DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». Il Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, « Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi ». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel. ), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso » (Vang.). « Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’Angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione ». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio », e « pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle strade si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te ». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo Nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi ». Questo Dio « sia benedetto nei secoli dei secoli » (Epistola). – L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda.

Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poichéla carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confiteor

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.


Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Deus, qui ineffábili providéntia sanctos Angelos tuos ad nostram custódiam míttere dignáris: largíre supplícibus tuis; et eórum semper protectióne deféndi, et ætérna societáte gaudére.

[O Dio, che con provvidenza ineffabile ti degni di inviare i tuoi angeli a nostra custodia: concedi a noi, che ti supplichiamo, di essere sempre difesi dalla loro protezione, e di goderne l’eterna compagnia].


Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum …

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6

 “Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in sæcula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

LA VOCAZIONE.

Come sono solenni e dense di significato le poche battute con cui si apre il brano domenicale della Epistola agli Efesini! Vi scongiuro, — dice l’Apostolo, e perché lo scongiuro sia più efficace e commovente, si chiama prigioniero di Dio (in Dio), — a camminare degnamente in quella che è la vostra vocazione. E il pensiero corre subito alla « vocazione » di Cristiani, quali erano proprio e tutti i suoi primi, immediati lettori. C’è sotto alle parole dell’Apostolo, una grande, una nobilissima idea di questa vocazione cristiana. È Iddio che chiama i suoi figli dalle tenebre del paganesimo, dalla penombra della religione naturale, alla luce del Cristianesimo. Ogni Cristiano è un chiamato da Dio. Molti lo hanno dimenticato, lo dimenticano. Credono che l’essere Cristiani sia la cosa più naturale del mondo: che si nasca Cristiani come si nasce bimani o bipedi, che la vocazione sia un privilegio di pochi, e precisamente di quei pochi che si avviano al Sacerdozio, oppure entrano in un Monastero. Idee piccole e false. Dio ci ha chiamati, tutti e ciascuno, noi Cristiani alla Religione nostra, al Cristianesimo, al Vangelo che è e rimane una grazia! Ci vuole Lui Cristiani. Manda i Suoi apostoli a battezzarci, a istruirci, a convertirci. Nobilissima vocazione, perché Dio ci chiama nel Cristianesimo mercè del Battesimo, ci chiama ad essere suoi figlioli: « ut fili Dei nominemur et simus. » Basta pronunciare bene, sillabando, meditando, questa parola fili Dei, per capire l’altezza di questa dignità e la gravità degli obblighi che ne conseguono. Bisogna rendersi, in qualche modo, degni del nome e del carattere di figli, ricevuti nel Santo Battesimo, con la bontà delle opere. Bisogna vivere da figli di Dio; vivere veramente da buoni Cristiani. C’è qui tutto un programma, riassunto ancor più largamente nelle parole di un Santo Pontefice, grande anima romana e cristiana, San Leone Magno: — Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e, diventato partecipe della natura divina (non è forse il figlio della stessa natura del padre?) non volere con una condotta degenere tornare all’antica bassezza e viltà. — Sentiamola questa dignità di Cristiani oggi meglio d’allora, oggi dopo quasi duemila anni di esperienza, dopo che, con la loro vita, milioni di Santi e di Eroi, ci hanno mostrato che cosa può produrre di eroico il Vangelo in un’anima, in una società. Diventare Cristiani col Battesimo, oggi, vuol dire ricevere una eredità gloriosa di bene, inserirsi in una corrente luminosa, calda, satura di ciò che vi è al mondo di più sacro e più augusto. E ciò non toglie che ciascuno di noi abbia anche una vocazione, una destinazione, una destinazione provvidenziale in un altro senso. Perché ognuno è chiamato poi dal Padre a servirLo in modo speciale. Nella Casa del Padre, ci sono molte mansioni, o funzioni, come in tutte le case bene ordinate, e ciascuno ha la sua, e tutte sono materialmente diverse ma tutte sono spiritualmente belle e nobili, perché nulla è ignobile nella casa del Padre Celeste, Iddio. E noi dobbiamo stare al nostro posto, fedeli e valorosi come soldati che montano la guardia, e lavorano, e combattono, sapendo di contribuire veramente a una sola, grande vittoria: la vittoria di Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]


Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogare”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

AMORE DI DIO

Nella legge ebraica si contavano generalmente 613 comandamenti. Come si faceva a ricordarli tutti e, peggio, ancora, a metterli in pratica? Di qui le lunghe discussioni per conoscere quali fossero gli indispensabili da sapere e da osservare. Un legista, meravigliato della saggezza con cui Gesù chiudeva la bocca ai suoi maligni nemici, si rivolse a lui per farsi indicare il comandamento più importante. « Il massimo e primo comandamento — gli rispose — è questo: ama il Signore Dio tuo con tutte le tue forze di mente, di cuore, di opere. Il secondo poi è simile al primo: ama il prossimo come te stesso. Tutti i precetti della Legge, tutte le prescrizioni dei profeti sono riassunti in questi due comandamenti d’amore ». Si badi bene come il Vangelo unisce sempre l’amore del prossimo all’amor di Dio; e S. Giovanni l’evangelista vi ha scorto una relazione così intima da giudicarli veramente inseparabili (I Giov., IV, 20-21). Per questa volta noi fermiamo l’attenzione soprattutto sull’amor di Dio. – Un principe russo, camminando per una strada campestre, si imbatté in una contadina che reggeva in braccio un bambino e lo allattava. Ella era ancor giovane e il bambino poteva avere sei settimane. D’improvviso la donna mandò un grido di gioia: per la prima volta da che era nato, il bambino aveva sorriso a sua madre, incominciando a riconoscerla. Il principe vide allora la contadina guardare in alto e farsi devotamente il segno della croce: « Perché fate questo? » le chiese. Ed ella gli rispose: « Come una mamma è lieta allora che scopre il primo sorriso del suo bambino, così Dio gioisce ogni volta che dall’alto dei cieli scorge un atto d’amore » (Cfr.: L’idiota di Dostoievsky). Dio è amore; e l’amore è il sorriso con cui gli uomini cominciano a riconoscerlo come Padre. Perciò egli vuole che essi lo amino con tutta la loro mente, il loro cuore, con tutte le loro opere. 1. CON TUTTA LA MENTE. Per amare davvero Dio con tutta la mente, occorrono tre cose: a) Bisogna tenerla sgombra da ogni pensiero vano o cattivo. L’amore di Dio, nella nostra mente è come la stella luminosa, incoraggiante, orientatrice; ma i pensieri vani o cattivi sono come la nebbia e le nuvole che soffocano quel mite splendore sotto una coltre opaca. Ricorderò un profittevole fatto storico. I Medici, potente famiglia che teneva la signoria di Firenze, avevano imprigionato e condannato a morte nel 1512 un cittadino di nome Pier Paolo Boscoli perché ardente repubblicano com’era, aveva congiurato contro di loro. Dovendo egli morire, sul punto estremo fu avvicinato dal famoso artista Luca della Robbia che lo confortava a rassegnarsi e raccomandarsi a Dio. Ma il Boscoli che aveva letto moltissimo e aveva la mente ingombra di idee rivoluzionarie assorbite man mano leggendo, non riusciva a fissare il suo pensiero nel Signore, e gemeva: « Deh, Luca, cavatemi dalla testa quelle scene e quelle idee, acciò ch’io possa almeno morire da Cristiano! » (« Arch. Stor. It. », I, 1842, pagg. 289-290). Come possono pretendere di vivere da Cristiani, quelli che hanno la mente piena delle figure invereconde viste al cinematografo, o sui giornali, degli intrecci impudichi di tante novelle e romanzi, delle parole equivoche e oscene raccolte nei crocchi degli amici? È impossibile che riescano a pregare con qualche raccoglimento, con qualche consolazione. b) Bisogna pensare spesso al Signore. « Vi capita di restar lungo tempo senza pensare a Dio? » fu domandato un giorno a S. Francesco di Sales; ed egli con semplicità poté dare questa risposta: « Quasi un quarto d’ora ». A un’eguale domanda, che cosa potremmo rispondere noi: Forse appena due volte, una volta al giorno; forse appena una volta alla domenica quando veniamo a Messa, se pur non si è anche allora distratti; forse da qualcuno si sta dei mesi senza ricordarsi di Dio. Eppure, non mancano, nella giornata, frequenti occasioni di pensare al Signore. Tutti almeno due volte al giorno dobbiamo sollevare a Lui la nostra mente: al mattino e alla sera. Poi, secondo l’ammonimento di S. Paolo, dobbiamo sforzarci di ricordare il Signore più spesso che possiamo: prima e dopo i pasti, prima e dopo il lavoro, nella gioia e nel dolore, e specialmente nel momento della tentazione. Così spontaneamente fa chi ama una creatura, e così dobbiamo fare noi se amiamo il nostro divin Padre e Creatore. c) Bisogna cercare di conoscerlo sempre più e sempre meglio. Chi ama con tutta la sua mente il Signore frequenta la dottrina cristiana, studia il catechismo, legge il Vangelo o qualche buon libro che parla di Lui, della sua Chiesa, dei Santi, dei Missionari. – 2. CON TUTTO IL CUORE. S. Agostino, predicando al suo popolo d’Ippona, dopo d’aver spiegato la bontà del Signore, uscì in questa domanda: « V’ha al mondo, o fratelli, qualche cosa che voi non sapreste sacrificare all’’amor di Dio? Se da una parte voi aveste radunati tutti i tesori, tutti i piaceri, tutti i beni del mondo, e, avendo dall’altra Iddio, foste costretti nell’alternativa di perdere o Uno o gli altri, che fareste voi? » A tali parole un grido potente, unanime si sollevò da tutta l’assemblea: « Vadano i beni della terra, ma ci resti Dio — Maneat nobis Deus, pereant universa! ». Quel popolo amava Dio con tutto il cuore; poiché amar qualcuno con tutto il cuore vuol dire preferirlo a tutto e a tutti. Dio non lo si può amare se non con questo amore di esclusiva preferenza perché Egli vale più d’ogni altro bene. Bisogna dunque amarlo più di qualsiasi fortuna; e se il suo amore lo esige, bisogna essere preparati a rinunciare a qualsiasi guadagno. Non possediamo noi qualche cosa che invoca il suo vero padrone? Non c’è nel nostro lavoro, nel nostro commercio, nella nostra industria qualche profitto ingiusto? Se così fosse, l’amor di Dio, ne esige subito la rinuncia e la riparazione. Bisogna amarlo più di qualsiasi onore; per quanto ambito e grande sia; e se ci sono degli onori che sono per noi occasioni di peccato, e che si possono conservare solo conculcando la coscienza, l’amor di Dio ne esige la rinuncia. Bisogna amarlo più di qualsiasi affetto umano anche del più caro e tenero: e se  tra i nostri affetti ve ne fosse qualcuno che non s’armonizza con l’amore di Dio, che sia riprovato e condannato dall’amore di Dio, bisogna combatterlo, soffocarlo, strapparlo dal nostro cuore senza indulgenza. Oh, so bene tutte le sottili ragioni, tutti i pretesti che si possono addurre e di fatto s’adducono per giustificare certe amicizie, certi affetti pericolosi: ma io vi dico appoggiato sopra una esperienza che non sbaglia e sopra la voce della vostra  stessa coscienza invano soffocata, che i vostri sono pretesti e non vi scusano. Se voi conservate il diritto di esserci, voi contendete il vostro cuore a Dio, voi lo dividete, fate delle parti illegittime, Dio è totalitario: o lo si ama con tutto il cuore, o non lo si ama per niente. – 3. CON TUTTE LE OPERE. L’amor di Dio deve essere « operoso », cioè non lo si può e non lo si deve far consistere in semplici parole, in sospiri, in formule meccaniche di preghiera, ma nelle opere. Non è raro il caso di udire anime buone lamentarsi così: « Ho l’amor di Dio, ma: io non lo sento!… ». Non c’è bisogno di sentirlo, perché non è richiesto l’amor « sensibile », ma è richiesto l’amore « operoso ». Le vostre opere vi diranno se davvero amate Dio, poiché la prova infallibile dell’amore non sono le parole, bensì i fatti. « Non chiunque dirà: Signore, Signore; ma chi farà la volontà del Padre celeste, entrerà nel regno dei cieli » (Mt., VII, 21); « chi osserva i miei comandamenti, è quello che mi ama » (Giov., XIV, 21). E bisogna osservare tutti i comandamenti, perché bisogna amare Dio con tutte le opere. Non ama Dio con tutte le opere quel giovane fedele negli altri comandamenti, ma non nel sesto. Non amano Dio con tutte le opere quegli sposi, anche buoni in molti punti ma non in quello d’accettare la legge di Dio nel matrimonio. Non amano Dio con tutte le opere quei padroni che, benché devoti e onesti, sfruttano l’operaio, ricompensandolo così scarsamente che non gli è possibile una vita civile e decorosa. Non amano Dio con tutte le opere quelli che potendolo non soccorrono i poveri, gli ammalati, gli afflitti. Questo della elemosina e del conforto verso i fratelli bisognosi è il segno più sicuro del vero amor di Dio. – Prima che il Beato Giovanni Colombini si convertisse, sua moglie Biagia dei Carretani aveva pregato tanto perché il marito si desse a miglior vita. Giovanni non era uomo delle mezze misure, il poco o la metà per lui non contavano: o tutto o nulla. E quando si volse a Dio, si diede a Lui con tanta interezza di pensiero, di cuore e di opere che la moglie rimasta nella sua mediocrità spirituale non poteva capirlo: « Non sei stata forse tu a pregare perché mi convertissi? ». « Sì; — ella rispose — ma io pregavo che piovesse non che venisse il diluvio ». La psicologia di quella donna, è pur quella di tanti Cristiani. Vorrebbero essere buoni ed amare Dio per quel tanto che basta, secondo la loro opinione, a tacitare la coscienza e scampare dall’inferno; ma non fino al punto di rinunciare anche a tutti i comodi e piaceri, specialmente a qualche abitudine o affetto caro sopra ogni altro! Il Vangelo insiste sulla necessità d’un amore totalitario a Dio. « Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente ». — AMORE DEL PROSSIMO. Quando una persona cara è sull’atto di partire, per una lontananza che forse sarà senza ritorno, con quale batticuore si godono le ultime parole! Le ultime parole in cui, chi le dice, mette il suo cuore e la sua volontà per sempre; e colui che le ascolta le porta con sé come una preziosissima eredità per sempre. Giuda era uscito e la notte s’era fatta in giro al cenacolo. C’era Gesù che stava per partire da questo mondo e diceva le ultime parole ai suoi « Figliuolini! ». Non li aveva mai chiamati così; questa espressione di suprema tenerezza aveva voluto riservarla per l’ora della separazione. « Figliuolini, sono gli ultimi momenti che sto con voi; poi mi cercherete invano. Prima di partire vi lascio il mio comandamento nuovo: amatevi tra di voi » (Giov., XIII, 33). Nel Vangelo di questa Domenica v’è un’altra scena importante. È un dottore della legge che domanda a Gesù: « Maestro, qual è il più gran comandamento? ». E a lui Gesù: « Amerai il Signore con tutte le tue forze. Ma v’è un altro comandamento simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso ». Nessuno può amare Dio, se prima non ama il suo prossimo. Coloro che non hanno carità verso i loro fratelli, s’illudono d’amare il Signore. Ecco perché Gesù Cristo, morendo non ha ricordato l’amore a Dio, ma solo l’amore al prossimo. Ecco perché Gesù ha detto che i suoi discepoli si riconosceranno non per l’amore di Dio, ma dall’amore che porteranno al prossimo. Ecco perché S. Giovanni Evangelista vecchio predicava continuamente così: « Figliuolini, amatevi tra di voi ». E quando gli uditori stanchi gli chiesero: « E poi? » rispose semplicemente: « E poi, basta ». Diliges proximum tuum. In che modo si ama il prossimo? Non a parole, ma coi fatti: con l’aiutarci e compatirci. – 1. AIUTARCI. S. Paolino incontrò una volta una donna che piangeva sconsolatamente. Ella aveva un unico figliuolo, e le era stato fatto prigioniero, e non aveva un soldo per liberarlo. Il santo che non aveva denari, né roba, nulla fuor che la sua persona, si esibì a quella povera mamma per essere egli stesso venduto, così, col prezzo ricavato, potesse poi liberare il figlio. Fu accettata la proposta e S. Paolino venduto schiavo, per molto tempo fece l’ortolano. Ma poi si venne a conoscere la sua santità e il padrone impietosito lo liberò. Ecco come i santi sanno interpretare il gran comandamento della carità: fino all’eroismo dei più forti sacrifici. Se noi per il nostro prossimo non siamo stati capaci mai di patire qualche cosa, non possiamo dire d’amarlo. È vero: non sempre è possibile ad ognuno far quello che ha fatto S. Paolino, ma quanti mezzi noi abbiamo per aiutare il nostro prossimo, che non abbiamo usato mai! Anzitutto la preghiera. S. Teresa, fanciulletta ancora, aveva udito parlare di un gran delinquente, di nome Pranzini, condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva anche temere della sua eterna salute. Allora la piccola santa cominciò a pregare perché quello sventurato prima di morire sì convertisse e salvasse così la sua anima dall’inferno. L’indomani della esecuzione della sentenza, ella aperse con tremore il giornale. Il Pranzini era salito sul patibolo senza confessione, senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando, come riscosso a un tratto da. una improvvisa ispirazione, Si volta, afferra un Crocifisso presentatogli da un sacerdote, e bacia tre volte quelle santissime piaghe. Nella nostra piccola esperienza possiamo anche noi conoscere qualche persona che vive nei peccati; magari è una persona di casa nostra, del nostro paese. Invece di mormorare, di calunniare, di fingerci scandalizzati, preghiamo Iddio che le usi misericordia, che la tocchi nel cuore e la converta. La preghiera è il primo aiuto che noi possiamo dare al prossimo, ed è il più utile, il più importante, perché se noi possiamo far qualche cosa e con stento, Dio può far tutto e in un attimo. Anche con il consiglio, dobbiamo aiutare il nostro prossimo. San Sebastiano, nascostamente, ogni giorno scendeva nelle carceri ad esortare i Cristiani al martirio. Quando s’accorse che i due fratelli Marco e Marcelliano, inteneriti dalle lagrime dei parenti, avevano paura di morire per la fede di Cristo, così li consigliò: « Fratelli eccovi già vicini alla meta gloriosa e voi volete tornare indietro? I pianti di una donna e le grida de’ vostri figli vi faranno dunque cadere dal capo una corona gloriosa? ». A queste parole i due fratelli si rincorarono al martirio. Una buona parola, un amorevole eccitamento, un saggio consiglio suggerito con bel modo, e a tempo opportuno, può portar frutti più abbondanti che non un intero quaresimale. Un consiglio buono è più prezioso dell’oro e dell’argento; è una guida esperta in una strada oscura. V’è una fanciulla che usa una moda immorale, oh, se una compagna umilmente e con amore la consigliasse ad allungare le vesti come bene avrebbe messo in pratica il gran comandamento. C’è quella donna che è troppo leggera? V’è quella nuora che è in una rissa eterna? V’è quel giovane che perde la Messa? V’è quell’uomo che bestemmia? Consigliamoli saggiamente, e senza pretesa. Noi avremo fatto un’opera di amore verso il prossimo. Infine, aiutiamo il prossimo con le opere. Quando vediamo, una persona che ha bisogno della nostra mano, del nostro soldo, non facciamoci rincrescere. Ricordiamoci che noi facciamo un piacere non a una persona di questo mondo, ma a Gesù Cristo stesso. Tito imperatore alla sera di ogni giorno passato senza un’opera buona di misericordia esclamava tristemente: « Ho perduto una giornata ». E costui era un pagano. Quanti Cristiani giungendo al termine della loro vita dovran forse dire: « Ho perso tutta la mia vita ». – 2. COMPATIRCI. V’è una paraboletta molto espressiva in proposito. Lungo una via domandavano l’elemosina un povero cieco e un povero zoppo. Il cieco gridava: fate la carità al cieco che non ha occhi per vedere la sua strada. Lo zoppo gridava: fate la carità allo zoppo che non ha gambe per fare la sua strada. La disgrazia era gravissima da entrambe le parti. Ma un giorno il cieco disse allo zoppo: « Io non vedo, ma ho le gambe molto buone, tu non hai buone le gambe, ma la tua vista è ottima. Tra tutti e due abbiamo dunque l’occorrente per rimediare in parte alla nostra sventura. Facciamo così: io ti prenderò in spalla, e tu camminerai colle mie gambe ed io vedrò con i tuoi occhi ». La proposta fu bella e accettata; e da quel momento, il cieco prestando le gambe allo zoppo e lo zoppo prestando gli occhi al cieco, formarono un gruppo d’amore vicendevole che girava per il mondo. – S’io fossi un pittore dipingerei in un quadro quelle due dolci creature e poi vorrei che in tutte le case ve ne fosse una copia: in tutte le case, dove ci sono nuore e suocere che non si vogliono bene, in tutte le case, dove ci sono fratelli in lite coi fratelli, cognati in lite coi cognati, vicini coi vicini. Sarebbe una bella esortazione ad amare il nostro prossimo tollerandoci a vicenda i difetti come il cieco tollerava il peso dello zoppo e lo zoppo tollerava la cecità del cieco. S. Agostino ha una piccante osservazione: nell’arca di Noè, durante il diluvio erano raccolte tutte le specie più diverse di animali, domestici e feroci. Eppure, tutti erano in pace. In molte famiglie invece, dove sono tutti uomini, figli di Dio e creati per il Cielo vi è un vero serraglio di belve. Perché? Perché manca il compatimento vicendevole. Non dobbiamo attendere ai difetti del prossimo, ma alle sue virtù, che non son poche; non dobbiamo osservare che è zoppo, ma che ha la vista buona. Del resto ricordiamoci che pur noi abbiamo difetti, e ben grossi quantunque non li conosciamo: che se il prossimo cammina male perché zoppo, noi razzoliamo peggio perché ciechi. – Il povero re di Roma, il pallido figlio di Napoleone I, dovette passare dolorosamente i pochi anni della sua giovinezza in Austria. Il ministro Metternich quando voleva scoraggiare l’Aquilotto, gli mostrava che non aveva nulla di suo padre, nulla che lo rendesse capace di governare. « Voi avete il cappello, ma non la testa di vostro padre! ». A quanti che si dicono Cristiani si potrebbe ripetere l’acerbo rimprovero: « Tu hai il nome, ma non il cuore di Gesù Cristo ». Perché? Perché non sai né aiutare né compatire il tuo prossimo.CHE VE NE PARE DI CRISTO? I sadducei e i farisei erano giunti a tentare Gesù. Il Maestro, con poche ma ardenti parole, ribatté ogni loro ragionamento, poi, Egli stesso rivolse a’ suoi tentatori  una terribile domanda: « Che ve ne pare di Cristo? Di chi è Figlio? ». Qualcuno ardì rispondere: « Di Davide ». Gesù incalzò: « Di Davide, tu dici? Allora, e perché Davide lo chiama suo Signore? ». Più nessuno osò fiatare. A noi, venuti venti secoli dopo, il Maestro rivolge la medesima domanda: « Quid vobis videtur de Christo? ». Cosa che fa stupire: oggi, in cui si parla di fratellanza universale; in cui, senza filo, possiamo comunicare da un estremo altro della terra; in cui, sorpassato ogni confine di monte e di mare, l’uomo in poche ore vola sopra le nazioni e congiunge  i continenti, basta rivolgere questa domanda: « che ve ne pare di Cristo » per mettere gli uomini in contraddizione tra loro. Aveva ragione, il candido vecchio che nel tempio aveva consumato la sua vita aspettando il Messia, quando, stringendolo tra le braccia, esclamava: « Ecco il segno della contraddizione: e molti avranno per lui la vita, e molti avranno per lui la morte ». Gesù stesso dirà di sé la medesima cosa: « Venni al mondo per un giudizio: quei che non hanno la vista l’acquisteranno, quei che hanno la vista la perderanno » (Giov. IX, 39). E voleva dire che le anime umili saranno da Cristo illuminate, mentre i superbi da lui saranno accecati. Il crocifisso che domina il mondo, che domina i troni e le potenze della terra, come già una volta sul Calvario è il segno della divisione. Chi lo bestemmia, chi lo ignora, chi lo contempla con amore. « Quid vobis videtur de Christo? ». A questa domanda gli uomini rispondono in un triplice modo: odio, ignoranza, amore.  – 1. ODIO. Un giorno del 1797, un ufficiale, passando non lontano dalla città d’Aosta, incontrò nel fondo di una torre in rovina, un disgraziato che vi dimorava da anni, privo d’ogni compagnia. « Che fate qui? » disse il militare. « Sono gli uomini, che non mi possono vedere » gemette l’infelice. Dopo aver scambiate alcune parole, l’ufficiale gli domandò il suo nome. « Il mio nome? » rispose il solitario « ah, il mio nome è terribile. Mi chiamano il Lebbroso ». Cristiani! io conosco qualcuno che fin nell’ultimo villaggio trascorre i suoi giorni nella solitudine, dove l’odio degli uomini cerca di confinarlo. Se domandate il suo nome, quello che un angelo portò dal cielo per lui, è Gesù; ma in terra, l’hanno chiamato con un nome terribile: il Lebbroso. Tale, infatti, lo vide il profeta… putavimus eum quasi leprosum. (Is., LIII, 4). E della sua storia si può dire quanto l’ufficiale diceva di quello d’Aosta: « È una lacrima, una lacrima continua ». — In antico, quando all’alba un lebbroso si lasciava sorprendere presso l’abitato, tutti, urlando, lo cacciavano a sassate. Ed a sassate i nemici della religione hanno cercato d’allontanare Cristo dalla società. E lo hanno cacciato dai comuni, ove insegnava a reggere i popoli: e via l’hanno cacciato dalle scuole ove benediceva la crescente gioventù; e via l’hanno cacciato dai tribunali, ove insegnava la giustizia. Perfino dagli ospedali l’hanno cacciato via, dove gli infermi lo cercavano sulle squallide pareti perché lenisse il loro dolore. — In antico, quando un lebbroso s’avvicinava, per bisogno, agli uomini, doveva segnalare la sua venuta col suono della raganella, e chiunque lo udiva, correva lontano, temendo il contagio. Oggi, quando Gesù esce come Viatico dei morenti nelle vie dei nostri paesi, e il chierichetto davanti l’annunzia col suono del campanello, ecco ripetersi l’antica scena di obbrobrio; tutti fuggono, tutti deviano, tutti, se possono, si nascondono dietro i portoni, per non vederlo, per non salutarlo: il Lebbroso! — « Le mie delizie sono tra i figliuoli degli uomini » ha detto il Signore; ma i figliuoli degli uomini ripetono l’urlo di Voltaire: « schiacciamo l’infame »; e i figliuoli degli uomini l’hanno scomunicato dalla loro società. E Gesù è costretto a ritirarsi in solitudine, perché le bestemmie e il turpiloquio offendono pubblicamente le sue sante orecchie, perché una moda sfacciata e scandalosa, ad ogni passo, offende la sua purissima pupilla, quella che pur guardando convertiva i cuori; è costretto a ritirarsi dalle nostre case e dai nostri cuori perché sono diventati luoghi di peccato. « Quid vobis videtur de Christo? ». — Via! via! crucifiggilo — rispondono gli uomini. – 2. IGNORANZA. Quando Giovanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano, a tutti balenò il sospetto ch’egli fosse il Messia. I Giudei da Gerusalemme mandarono una legazione di sacerdoti e di leviti a interrogarlo. Ma il Battista rispose: « Ecco il Messia è già tra voi: e non lo sapete ». Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Giov., I, 26). Questo è il rimprovero che meriterebbero ancora non pochi Cristiani. Dite a loro: « Che ve ne pare di Cristo? ». Sgranerebbero gli occhi come a rispondere: « E che ce ne importa? ». Vivono perciò nell’indifferenza della religione, e quando hanno soddisfatto alle brame del loro corpo, non desiderano più nulla. Cristo è venuto sulla terra e per trent’anni col suo esempio, e per tre anni con la sua parola ci ha istruiti: e ci ha detto chi è Dio e quanto ci ama e che vuole da noi e come si fa ad amarlo e servirlo. Ma gli uomini, che pur sanno tante e tante cose per il loro corpo, non sanno nulla per la loro anima. E non desiderano di sapere, anzi non vogliono sapere; e il solo pensiero di ascoltare una predica, una spiegazione della dottrina cristiana, li fa morir di noia. Ignorano Cristo, perché ignorano il suo Vangelo. Cristo è venuto sulla terra nostra e ha istituito mirabili sacramenti, tra cui il sacramento del perdono, che da colpevoli ci ritorna innocenti, da maledetti ci fa figliuoli di Dio. Ha pure istituito il sacramento che nutrisce l’anima di un cibo soprasostanziale, che fortifica e santifica: questo cibo è la carne stessa, il sangue vero di Cristo nell’Eucaristia. Eppure, gli uomini non lo sanno, Non vengono mai a confessarsi, a comunicarsi; solo qualche volta all’anno, e malamente. Ignorano Cristo, perché ignorano i suoi sacramenti. Cristo è venuto sulla terra nostra debole e bambino avvolto in panni, Lui che è Dio d’eserciti; è venuto nel freddo e nelle tenebre, Lui che ha creato il sole ed ogni fuoco; e pativa fame e sete, Lui che ha cibo per ogni uccello dell’aria e per ogni giglio della valle. E poi si lasciò tradire, e volle essere umiliato, crocefisso. Eppure, gli uomini ignorano tutto questo, perché non amano che i piaceri dei sensi, le ricchezze del mondo, il cibo e le vesti. Ignorano Cristo, perché non sanno quanto Cristo ha patito per loro. Perciò ha detto bene S. Giovanni (I, 10) in principio del suo Vangelo; « In mundo erat et mundus eum non cognovit ». – 3. AMORE!. Fortunatamente però ci furono e ci sono anime che alla domanda: « Quid vobis videtur de Christo », rispondono: « Amore ». Da quel giorno che Pietro ruppe in quel grido: «Tu sei il Cristo, figlio di Dio”, una lunga schiera d’anime sante hanno saputo rendere a Cristo testimonianza vera, con sacrificio e con sangue, e soprattutto con amore. Furono dapprima i martiri che morivano per Lui; pallidi e sanguinanti, tra la vita e la. morte, il loro ultimo palpito era, sempre l’amore di Cristo. È santa Caterina d’Alessandria che davanti ai sapienti parla di Gesù; e poiché tentavano di persuaderla ch’era follia, lei ricca e giovane, adorare un povero ed oscuro Nazareno, la coraggiosa fanciulla gridò: « Cristo è Dio; e chi crede in Lui vivrà anche se muore ». E porse il suo vergine corpo ai tormenti del martirio. Vennero poi i vergini e le vergini che per amore di Gesù, rinunziarono ad ogni amore terreno. È sant’Agnese che alla profferta di un giovane nobile e potente rispose ch’ella amava il Signore con tanta forza che più non le restava amor di creatura. È S. Filippo Neri che nella festa di Pentecoste fu preso da un impeto d’affetto così forte per Gesù Cristo, che il suo cuore non seppe contenersi e ruppe due coste. È S. Teresa che nel monastero d’Avila vide un serafino che le punse il cuore con un dardo d’oro dalla punta infuocata: e da quel giorno non visse che per celeste ardore. Desiderava di morir mille volte per convertire i peccatori; piangeva sulla iniquità degli uomini e si flagellava per ripararle; era insaziabile di dolore e ripeteva  sotto i portici del chiostro: O patire o morire. In fine, consumata dal fuoco divino in Alba di Termez morì d’amore per Cristo. Anche ai nostri tempi vivono di queste anime generose e sante, e non sono appena frati e monache; ma anche giovani, come Domenico Savio che preferiva la morte ma non il più piccolo peccato; ma anche uomini, come il professore Contardo Ferrini che si ebbe gli onori dell’altare. E noi, noi che cosa ne pensiamo di Cristo? A parole, certo, tutti diciamo che è Figlio di Dio: ma coi fatti, con la vita nostra quotidiana, che cosa pensiamo di Cristo? Nella notte della passione, il principe dei sacerdoti osò domandare a Cristo cosa egli pensasse di sé. «Ti scongiuro, per Dio vivo, se tu sei figlio di Dio, dillo! ». E Gesù rispose: « L’hai detto ». Allora il principe dei sacerdoti si stracciò i vestimenti. Cristo aggiunse: « Verrà giorno e mi vedrai, seduto alla destra di Dio, giudicare dalle nubi i vivi ed i morti ». In questa vita, come già l’ipocrita Caifa, possiamo pensare quel che vogliamo noi di Cristo. È libero calunniarlo; è libero avvoltolarci nella polvere e nel fango dei vizi, stracciare coi peccati la veste dell’anima che è la grazia santificante. Ma quando lo vedremo sulle nubi, nella maestà, tra gli Angeli, calare verso noi a giudicarci, che cosa potremo pensare di Lui, allora?

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dan. IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris.

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro sanctórum Angelórum tuórum veneratióne deférimus: et concéde propítius; ut, perpétuis eórum præsídiis, a præséntibus perículis liberémur et ad vitam perveniámus ætérnam.

[Accogli, O Signore, i doni offerti in onore dei tuoi santi angeli; e concedici propizio, per la loro continua protezione, di essere salvi dai pericoli presenti e di raggiungere la vita eterna].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súmpsimus, Dómine, divína mystéria, sanctórum Angelórum tuórum festivitáte lætántes: quǽsumus; ut eórum protectióne ab hóstium júgiter liberémur insídiis, et contra ómnia advérsa muniámur.

[O Signore, abbiamo ricevuto i divini misteri nella lieta festa dei tuoi santi angeli; concedici che per la loro protezione, siamo sempre liberi dagli assalti dei nemici e difesi contro ogni avversità.]
Per Dóminum nostrum Jesum Christum …

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (222)

LO SCUDO DELLA FEDE (222)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

Del Rosario

PARTE PRIMA,

CHE COSA È IL ROSARIO.

Siamo stati creati per servire Dio e per essere con Lui beati in paradiso. Ma troppo alto è il cielo e santissimo è Dio, e noi troppo in basso qui da potere a quell’altezza elevarci, e rendere a Dio l’omaggio che gli è dovuto. Gesù Dio col Padre, Uomo con noi, Mediatore tra il cielo e la terra, e Redentore pietoso resta qui con noi nel Sacramento a fine di attirarci con Lui a dargli gloria tra i beati in paradiso. Eterno Figliuol di Dio fa causa comune con noi, fino a dividere con noi le persecuzioni e i nostri dolori: compagno indivisibile del nostro pellegrinaggio ha tutto il suo interesse a salvarci, perché siamo del suo Sangue. Gesù è il Padre e noi siamo i suoi figliuoli, che lo circondiamo adunati nel bacio santo della fraternità. Egli il Pastore, e noi le agnelle nel pascolo a lui d’intorno: Egli la vite, e noi i tralci che da Lui tiriamo l’alimento. Egli la via; e bisogna a Lui venire per poter giungere alla patria. Egli la verità, la luce delle anime nostre nel cammino dal tempo all’eternità: Egli la vita, e al tutto è d’uopo farci dappresso a Gesù e camminare insieme con Lui, e così con Lui, e per Lui solo trovare la salute a vita eterna. Centro della vita cristiana è dunque Gesù in mezzo di noi nel Santissimo Sacramento; e noi dobbiamo cercare la più facile maniera per raccoglierci intorno a Gesù, per fermare sopra Gesù i fugaci nostri pensieri, e quasi camminar di conserva con Lui, a fine di giungere dove sono riposti gli eterni nostri destini, in paradiso. Ma chi potrà unirci a Gesù in tanta confidenza, anzi intimità di vita? Chi sarà da tanto, e così vicino a Lui, e con noi tanto buono da volerci pigliar per mano? Il nostro cuore sente che ha in cielo un tesoro di bontà tutto per noi: il cuore nostro sa per prova, che là ha una Madre che ci può tutto ottenere; il cuore nostro quindi si lancia in seno a Maria nella confidenza che Ella voglia fare tutto per noi, perché a Lei ed al suo Gesù costiamo troppi dolori; e là sul Calvario ben se l’intesero fra loro di salvarci. Ci si voleva dunque una pratica di pietà facile, popolare alla mano di tutti, la quale, per unirci a Gesù, ci facesse pigliare per mano Maria così vivamente da non lasciarla mai più, finché non ci abbia con Lei salvi in Gesù Cristo. E questa così utile, così santa e cara pratica di pietà è il santo Rosario, che noi pigliamo a spiegarvi, riserbandoci di esporvi la maniera di recitarlo in altre MEDITAZIONI. – Benedetto Gesù, quest’oggi ci mettiamo sotto il manto della vostra Madre Santissima, perché la ci conduca in seno a Voi a trattare col suo cuore; e Voi, o Maria Santissima, raccogliete la famiglia dei vostri figli intorno a Gesù a contemplarlo, ad amarlo, a seguirlo nella via del Paradiso, come impareremo a farlo nel santo Rosario. Dobbiamo dunque spiegarvi che cosa voglia dire recitare il santo Rosario. Recitare il santo Rosario vuol dire metterci da prima con cuore in Gesù nel santissimo Sacramento, contemplarlo in mezzo di noi, come è realmente in Persona; ed uniti con Gesù alzare le nostre preghiere a Dio Padre in cielo. Vuol dire, poi rivolgerci a Maria, e baciarle e ribaciarle la mano, e dirle tutto il cuore nostro, e pregar tanto la Madre nostra, finché non ci abbia menato seco con Gesù in paradiso. Noi studiamo di farlo col Rosario, in cui contempliamo la vita di Gesù e di Maria nei misteri: ivi con Gesù preghiamo il Padre divino nel Pater noster, e diamo la mano a Maria nell’Ave Maria. Perciò il Rosario è una preghiera la quale si compone della meditazione dei misteri, e del ripetere che facciamo il Pater noster e l’Ave Maria. Miei fratelli, a quest’ora, come un padre che vi ama tanto, mi abbandono del cuore a voi; ed io, e voi meditando che cosa sia il santo Rosario, vogliamo insieme far del Rosario la scuola delle cristiane virtù, ed imparare a pregare facilmente riflettendo sopra i misteri più augusti e più consolanti sul cuor di Gesù e tra le braccia di Maria. – Cominceremo dal considerare perché si recitano i Misteri.

LA MEDITAZIONE DEI MISTERI.

Al principio d’ ogni decina si recita il mistero per metterci dinanzi a contemplare Gesù e Maria, come li vedessimo in un quadro. Con questo immaginarli dinanzi a noi, fermiamo l’inquieto nostro pensiero intorno a Gesù e Maria: li seguiamo passo passo negli avvenimenti principali della loro vita, e pigliamo parte alle consolazioni, ai dolori, ai trionfi loro così cari ai nostri cuori. Vediamo bene, come li possiamo imitare nella povera vita nostra. Anzi ci pare di vederli stendere la mano a noi, per aiutarci a seguirli; e per poco ci sembra di udire Gesù, che con quel suo fare da Uomo-Dio, ci dica: Pregate, pregate; sono ancor Io qui a pregare con voi il Padre mio, che pure è vostro Padre. Date la mano alla Madre mia, che quando Io moriva vi diedi per vostra. Venite appresso a noi: mettete i piedi sulle orme dei nostri passi; patite con noi ancora un poco, e poi di certo sarete con noi in paradiso. Dove son io e la Madre mia, voglio pure insieme voi, miei figliuoli. Per tal modo col raccoglierci di tutta l’anima nei misteri a contemplare Gesù e Maria, e col tenere appresso col cuore a loro negli andamenti della loro vita, camminiamo di conserva con Gesù e Maria, cioè corriamo la via che ci mena al paradiso. Ve lo accenno in breve ora; ma questo vedremo poi estesamente nelle tre MEDITAZIONI seguenti. Eccoci ai misteri gaudiosi. Nel primo ci contempliamo dinanzi quel fiore di paradiso che è la verginella Maria salutata dall’Angelo. Nel secondo le corriamo appresso per la montagna, a fine di fare con esso lei opera di carità. Nel terzo consideriamo, anzi pigliamo tra le braccia il Salvatore divenuto ancor più amabile in quanto è bambinello piccino; e l’offriamo nel quarto sul petto a Maria, per metterci con Essi in mano a Dio. Lo cerchiamo nel quinto con Maria, e lo troviamo nel tempio; e quinci innanzi no, no, non lo vogliamo abbandonare più mai, ma vivere e fare tutte le nostre azioni della vita nostra uniti con Gesù sotto gli occhi di Maria. Passando al primo dei dolorosi misteri gemiamo con Gesù tutto bagnato di sudore di Sangue boccheggiante nell’agonia, e chiediamo al Padre perdono dei nostri peccati. Nel secondo a lui lo mostriamo tutto lacerato di piaghe in quella tempesta di battiture. Cadiamo nel terzo ai piedi del re dei dolori, il quale dal suo Capo coronato di spine piove Sangue sulla nostra testa. Pigliamo con Gesù nel quarto sulle spalle le nostre croci, e con Maria l’accompagniamo al Calvario. Ah nel quinto, tacciamo, tacciamo; ché gli strazi e la morte di Dio vogliono lacrime, e non parole. Al vederlo inchiodato in croce nascondiamo il volto in seno a Maria tutta cospersa di Sangue divino; e lasciamo che dica Ella tutto per noi con quel suo Cuore, in questa santissima, ma tremenda contemplazione. Ora poi nel primo mistero glorioso giubiliamo con Gesù risuscitato; ci infervoriamo a combattere, perché Egli è risorto, e noi risorgeremo con Lui a vita eterna. Nel secondo su, su leviamo il cuor nostro con Gesù a speranza di paradiso. Egli cel conquistò, ce lo ha aperto, e ci stende la mano a salire anche noi. Nel terzo contempliamo coll’anima in cielo in seno al Padre ed al Figlio l’eterno Amore, Spirito consolatore; e gli mettiamo innanzi Maria a pregarlo che discenda nei nostri cuori, e conforti la Madre nostra la povera Chiesa in tante tribolazioni. Nel quarto elevati al Cielo presso il trono di Maria, Le piangiamo appresso gridando: anche noi, anche noi con voi…. o Gesù…. o Maria. Nell’ultimo: al paradiso! al paradiso! Concittadini del Cielo gustiamo già fin d’ora colla speranza un sorso della beatitudine nostra in Dio, in Gesù, con Maria, e coi beati ingolfandoci nel gaudio dell’eterna gloria. Per così soavi contemplazioni dopo esserci elevati dell’anima in paradiso ricadiamo a terra, e consolati ripetiamo tante volte: Gloria al Padre che mandò, per salvarci, il suo Figlio: gloria al Figlio che, fatto Uomo, sì è dato tutto per noi: gloria allo Spirito Santo, che ci santifica mediante i meriti di Gesù, per averci beati in seno a Dio… Ma il cuor nostro mette ancora un sospiro…. Oh gran Dio delle misericordie, traete anche le anime del Purgatorio ad amarvi in Paradiso! Eccoci adunque come nel santo Rosario noi scorgiamo il Cielo che ci aspetta, Gesù qui con noi in persona, per aiutarci a salire, Maria di là che ci stende la mano; ed in così santi pensieri, in tanta piena d’inesprimibili affetti abbiamo bisogno d’una parola la quale dica tutto; poiché si vorrebbe, ma non si può dire, con umana parola. E Gesù che non manca a nessuno dei nostri bisogni, mette sul nostro labbro di terra la sua divina parola. Questa parola è il Pater noster, per mezzo della quale noi col tremito della tenerezza potremo sfogarci col Padre nostro in cielo. Questa è la ragione, per cui recitiamo in tutti i misteri il Pater noster.

Il Pater Noster.

Noi diciamo con fiducia Pater Noster, perché  quando siamo uniti con Gesù, che qui con noi preghi nel Sacramento, Egli pare che ci dica: pigliate coraggio, poveri miei figliuoli, giacché in cielo abbiamo il Padre della bontà, il quale è nostro, e di là ci guarda con compiacenza; ed oh! vel dico Io, se vi ama! Egli è desso che mi mandò, che volle venissi pur a morire per salvarvi! E questo ancora: se non vi perdeva di vista quando gli eravate nemici, pensate, che vi potrà mai negare il Padre di tutti beni, ora che gli siete buoni figliuoli. Noi qui fermandoci a contemplar (quasi per renderci più teneramente consapevoli della nostra fortuna), inteneriti alle lacrime gli diremo in risposta: Oh Figliuol di Dio santissimo, voi siete proprio qui colle vostre Piaghe aperte, con questo vostro Cuore che dà del suo Sangue….. Sì, sì! ardiremo dire con voi: O Padre nostra siete nei cieli! Grande Iddio! avete un bell’essere grande, ma noi pur tra la gloria della vostra maestà vi conosciamo che ci siete Padre. Ah vi siete lasciato conoscere per Padre quando mandaste il vostro Figlio a farsi uomo con noi. Deh, Signore, dagli altissimi cieli abbassate lo sguardo sopra questa terra: essa è bene la poca cosa davanti la vostra Divinità; ma sopra questa povera terra abita qui con noi l’eterno vostro Figliuol Divino, di cui tutto vi compiacete, il quale fa causa comune con noi, e con noi grida: o Padre nostro. « È dunque, dice s. Cipriano, il Pater noster la più bella delle preghiere, la quale si innalza diritta al gran Padre dell’universo sotto la forma della figliale affezione; dessa è il grido del Figlio di Dio e di noi figli del suo Figlio al cuor del Padre che abbiamo in cielo. Deve dunque esser per noi la cara cosa ripetere sempre: o Padre, o Padre nostro! » Pigliamo coraggio. – E che? Il buon Pastore, se sente la pecorina belare tra i precipizii, la sia pur scappata la cattivella, corre subito a strapparla via di bocca al lupo, sulle spalle se la porta a seno. E che? Dice ancora Gesù, se vi venisse un amico pure in sulla mezzanotte a bussare alla porta, e gridasse sotto la finestra: — amico, sorgi su; ve” mi giunge or ora da lunga via un amico, ed io non ho neppur un pane da mettergli innanzi; deh imprestamene qualcuno da apporgli, — voi gli potreste dire: ma la è mala creanza disturbarmi a quest’ora! Vedi, io, i miei figliuoli, i miei servitori siam già coricati? e se l’amico non si parte per questo, e batte ancora alla porta: Amico, non negarmi un po’ di pane per carità! Voi non foss’altro, almeno per levarvi quell’importuno, vi alzereste dal letto, e non pur del poco pane, ma lo vorreste fornire di tutto. Voi che non siete poi tanto buoni vorreste fare così coll’amico che vi disturba. Pensate ora che non farà il Padre della bontà divina quando sentirà le nostre voci con quella del Figlio suo gridare tante volte: O Padre nostro, che siete ne’ cieli liberateci dal male. — Il Padre mio, continua Gesù, vel dico io, vi ascolterà. — Si, sì, stiamo pure alla parola di Gesù, che se lo conosce bene il Padre suo. Egli ce l’assicura le tante volte col dirci: « domandate e riceverete; battete e vi sarà aperto, cercate e sì che troverete..» Adunque non ci resta, che pigliarci sul cuore di Gesù, e con lui mettere gemiti verso del cielo : egli è certo che con Gesù tra le braccia, ci faremo ascoltare. Difatti, se una poverina di madre sta col bambinello delle viscere sue, morente di fame alla porta di un ricco buono in una brezza d’inverno che taglia la vita, e il bambino vagisce, egli apre subito la porta, ed ah! le vede sul petto quel bimbo colle braccioline che cadon giù, cogli occhietti annebbiati, gemente, consunto in quei cenci. Non pure il buon ricco, ma chiunque che non avesse che un sol boccone di pane, se lo toglierebbe di bocca per far carità al meschinello. Pensiamo adesso che non vorrà fare con noi la bontà di Dio, quando sente noi poverini, o meglio, sente il Figliuol suo colla nostra, che è sua parola gemere alla porta del cielo, anzi battere al suo cuore paterno! – Su, su dunque; pigliamoci sul cuore Gesù nel Sacramento, e nel Rosario quì presso la porta del cielo, mostriamolo che vagisce Bambino ancora fasciato tra le angustie delle nostre miserie. Su, su; nel Rosario presentiamolo. tutto bagnato di Sangue con ansioso lamento in passione tra le braccia a Maria colle Piaghe sue e le piaghe nostre, che par che senta in se stesso: su, su; nel Rosario leviamo al cielo le braccia, additandolo al Padre che lo tien alla destra in gloria, mentre è pur qui tra noi tutto nostro: battiamo alla porta del cielo: torniamo a battere ancora, dice s. Cipriano; gridiamo, e torniam a gridare: o Padre, o Padre nostro! Oh! se la conosce il Padre la voce del Figlio, che grida di fuori! È la voce del Verbo che gli esce di seno! Il Padre divino, Egli ci par di vederlo tra lo splendore dell’eterna gloria dissipare colla paterna mano i raggianti baleni della sua inaccessibile luce, e guardare giù. Scorgendo il Figliuolo della sua sostanza a supplicare con noi poverini….. ah! ah! il Padre Divino anche a noi risponde col sorriso di Padre…. Sì veramente: noi vorremmo giurarvi che possiamo tutto con Gesù, tutto ottenere da Dio. Ma chi vorrà darci tal confidenza da metterci sul cuore nostro Gesù? Chi?… La sua Madre la quale ce lo portò in terra. Salve dunque, salve o Maria, o gran Madre di Dio, prega Tu per noi peccatori!

Ave Maria.

Né qui è mestieri di molte parole, per far intendere perché ci rivolgiamo a Maria. Sollevati col cuore in paradiso noi così miserabili, in terra abbiamo bisogno d’un cuore che ci voglia il maggior bene senza guardar tanto alle nostre miserie: abbiamo bisogno di un cuore che interpreti tutto quanto il cuor nostro, e che pigli a far tutto per noi. Eh sì: ci si vuole il cuor di una madre, ma che sia da tanto da far rispettare il suo amore, e farsi ascoltare da Dio. Ebbene la fede nostra ce l’addita in cielo sì fatta Madre, e il nostro cuore sa per prova di avere là Maria SS., la Madre di Gesù che Egli ci diede per Madre nostra; e Maria ci ama dell’amore di vera Madre. Ma poveri noi che siam così meschinelli!… Oh! ma appunto, appunto per questo con Maria è da pigliar maggior confidenza. La madre quanto più è deforme il suo figliuolo con tanta maggior compassione lo piglia ad amare: non vi è storpiatello e brutto di bimbo il quale non abbia goduto in seno alla madre le più care tenerezze; ed il rifiuto di tutti è il più caro amore della madre. Ella lascia talvolta andare in festa i suoi figliuoli ben portanti sì, ma, la buona, rimane in casa tutta cura nel melanconico suo amore a tener consolato il figliuol più meschino. –  Che mistero è mai l’amore! egli si pascola volentieri di patimenti per l’oggetto che prende ad amare; e, quando più ha da patire per chi gli è caro, diventa tanto più vivo l’amore e più generoso. Ecco perché le madri amano più vivamente; gli è perché i figli costano loro troppi dolori. Sicché vi ha talvolta una madre che è ad un fil di vita ridotta a morirsi a fine di dare la vita al bimbo suo; ma quando la buona sel vede per dinanzi ricordando gli spasimi per lui sofferti, se lo stringe al seno con tenerezza più viva; e per vendicarsi, gli stampa in volto un caldo bacio. Con questo pensiero noi ci poniamo sul Calvario appiè della croce, quando Gesù moriva per salvare gli uomini perduti a morte in Adamo, e col suo sangue ricreava gli uomini alla vita eterna, facendoli diventare figliuoli di Dio. Contempliamo il mistero della misericordia divina. Come il primo Adamo, negando ubbidienza a Dio, ci perdette tutti, così Gesù, quale secondo Adamo riparatore, si offriva alla volontà di Dio per salvar tutti, col morire per noi. Allora sotto l’albero della colpa stava Eva con Lui d’accordo a nostra rovina. Ancora sotto la croce di Gesù correva pure Maria, e con Lui offriva del suo Sangue nel Sangue del suo Figlio. Quando Gesù agonizzava in croce, il Sangue pioveva giù dalla testa, grondava giù dalle mani, scorreva giù dai piedi, e Maria stava sotto la croce; e il Sangue di Gesù cadeva sul capo, sul volto, sulle mani, sulle vesti a Maria. Gesù, quando si vide lì sotto la sua Madre tutta bagnata di Sangue, ce la diede per nostra Madre. Appunto appunto allora quando Gesù stava per morire e lasciarsi squarciare il petto a fine di mandare dal Cuore il Sangue più vitale, e dare alla Chiesa sua sposa nei sacramenti la virtù di ricreare i figliuoli del Sangue suo alla vita eterna, a somiglianza del Creatore il quale prepara una madre, quando sta per nascere il bimbo, così Egli a noi che dovevamo rinascere figliuoli di Dio, preparava la madre, e per madre nostra ci dava la sua. Maria è pertanto Madre, perché cooperò a ricrearci col Sangue del suo Figlio; e noi siamo figliuoli del suo dolore. Le madri poi sono sempre madri, eziandio coi figlioli che siano stati cattivi. Provati (vorremmo dir qui, se mai si potesse supporre un figliuolo snaturato così da maltrattare la madre) provati, dopo i maltrattamenti di correre piangendo a baciarle la mano, per domandarle perdono, e noi ti assicuriamo, che questa povera madre ti perdonerà col pianto. Così, costandole noi troppi dolori, Maria troppo più vivamente ci deve amare. Ma vi è ben altra cara ragione per cui Maria è Madre nostra. – Qui giova penetrare nel mistero per comprendere bene e gustare come Maria è proprio la nostra Madre. Ed invero le madri sono madri, perché i figliuoli sono del loro sangue; ed a quel modo che una madre può dire al figliuolo delle viscere sue: cara la vita mia! tu sei il mio sangue, così Maria può dire al suo Gesù, perché il sangue di Gesù viene dal cuore di Maria: vita mia! siete voi Sangue mio! Ora il Sangue di Gesù viene con noi in comunione di vita; e Maria vede in noi il Sangue di Gesù suo Sangue. Ah! noi l’intendiamo questo col cuore; e se ci si permettesse un’espressione ardita come l’amor che sentiamo, noi vorremmo dire, che Maria ci guarda più che figliuoli adottivi, ma siccome figliuoli di Sangue. Ora pensiamo qui: se mai vi fosse una madre così fortunata nel mondo, la quale avesse il figlio suo primogenito diventato per avventura il più gran re dell’universo, e poi avesse altri figliuoli dispersi per la terra in abbietta miseria; e il figliuolo suo buono la volesse in reggia onorata regina alla sua destra in trono, dite chi mai vorrebbe al figlio suo in tanta gloria raccomandare in prima se non i poverini suoi figliuoli? Racconteremo un fatto. Di Napoleone, che da umile stato era diventato il più gran re dell’Europa, si racconta, come ad ogni sua nuova conquista volesse egli stesso portare la novella alla propria madre Letizia, a fine di godere della materna consolazione; e come la madre gli rispondesse ogni volta: ne godo assai; ma e i vostri fratelli? e che pur finalmente gli dicesse l’imperatore figliuolo: Mamma, per compiacervi uno de’miei fratelli farò re di Spagna; l’altro re di Portogallo, poi l’altro re di Vestfalia; e quanto alla sorella farolla regina d’Etruria. Vuolsi che a questo la madre con un lungo sospiro gli rispondesse: la vostra madre è felice. –  Deh! fate coraggio e consolatevi, o poveri figliuoli di Maria: la nostra madre è coronata in cielo in trono col Figliuol suo divino. Maria contempla in Paradiso tra lo splendore della divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda in terra a noi poverini suoi figliuoli in tante miserie; e lì lì scorgendoci per perderci ad ora ad ora: Oh! Figliuol mio, gli dice: gli è Sangue nostro in quei meschinelli! Essa contempla in cielo nel Figlio le gloriose Piaghe e: Figliuol mio, gli soggiunge, queste piaghe nostre le soffrii di riverbero nel mio cuore; e quel Sangue che voi spargeste, venne dal mio seno: poi contemplando in terra le piaghe nostre, e gli ripete: mi par di sentirle nella mia persona quelle loro miserie, perché sono madre vostra, e madre anche di loro! Maria si fissa in cielo nel Costato aperto; e: Mio Gesù, esclama, questa ferita poi la sentii tutta io sola nel mio cuore; deh salvatemi i figli di tanto dolore! Su dunque, da questa povera terra alziamo le grida e il cuore alla gran Madre di Dio, e salutiamola, che è madre nostra. Fortunati noi i quali abbiamo tali parole da dirle, che nessuna creatura si è mai sentito a dire più belle. Queste sono le parole dell’Ave Maria. E da chi le abbiamo imparate? dall’Angelo Gabriele, da santa Elisabetta e dalla santa Chiesa. – Allorché 1’Arcangelo Gabriele fu mandato da Dio a Lei verginella Immacolata in terra per annunciarle che nel suo casto seno dovea nascere il Figliuolo, quel principe del cielo la salutò con tali parole: « Dio vi salvi, o piena di grazia; il Signore è con esso voi; benedetta Voi siete in fra tutte le donne. » I fedeli dell’universo unanimi raccolsero questo saluto e lo ripeterono d’età in età in ogni angolo della terra; e dal fondo di questa valle di lacrime, si vanno consolando tutti a vicenda in ripetendo alla madre del Salvatore « Dio ti salvi, o Maria. » Queste parole debbono commuovere le viscere della Madre di Dio in cielo. Esse ricordano e la predilezione mai più udita di Dio per Lei, e l’istante in cui Ella cominciò ad esser Madre divina, e la sua virtù con cui si metteva nelle mani di Dio, pronta al tremendo martirio di offrire alla morte il Figliuol dell’Eterno, le viscere sue. Poi, a fine di intenerirla più vivamente noi le ricordiamo le consolazioni della carità nell’umana famiglia; e le benediciamo in | seno con l’ispirata Elisabetta il Figliuol del suo Sangue. Infine, acciocché la sia tutta per noi questa Madre divina, colle parole della Chiesa da ogni angolo del mondo le raccomandiamo i bisogni nostri ed il massimo di tutti, quello di spirarle tra le braccia nell’agonia, conchiudendo: « Prega per noi adesso e nell’ora della nostra morte! » Avvi adunque nell’Ave Maria il saluto del cielo, le benedizioni di un ispirato da Dio; e inoltre le grida de’ poveri figliuoli del Sangue del Figlio suo divino. Ora si domanderà di nuovo il perché si ripeta tante volte Ave Maria? per rispondere bisognerebbe saper dire il perché i veri amanti si compiacciano di ripetere le loro più calde espressioni: bisognerebbe sapere spiegare il perché nella vivezza dell’affetto il cuore non si sazi mai di palpitare; anzi come i palpiti medesimi formino il pascolo dell’istesso amore. – Noi però possiamo qui osservare, come eziandio la poesia e il canto, che sono il linguaggio dell’amore, hanno le loro cadenze e posate a misura: ed hanno gl’intercalari, i quali sì ripetono sempre gli stessi. In questi pare che l’anima si fermi a riposo, quasi per pascolarsi a bell’agio di ogni fior di bellezza che le ride d’intorno. Osserviamo anche come nei Salmi quasi di ogni verso la prima parte esprime un pensiero, e la seconda ne ripete il concetto con una cotal simetria: e come allora che si fa più vivo l’affetto, persino proprio le istesse parole tante volte ripetute rendono l’espressione più forte. – La musica poi questa bellissima espressione del sentimento, la quale solleva l’anima nostra e quasi le ali d’angelo le impenna, incominciar suole con un motivo, e tutta vivacità e movimento ed affetto colle onde dell’armonia ci trasporta ne’ campi dell’immaginazione. Quindi quasi a riposare del vagare incerto si raccoglie tratto tratto, e ci rimette in quiete. Poscia ricominciando coll’istesso motivo primiero, ritorna più vivace, e brilla ne” trilli, e s’insegue nelle fughe, e mobilissima al paro dei pensieri dinanzi le varie tinte de’ tuoi affetti ti colora. Aspettiamo un’istante: essa si calma e ritorna ancora sull’istesso motivo. Si direbbe che in quei ritorni l’ispirazione piglia forza a nuovi slanci: e noi ci troviamo come contenti che il tempo del ritmo moderi gli slanci, raccolga i voli e misuri i passi, e così nell’armonia ci ritenga soavemente. Non altrimenti avviene a noi nel Rosario. Noi riposiamo in seno a Maria e le diciamo tutti i nostri segreti: e per questo che le confidiamo noi stessi, pigliamo cuore a confidenze sempre più intime. Colle istesse parole sono diverse assai le cose che le vogliamo dire; è ponendole dinanzi tutti ì nostri bisogni nella piena del cuore ritorniamo a ripetere: Ave Maria, Ave Maria! –  Ma noi vogliamo far intendere fino ai bambini, il perché del ripetere continuo che facciamo: « Ave Maria ». Signori, degnatevi di abbassarvi alla cara semplicità dei bimbi, a cui ci vuol ridotti il Vangelo, ed ascoltate. Immaginate una tenera madre, la quale, di ogni più fine cura circondato il bambino suo, sì lo compone a sedersi sul preparatogli guancialetto. Affinché nulla gli manchi ella gli cerca e pone tra mano i ninnoli a giuocherellare; e quindi, credendolo quieto a trastullarsi, dassi tosto alle faccende domestiche. Il bambolo giuoca per poco, ma poi lasciandosi i ninnoli andar dalle manine, dice: Mamma! con voce amorosa. La mamma è subito a lui, e gli dà un bocconcino; ma il bambino lo lascia tosto cader di bocca, e torna ad esclamare: Mamma!… e la mamma gli porge un po’ d’acqua; ma il bimbo torce dal nappo la testolina, e col riderle negli occhi par che le dica: « E del cuore vostro che voglio io, o mamma, » e ripete ancora: « mamma, e mamma ancora ! » Insomma né il bambino, crediamo, si stanca mai di chiamar la madre, né la madre è mai che si annoj di sentirsi chiamar mamma; né certo principessa o regina sarebbe mai tanto pretendente in orgoglio da sgridare il bimbo, e dirgli: Finiscila una volta con quella tua voce sempre l’istessa: chiamami o principessa, o regina! No, no: né bimbo, né madre non si sazian mai delle ripetute carezze, e dei cari vezzi amorosi. Parimenti noi non ci troviamo mai così bene come quando siamo tra le braccia di Maria a trattar con Dio. Quindi noi non rifiniamo di dirle le tenerezze nostre infinite, di baciarle e ribaciarle le mani, e « di farla interprete con Dio delle nostre parole piene di pianto!… Sî, sì noi la pregheremo continuamente per ora, e per l’istante della nostra agonia, in cui le vogliamo volare in seno… Ave Maria, ora pro nobis nunc et in hora mortis nostræ. Ora se vi è chi non intenda perché noi replichiamo tante volte Ave Maria, povero a lui, egli è senza cuore, oppure non conosce le vie del cuore. Noi godiamo invero di immaginarci nelle case cristiane le famigliole raccolte appiè dell’immaginetta di Maria. Al lume della lampadella tremolante come i nostri cuori innanzi al tabernacoletto, stanno e giovani e più attempati in belli gruppi graziosi; ci par di vedere gli angioli confusi con esso loro a gara fornire ghirlande di rose in recitando il Rosario, ed intrecciare in mezzo ai misteri gaudiosi, come dir perle di candor che innamora: metter dentro, quasi rubini rosseggianti del Sangue di Gesù, ai dolorosi misteri: e diamanti lucentissimi di celeste splendore insertare nei misteri gloriosi, e tutti insieme facendo corona a Maria. Godiamo, godiamo che le nostre famiglie riposino dai travagli della povera vita la sera aspirando i profumi di una vita migliore nel santo Rosario. Noi vogliam con essi ripetere in questo gaudio: « Gloria a Dio, e requie, e luce eterna ai vivi ed ai morti con Gesù, con Maria in Paradiso. » – Ma ahi! che in questa povera valle innaffiata di lagrime strisciano dei rettili a cui fanno noia persin le rose; ed un brutal uomo ebbe l’audacia di stampare sopra una gazzettaccia che fa schifo, il Rosario essere una preghiera stupida !…. Oh!…. oh!…. stupida preghiera il Rosario? Fratelli, trattenete lo sdegno…. perché quel miserabile non poteva che dire così. S. Paolo ci avvisa, che certe bestie di uomini…. animalis homo, non gustano punto le cose di Dio. A questi uomini bestie avviene come ai ciacchi indegni che si avvoltolano in fango. Se mai nel grufolar le immondezze accadesse lor davanti una corona di gioie, l’accefferebbero i brutti col grugno affine di succhiarvi il sudiciume; ma poi rigetterebbero stupidamente le pietre preziose troppo dure alle loro zanne, perché non hanno sapor di schifezza. Così questi miserabili chiamano stupida pratica il santo Rosario, abbandonati che sono da Dio al reprobo senso: abbietti in vita bestiale, quando trattano le immondezze sono nella lor beva allora, e tuffati perdutamente a gola guazzano in brago…. Noi via via torciamo lo sguardo, noi figliuoli di Maria, perché costoro danno in feccia e scolatura d’ogni ribalderia. Ma se i rospi gracidan nella melma e si rituffano nel fango, non ci curiamo di loro altrimenti, e passiamo, senza neppur guardarli, a salutare nel Rosario Maria. – Quando poi vediamo questa pratica del Rosario, usata dai Cristiani nei maggiori loro bisogni, attraversare tanti secoli e conservarsi con sentimento così vivo, così tenero ed universale, noi allora conchiudiamo che questo sentimento deve essere l’effetto di quell’istinto meraviglioso il quale guida divinamente i fedeli nelle pratiche della pietà, anima ed espressione della fede e della vita cristiana. $i, il Rosario deve essere in armonia coi bisogni del cuore dell’umanità cristiana, perché essa tutta comunemente lo adottò e pratica sempre; ed ottenne con esso da Maria i più belli favori e le più care grazie. Ma per dare ai fedeli questa maniera di conversare beatamente con Dio colla forma del santo Rosario, Egli ci voleva un’anima la quale sentisse ben addentro nelle cose del Signore. Ebbene san Domenico fu l’uom fatto secondo il cuore di Dio, per farsi interprete della Chiesa e dei suoi figliuoli. Egli insegnò la formola del santo Rosario: e se ne fece un’arma per abbattere gli Albigesi i quali con mostruosa eresia volevano fare gli uomini un branco di bestie matte e furiose, rotte ad ogni libidine. Tutti i fedeli contenti di averlo da lui imparato se lo insegnarono l’un l’altro, e nol dimenticarono mai più. Non vi è madre cristiana, la quale non l’abbia coi figliuoli recitato. In ogni magnifico tempio, come in ogni chiesuola, nei palagi dorati, come nelle più povere casette dinanzi ad una preziosa immagine come ai piedi di una madonnina di gesso, pontefici, re, regine, artigiani e contadinelle tutti dicono i loro bisogni alla gran madre di Dio nel santo Rosario. Vengono in esso i sacerdoti a dar mano a Maria, e ad offrirsele ad accompagnare Gesù, come Ella, fin sotto la croce, nel sacrificio, il quale sull’altare si ripete. Le sacre vergini sposate a Dio, le giovanette e i fanciulli mettono in salvo i loro gigli in seno all’Immacolata in ripetendo a coro come gli Angioli: Ave Maria. Le monache offertesi al martirio della carità e le povere madri martiri delle famiglie pigliano piangendo in grembo a Maria il balsamo da medicare le piaghe umane ripetendo a gemiti: Ave Maria: le Sacramentine poi gementi d’amore davanti a Gesù nel Sacramento, esclamano tutto il dì e tutta la notte: o Maria, o Maria la benedetta, benedite voi a questo Amor nostro, Gesù, a cui non sappiam meglio parlare che col vostro Cuore!… Ed il povero popolo, quando si trova intorno all’altare e sa che Gesù tratta i suoi interessi col Padre in cielo, va ripetendo ave, ave, Maria, dite voi tutto a Gesù per nol peccatori. Sol che egli si fermi in Chiesa a trattare con Dio, si mette col Rosario tra le braccia a Maria; e quando gli muore sul labbro la parola della preghiera almen si consola, e devoto, come già s. Stanislao Kostka, di tenersi legato alle mani convulse il santo Rosario, come la più bella cosa da presentar alla Regina Madre della misericordia arrivato in Paradiso. Al Rosario sì, al Rosario non altrimenti che i popolani stendono la mano e il cuore anche gli uomini grandi. Il fiero connestabile Anna di Montmorency col Rosario in mano alla testa del cattolico esercito francese contra gli Ugonotti protestanti arrabbiati, mentre dava l’attacco della battaglia si segnava di croce alto gridando: Padre nostro, del cielo… liberaci dal male! Poi: Ave Maria! e tuonava il suo comando: battaglioni, avanti, attaccate alla destra. — Appendeva all’arcion della sella la corona, balenava come un fulmine innanzi a loro nella mischia; e, fugato il nemico, ripigliava in mano il Rosario dicendo: Santa Maria, prega per noi peccatori. Poi: Ave Maria… Battaglioni, attaccate alla sinistra, al centro; e sfondato l’inimico, ripigliava dalla sella in mano la corona dicendo: Santa Maria, prega per noi! — Ah fratelli, se si recitasse ancor da tutti noi il Rosario, non ci colpirebbero tanti insuccessi. Anche Enrico IV confessava altamente che sul trono recitava il Rosario almeno al sabato e alla domenica. Ricorderemo una gloria del Piemonte. Emanuele Filiberto di cui fu detto che non ebbe mai paura in tutta vita, fugati i francesi a S. Quintino, e così fermati i piemontesi sulle Alpi della Savoia, come nelle tende dei forti alla difesa d’Italia e formavale una sicura barriera. Ritornato trionfalmente in Torino il bravo duca alla testa di quella truppa d’eroi, e circondato dai cavalieri dell’Annunziata, fissati per legge in numero di Quindici ad onore dei Quindici Misteri, andava processionalmente recitando coi prodi la Corona a ringraziare della vittoria riportata, Maria santissima nella chiesa del Rosario. Nell’assedio di Torino, mentre cadevano le bombe ad incenerire la città, il beato Sebastiano Valfrè per salvarla, raccoglieva gli inermi innanzi alla cittadella a recitare il Rosario. Ma era riserbato a s. Pio V l’onore di francar col Rosario l’Europa dalla Turchia che la minacciava di schiavitù, giurato avendo il Sultano di voler tagliar la testa a tutti i Cristiani. Pio raccoglie dall’Italia, dalla Spagna e da altre nazioni quel po’ di navi che poté…. Era l’Europa nel più terribile frangente; ma il Papa ordina di recitare il Rosario dappertutto. Nell’ora del cimento Giovanni d’Austria colla bandiera di Gesù in passione dal santo Pontefice a lui affidata, stava nel golfo di Lepanto alla presenza della spaventosa flotta turchesca. Tremendo istante! Le due armate si guardano in solenne silenzio: Giovanni ritto in alto sulla capitana si segna di croce, mette un grido al Padre nostro in cielo, e poi: Ave Maria! e le flotte son nell’attacco. Si alza un vento e spinge le navi cristiane contro la flotta dei turchi: l’Europa è salva, perché la salvò Maria nel Rosario invocata. Pio era in Roma le cento e cento miglia lontano circondato dai cardinali; aprendo in quell’istante la finestra esclamava il Pontefice del Rosario: Ringraziamo Dio, che per Maria siamo salvati. La Chiesa consacrò la vittoria della libertà europea con una festa solenne, che Gregorio XIII volle si chiamasse solennità del santo Rosario, la prima domenica di Ottobre. Conchiuderemo con le approvazioni dei sommi Pontefici le quali per noi cattolici valgono più di tutte altre ragioni a raccomandarlo. Nicolò V, Urbano IV, Innocenzo VIII, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, Pio V, Urbano VIII lodarono ed approvarono sommamente il Rosario, e concessero tante indulgenze, per cui guadagnare debbono i fedeli farsi ascrivere alla Compagnia del santo Rosario. Madre di Dio e Madre nostra onnipotente, voi scorgete come freme orrenda e universale la guerra contro i fedeli: un altro Pio ricorre a Voi egli che vi proclamò Immacolata, forse perché nella maggior vostra gloria schiaccerete col piede immacolato la testa alla massima delle eresie!… al panteismo truce il quale si traduce praticamente in latrocinio universale, ed in delitto legale!… Noi non ardiremo più in là; ma pure inabissati nel nostro nulla, mentre nello scuro e pauroso orizzonte muggisce tant’orribile burrasca, nello splendore del vostro trionfo noi vogliamo gridare: Oh vedi l’arcobaleno annunziator della pace all’universo cristiano. È Maria proclamata da Pio IX Immacolata: Maria aiuto al tempo opportuno che noi invochiamo col Rosario. Il quale vi mostreremo a recitare nelle seguenti MEDITAZIONI.