DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (8)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(II)

2) Cosa vana sarebbe voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità una dottrina rigorosamente sistematica, da lei stessa compilata ordinandone gli elementi. Essa ha vissuto da contemplativa i più alti misteri della fede, e specialmente il dogma della inabitazione divina, senza mai pretendere di fare l’ufficio di dottore o di teologo, anzi, senza nemmeno supporre il valore e la missione universale da Dio riservata ai suoi scritti. Nelle sue note intime, essa stessa rimanda ad alcuni passi di san Giovanni della Croce che l’hanno particolarmente colpita, in cui il santo Dottore, nel suo Cantico spirituale, tratta della natura e degli effetti di questa misteriosa presenza divina. Vi si ritrova la classica dottrina della teologia cattolica vista in un’altissima luce contemplativa: Dio è sostanzialmente presente in tutti gli esseri con la sua potenza creatrice; a questa presenza comune, si aggiunge una presenza speciale, nelle anime dei giusti c negli spiriti beati, come oggetto di conoscenza e di amore nell’ordine soprannaturale. Suor Elisabetta della Trinità aveva meditato a lungo questi testi ed aveva attinto da san Giovanni della Croce gli elementi di una dottrina mistica su questa intima presenza di Dio nell’anima dei giusti, dottrina che costituisce una delle più tradizionali e più consolanti verità del Cristianesimo. La Chiesa ne ha sempre riconosciuto la sorgente nell’insegnamento così chiaro di Gesù: « Se alcuno mi ama e custodisce la mia parola, il Padre mio lo amerà; e noi verremo a lui e stabiliremo in lui la nostra dimora» (S. Giovanni, XIV-23). Il testo è chiaro. Il Figlio e il Padre, come pure lo Spirito Santo, che è Uno con Essi, abitano nell’anima fedele. Tutto il mistero della generazione del Verbo e della spirazione dell’Amore si compie silenziosamente nelle più intime profondità dell’anima. La nostra vita spirituale diviene una partecipazione continua alla vita della Trinità in noi. L’anima, divinizzata dalla grazia di adozione, viene elevata alla divina amicizia e introdotta nella famiglia della Trinità per vivervi come il Padre, come il Verbo, come l’Amore e insieme con Essi, della medesima luce e del medesimo amore, « consumata in Essi, nell’Unità » (S. Giovanni, XVTI-23.). – Gesù, nella sua preghiera sacerdotale, ci ha lasciato la descrizione di questa vita deiforme delle anime perfette, ammesse al consortium della vita trinitaria: « Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che Tu mi hai dati, affinché siano Uno con noi… Che tutti siano una cosa sola, e come Tu, o Padre, sei in Me ed Io in Te, così anch’essi siano in noi… Siano Uno, come noi lo siamo: Io in loro e Tu in Me, affinché siano consumati nella unità… e l’amore col quale mi hai amato sia in essi, ed Io in loro» (S. Giovanni, XVII… 26). Dopo un discorso così esplicito del Maestro, che cosa vogliamo di più? Fra la Trinità santa e noi, non vi è, no, unità di natura — sarebbe panteismo —, ma unità per grazia, che ci associa, a titolo di figli adottivi, alla vita stessa del nostro Padre dei Cieli ad immagine del Figlio, in un medesimo Spirito d’amore. Senza la Trinità, l’anima è deserta; ma non lo è più quando, possedendo in sé le Persone divine, essa viene ad entrare « in società » (Epistola Giovanni, 3.) intima col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo mediante la fede e la carità. Le tre divine Persone sono lì, sostanzialmente presenti nell’anima del piccolo battezzato che, secondo l’espressione di san Paolo, è divenuto « tempio dello Spirito Santo ». Tutta la nostra vita spirituale, dal battesimo alla visione beatifica, si svolge come un’ascesa progressiva e sempre più rapida verso la Trinità; ma la visione beatifica e, più ancora, tutti gli stati mistici intermedi, anche quelli più elevati dell’unione trasformante, sono in germe nel Battesimo. – Non si riflette abbastanza sull’importanza primordiale di questa grazia del santo Battesimo alla quale siamo debitori di potere entrare, come figli adottivi, nella famiglia della Trinità. – Questa bella teologia dell’inabitazione divina è il substrato della dottrina spirituale e della vita mistica di suor Elisabetta, e ci permette di seguirla nelle più recondite pieghe dell’anima sua. Essa non ha bisogno, per comprenderla, di lunghe dissertazioni sul come sia possibile il mistero; per la via della sapienza infusa, in tutta semplicità ma con rara profondità di pensiero, suor Elisabetta aveva penetrato il senso della sua vocazione battesimale, aveva compreso che, fin da questa vita, era chiamata a vivere secondo la parola di san Giovanni a lei sì cara « in società » con la Trinità santa. Aveva anche composto per sua sorella, quasi come testamento, un intero ritiro per spiegarle come si può « trovare il paradiso sulla terra ». Quelle pagine, da lei scritte nelle ultime settimane di vita e consegnate a Margherita dopo la sua morte, costituiscono insieme all’intimo ritiro di Laudem gloriæ, quasi una piccola « Somma » della sua dottrina spirituale nella fase più evoluta. Ora, fin dalla sua prima orazione, suor Elisabetta, elevandosi all’altissima luce contemplativa della Preghiera sacerdotale di Cristo, considera il nostro soprannaturale destino secondo le parole stesse del suo Maestro che chiama le anime alla loro « consumazione nell’Unità » (S. Giovanni, XVII-23) della Trinità mediante la grazia. « Padre, io voglio che, dove sono io, anch’essi, quelli che Tu mi hai dati, siano meco, affinché contemplino la gloria che mi hai data, perché mi hai amato prima della creazione del mondo » (S. Giovanni, XVII-24). –  Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre. Egli vuole che là dov’è Lui, ci siamo noi pure, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È importante quindi sapere dove noi dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo dono divino. Il luogo in cui si cela il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana, il che fa dire ad Isaia: « Tu sei veramente un Dio ascoso » (Isaia, XLV-15). E tuttavia, la sua volontà è che siamo fissati in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, in unità d’amore; che siamo, per così dire, la sua stessa ombra. « Col battesimo — dice san Paolo — noi siamo stati innestati in Gesù Cristo » (Romani, VI-5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei cieli in Cristo Gesù, per mostrare ai secoli futuri le magnifiche ricchezze della sua grazia ». Poi soggiunse: « Voi non siete più pellegrini o stranieri; ma siete concittadini dei santi; siete della famiglia di Dio» (Efesini, II, 6, 7). « La Trinità! ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna da cui non dobbiamo uscire mai » (« Il paradiso sulla terra »).

3) Il luogo di questo incontro dell’anima col suo Dio è nell’anima stessa, nel centro più profondo del suo essere. I mistici chiamano mens o vertice dell’anima questo luogo recondito e segreto delle divine operazioni, dove Dio solo penetra e può agire; invece suor Elisabetta della Trinità, accostandosi di preferenza alla terminologia di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, lo designa come « il centro dell’anima », il suo centro più profondo. « Questo cielo, questa casa del nostro Padre, è nel centro dell’anima nostra; quando ci troviamo nel centro più profondo di noi stessi, allora siamo in Dio » (Alla sorella -, Agosto 1905). « Per trovarlo, non abbiamo bisogno di uscirne, perché il regno di Dio è « dentro di noi» (S. Luca, XVII-21). San Giovanni della Croce dice che proprio nella sostanza dell’anima, inaccessibile al demonio e al mondo, Dio le si dona; allora, tutti i moti dell’anima diventano divini, e quantunque siano di Dio, sono però anche suoi, perché in lei e con lei il Signore li produce. San Giovanni dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; dunque, quando essa conoscerà Dio perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà, e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che possa raggiungere in Lui. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto già si trova in Dio che è suo centro; ma non è ancora nel suo centro« più intimo » potendosi inoltrare di più. Poiché l’amore unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa penetra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, l’anima è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la sua perfezione, essa sarà penetrata nel suo centro « più profondo »; e lì, sarà trasformata a tal punto, da divenire molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » si possono rivolgere le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno, sulla terra, a nessuno nel cielo; perché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui» (« Il paradiso sulla terra » – 3a orazione.).

4) Questa divina presenza, misteriosa e reale, resta inaccessibile ai sensi: « Dio è spirito » e chi si avvicina a Lui, deve farlo « in ispirito e in verità » (S. Giovanni, IV-24). Con cura particolare, suor Elisabetta insiste nel rilevare che la sensibilità, in tutto questo, non ha nulla a che fare. La brama di sentire Dio è proprio lo scoglio dei principianti, nella vita spirituale; ma anche le anime più progredite nella perfezione provano talvolta molta e penosa difficoltà a liberarsi da tale desiderio che persiste, celandosi sotto i pretesti più sottili. Suor Elisabetta della Trinità aveva imparato, con la propria esperienza, a diffidare della sensibilità, e il ricordo delle dure purificazioni che, per tutto l’anno del noviziato, erano state quasi il suo pane quotidiano, serbava l’anima sua attenta a non cercare che la pace di Dio, la quale « supera ogni sentimento » (Filippesi, IV-7.). Dopo le prime inebrianti gioie sensibili della presenza divina di cui il Padre Vallée le aveva dato piena certezza, Elisabetta dovette ben presto aggrapparsi alla sua fede per trovare Dio presente dentro di sé. « Non più un velo soltanto, ma un grosso muro me Lo nasconde. È cosa dura, non ti pare, dopo averlo sentito così vicino? Ma sono pronta a rimanere in questo stato per tutto il tempo che piacerà al mio Diletto lasciarmici, perché la fede mi dice che Egli è qui lo stesso; e allora, che cosa importano le dolcezze, le consolazioni? Esse non sono Lui; mentre Lui solo noi cerchiamo. Andiamo dunque a Lui nella fede pura» (Lettera a M. G… – 1901).

5) Per progredire sicuramente in « questa via magnifica della presenza di Dio» (Ultimo ritiro – 9° giorno), la fede è l’atto essenziale, il solo che ci consenta di accedere al Dio vivo, ma ascoso. « Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » Hebr., XI-6), ci dice san Paolo; e soggiunge: «la fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non vediamo » (Hebr., XI-1). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». – Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo per raggiungere l’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva, zampillante fino alla vita eterna » che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dona, è vero, celato nel velo di cui l’avvolge, ma pur sempre Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto » (ossia la chiara visione) « ciò che è imperfetto » (o, in altre parole, la conoscenza dataci dalla fede) « avrà fine » (I Corinti, XIII-10). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il segreto di cui parla san Paolo, ascoso nel cuore del Padre, e che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Hebr. Ebrei, XI-27). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza; essa crede al suo amore e basta. Quanto più è provata, altrettanto cresce la sua fede, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito, il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va’ in pace; la tua fede ti ha salvata » (« Il paradiso sulla terra »). – Suor Elisabetta fu fedele sino alla fine nell’andare a Dio con la fede pura. « Una Carmelitana — diceva — è un’anima di fede ». E, anche dopo la grazia. Straordinaria ricevuta nell’ultima festa dell’Ascensione che passò sulla terra, quando le tre divine Persone le si manifestarono, con irresistibile evidenza, presenti nell’anima sua ove tenevano notte e giorno « il loro onnipotente Consiglio » (Formula con la quale esprimeva alla sua priora la grazia dell’Ascensione del 1906), anche allora suor Elisabetta, reclusa nella solitudine dell’infermeria, dovrà cercare il suo Dio mediante la fede. È la condizione assoluta di ogni vita divina sulla terra. « Io sono la piccola reclusa del buon Dio; e quando rientro nella mia cara celletta per continuarvi il colloquio già iniziato, mi sento invasa da una gioia divina. Amo tanto la solitudine con Lui solo, e conduco una piccola vita di eremita, veramente deliziosa; eppure è ben lungi dall’essere esente da dolorose impotenze; ho tanto bisogno anch’’io di cercare il mio Signore che sa nascondersi così bene! Ma allora, risveglio la mia fede, e sono più contenta di non gioire, io, della Sua presenza, perché gioisca Lui, invece, del mio amore» (Alla sorella – 15 luglio 1906). La sua vita religiosa fu la realizzazione delle parole sentite nell’intimo, mentre pregava in coro, la notte che precedette la sua professione: «…il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903).

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.