OMELIA della DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vang. di S. Matteo VII, 15-21)

sansone

– Peccato castigo di sé medesimo –

“Un albero malvagio, così Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, un albero malvagio non può produr frutti buoni”: “Non potest …arbor mala bonos fructus facere”. E che si darà uomo così folle, che si lusinghi raccogliere da uno spino grappoli d’uva, ovvero fichi da’ triboli? Eh che uno spino non può produrre che spine pungenti, e un tribolo non può dare che triboli aspri e molesti. “Non potest arbor mala bonos fructus facere. E qual è quest’albero malvagio? Egli è il peccato; qualunque altro male o di animo o di corpo, o di sostanze non merita il nome di male. Solo il peccato, il peccato solo è l’unico e vero male, è quella pianta infelicemente feconda di tutti gli altri mali, è quell’albero pessimo velenoso che produce frutti a sé proporzionati, pessimi cioè, maligni, avvelenati. – Ad accennarli in compendio, come richiede la strettezza del tempo, basterà il dire che il peccato è pena e castigo di sé medesimo, o si consideri secondo la natural ragione, o si riguardi secondo Dio. Passo a dimostrarvelo, se mi seguite con attenzione cortese.

I . Il peccato è pena e castigo di sé medesimo considerato secondo la natural ragione. Che cosa è il peccato? Egli è una violazione della legge eterna, scritta nel nostro cuore da Dio Creatore, regola infallibile d’ogni nostro operare. Ora un’azione qualunque, opposta a questa legge è un vero disordine, e siccome cosa fuori del suo ordine, trovasi in istato di violenza, la violenza stessa deve portare sconcerto tanto nel fisico, quanto nel morale; sconcerto che non può seguire senza pena e dolore, come un osso fuor dal suo luogo che reca spasimi, finché non torni alla propria giuntura; onde quelle stesse opere malvagie, dice lo scrittore della Sapienza, alle quali si determina l’uomo peccatore, si convertono in suo danno e in suo tormento. “Per quae peccat quis, per haec et torquetur” [Sap. XI, 17). – Vediamolo in pratica. Un uomo dedito al vizio del vino, non è egli vero che tosto perde la stima e la re putazione, che diviene l’obbrobrio del paese, e la favola delle conversazioni? Non è un castigo, per uno smodato e vile piacere di gola, restar privo dell’uso di ragione, rovinarsi la sanità, ed abbreviarsi la vita? Gli antichi Spartani, sebbene idolatri, avevano in sommo orrore questo vizio; onde per allontanarne i loro figliuoli, facevano a bella posta divenir ubriaco un loro schiavo; indi convocati i figli: mirate, dicevano, a che si riduce un uomo posseduto dal vino, come parla a sproposito, come va barcollando: ohimè! dà del capo or in questa, or in quella parete. Ahimè! Che cade stramazzone per terra, e sbalordito vomita un lago di caldo vino fetente. Ecco, o figli, i tristi effetti del vino e dell’ubriachezza; abbominate, o cari, vizio tanto vituperoso e dannevole. – Con più ragione adunque possiamo dire noi cristiani che questo peccato è un vero e palpabile castigò di sé medesimo: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. Che diremo poi del vizio del giuoco, di quel giuoco che forma l’occupazione de’ giorni anche festivi, prolungati sovente a notte avanzata? Di quel giuoco in cui si arrischia tutto il guadagno della settimana? Quante spine produce mai quest’albero maligno! Quanti rancori, risse, contrasti, collere, imprecazioni, bestemmie! Che notti inquiete senza chiuder occhi per un giocatore che ha perduto! Guai alla povera moglie, guai a’ figli, al primo in cui s’incontra un giocatore disperato. A quanti giusti rimbrotti si espone per la sua crudeltà in togliere il pane di bocca ai suoi figlioletti per sacrificarlo alle carte e alla sua malnata passione! Quanti per giuoco passano da una buona fortuna alla mendicità; quanti, a finirla, morti allo spedale lasciano raminga e pezzente la propria famiglia! Non sono questi i meritati castighi, che si trae addosso il peccato del giuoco disordinato e vizioso? Così è: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. E di quel vizio, che l’apostolo neppur vorrebbe si nominasse, del vizio e della disonestà, così universale nel mondo, che dovrò io dire? Io non vorrei camminare in questo fango, non vorrei maneggiare questa pece. Mi basterà mostrarvi nella persona di Sansone, che non v’è forse altro vizio che più di questo formi la pena ed il tormento del vizioso. Sansone, giudice in Israele, terrore de’ Filistei, onor di sua nazione, per la rea amicizia di Dalila donna venale, perde la riputazione, perde i capelli, perde la forza, perde gli occhi, perde finalmente la vita. – A tutte queste disavventure va incontro un impudico. Perdite d’onore, di sostanze, di sanità e della vita stessa, dacché non vi è peccato che più di questo acceleri la morte, e consumi la vita di chi n’è infetto, anche per fisiche cagioni. E ben lo sanno per dolorosa prova quei sciagurati, che ancor vivi, portano già le carni marce e infracidite. Qui sì che ci cade precisamente il detto del Savio: “Per quel che uno pecca, per quell’istesso vien tormentato:“Per quae peccat quis, per haec et torquetur”, peccato di carne, pena di carne. – Dite altrettanto d’ogni vizio. L’avaro è nemico di sé stesso, il superbo è da tutti aborrito, l’invidioso fa sangue cattivo, il ladro non ride sempre, il goloso si accorcia la vita. Insomma, siccome il ferro produce la sua ruggine, siccome il legno il suo tarlo, e il panno la sua tignuola, così il peccato, anche secondo la natural ragione, genera la sua pena, e il suo castigo.

II. Che sarà poi quando alla ragione naturale si aggiunga la giustizia di Dio? È verità di fede che il peccato deve esser punito. Siccome l’ombra segue necessariamente il suo corpo, così la pena necessariamente segue il peccato. E perciò una delle due, o dobbiamo noi castigare in noi stessi la nostra colpa, e distruggerla con vero dolore di animo umiliato e contrito, o pure Iddio offeso troverà ben Egli modo da prendersi la giusta vendetta. Ve lo ripeto, è di fede, che il peccato deve essere punito o in questa, o nell’altra vita: sentenza è data, e registrata nell’odierno Vangelo: “Omnis arbor quae non facit fructum bonum excidetur, et in ignem mittetur”. Ogni albero che non fa frutti buoni “excidetur”, ecco la pena temporale, “et in ignem mittetur” ecco la pena eterna. La strada dunque non passa: o punire il peccato colla sincera contrizione del cuore, e coll’opere di vera penitenza, o lo punirà Iddio colla sua giustizia. Se ne protesta Egli altamente (Ezech. VII, 9 ): “Scitis quia ego sum Domimis percutiens: si poenitentiam omnes simul peribitis” (Luc. XIII, 13). Suppongo qui che forse alcun di voi vada dicendo in cuor suo: Io ho peccato, continuo a peccare e me ne vanto talora nelle brigate degli amici pari miei, e pure vivo tranquillo, e non me ne è venuto alcun male : “Ne dixeris, Peccavi, et quid mifi accidit triste? [Eccl. V, 4]. Rispondo: quando si dice che il peccato chiama il castigo, non si asserisce che sarà castigato sull’istante: la pena non sempre scarica in sul momento sopra il peccatore. Non vi lasciate più passare nel pensiero, o uscir di bocca: io ho peccato e pecco, e non me n’è avvenuto alcun male. “Ne dixeris, peccavi, et quid mihi accidit triste?”. Ve ne avvisa lo Spirito Santo; perciocché l’Altissimo Iddio è un paziente distributore, “Altissimus enim est patiens redditur” [Eccl. ut supra]. Dio è paziente, dice S. Agostino, perché è onnipotente. Paziente, soggiunge S. Pietro (Ep. II, 3, 9), perché abbiate tempo a ravvedervi, perché vi aspetta a penitenza, perché vi vuol salvi; ma se voi abusate di sua sofferenza, il giorno di Dio destinato alla vostra punizione potrà tardare qualche tempo; ma un po’ più presto, un po’ più tardi vi coglierà, quando meno il pensate: “adveniunt autem dies Domini ut fur” (ibidem, v. 10). – Osservate i sempre giusti ed inscrutabili giudizi di Dio in ritardare o in accelerare i meritati castighi. Cento venti anni tardò il castigo di tempi di Noè minacciato agli uomini carnali: venne poi, e sommerse in un universale diluvio il mondo intero. – Venti anni stette nascosto ed impunito l’attentato de’ fratelli di Giuseppe da essi venduto in ischiavo: ma in fine la tribolazione, la prigionia e lo spavento di peggiori sciagure tolse loro di bocca la confessione, che il sangue del tradito fratello chiamava sopra di loro la meritata vendetta. – Tre anni Acab godé in pace la vigna usurpata a Nabot, e poi ferito a morte sparse nella stessa vigna l’ultimo sangue. – Un anno Davide riposò tranquillo nel suo peccato, ma dopo colla morte di due figli, colla ribellione di un terzo figlio, con mille altri infortuni provò quant’era pesante la mano di Dio vendicatore. – Poche ore passarono dalla calunniosa sentenza data da’ sordidi vecchioni contro la casta Susanna, ad essere sepolti, a furor di popolo sotto una tempesta di pietre. – Un istante, in cui Anania e Saffira confermarono una solenne bugia, bastò per farli cader morti a’ piedi di S. Pietro. – Or qui, miei cari, se siamo persuasi che peccato e castigo siano due cose inseparabili, se io e voi che mi ascoltate siamo peccatori, come in tutta verità dobbiamo confessare, che faremo per evitare l’ira di Dio armata a scaricarci sul capo i colpi di sua mano tremenda? Quale scudo al riparo, o qual via alla fuga? È questa l’interrogazione che in riva al Giordano faceva il Battista alle turbe ebree venute ad ascoltarlo. “Razza di vipere, gridava egli altamente, chi vi mostrerà il modo da fuggire la divina iracondia, che si va preparando a farvene sentire i più funesti effetti? “Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira” (Luc. III, 7). – Ecco ch’io vel suggerisco e vel predico: fate frutti degni di penitenza “Facite fructus dignos paenitentiae” (Luc. V, 3). Badate bene al mio avviso. Voi siete alberi malvagi, che non producono alcun buon frutto, e perciò la scure è già vicino alla radice che vi minaccia il taglio: e la condanna al fuoco: “Jam securis ad radicem; omnis arbor non faciens fructum bonzi excidetur, et in ignem mittetur” (Ibid. v. 2). – Altrettanto inculco a voi, fedeli miei dilettissimi: volete fuggire l’ira di Dio che vi sovrasta? Fate frutti, e frutti degni di penitenza. La vera e degna penitenza comincia dallo spirito contristato per l’orrore della colpa, e del cuore umiliato e contrito, ch’è quel sacrificio tanto a Dio accettevole che placa il suo sdegno. A questa interior penitenza fa d’uopo aggiungere l’opera di penitenza esteriore, l’osservanza de’ comandati digiuni, l’adempimento de’ propri doveri, la mortificazione de’ sensi, la pazienza, la rassegnazione alla divina volontà nelle tribolazioni, le preghiere, le limosine, le pratiche infine di soda cristiana pietà. Così facendo non avremo a temere i divini flagelli: saremo alberi ricchi di buoni frutti, frutti di virtù di vita eterna, che Iddio ci conceda.

La Cresima.

La Cresima.

[Mons. J.-J. Gaume: Il trattato dello Spirito Santo, vol. II, cap. XXIV]

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Il cristiano può adesso ammirarsi; ma egli deve soprattutto rispettarsi: Agnosce o Christiane dignitatem tuam . – Come tempio vivente dello Spirito Santo, Ei conosce i preziosi materiali con cui è costruito, ed i numeri misteriosi secondo i quali sono stati adoperati. Ma non basta una conoscenza generale. Fa d’uopo analizzare minutamente ciascuno degli elementi di questa creazione divina, incomparabilmente più bella e più degna de’nostri studi, che il mondo fisico con tutte le sue magnificenze. Per rimanere nei limiti naturali del nostro argomento, non parleremo né dei sacramenti in generale, né del simbolo, né del decalogo, né dell’orazione domenicale, quantunque tutte queste parti della divina costruzione sieno tante dipendenze ed effetti della grazia. La Cresima, le virtù, i doni, le beatitudini, i frutti, compongono il dominio diretto dello Spirito Santo. Tale è il campo più ricco di tutte le miniere della California, che .si apre alla nostra esplorazione. È di fede che i sacramenti, dandoci la grazia, ci danno lo Spirito Santo con tutti i suoi doni. Che forse ne vien di conseguenza che la Cresima sia inutile? Già noi abbiamo risposto negativamente, e dato la prova sommaria della nostra risposta. Bisogna svolgerla, e dire il fine speciale, o se si vuole, la ragione d’essere della cresima. « I sacramenti della nuova legge, ripeteremo con san Tommaso, non sono stabiliti soltanto per rimediare al peccato, e perfezionare la vita soprannaturale, ma altresì per produrre degli effetti speciali di grazia. Cosi dappertutto dove si presenta un effetto particolare di grazia, si rinviene un sacramento. » [“Sacramenta novae legis ordinantur ad speciales effectus gratiae; et ideo ubi occurrit aliquis specialis effectus gratiae, ibi ordinatur speciale sacramentum”. I II p., q. 71, art. 1, corp.]. – L’uomo venendo al mondo, non possiede che la vita naturale, e gli è necessaria la vita soprannaturale. Il Battesimo gliela dà. Tale è il fine speciale di questo sacramento. La debolezza fisica e morale è propria dell’infanzia. Se non fortificasse con l’età il suo corpo e la sua anima, l’uomo non diverrebbe uomo. Cosi è pure del cristiano. La forza gli è tanto più necessaria poiché è nato soldato. Destinato a lotte continue, la sua vita si definisce, una guerra. [“Militia est vita hominis super terram”. Job., VII,]. -L’antico Israele è la sua immagine vivente. Dai lidi del mar Rosso, tomba dei loro tiranni, gli Ebrei attraversano, dando continui combattimenti, il deserto che gli separa dalla terra promessa. Sette nazioni potenti ne disputano loro il possesso: ecco il cristiano. – Uscito dalle acque battesimali, con cui è stato liberato dalla schiavitù del demonio, per arrivare al cielo sua patria, gli è d’uopo attraversare il deserto della vita con le armi alla mano. La lotta non sarà contro esseri di carne e di sangue come lui; ma contro nemici ben altrimenti terribili, i principi dell’aria, le sette potenze del male. Evidentemente egli ha bisogno d’armi e di un maestro delle armi. In questa conferma, lo Spirito Santo si dà a lui come tale. Dice il Papa san Melchiade: « che lo Spirito Santo, scendendo nelle acque del battesimo, comunica loro nella sua pienezza la grazia che dà l’innocenza: nella cresima, arreca un accrescimento di grazia. Nel battesimo noi siamo rigenerati alla vita; nella cresima siamo preparati alla lotta. Nel battesimo noi siamo lavati; nella cresima siamo fortificati. ». [Apud S. Th,, III p.; q. 71, art. 1, corp.]. – Il Vicario di Gesù Cristo è l’eco fedele del divino maestro. A chi Nostro Signore riserba egli il miracoloso cambiamento degli Apostoli in uomini nuovi, e il cambiamento non meno ammirabile dei fedeli in martiri eroici? allo Spirito Santo che, disceso direttamente dal cielo sui primi, si dà ai secondi con la imposizione delle mani degli Apostoli, vale a dire mediante il crisma. – « Io vado, diceva tanto agli uni che agli altri, a mandare lo Spirito del Padre. Rimanete nella città, finché voi non siate rivestiti della forza dall’alto. Siate senza timore, e lo stesso Spirito Santo che parlerà per la vostra bocca e che vi darà una eloquenza tanto potente, che i vostri avversari non avranno nulla da replicare. »[Joan., XX, 16. — Luc. XXIV, 49; XX, 15]. – Come indica il suo nome, la confermazione è dunque il sacramento della forza: che essa sia stabilita per comunicarla al cristiano e fare di lui un soldato generoso, la Chiesa cattolica non ha mai cessato d’insegnarlo mediante i suoi concili, e la storia di provarlo con fatti luminosi. Di qui, quella dichiarazione solenne del Concilio di Firenze, cioè dire dell’Oriente e dell’Occidente riuniti sotto la presidenza dello stesso Spirito Santo: « L’effetto del sacramento della cresima, è di dare lo Spirito Santo come principio di forza, in quella guisa che fu dato agli Apostoli il giorno della Pentecoste, affinché il cristiano confessasse arditamente il nome di Gesù Cristo» [“Effectus autem confìrmationis sacramenti est, quia in eo datur Spiritus sanctus ad robur, sicut datus est apostolis in die Pentecostes; ut videlicet christianus audacter Christi confìteatur nomen”. Decret. ad Ann.]. – Il concilio di Magonza non è meno esplicito: « Secondo la promessa del Signore, lo Spirito Santo che noi riceviamo nel battesimo per la purificazione del peccato, si dà a noi nella cresima con un accrescimento di grazia, che ha per effetto di proteggerci contro gli assalti di Satana; d’illuminarci a fine di meglio comprendere i misteri della fede; di darci il coraggio di confessare arditamente Gesù Cristo e di fortificarci contro i vizi. Tutti questi beni il Signore ha formalmente promesso di darli ai fedeli per mezzo dello Spirito Santo, che doveva mandare. Tutte queste promesse sono state adempiute sugli apostoli il di della Pentecoste, come i loro atti ne porgono splendida testimonianza. 1 » [Conc. Mogunt, 1549, c. XVIII]. – Anche oggidì esse si compiono sui fedeli, nelle quattro parti del mondo, mediante il sacramento della cresima. La ragione è che lo Spirito Santo dimora sempre con la Chiesa, e che i suoi favori necessari per formarla, non lo sono meno per conservarla. Ora comunicandosi mediante la cresima, Io Spirito Santo opera parecchie grandi meraviglie nel cristiano, sua creatura privilegiata. La prima è una nuova Infusione della grazia santificante. – « La missione o la donazione del Santo Spirito, insegna san Tommaso, non ha luogo mai senza la grazia santificante, della quale lo Spirito Santo medesimo è il principio. È dunque manifesto che la grazia santificante è comunicata dalla cresima. Nel battesimo e nella penitenza questa grazia fa passare l’uomo dalla morte alla vita. Negli altri e nella confermazione specialmente essa accresce, ed afferma la vita( di già esistente. Questo sacramento perfeziona l’effetto del battesimo e della penitenza, nel senso che dà al penitente una remissione più perfetta de’ suoi peccati. Se un adulto, per esempio, si trova in stato di peccato senza saperlo, oppure se non è perfettamente contrito, e che si accosti alla cresima di buona fede, ei riceve mediante la grazia di questo sacramento la remissione dei suoi peccati. [III p., q. 71, art. 7, corp. et ad 1]. – La seconda è la grazia sacramentale. Oltre la grazia santificante, ciascun sacramento dà una grazia speciale, in relazione col fine del sacramento che la conferisce: e lo si appella grazia sacramentale. Nel sacramento della cresima è ama grazia di forza. Così la grazia sacramentale aggiunge qualche cosa alla grazia santificante propriamente detta. [“Gratia sacram entalis addit, saper gratiam gratum facientem comuniter sumptam, aliquid effectivum speciali effectus ad quod ordinatur sacramentum”. S . Thom. ubi sitpra, ad 8.] – Nella confermazione essa aggiunge la forza necessaria al cristiano: forza di memoria, per ritenere, senza mai dimenticarle, le grandi verità cattoliche, base e bussola della vita: forza d’intendimento, per comprendere la religione nei suoi dogmi e nei suoi precetti, nel dettaglio delle sue pratiche e nel suo magnifico complesso: nei suoi benefìci e nella sua storia, affinché tutte queste cose non abbiano nella nostra estimazione e nella nostra ammirazione né superiore né rivale. Forza di volontà, per tenere alto e fermo il vessillo cattolico, malgrado le diserzioni dei falsi fratelli, le persecuzioni del mondo, gli attacchi incessanti dell’inferno, e le interne sollecitazioni delle corrotte inclinazioni. Forza di tutte le facoltà in guisa, da armarle e da farle salire all’altezza della gran lotta,, delle quali l’anima è la posta, e il cielo la ricompensa. [S. Th., III p., q. 71, art. 1, ad 4, et art. 1, corp.]. – La terza è il carattere. In materia di sacramenti, chiamasi carattere un potere spirituale destinato a fare celate azioni nell’ordine della salute. [“Character est quaedam spiritualis potestas ad aliquas sacras actiones ordinate”. S. Th., ibid., art. 5, corp.]. Questo carattere è una grazia. Questa grazia è data allo scopo di distinguere quelli che la ricevono, da quelli che non la ricevono. Ogni grazia agisce sulla essenza medesima dell’anima. – Il carattere sacramentale è dunque interno, inerente all’anima e per conseguenza inammissibile. – Da ciò deriva che i sacramenti che l’imprimono non possono essere reiterati. « Vi sono tre sacramenti, dice il concilio di Firenze, il battesimo, la cresima e l’ordine che imprimono nell’anima un carattere, cioè dire un segno spirituale, distintivo e indelebile. » [“Tria sunt sacramenta, baptismus, confìrmatio et ordo, quae characterem, id est, spirituale quoddam -signum a caeteris distinctivum , imprimunt in anima indelebile”. Conc. Fiorent. decret. union.]. – E il concilio di Trento: « Se qualcuno dice che nei tre Sacramenti, battesimo, cresima e l’ordine non è impresso nell’anima un segno spirituale indelebile che impedisce di rinnovarli, sia scomunicato. » [“Si quis dixerit in tribus sacramentis, baptismo scilicet, confìrmatione et ordine, non imprimi characterem in anima, hoc est signum quoddam spirituale et indelebile, unde ea iterari non possunt ; anathema sit”. Sess. VII, 7]. – Il carattere essendo una forza, un potere, produce degli effetti reali in relazione con la sua natura e i bisogni dell’uomo. Cosi il carattere del battesimo distingue il cristiano dall’infedele, e gli comunica tutt’insieme la forza di compiere ciò che è necessario alla sua personale salute, e di confessare la sua credenza col ricevimento degli altri sacramenti ai quali dà il diritto. [“In baptism o accipit homo potestatem ad ea agenda, quae ad propriam pertinent salutem, prout scilicet secundum seipsum vivit Baptizatus accipit potestatem spiritualem ad protestandam fìdem per susceptionem aliorum sacramentorum”. S . T h ., III p., q. 72, art. 5, Corp. et ad 2]. -Ma non basta comunicare all’uomo la vita divina con i mezzi di conservarla, vivendo solitariamente. Bisogna da un lato che questa vita vada sviluppandosi come la vita naturale: e dall’altro, che il cristiano sia armato contro ai pericoli esterni, atteso che l’uomo è fatto per vivere in società. Mediante il carattere ch’essa imprime, la cresima soddisfa a tutte queste esigenze. Del cristiano essa fa un soldato. In esso ella aumenta la vita, della grazia ricevuta nel battesimo, e lo innalza alla perfezione. Ne risulta che il confermato può fare, nell’ordine della salute, certe azioni differenti da quelle di cui il battesimo l’ha reso capace. [“In hoc sacramento datur plenitudo Spiritus sancti ad robur spirituale, quod com petit perfectae aetati. Homo autem cum ad perfectam aetatem pervenerit, incipit jam comunicare actiones suas ad alios; antea vero quasi singulariter sibi ipsi vivit. S. Tohm., III p., q. 72, art. 12, corp.]. – Queste nuove azioni sono in rapporto, con la condizione del cristiano uscito dall’infanzia; e nel momento di entrare nella gran mischia che si appella la vita sociale. Certo la lotta contro ai nemici invisibili è la condizione di ogni anima battezzata dal giorno in cui ella si sveglia alla ragione. Ma il combattere i nemici visibili della fede, non comincia che più tardi nell’adolescenza, e al ruscire dal focolare domestico. Questi nemici sono i persecutori della verità; pagani, empi, libertini, corruttori, bestemmiatori, uomini e donne di tutte le condizioni, razza innumerevole che non sono, o che non son più cristiani e che non vogliono che si sia. – Il sacramento della cresima riveste il cristiano della forza necessaria contro questi nemici, a fine di sostenere nobilmente i combattimenti esterni della virtù. Vediamo ciò con l’esempio degli apostoli. Essi hanno ricevuto il battesimo, e nonostante si tengono nascosti nel Cenacolo fino al giorno della Pentecoste. Una volta confermati, escono dal loro ritiro, e senza temere né gli nomini né l’inferno, annunziano dappertutto la dottrina del loro maestro. Né le promesse, né le minacce, né le verghe, né le catene, né le prigioni, né le torture, né la morte non scuotono il loro coraggio. Così è altrettanto dei martiri. La quarta è l’accrescimento della virtù. Per comprendere questa nuova operazione, fa d’uopo scendere con la falce della filosofia e della fede, sino nelle profondità della natura dell’uomo e del cristiano. Nel cristiano vi sono due vite: la vita umana e la vita divina: ambedue si sviluppano su tante linee parallele; ambedue unite da leggi di conservazione e da rapporti di somiglianza, accusano l’unità di principio e l’unità di fine. – Siccome la quercia con tutta la sua potenza di vegetaazione, d’accrescimento e di solidità si trova in germe nella ghianda; cosi nel germe di vita umana e nel germe di vita divina; depositato in noi, si trovano in principio le forze, che più tardi si manifesteranno con atti, e si dischiuderanno in abitudini, d’onde dipenderà lo sviluppo dell’uomp e del cristiano. – Non vi è nessuno che non ammiri nelle piante questo lavoro di vegetazione e di accrescimento: potremmo noi seguirlo con minore interesse nella nostra debole natura d’uomini e di cristiani? Nello scoprire il segreto nel più umile vegetale, è la gioia del sapiente e il trionfo della scienza. Qual trionfo più nobile, qual gioia più viva di sorprenderlo in noi stessi. Il mezzo di giungere a questo risultato, è di farci una idea giusta di ciò che s’intende per abitudini e per virtù: per virtù infuse e per virtù acquisite; per virtù naturali e per virtù soprannaturali. – Chiamasi abitudine, una disposizione, o una qualità dell’anima, buona o cattiva. Essa è buona se è conforme alla natura dell’essere e del suo fine; cattiva se è contraria all’uno od all’altro. L’abitudine essendo una forza o un principio d’azione, dà luogo ad atti buoni o malvagi. Così, l’abitudine di agire con riflessione è buona, imperocché essa è conforme alla natura dell’essere ragionevole. Al contrario, l’abitudine di eccedere nel sonno, nel bere o nel mangiare, è cattiva: poiché essa tende a mettere al disopra ciò che deve stare al disotto, il corpo al disopra dell’anima. La virtù è una abitudine essenzialmente buona. Questa definizione mostra tutta la differenza che esiste tra l’abitudine propriamente detta, e la virtù. La prima è buona o cattiva, e porta al bene o al male. La seconda è essenzialmente buona e non può portare che al bene. – Di qui, quell’altra definizione, di sant’ Agostino: «La virtù è una buona qualità, o abitudine dell’anima, che fa viver bene, che niente può impiegare a male, e che Dio ha posto in noi, senza di noi. » [“Virtus est bona qualitas seu habitus m entis, qua recte vivitur et qua nullus male utitur, et quam Deus in nobis sine nobis operator”. De lib. arbit, lib. XI, c. XVIII]. -Nell’ordine puramente naturale, si distinguono le virtù infuse e le virtù acquisite. Le prime, come dice sant’Agostino, sono in noi, senza di noi; ma è chiaro che mediante gli atti spesso reiterati, queste buone qualità acquistano alla lunga una grande energia, e cosi sviluppate si appellano virtù acquisite. Meno che altrove non deve l’uomo attribuirsi ciò che appartiene a Dio. Nell’ordine naturale, come nell’ordine soprannaturale, è sempre sopra un fondamento divino eh’ esso lavora. I semi delle virtù acquisite sono in lui senza di lui. Il solo suo merito è nella coltura che egli dà ai doni del Creatore. E altresì gli atti che risultano dalla sua cooperazione, non raggiungono mai la perfezione del principio da cui essi emanano: simili ai ruscelli, la cui acqua è sempre meno pura, di quella della stessa sorgente. Le virtù naturali infuse o acquisite, procedendo da principi puramente naturali, cioè a dire non essendo che lo svolgimento della vita umana, hanno per termine la perfezione naturale. Il domandare ad esse di innalzare l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè dire di condurlo nella perfezione della sua vita divina, sarebbe assurdo. La ragione è chiara come la luce del giorno. In tutte le cose i mezzi debbono essere proporzionati al fine; dunque il naturale non può produrre il soprannaturale. Però il soprannaturale è il fine per il quale l’uomo è stato creato. Come vi perverrà egli? Con la sua ordinaria lucidità, san Tommaso ci darà la risposta. – Dice l’angelico dottore: « Nell’uomo vi sono due principi moventi: l’uno interiore che è la ragione, l’altro esteriore che è Dio. II primo generatore delle virtù pura mente umane, pone l’uomo in stato di agire, in molti casi, conforme alla rettitudine ed all’equità naturale. Ma ciò non basta; l’uomo è chiamato a vivere d’una vita divina. – Di questa seconda vita, lo stesso Spirito Santo è il principio. La grazia eh’Egli diffonde nell’anima al momento del battesimo, è un elemento divino, donde procedono virtù soprannaturali, coinè le virtù naturali procedono dalla ragione e dall’eleménto umano. Queste virtù prendono il nome di virtù soprannaturali infuse. – Esse non sono la grazia, molto meno le virtù naturali non sono la ragione; come pure l’atto non è la potenza: nè l’effetto è la causa. » – Avuto riguardo alla vita divina che é in noi e della quale dobbiamo vivere a fine di giungere al nostro fine ultimo, queste virtù soprannaturali sono altresì più necessarie delle virtù puramente naturali o umane. – « La virtù, dice san Tommaso, perfeziona l’uomo e lo rende capace di atti, in relazione alla sua felicita. Ora vi sono per l’uomo due sorta di felicità o di beatitudine: l’una proporzionata alla sua natura d’uomo, e alla quale egli può pervenire con le forze della sua natura; ma non senza l’aiuto di Dio, “non tamen absque adjutorio divino”: l’altra, superiore alla natura, alla quale l’uomo non può pervenire che con forze divine, imperocché essa è una certa partecipazione della natura stessa di Dio. Gli elementi costitutivi della natura umana, non potendo innalzare l’uomo a quella seconda beatitudine, è occorso che Dio sopraggiungesse dei nuovi elementi, capaci a condurre l’uomo alla beatitudine soprannaturale, come gli elementi naturali lo conducono ad una naturale beatitudine. » – Tutti questi elementi sono compresi nella parola grazia, la più profonda senza dubbio e la più bella della lingua religiosa. Ora, in capo alle virtù nate dalla grazia, stanno le tre virtù teologali : la fede, la speranza e la carità. Come prime espansioni alla vita divina esse ci mettono, come conviene, in relazioni soprannaturali con Dio, nostro fine ultimo, e loro oggetto immediato. – La fede deifica l’intelligenza, messa in possesso di certe verità soprannaturali, che la luce divina le fa conoscere. La speranza deifica la volontà, dirigendola verso il possesso del bene soprannaturale conosciuto dalla fede. La carità deifica il cuore, che essa spinge all’unione col bene soprannaturale, conosciuto mediante la fede, e desiderato per mezzo della speranza. Non solamente il cristiano dee vivere nei suoi rapporti soprannaturali con Dio, ma ancora con sé stesso, co’ suoi simili con la creazione tutta intera. Come adempirà egli a quest’ obbligo? Dal principio vitale soprannaturale in lui escono necessariamente come un nuovo getto, le quattro grandi virtù morali: la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza. – Noi diciamo necessariamente; la ragione è che Dio non opera con meno perfezione nelle opere della grazia che nelle opere della natura. Ora, nelle opere della natura non si trova un sol principio attivo che non sia accompagnato da mezzi necessari al compimento dei suoi atti propri. Cosi tutte le volte, che Dio crea un essere qualunque, lo provvede di mezzi per fare quello a cui è destinato. Ma infatti la carità, predisponendo l’uomo al suo fine ultimo, è il principio di tutte le buone opere che vi conducono. Bisogna dunque che con la carità siano infuse, e che dalla carità escano tutte le virtù necessarie all’ uomo, per compiere i suoi doveri non solamente verso il Creatore, ma verso la creatura. – Le quattro virtù morali essendo come il cardine su cui muovonsi in giro i rapporti dell’ uomo con tutto ciò che non è Dio, hanno ricevuto il nome di virtù cardinali. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 3, corp.]. – E con ragione; poiché da esse sono animati, diretti, informati soprannaturalmente i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre affezioni e i nostri atti, nell’ordine domestico e nell’ordine sociale. La prima è la prudenza. Questa madre delle virtù morali, che le dirige, come una madre dirige le sue figlie, si definisce: Una virtù che, in tutte le cose, ci fa conoscere, e fare ciò che è onesto, e fuggire ciò che non lo è. Questa definizione, ammessa del pari dalla filosofia e dalla teologia, mostra che non vi è virtù morale senza la prudenza. « Difatti, dice san Tommaso, viver bene, vuol dire operar bene. Non basta conoscere quel che c’è da fare, bisogna conoscere altresì la maniera dì fare. Ciò suppone la scelta giudiziosa dei mezzi. Alla sua volta questa scelta avendo rapporto col fine che si vuol raggiungere, suppone un fine onesto e mezzi convenienti per giungervi: tutte cose che appartengono alla prudenza. – Se voi gli sopprimete non vi è più virtù. La precipitazione, l’ignoranza, la passione, il capriccio, divengono il movente delle azioni; la stessa virtù sarà vizio. Dunque senza la prudenza non v’ha virtù possibile. [S. Bernard Serm. 40 super Cani]. Apprendiamo di qui qual regio dono fa lo Spirito Santo all’anima, dandole la prudenza, mediante il battesimo, sviluppandola per mezzo della cresima. Impariamolo eziandio dal bisogno continuo che abbiamo di questa virtù; poiché essa si applica a tutto. Parimente si distingue la prudenza personale, che insegna a ciascuno il modo di adempiere a’ suoi doveri verso sé medesimo, verso l’anima sua e verso il corpo suo. La prudenza domestica, che insegna al padre a dirigere la sua famiglia. La prudenza politica, che insegna ai re a governare i popoli in modo, da condurli al fine per cui Dio gli ha creati; la prudenza legislativa, alla quale i legislatori debbono le leggi eque ed i regolamenti salutari. Nemica della prudenza della carne, dell’astuzia, della menzogna, della frode, della sollecitudine esagerata delle cose temporali, la prudenza, figlia della grazia, è la gloria esclusiva degli abitanti della Città del bene. Essa forma la loro felicità; e se il mondo attuale cammina di rivoluzioni in rivoluzioni, se tutto in esso e malcontento, instabilità, febbre d’oro e di godimenti, bisogna attribuirlo alla perdita della prudenza cristiana ed al regno della prudenza satanica. La seconda virtù morale che esce dalla grazia, come il frutto esce dall’albero, e che matura al sole della confermazione, è la giustizia. La giustizia è una virtù che fa rendere ad ognuno ciò che gli appartiene. – Illuminata dalla prudenza, la giustizia soprannaturale rispetta innanzi tutto i diritti di Dio. Questi, come proprietario incommutabile d’ogni cosa, ha diritto a tutto e sopra tutto, per conseguenza al culto interiore ed esteriore dell’ uomo e della società. Qui la giustizia si manifesta mediante là virtù di religione, che comprende l’adorazione, la preghiera, il sacrificio, il voto, l’adempimento fedele dei precetti relativi al culto diretto del Creatore. «Essa rispetta i diritti del prossimo, ricco o povero, debole o forte, inferiore o superiore. Ad essa il mondo deve la fine dell’impiego dell’uomo a profitto di un uomo, dell’uccisione del bambino, della schiavitù, del dispotismo brutale, che pesò su tutti i popoli avanti la redenzione, e che pesa ancora su tutte le nazioni estranee ai benefizi del Vangelo. Essa insegna all’uomo a rispettare se stesso, la sua anima e i suoi diritti, il suo corpo ed i suoi, la sua vita, la sua morte e fino al suo sepolcro.Essa gli insegna finalmente a rispettare le creature governandole con equità, cioè conforme al loro fine: in spirito di dipendenza come in bene d’altri; con timore, come dovendo render conto dell’ uso che ne avrà fatto. Si immagini dunque ciò che diverrà il mondo sotto l’impero della giustizia soprannaturale!La terza virtù cardinale è la forza. Senza di essa la prudenza e la giustizia sarebbero lettere morte. Non basta aver cognizione del bene, nemmeno la volontà, bisogna averne il coraggio. Il coraggio è figlio della forza. La forza è una virtù che tiene l’anima in equilibrio tra l’audacia e il timore. L’audace pecca per eccesso, il timido per difetto, il forte tiene il mezzo tra l’uno e l’altro. [“Fortitudo est mediocritas inter audaciam et timorem constituta”. Apud Ferraris, Biblioth., etc., art. Virtus, n. 120]. – La forza ha un doppio ufficio, attivo e passivo. Attivo, in faccia al dovere perché affronta i pericoli: passivo, all’avversità perché oppone la pazienza. La magnanimità, o la grandezza di animo, la confidenza, il sangue freddo, la costanza, la perseveranza, la rassegnazione, l’attività, sono figlie della forza. Tutta questa famiglia, soprannaturalizzata dalla grazia, innalza il carattere dell’ uomo al suo più alto grado di nobiltà, intanto che essa produce nella vita privata, come nella vita pubblica, gli atti ammirabili che non si cessa d’ammirare, dacché lo Spirito Santo, diffuso nel mondo, gli ha resi così comuni. V’è egli bisogno d’aggiungere che per ragione delle circostanze presenti la forza deve essere, la grande virtù dei cristiani? forza per mettere, mediante il numero, la grandezza e la santità delle loro opere, un contrappeso alle iniquità del mondo; forza eroica per resistere agli attacchi eccezionali, di cui sono l’oggetto; forza per soffrire gli oltraggi inauditi, prodigati verso tutto ciò che hanno di più sacro e di più caro. La quarta virtù cardinale è la temperanza. È una virtù che regola l’uso del bere, e del mangiare; che reprime la concupiscenza, e modera i piaceri del senso. – Come le tre sue sorelle, cosi la temperanza è madre di una nobile e numerosa famiglia. La sobrietà, l’astinenza, la castità, la continenza, la verginità, il pudore, la modestia, la clemenza, l’umiltà, l’amabilità sono le sue figlie. Oh! vivano in un uomo, e quest’uomo diventerà il tipo del bello morale, la personificazione dell’ordine. – L’anima illuminata dalla prudenza, regolata dalla giustizia, sostenuta dalla forza, comanda al corpo; e il suo comandamento, eseguito con esattezza, allontana tutto ciò che degrada la natura umana. Lungi dall’uomo temperante, la gola, l’ubriachezza, la crapula, l’Impurità, la folle prodigalità, il lusso rumoso, i piaceri seduttori, in una parola, la vergognosa schiavitù dello spirito sotto il dispotismo della carne. Tale è la quarta virtù alla quale lo Spirito Santo comunica mediante la cresima, una nuova energia. Noi tralasciamo di dire se la temperanza in tutte le sue applicazioni, è una virtù necessaria ai cristiano moderno, condannato a vivere in mezzo di un mondo costituito tutto quanto sulla intemperanza. Benché sia difficilissimo in molti casi distinguere il naturale e il soprannaturale, la ragione e la grazia, questo duplice movente degli atti umani, come parla san Tommaso; nonostante la distinzione è reale. Costantemente ammessa dalla teologia cattolica, essa è fondata sul principio incontrastabile di una doppia vita nel cristiano. Vita puramente naturale come creatura destinata ad un fine naturale, e provvista di mezzi di pervenirvi. Vita soprannaturale, come figlio adottivo di Dio destinato ad un fine soprannaturale, imperiosamente obbligatorio per tutti gli uomini nell’ordine attuale della Provvidenza. Ne risulta che la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza sono altrettante virtù naturali infuse: ma tra la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza soprannaturali, grande è la differenza. Differenza nel principio: le prime procedono dalla ragione; le seconde dalla grazia. Differenza nel fine: le prime ci pongono in rapporti naturali e puramente umani col loro oggetto; le seconde in rapporti soprannaturali e divini. – Differenza nella efficacia: le prime sono inutili alla salute: le seconde non vi conducono. Differenza nella loro dignità: le prime si regolano secondo i lumi della ragione: le seconde, secondo i lumi dello Spirito Santo. Le prime fanno l’uomo onesto; le seconde il cristiano. Ora tra l’uomo onesto ed il cristiano, è tutta la differenza, che separa l’insetto che striscia, e l’uccello che vola. Un solo tratto ci fa pronunziare questo giudizio. La temperanza naturale, o filosofica per esempio, si limita a reprimere la concupiscenza del bere e del mangiare, in guisa da prevenire ogni eccesso, capace di nuocere alla salute, e di turbare la ragione; è il terra terra della virtù. La temperanza soprannaturale va più oltre. Essa conduce l’uomo a castigare il suo corpo ed a ridurlo in servitù, mediante l’astinenza nel bere e nel mangiare e di ciò che può lusingare i sensi. È la verità della virtù, la ratifica dell’ordine, mediante la subordinazione, completa della carne allo spirito, e dello spirito a Dio. Lo stesso è delle altre virtù. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 4, corp.]. – La differenza tra le virtù naturali e le virtù soprannaturali ci è nota. Ma in che cosa diversificano queste ultime da’ doni dello Spirito Santo? Questa questione è senza dubbio una delle più importanti che noi abbiamo da trattare. Nettamente risoluta, essa getta una gran luce sulla natura delle operazioni successive, per le quali lo Spirito Santo sviluppa in noi l’essere divino; mostra il nesso che le unisce senza confonderle; e fa risaltare con splendore l’azione necessaria di ciascuna. I seguenti capitoli saranno consacrati allo studio di questo meraviglioso lavoro, la cui cognizione chiamerà sulle nostre labbra l’esclamazione del Profeta: “Ammirabile è Dio nei suoi santi, ed è santo in tutte le opere sue”. [Ps. LXVII, 36]