel cinema e perché finiva dieci minuti prima delle 16, tempo in cui cominciava il Vespro in Parrocchia. Guai se avessi mancato e, di fatto, non mancai mai perché scomparivo subito, sgambettavo per piazza Corvetto e via Assarotti ed alle 16 ero sempre in coro con i Canonici. Vorrei dire che da quel coro io non sono mai uscito in tutta la vita. Sono spiritualmente rimasto là. Mentre non era con me in chiesa, lui era certamente ad assistere qualcuno. – La conversazione, qualunque conversazione, appena poteva la indirizzava a cose più serie, più alte, più religiose. Non era pedante in questo, ma con quel suo fare mite, mai irruento, tranquillo, intercalato di silenzi eloquenti, ci riusciva. Ascoltava volentieri e sapeva ascoltare, dimostrando interesse anche quando quello che si diceva non poteva arrecargli alcun divertimento o sollievo. Anche tacendo quel suo bel volto atteggiato ad un sorriso appena abbozzato era per se stesso un animatore di quando si era insieme. La sua presenza, discreta, serena, tranquilla, non pesava mai. – A un certo momento quando l’età non gli permetteva di fare quello che faceva prima, il suo apostolato prese una altra direzione: col Rosario sempre in mano, colle frequenti e talvolta interminabili visite al Santissimo Sacramento, aiutava il lavoro apostolico di suo figlio. Il quale, su questa terra, non saprà mai quanto venga a lui e quanto vada a suo padre.
VII.
NEL PALAZZO ARCIVESCOVILE
Quando il 16 maggio 1946 cessò il segreto sulla mia nomina ad Arcivescovo di Genova, approfittando del fatto che solo in tarda serata giornali e radio ne avrebbero data notizia, uscii, per andare a pregare la Vergine nella mia Basilica dell’Immacolata. Per strada incontrai don Cicali, che mi accompagnò per un tratto. Poi presi il tram e me ne andai a San Fruttuoso per dare io la notizia ai miei Genitori. Poche parole, non si meravigliarono molto, non persero la serenità e si decise che quando fosse stato ricostruito in parte il palazzo arcivescovile, sarebbero venuti ad abitare con me. – Ci furono due anni di attesa. In questi due anni, la mamma morì e non ebbi la gioia di accoglierla ed assisterla in casa mia. Dopo la morte della mamma, papà restò ancora per nove mesi nella nostra casa di Via Giovanni Torti. La sera del 3 dicembre 1948 ci ritrovammo insieme nel palazzo arcivescovile. Da allora ho potuto seguire mio padre tutti i giorni. – Eravamo a corto di mobili, perché i pochi della casa paterna e quelli ancor più pochi delle mie due camere in Seminario non bastavano certo ad addobbare un palazzo. Ebbi il principio, con mio padre pienamente consenziente, di non fare alcuna spesa e di tirare avanti. Quando c’erano ancora tante vittime della guerra e tanti sfollati, non potevo certamente spendere danaro per me. L’avessi avuto! Un caro e vecchio amico venne un giorno a trovarmi e passando con me in una sala dell’episcopio dove non c’era neppure una sedia, mi chiese se non pensavo di arredarla. Gli risposi che finché ci fossero stati poveri a Genova, io, Vescovo, non potevo comperarmi dei mobili. L’amico – era il Comm. Luigi Frugonel – non disse niente, ma il giorno dopo, togliendoli dalla sua ricchissima collezione, mi mandò i mobili splendidi per addobbare quella sala. – La nostra vita in Arcivescovado cominciò così all’insegna della più autentica povertà. Con papà c’era don Mino, il mio compianto e indimenticabile segretario. A poco a poco la carità dei buoni diede all’arcivescovado una sistemazione decorosa. – Avevo portato la vita ordinaria e di famiglia all’ultimo piano, dove il servizio restava facilitato e dove avevo ridotto i solai ad abitazione. Ci siamo ancora oggi. Al piano nobile si scendeva e si scende solo per le udienze e le cerimonie. Gli ambienti grandi non mi sono mai piaciuti. Papà – allora andava verso i settantacinque anni – occupava la camera che oggi è del segretario. Quando l’età più greve imponeva di non lasciarlo solo nelle nostre frequenti assenze (erano intanto venute le suore di Santa Serafina a prendersi cura di noi e dell’arcivescovado) traslocò sul confine dell’appartamento delle Suore, dove aveva anche, con immediato accesso, un piccolo e fresco terrazzo. – Mi riesce veramente difficile dire che cosa abbia rappresentato per tutti noi la presenza di questo vecchio straordinario. – Mai imbronciato, mai duro, si illuminava chiunque incontrasse. Andava in punta di piedi, silenziosamente. Non voleva dare fastidio a nessuno. Nei primi anni insistetti perché andasse qualche volta in cucina a dare – se ne intendeva – qualche buon consiglio a chi cucinava. Lui non volle mai fare questo. Stentai a capirlo: era la sua delicatezza che intendeva, senza intromissioni, lasciare a ciascuno la libertà del suo dovere. Quando finalmente capii di che cosa si trattava, non feci più insistenze. – Nei primi sette od otto anni dovemmo spesso cambiare il servizio di casa e di macchina. La sua serenità e la sua umiltà si imposero a tutti. In quei primi anni accadde qualche guaio e non erano infrequenti i disservizi. Non ci accorgemmo mai di niente: papà vedeva, provvedeva lui di persona, diceva niente a nessuno e tutto era pacifico. Oltre la virtù aveva l’intelligenza di capire che in quelle circostanze non poteva accadere diverso e trovava saggiamente utile non fare questioni. – Vedeva tutto e nel convegno di famiglia dopo cena, tranquillamente, se era del caso, attirava la nostra attenzione. Scompariva sempre silenzioso, se lo si trovava era un sorriso mitissimo e discreto, poi non lo si vedeva più. – Era di un ordine ammirevole. Fino all’ultimo volle avere lui cura della sua stanza, la quale risplendeva per un nitore, una accuratezza straordinaria. Fino all’ultimo fu di una proprietà assoluta, anche nei minimi particolari. Negli ultimi anni soffrì, ad onta del complesso sano e forte, di una certa artrosi alle dita delle mani. Questo gli rendeva più difficile fare sbrigativamente qualunque lavoro. Continuò a fare e non si lamentò. Solo sapevamo che per essere in ordine alla Santa Messa delle 6,30 si alzava alle 5,30 e anche prima. – In tal modo la sua era una presenza che ingombrava nessuno, ma era la luce di tutti. – Non è difficile capire che la presenza del padre poteva costituire un certo imbarazzo per l’Arcivescovo. Il problema lo risolse lui. Se fosse stato un diplomatico consumato non avrebbe potuto far meglio. Metteva il naso in nulla e, salvo il rarissimo caso di qualche nostro parente, mai fece il “ponte” fra altri e me. Entrava, usciva, silenzioso, modesto e dignitoso; mai attaccò discorso con qualcuno, pur salutando tutti e pur rispondendo garbatamente a chi gli faceva i soliti convenevoli. Aveva chiarissimo, e lo fece sempre capire, il dovere di salvaguardare col suo contegno la libertà di azione e la dignità di suo figlio. Per questo era inappuntabile nel vestito e nel tratto. La sua dignità era tale nella mitezza, che nessuno mai osò servirsi di lui. Era il vecchio signore che si diportava come se in Arcivescovado fosse stato l’ospite di qualche ora. La conversazione con lui era sempre quella di un saggio luminosamente guidato da Dio. Restava con noi a tavola anche quando c’erano ospiti di riguardo, parlava poco, teneva il suo posto. Negli ultimi anni, se avevamo ospiti di gran riguardo, per essere più tranquillo, consumava il pasto in camera.
Tutto luce e mai ingombro.
La sua giornata era tutta divisa, quando aveva messe a posto le cose sue, tra le pie letture e la preghiera. Fin quasi agli ultimi anni usciva due volte il giorno. Era per andare a fare l’adorazione a Santa Marta. L’uscita del pomeriggio aveva l’appendice di un incontro coi suoi due coetanei e grandi amici, il Comm. Pizzorno (dell’Olba anche lui) e il Signor Gaggero. Talvolta c’era qualche sosta con qualche amico sulle panchine di piazza Corvetto. Negli ultimi anni, quando era quasi novantenne non volevamo andasse solo per un tragitto così lungo e con tanti difficili attraversamenti, era conscio che gli sarebbe potuto accadere qualcosa fuori e per questo portava sempre sopra di sé un piccolo portafoglio nel quale era la preghiera di chiamargli subito un sacerdote, se si fosse trovato in pericolo di morte, i dati per rintracciare noi e le indicazioni opportune. La sua precisione arrivava fin là. Le passeggiate si ridussero così al Gesù, dove passava lungo tempo in preghiera e dove credo molti ricordano ancor oggi la sua inconfondibile figura. Quando nel 1964, a causa del mio grave esaurimento si cominciò a passare alcuni mesi nella modesta casa Arcivescovile del Righi, venne con noi e la Cappella di lassù fu il suo luogo di abituale ritrovo. – La nostra casa, il cui silenzio Lui violava mai, eccettuati i tempi dei pasti e dei brevi conversari postprandiali, era piena di Lui. Direi che io avevo la sensazione fisica di quando era in casa e di quando era fuori di casa. – L’Arcivescovado, logicamente, confinava colla Curia, pertanto i contatti e gli incontri erano necessari. Mai una parola, mai un gesto, mai un apprezzamento su questo vegliardo compìto che passava educatamente, salutava, sorrideva anche se se ne andava per i fatti suoi. A poco a poco, anche silenziosamente egli apparve il padre di tutti. – Se in casa nostra non abbiamo mai sentito un diverbio, mai una sequenza di inutili lamentele, mai un cozzare sgarbato tra caratteri diversi, lo dobbiamo a questa silenziosa e operante presenza. – Io ho sempre avuto l’abitudine, se uscivo per funzioni o per altro, di presentarmi sulla porta della sua camera. Lo stesso facevo quando si ritornava. Lui era contento di questo, ma non ne fece mai una pretesa, tale da dar luogo a sfoghi se talvolta, per qualche motivo – magari la fretta o il ritardo – facevano [Per la prima volta abbiamo il rinvio a un “loro”, a quelli cioè che controllavano le azioni di Siri. –n.d.ed.-] accelerare il cerimoniale d’uscita: era sempre ugualmente tranquillo. Eppure vedeva tutto [Il padre vede tutto, capisce che Siri è un prigioniero dei suoi “custodi” e che deve fare come gli viene detto.–n.d.ed.].- Ancor oggi non riesco a capacitarmi di questo fatto. Se qualcosa accadeva, lui lo “sentiva”; se c’era qualche piccolo disguido in casa, parlando poi alla sera ci si accorgeva che gli era perfettamente noto. Naturalmente senza recriminazioni e lamenti. Noi ci siamo abituati alla perfezione e ci accorgiamo di questo solo oggi che non c’è più. La sua perfetta umiltà lo rendeva grande, ma in modo che non ce ne accorgessimo. In Arcivescovado riceveva quasi nessuno: qualche parente, ma di rado. Quello che, finché visse, fu il nipote prediletto – e ben lo meritava – che veniva spesso anche tutti i giorni, fu Agostino figlio della Zia Annunziata. Debbo ricordare qui questo caro cugino, così equilibrato e compito, affezionato a mio padre, la cui vita di lavoro e le cui circostanze di vita furono spesso tormentose. Si rassomigliava molto moralmente allo zio. Ebbe una malattia lunghissima, che fu un tormento contenuto e silenzioso per mio Padre. Quando gli annunciai la morte di questo caro nipote, disse nulla, scomparve e si rifugiò nella preghiera. – Al di là di questa vita silenziosa, rasserenante per tutti, si intravvedeva (non ci poteva essere altra spiegazione) la sua unione con Dio. Mio padre, più che vederlo, lo sentivamo. – Godeva di una piccola pensione, che gli dava una certa indipendenza economica. Ma questa e i cespiti della nostra casa di Via Giovanni Torti, sparivano silenziosamente nelle vie della carità. Egli non parlava mai dal bene che faceva. La sua figura ormai non solo era una luce dentro la casa, ma ne era un onore, rispettato e sentito.
VIII.
LA SUA ORAZIONE
Quest’uomo, che per la parte maggiore della sua vita non lo si vide fermo, impegnato sempre in un anche estenuante lavoro, non ebbe il lavoro come occupazione principale. La vera occupazione fu la preghiera.- Ma il più di questa vita profonda e reale egli accuratamente nascose. Bisogna penetrarvi a poco a poco. E’ il “modo” proprio della sua fede ad indicare la realtà interiore di una presenza divina. Scrive un teste, che ebbe forse le migliori confidenze di mio Padre: “Rimanevo ammirato del suo conversare così profondamente cristiano, della sua Fede sentita e vissuta; ma ciò che mi colpiva di più era l’equilibrio e il buon senso, la valutazione sicura ed obiettiva che sapeva dare a tutti i fatti della sua vita, piccoli e grandi. – Mi pareva che per lui la vita umana e cristiana fossero sempre state così armoniosamente connestate da non aver mai motivo di conflitto tra i doveri della Fede e gli impegni della vita comune. La sua Fede lo illuminava nei singoli problemi della vita umana, che lui risolveva con semplicità nella luce delle fondamentali verità cristiane”. – L’esterno, l’atteggiamento, anche quando era impegnato in cose comuni rivelava sempre una luce accesa dentro. – “Nella sua vita non c’era frattura o dissociazione tra l’uomo e il cristiano; aveva raggiunto una tale unità interiore, per la quale non faticava mai a trovare il giusto punto di equilibrio. Ordine e armonia esterni, sempre ammantati dalla tranquilla intelligente mitezza, celavano una continua liturgia interiore”. – Disse un giorno: “Il Signore con la Sua grazia, la Madonna con la sua protezione mi hanno sempre salvato da tutti i pericoli dell’anima e di questo debbo ringraziare Dio!”. Visse in mezzo a movimenti sociali spesso accesi ed anche esasperati. Egli amava parlare dei tempi della sua gioventù e pertanto nel non molto parlare suo quel clima affiorava. Rifiutò sempre di aderire a movimenti che non rispettassero pienamente la Religione: egli aveva fatta la sua scelta. Già anziano entrò nella Associazione Uomini di Azione Cattolica. – Ho già raccontato del Santo Rosario che, per non perdere tempo, recitava in strada andando al lavoro o venendone. La sua grande devozione era la SS. Eucaristia. Le Visite al Santissimo Sacramento, anche quando non poteva andare a trattenersi lungamente in adorazione davanti al Signore in Santa Marta o al Gesù, erano frequenti e lunghissime. Credo che per lui ormai vecchio questo fosse il più grande impiego del tempo se la carità non lo chiamava altrove. Una della più grandi e vere consolazioni date a mio Padre fu l’aver ottenuta la Esposizione quotidiana del Santissimo in Santa Marta. Sentiva tutte le Messe che poteva, e quando c’era penuria di inservienti, le serviva. La sua Comunione quotidiana durò gran parte della sua vita. Quando negli ultimi anni, gli impedivamo di alzarsi presto per ascoltare la Messa del Segretario alle 6,30, la sua preoccupazione era che ci fosse poi qualcuno a dargli la Comunione. Era tale il dolore che provava se questo incontro gli era negato, che quando dovevamo partire tutti per impegni ed in casa nessuno celebrava, ci raccomandavamo a qualche suo amico sacerdote perché gli usasse la carità di venire ad amministrargli la Santa Comunione. – Ne rivelava continuamente il bisogno interiore, con una insistenza che mi ha meravigliato più di una volta. Non la chiedeva la Comunione, supplicava. – Uno dei Religiosi che venivano a dargli la Comunione, noi assenti, scrive: “Accadeva nella casa del Righi. Si preparava a lungo a questo atto sommo di devozione. Riceveva la Comunione sempre in ginocchio in atto di profonda umiltà ed abbandono in Dio. Appena ricevuta la Comunione lo pregavo di sedersi e ciò faceva in spirito di ubbidienza, ma con un po’ di rincrescimento, perché la abitudine di tutta la sua vita era stata quella di restare inginocchiato davanti al Santissimo Sacramento. Prolungava il ringraziamento di oltre mezz’ora; anzi, se non era chiamato continuava a starsene in Cappella. Qualche volta raggiungevo l’abitazione Arcivescovile anche il pomeriggio e lo trovavo sempre – si era al Righi – o in cappella o in piedi in un punto del muro del bosco dal quale era visibile nel Cimitero di Staglieno il punto della Galleria di S. Antonino dove era sepolta la sua consorte. – Quando lo raggiungevo in Arcivescovado, nel Centro, lo trovavo sempre in Cappella. Solo negli ultimi anni si sedeva a sinistra dell’altare, dove rimaneva in profonda meditazione lunghe ore. Anche in ultimo quando il camminare non gli era troppo agevole, ogni volta che poteva era in Cappella (bisogna notare che in Arcivescovado, essendo la Cappella al piano nobile ed abitando noi tutti nel piano di tetto, doveva scendere e salire molti gradini). Ricordo un giorno in cui le Suore dell’Arcivescovado lo cercavano da ogni parte; lui era davanti al Santissimo Sacramento… Egli aveva abitualmente un comportamento dignitoso e signorile, nonostante l’umiltà della sua condizione, ma quando si recava in Cappella questo atteggiamento assumeva una nota speciale (era evidente alla porta): era sempre vestito di tutto punto come se andasse a festa: non si sarebbe mai permesso di recarsi in Cappella senza la proprietà che la Divina Presenza esigeva e che la sua Fede gli imponeva”. Allora aveva un atteggiamento esterno di grande umiltà, esprimeva un abbandono interiore, la preghiera appariva vivissima sulle sue labbra (salvo quello che diremo appresso), ed inspiegabilmente assumeva un comportamento di maestà nella positura del corpo. Sapeva di essere davanti al Signore, Creatore e Redentore. Spesso colpiva la letizia che assumeva il suo volto in quei momenti. – Nelle conversazioni spirituali che aveva coi religiosi che si succedettero nell’ufficio di Direttore era assetato di conoscere i profondi effetti che la Eucaristia produce nell’anima e nel corpo. Uno di questi conclude: “ …era un’anima Eucaristica”. – C’è qualcosa di più profondo, che noi potevamo cogliere confusamente dall’esterno, ma che hanno ben conosciuto i suoi Direttori. A questo punto non posso far altro che cedere loro la parola. – “Il suo cuore era generalmente unito a Dio. Si occupava per lo più di verità divine. La sua preghiera non era soltanto un colloquio con Dio, ma era soprattutto una ricerca amorosa e filiale di Dio. La ricerca diventò qualche volta fonte di profonda sofferenza… La espressione più consueta della sua preghiera era la meditazione. La sua mente era portata a pensare a Gesù Cristo e ad uniformare alla vita di Cristo, la sua vita”. – Scrive un Religioso, che gli fu vicinissimo negli ultimi anni: “Nelle mie conversazioni ho potuto constatare come le sue meditazioni fossero intonate a tutta la semplicità evangelica. Un giorno gli chiesi: “Ma cosa fa quando è in Chiesa e tiene lo sguardo fisso al Tabernacolo, oppure socchiude gli occhi?”. Mi rispose: “Guardo il Signore, lo Adoro e penso a Lui”. Voleva anche aiutarsi con libri di lettura spirituale, che gli servivano soprattutto nei periodi di aridità; ma poi, poco a poco, lasciò ogni lettura, perché gli era diventata un peso. Per lui era molto più facile, nell’intimo della sua cameretta, nelle lunghe ore di insonnia notturna, chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla contemplazione amorosa del suo Signore. Spesso però la sua mente era afflitta da tribolazioni contro la Fede e da tentazioni colle quali Satana voleva turbare la orazione di questa santa anima. Allora ricorreva alla preghiera vocale: il suo Rosario e il suo libro di preghiere sono egualmente consumati, perché all’uno e all’altro portava una fedeltà ammirevole”. – Un giorno chiese ad un amico come potesse recitare bene il “Pater”. Questi gli portò il commento sul “Pater” di San Francesco d’Assisi e da quel giorno la sua preghiera e la sua meditazione diventarono più profonde, più filiali, più semplici. – Il Rosario non lo lasciò mai e, anche negli ultimi tempi, costituiva il suo “Breviario quotidiano” – come diceva Lui – perché lo metteva in contatto con la Santissima Vergine. Se fece in tutta la vita qualche uscita, fu per visitare piamente Santuari Mariani. Prediligeva le “Grazie” di Voltri perché diceva di avervi ricevuto grazie segnalatissime, particolarmente una, della quale però non siamo riusciti a cogliergli i particolari. Era fedelissimo, come Terziario Francescano, alla recita dei 12 Pater e delle 12 Ave; era una grave pena per lui quando alla sera talvolta non riusciva a ricordarsi di averli recitati. – Un confidente si permise qualche volta di chiedergli come avvenivano i colloqui con Dio nelle lunghe ore che passava in Cappella, soprattutto in quella del Righi. Lui non si rendeva conto delle altezze spirituali che raggiungeva in questa lunga orazione e diceva: “Io adoro il Signore, Lo ringrazio e Gli chiedo grazie per i vivi e per i morti”. Pregava moltissimo per i Defunti, specialmente dopo la morte della mamma. Quando parlando gliene veniva il destro, portava il discorso sulla preghiera e sulla preghiera per i Morti. Quanta gente quest’uomo ha portato in Chiesa insegnando la preghiera di adorazione e lo spirito di riparazione! – Uno che lo conobbe a lungo scrive: “Ebbe un periodo di circa due anni in cui la sua anima ebbe una fortissima aridità spirituale: lo perseguitava il pensiero che le sue preghiere e le sue opere gli servissero a nulla e che Dio non gli volesse più bene. In questo periodo ebbe sofferenze grandissime, però continuò sempre la sua preghiera vocale e mentale. Questo stato di sofferenze interiori, che lui accettò con umile sottomissione, vinse affidandosi alla parola del Sacerdote. Servì a purificarlo ulteriormente e a renderlo maggiormente degno di una profonda unione con Dio. Il confidente dell’anima sua attesta che arrivò alla grazia della contemplazione! – Lo stesso racconta: “Negli ultimi mesi della sua vita, quando a stento si recava in Chiesa (e ad andarvi fu indomito), un pomeriggio andai a trovarlo. Aprii lentamente la porta della Cappella e lo vidi assorto con lo sguardo fisso ad una immagine della Madonna sopra l’altare. Lui non si accorse che io ero entrato nella piccola Cappella (quella del Righi) ed io rimasi ad osservare quel vecchio in quell’atto di orazione amorosa. Era immobile come una statua, col capo leggermente sollevato e gli occhi fissi in alto. Dopo qualche minuto gli posi una mano sulla spalla, ma lui non si mosse. Mi trattenni qualche minuto e poi lo scossi: parve svegliarsi da un sonno profondo. Gli dissi che ero lì da un po’ di tempo, ma che non volevo disturbarlo nella sua preghiera. Mi disse amorevolmente e con tanta umiltà: “Ero distratto”. Però io rimasi pieno di stupore e ritengo che in quei momenti egli si accostasse ad uno stato di estasi. In questo modo io lo sorpresi più volte”. – Da quanto ho potuto capire e da quanto altri mi hanno riferito, io ho tenuto un posto grandissimo nelle sue preghiere. Dava tutti i meriti della mia educazione a mia madre e aveva certamente capito quanto io debba a quella donna singolarissima e ferma; ma lui mi accompagnò sempre, dalla nascita, da quando lasciai capire le mie intenzioni, da quando entrai in Seminario, da quando fui sacerdote e da quando ebbi responsabilità nella Chiesa. – Lo spirito di preghiera era in mio padre il forgiatore di tutto. Si rifletteva nel suo modo di concepire il lavoro, tanto lo circondava di preghiera. Per lui il lavoro era un dovere sacro, una penitenza amabile, un mezzo di vita per sé e per la famiglia, un esercizio di virtù personale e di carità fraterna. Era un mezzo di liberazione, una fonte di letizia e di serenità, sempre chiesto ed accolto come un dono di Dio. – La preghiera era la ragione del suo distacco dalle cose. Questo distacco era edificante; non disprezzava i beni della terra, ma ogni cosa considerava come mezzo per salire a Dio. Per sé – e questo lo constatai bene nei 19 anni in cui visse con me in episcopio – cercò mai nulla, rifiutò tutto, per la sua camera non volle si cambiassero i mobili della vecchia casa, che aveva condiviso con mia madre. Restò nella modestia più assoluta. Volle la proprietà degli abiti, perché – diceva – “non doveva far fare brutta figura all’Arcivescovado”. – Questo distacco, in una vita per la maggior parte né facile, né comoda, gli mantenne sempre la virtù della speranza. Era continuo il suo ricorso alla Provvidenza. La menzione di Questa pareva una giaculatoria, anche quand’ero bambino e ricordo che molte volte mia sorella chiamava lui col nomignolo “provvidenza”. Tutto questo noi raccogliamo dai discorsi tenuti quando vivevamo insieme in Arcivescovado. – A proposito di “speranza”, così scrive un suo Direttore Spirituale degli ultimi tempi. “Un giorno mi disse che da giovane aveva ascoltato discorsi, fatti da persone anche serie, nei quali si discuteva se fosse possibile evitare il peccato mortale. Gli sembrarono strani questi discorsi su labbra di persone cristiane e sagge. Ricordò allora l’ “Atto di speranza” che aveva imparato da bambino ed in quello trovò immediatamente la risposta ai dubbi suscitati dagli incauti discorsi d’altri”. – Diceva: “Io ho sempre confidato nella bontà di Dio e con le preghiere ho avuto tutto ciò che Dio ha promesso. Egli ha fatto a me più grazie di quante ne abbia mai chieste e più grandi di quanto io abbia mai sperato”. – L’orazione lo aveva reso logico in modo singolare: non abbiamo mai notato una dissociazione tra quello che credeva e quello che faceva, tra quello che cercava di inoculare agli altri e quello che praticava lui. Abbiamo ora la strana sensazione che tutto quello che per l’intera vita ci è fin dalla nostra infanzia apparso ordinario, era invece perfezione. La sua preghiera semplice aveva – non so se creata – ma certo mantenuta, la sua semplicità di cuore, al punto di dare l’impressione che tutto gli fosse moralmente ovvio e facile. – Non era così: era stata preceduta dalla abnegazione e dal sacrificio col quale aveva mantenuto lo spirito di preghiera. Era come una luce che a poco a poco aveva disciolte le cose, eliminate le asperità, offerto costante il calore della sua luminosità. Eppure era prontissimo – già l’ho detto – nel vedere tutto, nel cogliere immediatamente e senza sforzo la sostanza di tutto, nel mettersi in posizione prudente nello sciorinare le sue risposte persino diplomatiche, ma sempre vere, sincere e chiare. Quella luce, che promanava dalla sua persona per il dono della orazione creava intorno a lui una atmosfera di soddisfazione, di ordine, di pace. Abbiamo anche questo capito quando ci è mancato! Tutti hanno sentito e detto – quanti lo hanno avvicinato negli ultimi anni – che questo vecchio pareva un autentico aristocratico dello spirito. Era solo la luminosità nella quale viveva. Era naturale che il confessore non trovasse mai (di questo abbiamo la attestazione negli ultimi anni) in lui neppure il peccato veniale o il più piccolo difetto. – Godeva quando noi raccontavamo, nei brevi incontri dopo i pasti, ma aveva un singolare contenimento della naturale curiosità: raramente chiedeva particolari e quando era l’ora, preciso come un orologio, si congedava, dava la buona sera e si ritirava in camera sua. Nei diciotto anni, che insieme passammo in Arcivescovado, mai chiese una informazione relativa al governo ecclesiastico. Non era indifferenza, perché gli piaceva sapere; la sua curiosità gli diede modo di esercitare una virtù in modo non comune. – Fino agli ultimi anni non si allontanò mai d’estate dall’episcopio, se non per qualche giorno, recandosi solo nella casa di mio cognato e mai sorella al paese dei nostri vecchi, Vara Superiore. Era contento di restarsene lì con la sola compagnia del nostro autista; allora rientrava in cucina, faceva la revisione di tutta la casa, faceva aggiustare, pulire, riordinare. Al ritorno trovavamo tutto messo a nuovo. Solo a novant’anni venne con noi a Trivero, nel periodo in cui io non mi ero ancora rimesso da un grave esaurimento. L’anno appresso venne con tutti noi a Peveragno: fu l’ultima campagna. – In casa camminava come se sfiorasse le cose, sempre silenzioso e raccolto; non lo si sentiva mai parlare forte; era il rifugio di tutti per quella dolcezza che mai lo abbandonava. Però vedeva tutto, fino all’ultimo non abbiamo potuto notare un attutimento della sua intelligenza, della sua straordinaria memoria, della sua intuizione. Negli ultimi anni l’artrosi alle dita delle mani lo obbligava ad una manipolazione lenta. Non sappiamo se fosse dolorosa, perché non l’abbiamo mai sentito lamentarsi. Per il resto fresco fino all’ultimo. L’umore mai cambiò, sapeva di essere vicino alla fine, ma godeva del diritto di una speranza che aveva coltivata tutta la vita.
IX.
LA FINE
Sul declinare di primavera del 1964, decisi di andare al Righi nella villa arcivescovile, come eravamo soliti ormai da tre anni. Quella modesta residenza, sufficientemente ristorata, era stata per anni adibita a sfollati della guerra, in difficoltà ad avere una abitazione. Avevo detto a me stesso che mai me ne sarei servito, ma col tempo quando il grave smog di Piazza Matteotti e soprattutto di via San Lorenzo cominciò ad avere maligna influenza su tutti gli ordinari abitatori del Palazzo Arcivescovile, compresi che dovevo pur tutelare la salute di quanti stavano con me e decisi di portare per alcuni mesi all’anno la residenza al Righi. Quell’anno papà non si dimostrò entusiasta di salire lassù; mi fece, contro il suo solito, qualche difficoltà. Capii più tardi che egli prevedeva la sua morte e che, stando al Righi, una tale evenienza poteva essere più gravosa per noi e per il medico. Tuttavia venne sereno e tranquillo: in fin dei conti al Righi, la Cappella era più a portata di mano e le sue soste in quella avrebbero occupato una parte della giornata. Quando talvolta usciva a fare quattro passi nel piccolo parco della villa raggiungeva l’angolo in fondo dove si poteva facilmente salire su un piccolo ballatoio di pietra che accompagnava il muro stesso, assai elevato sul livello stradale esterno. Da quel punto si vedeva tutto il Cimitero di Staglieno e, sulla sinistra, si poteva individuare il tetto della galleria di S. Antonino, dove nella seconda cella era la tomba della manna e dove era, accanto a Lei, il posto preparato per lui. Restava là a pregare. Nel Cimitero stavano le ossa di tanti conoscenti e anche di parenti nostri: lui non dimenticava mai nessuno. Si aveva la impressione che là egli fosse nella più bella compagnia. Quella vista gli era familiare e dolce. Se non era in casa lo si trovava là. Vi stette anche il giorno in cui alla sera anticipò la sua andata a letto per non rialzarsi più. La chiamata del Signore era vicina e la risposta era perfettamente tranquilla. – Fu la sera del 15 giugno a cena. Mangiò pochissimo. Prima della fine si alzò, si scusò di anticipare il rientro in camera perché si sentiva stanco. Sul momento non ci si fece caso. – Più tardi, nella tarda sera gli riscontrammo un attacco di febbre. Era mercoledì. Venne il Prof. Meneghini, suo medico al quale era affezionatissimo: la cosa non pareva allarmante. Scrive il suo medico, Prof. Meneghini: “Comparve una febbriciattola: lo visitai e costernato mi accorsi di una polmonite. Certo lui lo lesse sul mio viso o, forse perché io feci il possibile per nasconderlo, lo comprese il suo cuore, mentre io ne ascoltavo il battito sofferente. Quella volta e nei giorni che seguirono non mi chiese più nulla di sé: era pronto. Ed io per la prima volta non dissi più (con lui) la mia piccola bugia, sommersa dalla grande verità di quella ora di dolore”. – Egli in realtà aspettava fiducioso che la Santa Vergine lo aiutasse “perché – così disse a mia sorella – era stato un buon soldato e certamente Essa lo avrebbe preso per mano nel grave passo”. Seduto sul letto aveva per tutti il suo amabile sorriso; faceva impressione quella sua grande capigliatura folta, di argento brunito e quella sua grande pace. Parlava tranquillamente, anche del più e del meno quando c’era qualcuno di noi, non omettendo di ribadire le più minute disposizioni per la sua salma, la sua sepoltura accanto alla mamma, i suffragi. La morte si accostò in punta di piedi e con tutti i riguardi. – Il mattino del giovedì, me ne andai tranquillo al solito lavoro in palazzo Arcivescovile. Si delineava la polmonite, tuttavia – e non so perché – non eravamo preoccupati; papà non era affatto abbattuto, discorreva e questo ci pareva ancora un buon salvacondotto per la salute. – La verità ci apparve cruda il venerdì 17. Quella mattina attendevo come al solito alle udienze in Arcivescovado, quando venni avvertito che papà aveva avuto un collasso. Temetti questa parola come una pia bugia per dirmi che papà aveva finito di vivere. Volai immediatamente al Righi e vi trovai già sollecito il Prof. Meneghini: papà si stava riprendendo. – Ritenni prudente amministrare subito l’Unzione degli Infermi e chiesi senza ambagi a papà se potevo procedere. Senza alcuna emozione, tranquillo e grato disse: “Sì, sì”. La ricevette con uno straordinario raccoglimento e rispondendo a tutte le orazioni. La sua serenità quasi gioiosa si rifletteva su di noi. Poi stette meglio e si ricominciò o sperare. – In una alternativa di timori e di attese fiduciose passarono i giorni dal sabato 18 al mercoledi 22. Quel giorno Papà mandò a prendere la sua cappa di Confratello della Confraternita dell’Immacolata. Da molti anni l’aveva acquistata ed aveva sempre detto che voleva essere sepolto rivestito di quella sacra divisa. Quel mercoledì disse chiaro che era bene tenerla pronta al Righi, perché ormai l’avrebbe dovuta indossare.
Egli sapeva.
La sua preghiera, quando non c’era qualcuno a intrattenerlo, era serena e continua: ogni mattina continuava a ricevere, con una pietà commovente, la Santa Comunione. Tutti noi, la casa, eravamo immersi nella Sua serenità e nella sua pace. Volle confessarsi ancora e stette a lungo col suo confessore. Questi due giorni che precedettero la fine assunsero una dignità solenne. Ricevette tutti, a uno a uno, anche i mariti delle nipoti: a tutti diede gli ultimi avvisi e i ricordi con lungimirante saggezza, con tono sicuro, penetrante, scultoreo come se parlasse dall’eternità. Parlò anche a me e mi raccomandò di pregare e di avere coraggio. Ebbi l’impressione che si ricollegasse ad un discorso fattomi tre anni prima. [Siccome il padre del Papa in Esilio era un uomo pacato e di poche parole, si può azzardare l’ipotesi che il discorso sia stato fatto da un altro e delegato del figlio al padre. Il fatto che il padre non parla più per il rispetto che egli ha per l’autorità di figlio, non lascia dubbi sul fatto che la “conversazione” di tre anni prima, nel 1961, era circa il governo della Chiesa. –l’editore.]. – Non disse altro, perché in me vide sempre suo figlio, ma vedeva soprattutto il suo Vescovo. La riverenza che seppe unire all’affetto nei lunghi anni del mio episcopato, mi appare oggi in una luce di Fede singolarissima. Il 23 eravamo sereni: niente ci faceva prevedere la fine imminente. Dalla finestra aperta sentì le campane della Metropolitana, che annunciavano la solennità di San Giovanni Battista. Disse: “E’ l’ultima volta che sento queste campane”. Ci ritirammo tranquilli dopo il saluto serale. Ad una certa ora restò solo colla Suora infermiera; la notte passò senza sussulti, senza affanno finché si assopì. – Alle sei e venti del mattino, don Giacomo Barabino, mio segretario (Un giovane Giacomo Barabino è stato il primo dei “carcerieri” passati per “segretari” al fine di monitorare costantemente questo cardinale di così grande statura, Papa Gregorio XVII. Nel corso degli anni, la stampa ha mostrato le foto di un Barabino dagli ampi sorrisi, sottobraccio ad uno stordito [– drogato?] – Siri, con i laici circostanti guardare con sorpresa e preoccupazione i loro volti. A Siri è stato solo permesso di “consacrare” Barabino “vescovo”, nel 1974, e si dice che lo abbia fatto per tenerlo lontano. – [n.d.ed.-]) passò a vederlo per chiedere se era pronto a ricevere come al solito la Santa Comunione. Lo trovò pienamente in sé, lucido e sereno, seduto sul letto e pronto a ricevere il Signore. Mentre don Giacomo faceva i preparativi, chinò il capo e senza alcun movimento si spense in lui la ormai debole fiamma della vita. Era andato lui incontro al Signore. Mancavano pochi minuti alle 6,30. – La suora si insospettì: pareva che dormisse, avvertì don Barabino il quale si preparava a portargli la Santa Comunione; don Barabino avvertì me, che immediatamente accorsi. Era quasi seduto colla schiena appoggiata ai cuscini, colla testa reclinata in avanti. – Radunai tutta la famiglia arcivescovile per l’ultimo compito: quando era morta la Mamma ed io avevo intonato poco prima il canto della Salve Regina e poi la recita del Credo, papà mi aveva toccato il gomito: “Fate così anche quando morirò io”. Eseguii fedelmente. – Lui era ormai con Dio, aveva incontrato la Vergine Santissima e credo, dopo quasi un secolo aveva incontrato sua madre, che in terra non aveva conosciuto. Finalmente! – Era la solennità di San Giovanni Battista. Telefonai che quel giorno non ero in grado di tenere il Pontificale e andai a celebrare per l’anima di mio padre, per la comune umiltà colla quale si lascia la terra, ma con la possente fiducia che quella Santa Messa sarebbe servita ad altri. – Componemmo la salma nel vano che dalla Sagrestia immette nella Cappella del Righi. Quando lo vidi sul letto funebre, era sereno, ringiovanito, come se fosse tornato indietro di mezzo secolo. – I funerali si fecero in Metropolitana, presenti Arcivescovi e Vescovi, le Autorità con a capo il Ministro dell’Interno, il Clero. Celebrai io e Dio mi diede la forza di arrivare in fondo. – Dopo cominciò un’altra commemorazione, ad uno ad uno si fecero vivi i testimoni della sua carità e della sua dedizione, svelando quello che di lui vivo, non avevamo mai saputo. Riposa nella stessa tomba della mamma ed egli ripetutamente, anche gli ultimi giorni, aveva raccomandato che la sua bara non fosse messa semplicemente parallela a quella della mamma, ma parallela nel senso opposto, come per potersi vedere in faccia. Sorvegliai io stesso che fosse collocato così. Accanto a me c’era Mons. Alberto Castelli, Arcivescovo di Rusio e segretario della CEI. Ora anche lui, anima santa, è con Dio.1
________________________
1 E’uno strano modo di terminare il libro su suo padre, parlando di un altro uomo. Il Papa “in Esilio”, conclude così questo libro su suo padre in un modo inaspettato, parlando di un suo amico che ora è morto, del 1971. Ricordando che Giuseppe Cardinale Siri è stato il cardinale più giovane del Conclave del 1958, possiamo concludere che sta facendoci sapere che entro il 1971 tutti i suoi sostenitori Prelati, che sapevano che Lui era il Papa attuale, sono morti, e Lui è solo ad affrontare il compito di chi porta la Chiesa in Esilio. – Mons. Alberto Castelli morì il 7 marzo 1971. Egli fu arcivescovo titolare di Rusio, un comune francese situato del dipartimento dell’Alta Corsica nella regione della Corsica. –[-n.d.ed.]
Nota dell’Editore
Quando ho ricevuto questo libro nel 2005, mi sono resa subito conto che avevo in mano un gioiello che, sebbene originariamente pubblicato solo per amici e parenti, sarebbe stato un mezzo di edificazione per tutta l’umanità. Niccolò Siri visse consapevole di essere un aiuto per tutti, lui che dipendeva da Dio in modo assoluto. Vedete che la sua vita è un cammino di santità. Egli è stato naturalmente molto vicino a suo figlio, Giuseppe Siri, ed ha aiutato questo figlio in alcuni dei momenti più difficili che ha dovuto affrontare come Papa “occultato”, S.S. Gregorio XVII (dal 26 ottobre 1958 al 2 maggio 1989). – Nel contemplare la vita del padre, veniamo a conoscere la formazione e il carattere del figlio. Le lezioni di Niccolò a suo figlio erano chiare da capire. Il padre era soprattutto un uomo di preghiera che aveva messo tutta la sua fiducia nella Divina Provvidenza, e questa lezione l’aveva insegnata anche a suo figlio. – Non ci sono note nel testo originale, poiché esso venne scritto per chi conosceva Niccolò Siri intimamente. Le note sono mie, riportate come informazioni per il lettore nel tentativo di aiutare a chiarire e/o ampliare la possibilità di comprendere meglio il significato di certe espressioni. Come “Papa Occultato”, Siri era sotto un vincolo costante, e anche questo libro sarebbe stato approvato solo dopo una attenta rilettura prima di essere stampato.
Offro questo lavoro al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria per il trionfo del Suo Cuore nel mio cuore e nei cuori di tutti gli uomini dall’inizio dei tempi e fino al loro compimento. Deo gratias!
Nellie Villegas
27 luglio 2016