DISCORSO PER LA I DOMENICA DI AVVENTO

DISCORSO PER LA I DOMENICA

DELL’AVVENTO

[Mons. J. Billot: Discorsi parrocchiali; Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la seconda venuta del Figliuolo di Dio, ossia sopra il giudizio universale.

Tunc videbunt Filium hominis venientem in nube cum potestate magna et maiestate.”

Luc. XXI.

Eccovi, fratelli miei, una venuta del figliuolo di Dio assai diversa da quella in cui apparve la prima volta sopra la terra. Egli è per verità lo stesso Gesù Cristo Figliuol di Dio e figliuolo dell’uomo che si fa vedere nell’una e nell’altra. Ma in questa seconda venuta non è più quel Dio vestito d’infermità, nascosto nell’oscurità di una stalla, carico di obbrobri, oppresso sotto il grave peso di una croce, come si mostrò nella prima: Egli è un Dio rivestito dallo splendore della sua potenza e della sua maestà, che fa annunciar la sua venuta coi prodigi più stupendi, coll’ecclissarsi del sole e della luna, con la caduta delle stelle, con un intero rovesciamento di tutta la natura. Non è più un salvatore che viene con la mansuetudine di un agnello per esser giudicato dagli uomini e riscattarli; ma è un giudice irritato che viene a giudicar gli uomini e condannarli. Non è più un pastore misericordioso che viene a cercare la sua pecorella smarrita per perdonarle; ma è un Dio vendicatore che viene a separare i capretti dagli agnelli, i malvagi dai buoni, per far loro sentire tutto il peso delle sue terribili vendette. – Ora, fratelli miei, quando vedremo noi in tal modo comparire questo Figliuolo dell’uomo attorniato di gloria e di maestà? Ciò sarà al fine del mondo, nel gran giorno del giudizio, in cui gli uomini tutti risuscitati compariranno per ricevere la ricompensa delle loro opere buone ovvero il castigo delle loro colpe. Ma quando verrà questo giorno terribile e formidabile, questo giorno ripieno di amarezza e di spavento, che ci è descritto dal Vangelo? Non posso io dirvelo, perché Gesù Cristo, che ce ne dipinge le circostanze, ci assicura che la sua ora non si sa da alcuno, fuorché dall’eterno Padre e da coloro cui ad esso piaciuto è di rivelarlo. Ma in qualunque tempo sia per accadere, egli è sempre certo che noi dobbiamo tutti comparirvi e che vi Siam più vicini di quel che pensiamo, poiché potendo a ciascun momento morire, noi subiremo dopo la nostra morte la sentenza decisiva di nostra eternità, che sarà lo stesso che nel giudizio universale. – Ma qual sarà questa sentenza? Sarà quella, fratelli miei, che ci avremo meritata durante la vita. La nostra sorte è dunque nelle nostre mani: non dipende che da noi di renderci sin d’ora propizio e favorevole il nostro giudice. Ora il mezzo di riuscirvi si è di essere penetrati da un salutevole timore dei giudizi di Dio. Questo timore, che ha popolato i deserti ed ha fatto un sì gran numero di santi, farà su di noi le medesime impressioni, se, come essi, ci rappresentiamo alla mente uomo spaventevole, se attenti ci rendiamo a quella terribile voce che deve citare i morti al giudizio di Dio: Surgite, mortui, venite ad iudicium. – O voi che sepolti siete nella tomba del peccato, uscite da questa tomba e venite al giudizio; venite ad istruirvi del modo in con cui vi sarà trattato il peccatore per procurarvi una sorte più favorevole. Il peccatore al giudizio di Dio sarà oppresso dalla più amara confusione: prima parte. Il peccatore al giudizio di Dio sarà condannato con estremo rigore: parte seconda. Confusione del peccatore, condanna del peccatore; due motivi capacissimi d’indurlo a far di tutto per evitare con una sincera penitenza il rigore dei giudizi di Dio. Noi non tratteremo che il primo punto il quale ci fornisce una materia assai ampia d’istruzione.

I.° Punto. Appena gli uomini risuscitati alla voce dell’Angelo radunati si saranno nel luogo dal supremo giudice destinato, gli Angeli, ministri delle vendette del Signore, separeranno i capretti dagli agnelli, i malvagi dai buoni: i buoni collocati saranno alla destra di Gesù Cristo, i malvagi alla sinistra. Separazione crudele, separazione umiliante, separazione eterna, che sarà pei malvagi la sorgente della più terribile disperazione! Dissi separazione crudele, che dividerà il figliuolo dal padre, la madre dalla figliuola, il fratello dalla sorella, il marito dalla moglie, gli amici più intimi. Separazione la più umiliante, dove non si conosceranno più quelle distinzioni vane e chimeriche di cui si fa tanta stima dal mondo; dove non si avrà più riguardo né al grado, né alla qualità né alle ricchezze né al credito né alla grandezza né alla possanza; dove il povero umile sarà innalzato sopra il ricco superbo, il servo fedele sopra il duro e crudele padrone. Separazione umiliante: i santi e i reprobi compariranno in quel gran giorno, ma ohimè! qual differenza! i santi vi compariranno con corpi gloriosi, impassibili, risplendenti come stelle; i reprobi con corpi difformi, spaventevoli, la cui sola vista sarebbe capace di dare loro la morte, se potessero ancora una volta morire. Strana metamorfosi per quelle bellezze di cui adesso si pregiano le qualità e di cui si disprezzeranno allora le attrattive! Separazione eterna, che non sarà più per un dato tempo, come quella di una lunga assenza o quella che si fa presentemente con la morte, che separandoci dai nostri parenti, dai nostri amici, ci lascia la speranza di rivederli un giorno e di riunirci con loro. Ma la separazione che si farà al giudizio di Dio sarà irrevocabile, sarà eterna: giammai i cattivi, malgrado qualunque sforzo che possasi fare, non potranno riunirsi coi buoni: il peccato ha formato tra gli uni e gli altri un muro di separazione che non potranno mai superare. Eccoci dunque, diranno i malvagi nell’amarezza del loro cuore; eccoci divisi da quei felici predestinati di cui trattavamo di follia la condotta! Ma quanto eravamo noi insensati di non vivere come essi! Sono eglino nel numero dei santi, e noi saremo per sempre nel numero dei riprovati: O nos insensati! vitam illorum æstimabamus insaniam, et inter sanctos sors illorum est ( Sap. V). Ecco, fratelli miei, ciò che opprimerà i malvagi della più amara confusione al giudizio di Dio: ma quanto più si aumenterà questa confusione dalla manifestazione che si farà dei loro misfatti! Manifestazione la più esatta, in cui nulla verrà dimenticato; manifestazione la più desolante, perché si farà al cospetto dell’universo. – A forza di trasgressioni il peccatore si accieca, s’indura quaggiù, beve l’iniquità come l’acqua; la coscienza sua or non parla, muta la rendono le sue resistenze: ma nel gran giorno delle vendette essa ripiglierà i suoi diritti, importuni saranno i suoi gridi, e niente potrà soffocarli: si, al giudizio di Dio, il libro delle coscienze sarà aperto, tutte le azioni vi saranno ad una ad una notate, e ciascheduno potrà leggervi con agevolezza: già il supremo giudice, riassumendo i capi d’accusa che hanno servito al giudizio particolare, fa vedere i delitti tutti che il peccatore ha commessi e di cui è stato cagione, tutte quelle negligenze a far il bene che far doveva, oppure che non ha fatto come doveva: l’abuso di tutte le grazie ricevute. Si leggeranno in questo libro tutte le opere d’iniquità di cui il peccatore si è renduto colpevole durante la sua vita: quelle parole disoneste, ingiuriose a Dio o al prossimo; non vi sarà dimenticata neppure una parola oziosa. Vi si scopriranno tutti i movimenti sregolati del suo cuore, tutti i pensieri peccaminosi della sua mente, In una parola, tutti i peccati di pensieri, di parole, di opere di ciascun anno, di ciascun mese, di ciascun giorno vi saranno smascherati e descritti senza eccezione nel loro numero, nelle loro circostanze; il peccatore li vedrà, li vedrà tutti, li vedrà malgrado suo in un colpo d’occhio e ne fremerà di dolore: Peccator videbit, fremet, et tabescet. ( Psal. III). In qual confusione, in qual costernazione noi getterà la vista di questi oggetti sì spaventevoli, che si presenteranno a lui come opera sua? Imperciocché non sarà, fratelli miei, la conoscenza che avrà allora il peccatore delle sue iniquità come quella che ne ha al presente. L’ignoranza che offusca i lumi della sua mente, l’amor proprio, sempre industrioso a mascherare le sue azioni, sempre facile a perdonarsi, gli nascondono quaggiù i suoi difetti; egli confonde sovente il vero col falso, il bene col male, per via di false interpretazioni che una coscienza mal regolata dà alla legge del suo Dio. Ma nel gran giorno delle comparse ogni nebbia sarà dissipata, tutto comparirà alla scoperta; il peccato, spogliato di tutti i vani pretesti che gli servivano di scusa, si farà vedere coi più neri colori; Iddio, i cui occhi penetrarono sino i più occulti nascondigli delle coscienze, scoprirà, manifesterà tutto quanto vi sarà di più segreto: Nihil est opertum quod non reveletur (Luc. XII). Farà uscire dal fondo di queste coscienze, che non saranno più accecate dalla passione, un’infinità di peccati o dimenticati o non mai ben conosciuti. Qual sarà dunque, ripeto, la confusione del peccatore alla vista di tutti questi mostri che si presenteranno a lui in tutta la loro difformità? Allora sì che comparirà in piena luce o uomini vani e superbi, quell’orgoglio che vi predomina e che adesso chiamate grandezza d’animo; quella brama che avete di comparire e d’innalzarvi al di sopra degli altri; quegli artifizi di cui vi servite, quei raggiri perversi che la vostra ambizione v’inspira per giungere al fine che vi proponete; quei mezzi d’iniquità che soliti siete metter in opera per ingannare gli uni e soppiantare gl’altri, per introdurvi in impieghi di cui siete indegni: allora la luce di Dio vi circonderà, essa dissiperà le vostre tenebre, e voi conoscerete i vostri errori: Nihil est opertum quod non reveletur. Allora si conoscerà, o uomini sensuali e voluttuosi quell’amor profano che tiene schiavo il vostro cuore, quei pensieri disonesti, quei desideri malvagi, quegli sguardi lascivi, quei segreti maneggi di cui vi servite per mantenere un commercio illecito, quelle infedeltà tra i maritati, quei vergognosi piaceri che vorreste potere a voi medesimi occultare: Nihil est opertum, etc. Allora si scoprirà, o uomini avari, quella cieca passione che vi attacca ai beni della terra, quella pretesa economia che serve di velo alla vostra passione: quelle precauzioni in avvenire non passeranno più che per sordida avarizia, per cieco attaccamento ai beni del mondo, mostruosa insensibilità alle miserie dei bisognosi: Nihil est opertum, etc. Allora si manifesterà, o uomini vendicativi, tutta la malignità di quelle inimicizie che conservate, quelle affettazioni di rispetto che usate, quei pretesi sentimenti di onore di cui vi prevalete nel cercare la vendetta di un’ingiuria. – E voi, o ingiusti usurpatori, che vi credete in sicuro perché nascondete agli occhi degli uomini le vostre ingiustizie, o che per commetterle vi appoggiate sopra i principii di una falsa coscienza che vi accieca; usurai, che palliate le vostre usure sotto il nome di contratto legittimo, di compensazione o d’interesse permesso; voi che nei vostri negozi vi servite delle frodi e delle menzogne per ingannar coloro che trattano con voi, tutte le vostre trufferie, i vostri inganni saranno in pieno giorno manifestati, verranno da tutto l’universo conosciuti, In una parola, peccatori di qualunque sorta voi siate, qualsivoglia peccato abbiate commesso dal primo istante di vostra ragione sino all’ultimo respiro di vostra vita, benché siano stati nascosti, se voi non li avete cancellati con una sincera penitenza, compariranno sveltamente agli occhi di tutti gli uomini; questo è ciò che accrescerà la vostra confusione: Nihil est absconditum, quod non sciatur (ibid.). – E per verità, in quale stato umiliante comparirete voi! Di qual obbrobrio non sarete voi oppressi, voi che prendete tante precauzioni per occultare i vostri misfatti agli occhi degli uomini, allora quando il Signore li farà conoscere a tutte le nazioni della terra? Cercate pur adesso quanto vi piace i luoghi più oscuri, i tempi più favorevoli ad appagare le vostre passioni: il Signore metterà alla luce tutte le vostre opere di tenebre: Illuminabit abscondita tenebrarum (1 Cor. IV) . Valetevi pure di tutti gli artifizi che ingannar possano gli uomini per comparire agli occhi loro quel che non siete; voi potete ingannarli, ma non ingannerete Iddio che conosce tutto e scoprirà tutto quello che siete. Coprite pure i vostri vizi col manto della virtù per conservarvi la stima degli uomini; Dio saprà squarciar il velo che l’ingannava, aprirà Egli quei sepolcri imbiancati per manifestarne la corruzione. – In quale stato comparirete voi, e quale sarà la vostra confusione, voi che la vergogna trattiene di scoprire al ministro del Signore l’ulcera che infetta l’anima vostra? Giudicatene da quella che risentite nel tribunale di penitenza quando dichiarate le vostre laidezze ad un sol uomo di cui sicuri siete del segreto. Giudicatene da quella che ricevereste, se le vostre azioni venissero vedute da qualche persona che aveste in considerazione, e ai cui occhi vorreste involarvi; peggio sarebbe ancora se i vostri peccati fossero conosciuti da tutta questa assemblea, se in questo momento Iddio rivelasse tutti i pensieri della vostra mente, tutte le inclinazioni disordinate del vostro cuore a tutti coloro che sono qui presenti? Che sarà dunque il comparire carichi dei misfatti più vergognosi non agli occhi di un piccol borgo, di una città, di una provincia, ma in faccia dell’universo? Voi avrete, o peccatori, tanti testimoni dei vostri mancamenti, quanti uomini vi saranno stati dal principio del mondo sino al fine. Oh chi sostener potrà una

confusione così generale e così vergognosa! Che sarà dunque del peccatore, il quale, oltre i suoi mancamenti personali si vedrà ancora carico dei peccati altrui, o per esserne stato la cagione o per non averli impediti? Gl’imputerà Iddio questi peccati e gliene farà subir la vergogna alla presenza dell’universo insieme raccolto. Tremate, scandalosi, che comunicate a coloro che vi frequentano la contagione di cui siete infetti, che coi vostri cattivi consigli, coi vostri esempi perniciosi loro insegnate il male che ignoravano, li inducete nelle vostre dissolutezze, nei vostri intrighi scellerati; voi che con le vostre parole oscene, coi vostri discorsi seducenti, coi vostri modi lusinghieri servite di pietra d’inciampo ad anime innocenti, o che vi valete della vostra autorità per farle vittime della vostra passione. Quali rimproveri amari dal canto loro! qual conto terribile vi farà rendere Dio della perdita loro! Sanguinem eius de manu tua requiram (Ezech. III). – Tremate , padri e madri e voi tutti cui Dio ha data l‘autorità per correggere e reprimere i disordini; se, invece di riprendere i vostri figliuoli e quelli che vi sono soggetti, trattenuti li avete nel vizio con la vostra indolenza dell’istruirli e nel correggerli; più ancora, se li avete autorizzati coi vostri cattivi esempi o portati al male con le malvage impressioni che loro avete dato, voi sarete nel giorno del giudizio carichi delle loro iniquità, voi ne porterete l’onta e la confusione: sanguinem eius de manu requiram. Quei figliuoli, quegl’inferiori chiederanno a Dio vendetta contro di voi che foste la causa della loro dannazione. Almeno se il peccatore avesse fatto opere buone che avessero riparato i suoi mancamenti, se avesse fatto penitenza dei suoi peccati, se riscattati li avesse con limosine, espiati con mortificazioni, si sarebbe messo al coperto dalla confusione che dovrà subire, dal rigore con cui sarà trattato al giudizio di Dio: ma quanti peccatori avranno a soffrire dalla parte del supremo Giudice i rimproveri più giusti della loro negligenza a far il bene che erano obbligati di fare! Quanti peccatori la cui vita comparirà nel giorno del Giudizio miseramente vuota affatto di penitenza, di preghiere, di limosine, di opere buone! Ed eccovi ancora uno dei capi che servirà particolarmente a confondere e a far condannare il peccatore nel finale giudizio: dico a confonderlo per lo cambiamento d’idee e di sentimenti che si avranno a suo riguardo, ben differenti da quelli che altre volte si avevano. – Quel peccatore era tenuto nella opinione del mondo per uomo giusto perché non faceva torto ad alcuno; perché non si abbandonava ad eccessi: ma Dio farà vedere che, per esser giusto ai suoi occhi, non bastava evitar il male, bisognava anche far il bene; ed ecco il perché dissi che l’omissione delle opere buone servirà a far condannare il peccatore, e lo dico appoggiato all’autorità del Vangelo. Partitevi da me, dirà Gesù Cristo ai reprobi, perché ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete, e non mi avete dato da bere, ignudo non m’avete vestito, pellegrino non m’avete ricevuto, infermo non mi avete visitato. Ma quando fu mai, o Signore, diranno i reprobi, che noi vi abbiamo ricusati questi soccorsi? Ogni qualvolta ricusati voi li avete ai poveri, che avevate in mia vece, a me stesso li avete ricusati: Quandiu non fecistis uni de minoribus his, nec mihi fecistis (Matt. XXV). – Ma a che dunque serviranno, o gran Dio, quei digiuni, quelle preghiere, quelle limosine, quelle confessioni, quelle Comunioni? E non è questo il contrappeso di tanti peccati, di tante negligenze? Voi l’avete creduto, peccatori addormentati; ma quel che giudica le giustizie medesime, come parla il Profeta, ha trovato tanta condiscendenza ed amor proprio in questi digiuni, tante volontarie distrazioni in queste preghiere, tanta ostentazione in queste limosine, tante ricadute dopo queste confessioni, tanta irriverenza in queste Comunioni fatte per usanza, che al giorno d’oggi la sua giustizia trova tutte le vostre opere degne del suo sdegno, senza trovarne una che meriti le sue ricompense: Ego iustitia iudicabo (Psal. LXXIV 74). In questa maniera, fratelli miei, il divino scrutatore dei cuori farà, come dice l’Apostolo, l’esatta ricerca dei nostri pensieri e delle nostre intenzioni; separerà i motivi e i fini che ci hanno fatto operare; e farà vedere ad un gran numero di coloro che si credevano ricolmi di meriti pel cielo che nulla han fatto per meritarlo. Qual sorpresa per tanti Cristiani ingannati che, oppressi dai travagli durante la loro vita, non avranno avuto che la pena della virtù, senza averne la ricompensa? Perciocché la loro virtù non

aveva che una corteccia di santità, che loro aveva meritata la stima degli uomini, ma non già quella di Dio: mentre il Signore giudica assai diversamente degl’uomini intorno alle nostre azioni. Gli uomini si attengono all’esteriore, ma Iddio esamina il fondo dei cuori, penetra sino le intenzioni più segrete, che rendono difettose le nostre azioni: Appenda corda Dominus. Nuovo motivo di confusione per li pretesi sapienti del secolo, che, vedendo la loro virtù spogliata delle belle apparenze, perderanno al giudizio di Dio tutta la riputazione e tutta la stima che questa falsa virtù loro aveva attirata sopra la terra. Voi credevate, dirà il Signore, le vostre virtù perfette, perché gli uomini le canonizzavano; ma adesso che pesate sono nella bilancia del mio santuario, non hanno esse il peso ed il valore che aver debbono per meritar le mie ricompense: Juventus es minus habens (Dan. V). Voi vi credevate ricchi in virtù ed in meriti sopra la terra; ma siete veramente poveri e miserabili, spogliati di ogni merito pel cielo. Terribile discussione, fratelli miei, che ha sempre fatto tremare i più gran santi per le loro medesime opere buone; che faceva dire al Re-Profeta, e che con più di ragione deve far dire a noi: Ah! Signore, Signore, non entrate in giudizio col vostro servo, perché nessun uomo sarà innanzi a voi giustificato: Non intres in iudicium (Psal.141). Guai, dice s. Agostino, alla vita più lodevole, se Dio la giudica con rigore! Ciò essendo, qual precauzione non dobbiamo noi prendere non solo per non fare cosa alcuna che offender possa gli occhi di un giudice sì illuminato, ma ancora per adempierne tutti i nostri doveri con tutta la perfezione che da noi richiede, per mettere a profitto tutte lo grazie che ci ha fatte, ed il cui abuso finirà di confondere il peccatore al giudizio di Dio’! – Ed invero, senza parlare di tutti i beni della natura e della fortuna che servir potevano al peccatore, quali mezzi di salute pel santo uso che far ne doveva, quante grazie e quanti aiuti non ha egli ricevuto nell’ordine soprannaturale, dei quali non dipendeva che da lui il profittare per guadagnarsi il cielo! Grazia di vocazione al Cristianesimo, dove il Signore l’ha fatto nascere a preferenza di tanti altri che non hanno avuto questo vantaggio; grazie ricevute nel seno del Cristianesimo per i Sacramenti a lui amministrati, per le istruzioni e gli avvisi ricevuti. Quante vive illustrazioni che hanno rischiarata la sua mente! quanti buoni movimenti che hanno toccato il suo cuore, che l’hanno allontanato dal male, e portato al bene! Quanti aiuti dalla parte di quelli con cui egli ha conversato, dei buoni libri che ha letto e dì mille occasioni cui Dio attaccato aveva la sua salute. Ma perché egli se n’è abusato, saranno per lui queste grazie per funesto cambiamento altrettanti motivi di riprovazione. Guai a te, diceva altre volte Gesù Cristo a Corozain, guai a te, o Bethsaida, perché se Tiro e Sidone avessero veduti gli stessi prodigi, avrebbero fatta penitenza; ma perché voi l’avete omessa, quantunque abbiate ricevute maggiori grazie che quei popoli, voi sarete trattati con maggior severità di loro: Tyro et Sidoni remissius erit in iudicio quam vobis (Luc. X) . Terribile, ma pure assai naturale figura del vostro destino al giudizio di Dio, peccatori che mi ascoltate: farà vedervi allora per vostra confusione una folla di nazioni più barbare che popolato avrebbero il cielo, se avessero avuto una parte solamente delle grazie che ha dato a voi. Non avran dunque motivo quelle nazioni di sollevarsi contro di voi e di rimproverarvi la vostra infedeltà alla grazia di vostra vocazione? L’augusto carattere di cui siete ornati, che doveva fare la vostra gloria, non servirà allora che a coprirvi d’ignominia, né vi distinguerà dagli altri che per far vedere quanto più colpevoli siete stati di non esser vissuti in quella maniera che richiedeva la santità di vostra vocazione. E che? Esclameranno allora quei popoli idolatri ed infedeli; se noi avessimo avuti i medesimi aiuti per guadagnar il cielo, le istruzioni di cui non han fatto profitto, i Sacramenti che hanno profanato, non saremmo presentemente le vittime destinate all’inferno. Vendicatevi, o Dio giusto, dell’ingiuria che quei Cristiani vi han fatta; meritano, meritano essi più di noi di provare i vostri castighi. A rimproveri sì amari, e sì desolanti che avranno a rispondere i Cristiani, se non se confessare con altrettanto dolore che confusione il torto ch’essi hanno avuto di non aver profittato delle grazie di salute? Guai a noi, diranno nell’amarezza del loro cuore, guai a noi, perché abbiamo peccato! Ma confessione inutile, penitenza infruttuosa, che non sarà più a tempo! Nel trasporto di un’orribile disperazione pregheranno le montagne di cader sopra di essi per involarli alla confusione, che li desolerà: montes cadite super nos. Ma le montagne saranno sorde alle loro grida. Converrà portare tutto il peso della confusione che ne verrà dalla manifestazione dei loro peccati. Converrà ancora subir la sentenza di condannazione che sarà contro di essi fulminata. Ma prima d’intendere questa sentenza, facciamo, fratelli miei, alcune riflessioni sopra noi medesimi per frutto di questo primo punto.

Pratiche. Giacché la separazione che si farà al giudizio di Dio dei buoni e dei cattivi deve cagionar al peccatore sì pungenti rammarichi, bisogna dunque, o peccatori, profittare adesso dei vantaggi che cavar potete dalla compagnia dei buoni, seguendo i loro avvisi ed imitando le loro virtù. Giacché il peccatore deve essere oppresso da amarissima confusione al giudizio di Dio per la manifestazione che si farà de’ suoi misfatti, bisogna dunque, o peccatori, farne adesso una sincera penitenza che li cancelli e li faccia per sempre dimenticare. Il mezzo di risparmiarvi la confusione che dovreste soffrire nel gran giorno delle rivelazioni si è di subir quella che si prova a dichiarar i vostri peccati al ministro del Signore. Manifestarli al tribunale della penitenza si è nasconderli per sempre: una volta perdonati, non vi saranno rimproverati più mai. Ora non è meglio soffrire una confusione leggiera e di passaggio, dichiarando i vostri peccati ad un sol uomo, che vederli un giorno manifestati non ad un uomo solo, ma a tutto quanto l’universo? – Animatevi con questa riflessione a superare la difficoltà che trarne potete nel dichiararli. Formate la sincera risoluzione di nulla fare al presente di che possiate pentirvi al giudizio di Dio; fate al contrario tutto ciò che vorreste allora aver fatto. Ora, se aveste a comparire oggi avanti al vostro giudice, che cosa vorreste aver fatto? In qual modo vorreste aver vissuto? Vorreste voi comparire al giudizio con la roba altrui, col rancore contro del vostro prossimo, infangato in qualche pratica peccaminosa o in qualche cattivo abito? No, senza dubbio: non differite più adunque a restituire la roba altrui, a riconciliarvi col prossimo, a romper quella pratica, a correggere quell’abito. Quale stima farete voi al giudizio di Dio dei beni, degli onori, dei piaceri della terra? Giudicatene adesso come ne giudichereste allora, e subito ne concepirete un assoluto disprezzo. Quale stima all’opposto non farete voi della povertà, delle croci, delle umiliazioni? Vorreste allora esser vissuti come i più ferventi anacoreti ed esservi arricchiti di tutti i tesori delle buone opere. Fate dunque al presente tutte quelle provvisioni che non sarete più

in tempo di fare allora. Oh quanto più grandi piaceri, dice l’autore dell’imitazione, cagioneranno allora le lagrime dei penitenti che le allegrezze tutte della terra! Quanto saremo più contenti di aver castigata la nostra carne colla mortificazione che di averla nutrita nelle delizie e di aver frequentate le chiese, visitati gl’infermi, che di aver assistito alle profane combriccole! Quanto ci troveremo più soddisfatti di esser stati assidui all’orazione, a frequentar i sacramenti, che d’esserci dati ai divertimenti del mondo! L’amor del silenzio, la pazienza nelle afflizioni saranno molto più stimati che la più splendida fortuna, la riputazione più gloriosa: l’umiltà sarà preferibile agli onori, la povertà alle ricchezze, la mortificazione ai piaceri. Pensiamo, operiamo come vorremmo aver fatto allora. Adempiamo con fedeltà gli obblighi tutti del nostro

stato. Temiamo per tutte le nostre opere diffidiamo delle intenzioni che ci fanno operare, per far tutto il bene che dipende da noi con la perfezione che Dio domanda; assicuriamo la nostra predestinazione con le buone opere, le quali saranno tutta la nostra consolazione e ci faranno comparire con fiducia al giudizio in compagnia dei santi, per ricevervi una egual ricompensa, che sarà la vita eterna. Così sia.

 

TEMPO DELL’AVVENTO (2018)

TEMPO DELL’AVVENTO.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la prima venuta del Figliuolo di Dio, ossia sopra il mistero dell’Incarnazione.

Venit fortior me post me, cuius non sum dignus solvere corrigiam calceamentorum eius

S. Luc. III.

Non possiamo meglio, fratelli miei, impiegare il santo tempo dell’Avvento, che incominciamo nel giorno d’oggi, che occupandoci con la Chiesa intorno alla venuta del Figliuolo di Dio sopra la terra : tale è l’oggetto che questa santa Madre propone alle nostre riflessioni durante questo santo tempo, sia negli uffizi che celebra, sia nelle istruzioni che ci dà. Ora convien distinguere due sorta di venuta del Figliuol di Dio: l’una, che ha fatto comparire la sua misericordia e deve darci confidenza: l’altra, che manifesterà la sua giustizia e deve ispirarci timore. La prima apparve nel mistero dell’incarnazione, quando il Figliuolo di Dio si fece uomo per salvarci. La seconda si farà nel fine del mondo, allorché questo stesso Figliuolo di Dio fatto uomo verrà per giudicarci. Di quella prima venuta del Figliuolo di Dio nel mistero dell’incarnazione rende testimonianza S. Giovanni Battista, allorché, parlando di Gesù Cristo, dice che viene uno dopo di lui, il quale è stato prima di lui ed è di lui più potente, a cui non è egli degno di slacciare i legami delle scarpe: Venit fortior me, etc. mentre dicendo che Gesù Cristo è stato prima di lui, che è più potente di lui, confessa con questo la sua divinità; ed aggiungendo che viene dopo di lui, esprime la generazione temporale della sua umanità, e dichiara con ciò che Gesù Cristo è Dio e uomo tutto insieme, per l’unione che si è fatta in Lui della natura divina con la natura umana, e che per conseguenza è il Messia da tanti secoli aspettato, il desiderato dalle nazioni, il Salvatore del mondo. Testimonianza di S. Giovanni, che era tanto più capace di persuadere ai Giudei la venuta del Messia nella persona di Gesù Cristo, quanto che veniva da un uomo, che era creduto egli stesso il Messia; e che ricusando quest’augusta qualità per attribuirla a Gesù Cristo, doveva senza dubbio essere sulla sua parola creduto. Questa venuta del Figliuolo di Dio nel mistero dell’incarnazione, dovrebbe, fratelli miei, essere il soggetto continuo delle nostre riflessioni, poiché il fondamento della nostra più ferma speranza. – Che però, per richiamarlo alla memoria dei fedeli, la Chiesa ha specialmente destinato il santo tempo dell’Avvento; e a questo fine mette nella bocca dei suoi ministri i discorsi che S. Giovanni faceva al popolo per disporlo alla venuta del Redentore. Entriamo, fratelli miei, nei disegni di questa santa Madre; procuriamo di penetrare, per quanto la fede ce lo permette, la profondità di questo mistero per scoprirvi l’eccesso di amore che un Dio vi ci dimostra: ma non arrestiamoci ad una sterile speculazione; sforziamoci di mostrare al nostro Dio che abbiamo tutta la riconoscenza che merita dal canto nostro un sì grande amore. Quale è stato dunque l’amor di Dio per gli uomini nel mistero dell’incarnazione? Primo punto. Qual esser deve il nostro amore per un Dio incarnato? Secondo punto. Si compì questo mistero quando l’Angelo del Signore indirizzò alla santissima Vergine il saluto che i predicatori costumano indirizzarle: Ave Maria, etc.

I. Punto. Il Figliuolo di Dio, uguale in tutto a suo Padre, Dio da tutta l’eternità com’Egli, che, senza lasciar di essere ciò ch’era, è divenuto ciò che non era prima, vale a dire un uomo simile a noi, composto della medesima natura che noi e che si chiama Gesù Cristo. – Ecco, fratelli miei, lo ripeto, ecco ciò che noi chiamiamo l’incarnazione del Verbo, il mistero nascosto in Dio avanti ai secoli, dice l’apostolo S. Paolo, che si è manifestato nella nostra carne, che è stato veduto dagli Angeli, predicato alle nazioni, che è stato predetto da un gran numero di profezie contenute nei libri, che ci sono stati trasmessi dagli Ebrei nemici della nostra santa Religione: le quali profezie, per confessione anche dei pagani, si sono verificate appuntino nella persona di Gesù Cristo, ed il cui adempimento è stato confermato da un’infinità di miracoli di quest’uomo-Dio e dei suoi discepoli: miracoli che hanno persuaso ai più grandi ingegni del mondo, e a tutte le nazioni della terra la verità della sua dottrina, la divinità della sua missione. Voi siete, fratelli miei, pienamente convinti di questo gran mistero, voi fate professione di crederlo; senza arrestarci dunque a più lunghi ragionamenti entriamo in questo abisso di carità che Dio ha manifestato agli uomini; mentre quivi è, dice lo stesso Apostolo, dove la bontà e l’amore del nostro Salvatore veramente comparve: Apparuit humanitas et benignitas Salvatoris nostri (Tit. 3). Ma qual bontà, quale amore! Si è l’amore più pietoso che l’ha indotto a liberarci dalle miserie, in cui ridotti ci aveva il peccato; l’amore più generoso che l’ha portato a tutto sacrificare per la nostra liberazione. Si, fratelli miei, i mali da cui Gesù Cristo ci ha liberati, ci comprovano la tenerezza del suo amore; siccome il prezzo da lui dato pel nostro riscatto ci fa abbastanza conoscere la generosità del suo amore. Per meglio convincerci dell’immensa carità del nostro Dio per gli uomini nel mistero dell’incarnazione, rammentiamo per un momento lo iato lagrimevole a cui ci aveva il peccato ridotti. C’insegna la fede che il primo uomo peccando perdette non solo per lui ma ancora per tutti i suoi discendenti la giustizia originale e gli altri vantaggi di cui godeva, nello stato d’innocenza: siccome Dio aveva messo la nostra sorte nelle sue mani, e la nostra felicità dipendeva dalla sua fedeltà nell’osservare il comando che il Signore gli aveva fatto, la sua caduta fu la cagione della nostra disgrazia; la sua prevaricazione ci diede il colpo della morte, privandoci della vita della grazia che Dio ci aveva data nella sua persona, per sua pura misericordia (per un effetto della sua, sapienza: divenuti sin d’allora figliuoli d’ira, ci ha chiuso il cielo, e fummo condannati alla morte e alle altre miserie che accompagnano la trista condizione degli uomini. Questo è quel funesto peccato di origine ch’è entrato nel mondo per un solo uomo, che ci fa morire prima di nascere, che ha cancellato in noi i bei tratti di divinità che erano impressi nella nostra anima per porvi l’immagine del demonio; questa si è quella piaga profonda che ha avuto bisogno di un medico tanto caritatevole, come Colui che l’ha lavata nel suo sangue: Lavit nos a peccatis in sanguine suo (Apoc. 1). imperciocché finalmente, fratelli miei, che saremmo noi divenuti, se Dio, mosso dalle nostre miserie, non ci avesse steso la mano per cavarci dall’abisso in cui eravamo precipitati? Privi del diritto che avevamo alla celeste eredità, non potevamo da noi medesimi ricuperarlo, perché era un dono di Dio, che dipendeva dalla sua misericordia e che poteva non restituirci. Ma ciò che rendeva somma la nostra miseria si è, che al peccato originale, il quale ci aveva chiuso il cielo, avevamo noi aggiunto per lo cattivo uso della nostra libertà, un gran numero di peccati attuali, che ci avrebbero fatto condannare all’inferno per ivi soffrire con i demoni i più orrendi supplizi. O misera e disgraziata condizione degli uomini! Indotti ella li avrebbe alla disperazione, se alcun rimedio non si fosse trovato alla loro sventura. Ma grazie infinite siano per sempre rese alla misericordia del nostro Dio che ci ha visitati nelle nostre miserie, e ci ha redenti dalla schiavitù: Visitavit et fecit redentionem plebis suæ (Luc. 1). Senza aver bisogno di noi, Egli ci ha il primo ricercati: toccava a noi fare i primi passi; ma non potevamo farne neppur uno per andare a Lui. Ha avuto dunque riguardo alla nostra impotenza; ci ha stesa la mano per rialzarci, ha distrutto il muro di divisione che posto aveva tra noi e Lui il peccato. Questo medico caritatevole è venuto Egli stesso vicino al suo infermo, dice S. Bernardo, questo buon Pastore è corso presso la sua pecorella smarrita per liberarla dal furore del lupo infernale; questo tenero padre è andato incontro al suo figliuol prodigo, l’ha ricevuto nella sua amicizia, l’ha ristabilito nei diritti che aveva perduti. Di già la grazia della riconciliazione ci è offerta: sottratti dalla schiavitù del demonio, ricuperiamo la libertà dei figlioli di Dio: liberati dagli orrori della morte, ripigliamo una nuova vita; in una parola, il cielo, nostra cara patria, ci è aperto; i nostri seggi vi sono assicurati; tali sono, fratelli miei, i frutti ammirabili dell’incarnazione di un Dio, tali sono gli effetti di suo amore pietoso; poiché egli è per liberarci dalle nostre miserie che ha operato questo grande mistero. Egli, per riscattarci e renderci la vita, dice s. Paolo, che il Padre celeste ha mandato il suo Figliolo nella pienezza dei tempi a nascere da una donna; egli è per salvarci che questo Figliolo adorabile è disceso dal trono della sua gloria e si è per noi annientato: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlìs; e qui si è dove dobbiamo noi riconoscere la generosità dell’amore di Dio in questo mistero, dal prezzo ch’Egli dà pel nostro riscatto. Ed invero, questo Signore le cui misericordie sono infinite non poteva Egli perdonare all’uomo il suo peccato con una grazia del tutto pura e ristabilirlo nei suoi diritti senza alcuna soddisfazione; o almeno contentarsi di una soddisfazione men nobile e meno perfetta di quella che ha ricevuto in questo mistero? Sii, senza dubbio, il poteva; padrone dei suoi diritti, non dipendeva che da Lui il cederli, avrebbe spiccato in ciò la sua misericordia, ma non sarebbe stata soddisfatta la sua giustizia. – Chiedeva pertanto la giustizia di Dio questa soddisfazione uguale all’offesa che aveva ricevuto; e siccome l’offesa era infinita, bisognava una vittima di un prezzo infinito per riparare all’ingiuria fatta alla divina Maestà. Or chi poteva, fratelli miei, dare alla giustizia di Dio questa soddisfazione che in rigore esigeva? Non vi erano che i meriti di Gesù Cristo, perché era Dio; e se la misericordia di Dio non fosse venuta in soccorso dell’uomo, per fornirgli onde soddisfare, invano l’uomo avrebbe cercato in se stesso e nelle sue virtù onde pagare i suoi debiti: non vi trovava che fiacchezza ed impotenza; vi trovava bensì l’origine del suo male, ma non già il rimedio per guarirlo; la sua infinita bassezza, che infinita rendeva la sua offesa, avviliva per questa cagione appunto i suoi meriti: Non dabit Deo placationem suam (Psal. XLVIII). Invano sarebbe ricorso alle altre creature per ritrovare nei loro meriti onde soddisfare alla divina giustizia: tutte le virtù degli Angeli e degli uomini non avrebbero mai avuta proporzione alcuna con l’offesa fatta a Dio dall’uomo peccatore: Frater non redimit (ibid.), che però sarebbe sempre rimasto senza poter pagare. Bisognava dunque per una giusta compensazione dell’ingiuria fatta alla divina Maestà, che Dio stesso si addossasse la causa dell’uomo per farsi a sue proprie spese la soddisfazione che domandava e per risparmiare all’uomo colpevole i castighi di cui era minacciato. Nulladimeno, siccome era l’uomo che aveva peccato, e Dio per sua natura è incapace di soffrire e di morire, bisognava, dice S. Agostino, che la vittima che espiare doveva il peccato fosse tratta dalla natura umana: Peccatum adeo tantum erat ut illud solvere non haberet, nisi homo. Ma siccome Iddio solo poteva dare ai patimenti dell’uomo i meriti e la dignità che necessari gli erano, bisognava, conchiude questo S. Padre, che questa vittima fosse Dio ed uomo insieme: Ita opus erat ut idem esset homo qui erat Deus. – Ora questo si è, fratelli miei, l’incomparabile mezzo che la misericordia di Dio ha fornito all’uomo peccatore nel mistero dell’incarnazione per pagare il debito di cui era caricato; si è per l’unione ammirabile della natura divina con la natura umana nella persona di Gesù Cristo, che la misericordia e la giustizia si sono riscontrate, come dice il profeta: Misericordia et veritas obviaverunt sibi (Psal. LXXXIV). L’una e l’altra hanno avuto i loro diritti, la misericordia ha perdonato all’uomo colpevole, e la giustizia è stata vendicata, così la terra è stata riconciliata col cielo, l’uomo con Dio. E non è questa, fratelli miei, dalla parte di Dio la prova dell’amore più liberale e più generosa verso gli uomini? E non sembra che in questo mistero le tre Persone adorabili della santissima Trinità abbiano voluto per così dire, prodigalizzarsi ed esaurirsi in favore dell’uomo peccatore? Quando risolvettero nel loro adorabile consiglio di cavarlo dal nulla: “Facciamo, dissero, l’uomo a nostra immagine e somiglianza”: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (Gen. I). Ma questo che costò loro? una parola, un soffio di vita, con cui Iddio animò un poco di terra. Ecco l’uomo formato: e per riscattarlo costa al Padre Eterno un Figlio unico, l’oggetto delle sue compiacenze; non aveva Egli che questo Figlio, dice l’Apostolo, ed ha talmente amato il mondo che l’ha dato per redimerlo; Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum dare (Jo. III). Pesiamo la forza e l’energia di queste parole: Dio, che non bisogno aveva dell’uomo, Dio oltraggiato dall’uomo, ha avuto tanto amore per questa vile creatura che gli ha dato, abbandonato, non uno dei suoi Angeli, ma il suo unico Figliuolo, uguale in tutto a Lui stesso, vero Dio, generato da un vero Dio, l’oggetto delle sue eterne delizie. E perché l’ha Egli dato? Per essere sacrificato, immolato per la salvezza di questo mondo medesimo. Qual eccesso di amore! Lo comprendete voi, fratelli miei? Sic Deus dilexit mundum. Questo Figliolo adorabile, per obbedire alla volontà di suo Padre, si è offerto di buon grado ad essere mallevadore dell’uomo incapace di soddisfare alla divina giustizia; si è caricato delle nostre iniquità, si è abbassato, annientato sino a prendere la forma di uno schiavo, Exinanivit semetipsum formam servi accipiens (Philip. II). In questo stato si è Egli offerto alla giustizia di suo Padre per essere l’anatema e la vittima di espiazione per i peccati dell’uomo. Voi non avete voluto, disse al Padre suo, i sacrifici che gli uomini vi presentavano, avete rigettate le loro vittime, come incapaci di soddisfarvi: ma Voi mi avete formato un corpo; eccomi, io vengo, io son pronto: dìxi: Ecce venio (Heb. X). Io già mi destino ad essere l’oggetto dell’ira vostra e del furore dei miei nemici; sopra di me voi scaricherete i flagelli che hanno meritato gli uomini, io mi pongo in vece loro; vendicatevi a spese della mia vita, non mi risparmiate, ma perdonate loro: Ecce venio. Oh eccesso dell’amor di Dio per gl’uomini! Appena, dice l’Apostolo, troverebbesi qualcheduno che morir volesse per un giusto: Vix prò insto quis moritur (Rom. V). Quanto grande dunque non è stata la carità del nostro Dio, che si è offerto alla morte per uomini peccatori? Qual ammirabile genere di rimedio, dice s. Agostino, che il medico stesso siasi fatto infermo per guarire i suoi infermi! Che Iddio si abbassi per innalzar l’uomo, che facciasi povero per arricchirlo, che si renda simile all’uomo per render l’uomo simile a Lui, non è questo io ripeto, la prova dell’amore più generoso? Non è egli a dirsi che lo Spirito Santo, il quale è tutto amore, presiedesse ad una sì grand’opera? Gli Angioli e gli nomini avrebbero mai immaginato un simil disegno? E se Dio ci avesse permesso di domandargli il nostro riscatto ad un sì gran prezzo, avremmo giammai osato portar sin là le nostre speranze? E pur questo è quel ch’Egli ha fatto nel mistero dell’incarnazione. Quale amore? Fuvvene mai alcuno più pietoso e più generoso? Ma qual deve essere il nostro per un Dio incarnato? Ecco il soggetto della seconda parte.

II. Punto. É proprio dell’amore di non pagarsi che con l’amore: più grandi cose ispira in favore di coloro che si amano, più ha diritto di aspettarne. Amiamo dunque il nostro Dio, dice s. Giovanni, poiché Egli ci ha amati il primo con una maniera sì tenera e sì generosa nel mistero della sua incarnazione. – Il suo amor tenero e pietoso ci ha liberati dalle miserie in cui precipitati ci aveva il peccato; il suo amor generoso l’ha sacrificato per essere il prezzo delia nostra redenzione: questa immensa carità di un Dio richiede dal canto nostro un amor tenero e riconoscente che ci renda sensibili ai suoi benefici, un amor generoso che ci sottometta ai suoi voleri. Qual sarebbe, fratelli miei, la nostra riconoscenza per un ricco della terra, per un grande del secolo, che ci avesse liberati dalle catene, che col suo credito ci avesse risparmiata una morte vergognosa e crudele? Che sarebbe poi, se questo ricco, questo grande del secolo si fosse egli stesso caricato delle nostre catene per metterci in libertà, si fosse offerto alla morte per conservarci la vita? Che sarebbe mai se il figliuolo di un re della terra avesse calmata con la sua morte l’ira di un padre? Ci scorderemmo giammai di un liberatore così benefico? Ma che dico io? Quando ciò non fosse, che ad un uomo simile a noi, all’infimo anche degli uomini, che noi fossimo debitori della libertà o della vita, quest’uomo non ci diverrebbe tante caro, quanto la nostra propria persona? E non sarebbe un rendersi colpevole della più nera ingratitudine il non riconoscerlo o il dimenticarlo? Ora voi lo sapete, fratelli miei, non e già un uomo come noi, non è né un grande né un re della terra; Egli è l’unico Figliuolo dell’Altissimo, il Re dei re, che ci ha liberati non dalla prigione dove l’umana giustizia rinchiude i colpevoli, ma dalla schiavitù del demonio e dalla prigione dell’inferno; non da una morte temporale, ma da una morte eterna; che ci ha liberati non a prezzo d’oro e d’argento: non in corruptibilibus auro et argento (1 Piet. I), ma a prezzo del suo sangue e della sua vita. Un cuore insensibile a tali benefici non è egli un mostro che fa arrossir la natura? Quando leggiamo nelle Scritture che il profeta Eliseo risuscitò il figliuolo della vedova sunamite, noi facilmente entriamo nei sentimenti di riconoscenza di cui questa vedova fu penetrata. Quel profeta, dice il sacro testo, s’aggiustò per tal modo sopra il corpo del fanciullo che le membra dell’uno corrispondevano a quelle dell’altro; con quest’atto rianimò miracolosamente il natural calore di lui, lo risuscitò e riempì sua madre di allegrezza. Allo stesso modo, fratelli miei, pel più stupendo di tutti i miracoli, il Verbo di Dio si è, a così dire, raccorciato per renderci la vita, come dice S. Bernardo: Verbum abreviatum est. Egli, quantunque immenso, si è rinchiuso nella piccolezza di un bambino; l’immortale si è reso soggetto alla morte: col suo abbassamento ci ha innalzati, con la sua morte ci ha risuscitati, di modo che noi siamo più debitori alla debolezza di cui si è rivestito per riscattarci, che alla sua onnipotenza che ci ha creati: con la sua onnipotenza ci ha dato l’essere; ma che cosa giovato ci avrebbe il nascere, dice S. Ambrogio, se non fossimo stati redenti? Non prodesset nasci, nisi redimi profuisset. A che servito ci avrebbe la vita naturale, se non avessimo ricevuta quella della grazia, che ci rende figliuoli di Dio ed eredi del suo regno? Benedetto sia dunque per sempre il Dio delle misericordie, che ha gettato gli occhi di compassione sopra le nostre miserie! Benedetto sia il pietoso Samaritano, che è venuto in soccorso dell’uomo piagato dal peccato! Questo Dio Salvatore, dopo aver lavate le nostre piaghe nel suo sangue, ci ha rese le ricchezze che tolte ci aveva il nemico: alla sola sua carità compassionevole noi dobbiamo la vita; di questo beneficio non perdiamo giammai la rimembranza; dimentichiamo la nostra destra e quando abbiamo di più caro, piuttosto che dimenticare questo favore. Eccovi ciò, fratelli miei, che la riconoscenza richiede da noi; rammentare incessantemente il beneficio inestimabile della nostra redenzione, farne in tutti i giorni di nostra vita il soggetto delle nostre più serie riflessioni per cantare eternamente le misericordie di Dio che ci ha liberati dalla potestà delle tenebre per metterci in possesso del regno del suo figliuolo: Transtulit nos de potestate tenebrarum in regnum lucis suæ (Coloss. 1). Ma ohimè! quanto sono lontani gli uomini dal considerare come dovrebbero questo mistero ineffabile, che è il fondamento della loro felicità? A quanti far non si potrebbe il medesimo rimprovero che faceva il Battista altre volte ai Giudei? Il Messia è in mezzo di voi, loro diceva, e voi non lo conoscete! Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Jo. I). Il Figliuolo di Dio, la luce del mondo, è venuto per illuminarlo e dissipare le sue tenebre; e gli uomini acciecati dalle loro passioni, hanno chiusi gli occhi a questa luce: i Giudei si sono scandalizzati della sua dottrina, i gentili l’hanno trattata di follia e i Cristiani non la conoscono. Non parlo io solamente di quegli ignoranti che non sanno che cosa sia Gesù Cristo, ma di quei falsi sapienti del secolo che si fan gloria di esser dotti in tutt’altra scienza che in quella del Cristiano e che intorno a tutt’altro oggetto si aggirano: sensibili ai più leggieri benefizi che ricevono dagli uomini, non riconoscono il dono di Dio e, per un’ ingratitudine senza esempio, non vi corrispondono che con offese ed oltraggi. – Ah! Se noi penetrato avessimo con gli occhi di una viva fede questo abisso profondo della carità di Dio verso gli uomini, vi rifletteremmo ogni giorno; non contenti di abbandonarci ai sentimenti della più viva riconoscenza, l’ispireremmo agli altri, pubblicando dappertutto le misericordie del Signore; renderemmo amore per amore ad un Dio che ci ha amati sino a sacrificare se stesso per la nostra salute; gli sacrificheremmo i nostri cuori con una perfetta ubbidienza alle sue leggi. Ecco, fratelli miei, quanto chiede in ricompensa del suo amore liberale e generoso; non chiede i nostri beni, Egli non ne ha bisogno, dice il profeta, ma chiede i nostri cuori; non è forse giusto ch’Egli ne sia il padrone, poiché li ha meritati a sì gran costo? Siccome la somiglianza produce l’amore, il figliuolo di Dio, per guadagnar il nostro cuore, si è reso simile a noi: In similitudinem hominum factus (Philip. II). Ma oh quanto gli ha costato questa rassomiglianza! Egli si è spogliato della sua grandezza per rivestirsi della nostra viltà; ha nascosta la gloria della sua divinità sotto l’ombra della debolezza; si è sottomesso ai comandi più rigorosi del Padre suo, non solo sino a comparire, ma sino ad essere trattato come un peccatore carico di tutte le iniquità del mondo. E non è questo, fratelli miei, comprare ad assai caro prezzo il nostro amore? E non ha Egli diritto di esigere tutto quel che siamo, poiché, per averlo, ha dato tutto quel che è, dice S. Bernardo: Totum me exigit qui toto se totum me redemit. Ma in che consiste questa integrità dell’amore che Gesù Cristo, ci chiede? In consacrargli tutti i movimenti del nostro cuore, di modo che non ve ne abbia alcuno che non sia per Lui; in distaccare questo cuore da ogni oggetto che possa contrastargliene il possesso, bandirne il peccato e tutto ciò che può esserci occasione di peccato; in combattere quelle inclinazioni perverse che ci portano verso le creature; in sacrificare quella passione che ci predomina, quel risentimento che c’inasprisce, in rinunciare a quel bene che ci alletta, a quel piacere che c’incanta, a quegli impegni peccaminosi che ci traggono a perdizione. Come? Sarà egli possibile che un Dio abbia fatti tanti passi per distruggere in noi il regno del peccato, e che noi ve lo lasciassimo signoreggiare? Sarà possibile ch’Egli abbia spezzate le nostre catene per rimetterci di bel nuovo da noi medesimi in ischiavitù? Sarà possibile ch’Egli siasi reso ubbidiente ai voleri del Padre suo sino alla morte della croce, e che noi non ci facciamo violenza alcuna, né in nulla annegare la nostra volontà, che niente sacrificare vogliamo per ubbidire alle sue divine leggi, e dargli con questo la prova ch’Egli chiede del nostro amore? Sarà possibile finalmente che, dopo di essersi un Dio abbassato insino a noi per innalzar noi insino a Lui, vogliamo sempre avere bassi pensieri ed affezioni terrene, indegne di un’anima che ha meritato l’amore d’un Dio? Ah! no, Signore, non sia mai vero che Voi abbiate fatto tanto per guadagnar il mio cuore, e ch’io ricusi di darvelo. Conosco troppo, o mio Dio, quel che vi debbo per non rimettere in Voi tutto quello che io sono: Voi siete venuto sulla terra per accendervi il fuoco del vostro amore; fate che il mio cuore ne sia tutto infiammato, che riconoscente ai tratti d’amore con cui l’avete penetrato, egli non ami che Voi nel tempo per amarvi nell’eternità.

PRATICHE PEL SANTO TEMPO DELL’AVVENTO.

I. Fate sovente atti di fede sopra il mistero dell’incarnazione.

II. Unite i vostri desideri a quelli dei Patriarchi, che domandavano la venuta del Messia coi voti più ardenti.

III. Adorate il Verbo incarnato coi medesimi sentimenti con cui l’adorava la ss. Vergine allorché il portava nelle sue caste viscere; fate principalmente questo atto di adorazione quando il sacerdote s’inginocchia alla Messa a quelle parole del Credo: ET HOMO FACTUS EST.

IV. Ringraziate Iddio di avervi inviato il suo Figliuolo per riscattarvi, ed il Figliuolo di essersi incarnato per salvarvi.

V. Recitate l’Angelus in ginocchio ogni qual volta la campana ve ne avverte. È un tempo acconcio a fare gli atti suddetti; i sommi Pontefici hanno concesso delle indulgenze a chi recita questa preghiera.

VI. Fate qualche atto d’umiltà per adorare le umiliazioni del Verbo incarnato; occultate tutto ciò che può attirarvi gloria agli occhi degli uomini.

VII. Fate qualche mortificazione, almeno i venerdì dell’Avvento ciascuno secondo il suo stato, per imitare in qualche cosa quelle di tanti santi religiosi che digiunano in questo santo tempo: offritevi a Dio ogni mattina in unione del sacrificio ch’Egli ha fatto di sé stesso per salvarvi.

L’ANNO ECCLESIASTICO

DIVISIONE DELL’ANNO ECCLESIASTICO.

(Messale Romano di Bertola e De Stefani; L.I.C.E. Ed. – Torino, 1950)

L’anno ecclesiastico comincia con la prima Domenica d’Avvento e finisce il Sabato che segue l’ultima Domenica dopo Pentecoste. Si compone di stagioni o Tempi liturgici chiamati Ciclo del tempo o Proprio del Tempo. Il suo scopo è di mostrarci nostro Signore nel quadro tradizionale dei grandi misteri della nostra Religione. – Contemporaneamente a questo ciclo se ne svolge un altro che è secondario: lo si chiama Ciclo del Santi o Proprio dei Santi, perché si compone di tutte le feste delle anime sante, che Dio associò a Gesù nell’opera della Redenzione.

I. — CICLO DEL TEMPO.

Questo ciclo è diviso in due parti che sono il ciclo di Natale e il ciclo di Pasqua. Ognuno di essi si suddivide a sua volta in tre tempi: l’uno precede, l’altro accompagna, il terzo segue queste due grandi feste, ed hanno il fine di prepararvi l’animo, di farle celebrare solennemente e dì prolungarle poi per parecchie settimane.

A. — Il Ciclo di Natale o dell’Incarnazione.

1) Il Tempo d’Avvento (dal latino adventus), si compone di 4 settimane che ci fanno aspirare coi Patriarchi e i Profeti alla venuta del Salvatore.

2) Il Tempo di Natale ci presenta la Nascita del Verbo Incarnato, che si riproduce in noi con la grazia e la sua Epifania o manifestazione al mondo.

3) Il Tempo dopo l’Epifania conta da due a sei settimane, che ci ricordano la vita nascosta di Nazaret e ci manifestano la sua Divinità.

B. — Ciclo di Pasqua o della Redenzione. Questo ciclo essendo dipendente dalla luna pasquale, comincia fra queste date, estreme, del 18 Gennaio e del 22 Febbraio.

La festa di Pasqua, centro di tutto l’anno, si celebra sempre nella domenica dopo il 14° giorno della luna di marzo. Si conta questo 14° giorno a partire dal 21 marzo. Se la luna piena fosse prima del 21, la luna pasquale sarebbe la seguente: donde uno sbalzo talvolta d’un mese; cioè Pasqua si celebra fra le date estreme del 22 marzo e de! 25 aprile.

1) Nove settimane preparano alla grande festa di Pasqua. E  sono divise in tre Tempi:

a) Il Tempo della Settuagesima, che dura tre settimane, ci prepara già in qualche modo al mistero pasquale, e, con la Quaresima che viene dopo, ci dà una sintesi della vita pubblica di Gesù.

b) Il Tempo della Quaresima, che comincia il mercoledì delle ceneri, ci fa partecipare mediante 40 giorni di penitenza, al digiuno di 40 giorni di nostro Signore nel deserto ed alla sua vita apostolica.

c) Il Tempo della Passione, che comprende le due ultime settimane di Quaresima, ci mostra durante 15 giorni le ultime sofferenze di Cristo e la sua agonia sulla Croce, affinché noi possiamo morire con Lui ai nostri peccati.

2) Il Tempo Pasquale ci fa celebrare la più grande fra tutte le feste: Pasqua e la sua ottava privilegiata, affinché la nostra anima risusciti con Cristo e viva, durante le cinque settimane seguenti con Gesù che istituisce la Chiesa e sale al Cielo nel giorno dell’Ascensione. La festa di Pentecoste viene a chiudere questo Tempo con la discesa dello Spirito Santo nelle nostre anime.

3) Il Tempo dopo la Pentecoste ci mostra per 24 o 28 domeniche le fioriture di santità che lo Spirito Santo e l’Eucarestia faranno nascere nella Chiesa e nei suoi Santi sino alla fine del mondo, epoca questa ricordata dalla ventiquattresima domenica dopo Pentecoste.

II. — CICLO DEI SANTI.

Pio X, nella sua bolla Divino Afflatu, ci indica la gerarchia che dobbiamo osservare nella celebrazione delle feste dei Santi che vengono ad intercalarsi, nel corso dell’anno, fra i grandi misteri del ciclo Cristologico.

Il primo posto è per la Madonna.

Poi vengono i Santi Angeli; e quindi, conforme all’ufficio più o meno intimo ch’essi ebbero nel piano dell’Incarnazione, S. Giovanni Battista, precursore del Messia; S. Giuseppe, S. Pietro e S. Paolo e gli altri Apostoli il cui culto era una volta solenne.

Le feste dei Santi d’una Nazione, d’una Diocesi, d’un Paese, d’una Parrocchia, d’un Ordine o Congregazione religiosa sono pure elevati al primo grado per la riconoscenza dovuta a questi Santi Protettori.

Vengono quindi le feste della Dedicazione delle chiese, e quelle dei Martiri, dei Pontefici (cioè dei Papi o Vescovi), dei Dottori (cioè dei Padri della Chiesa, interpreti più autorizzati della parola divina), dei Confessori (di quelli cioè che con la loro vita e con le loro dottrine hanno reso testimonianza a Dio), delle Vergini e delle Sante Donne. – Le più importantie numerose solennità di questo ciclo mattono, per il posto che occupano – specialmente nel tempo dopo la Pentecoste – in piena luce il ciclo riservato a Gesù, poiché è mediante Cristo che il mondo dev’essere ricostruito: «instaurare omnia in Christo».

 

1. — DELLA OCCORRENZA E DELLA CONCORRENZA DELLE FESTE.

Da questo movimento simultaneo del ciclo del Tempo e del ciclo dei Santi nascono incontri di feste del Tempo e dei Santi che prendono il nome di occorrenza, quando due feste sono assegnate al medesimo giorno, e di concorrenza, quando i secondi Vespri di una festa si incontrano con i primi Vespri della seguente. ( I primi Vespri si dicono la vigilia ed i secondi nel giorno della festa).

Nel caso di occorrenza, la festa meno privilegiata cede all’altra, nel caso di concorrenza la più degna prevale sull’altra e se esse sono dello stesso grado, si dividono i Vespri, cioè a cominciare dal Capitolo i Vespri sono del giorno seguente.

2. — DEL RITO E DEI GRADI DELLE FESTE.

Le feste assegnate a ciascun giorno dell’anno non sono uguali in importanza e in solennità. La Chiesa stabilisce la loro dignità con un rito speciale e con gradi differenti. Il rito di una festa consiste nella forma che la costituisce. E sono tre principali:

1° Il rito doppio, così chiamato perché si raddoppiano le antifone ripetendole cioè per intero sia prima che dopo ciascun salmo dell’Ufficio.

— Nelle Messe di questo rito (a meno che non vi siano commemorazioni di uno o più santi) non vi è che una sola orazione.

2° Il rito semidoppio, nel quale prima del salmo non si dice che l’inizio dell’antìfona (la quale sarà poi detta interamente dopo il salmo). Nelle Messe di questo rito vi sono sempre tre orazioni.

3° Il rito semplice.

I gradi di una festa consistono nella maggiore o minore solennità che le conviene.

Perciò si distinguono:

I doppi di prima classe

I doppi di seconda classe

I doppi maggiori

I semidoppi

I doppi minori

I semplici

3. — LE DOMENICHE DI PRIMA E DI SECONDA CLASSE

LE DOMENICHE ORDINARIE,

a) Le Domeniche di prima classe sono:

la prima Domenica d’Avvento e le 4 Domeniche di Quaresima;

la Domenica di Passione e la Domenica delle Palme;

la Domenica di Pasqua;

la Domenica in Albis (prima dopo Pasqua);

la Domenica di Pentecoste.

Queste dieci Domeniche non cedono il posto a nessun’altra Festa.

  1. b) Le Domeniche di seconda classe sono:

La seconda, la terza e quarta di Avvento;

Le Domeniche di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima

Queste Domeniche non cedono il posto che ai doppi di prima classe;

c) Le altre Domeniche dell’anno cedono il posto alle Feste di prima e di seconda classe, come pure alle Feste di nostro Signore, ma prevalgono sopra ogni altro Doppio maggiore o minore e semidoppio. La Feste doppie sono allora semplificate: se ne fa solamente commemorazione alla Messa e nell’Ufficio.

4. — LE OTTAVE PRIVILEGIATE COMUNI E SEMPLICI.

Se il rito doppio di prima classe ha l’Ottava questa può esse

I.Una ottava privilegiata

a) di primo ordine (Pasqua e Pentecoste), durante la quale non è ammessa la celebrazione di nessun’altra festa, ma solo la commemorazione ed anche questa è esclusa nel lunedì e martedì.

b) di secondo ordine (Epifania e Corpus Domini) durante la quale si possono celebrare soltanto le feste di rito di prima classe e nel giorno Ottavo ammette solo una festa di prima classe, e nel giorno ottavo ammette solo una festa di prima classe della Chiesa universale. In questi casi si fa la commemorazione dell’Ottava.

c) di terzo ordine (Natale, Ascensione e il Sacro Cuore) che giorni durante l’Ottava ammette tutte le feste superiori al semplice, ma nel giorno Ottavo non cede che a una festa di prima e di seconda classe. Si fa sempre commemorazione dell’Ottava.

II. — Una Ottava comune.

Hanno questa Ottava:

1° le seguenti feste della Chiesa universale: Immacolata Concezione; Assunzione; Natività di S. Giovanni Battista; Solennità di San Giuseppe; Ss. Apostoli Pietro e Paolo; Tutti i Santi. – 2° Le feste primarie delle Chiese particolari. – 3° Per privilegio qualche altra festa. Questa Ottava ammette la celebrazione delle stesse feste che le Ottave privilegiate di terzo ordine. Si omette la memorazione dell’Ottava nei doppi di prima e seconda classe, non però nel giorno ottavo.

Quando il rito doppio di seconda classe ha l’Ottava, questa è:

Una Ottava semplice.

Dell’Ottava semplice si celebra solo il giorno ottavo e con rito semplice (S. Giovanni Ap., S. Stefano, ecc.). Se occorre una festa di rito superiore si fa la commemorazione, eccetto che nella festa

di rito di prima classe. .

5. — LE FERIE PRIVILEGIATE E NON PRIVILEGIATE.

Le ferie seno giorni liberi nei quali non si celebra alcuna festa. La Quaresima, che un tempo serviva di preparazione al Battesimo, amministrato nel giorno di Pasqua, possiede una Messa speciale per ogni Feria, cioè per ogni giorno della settimana. – Nelle ferie che non hanno Messa propria, si celebra la Messa della Domenica precedente.

a) Le ferie maggiori privilegiate sono:

Il Mercoledì delle Ceneri e tutti i giorni della Settimana Santa.

Queste ferie prevalgono su ogni altra festa.

b) Le ferie maggiori non privilegiate sono:

Quelle dell’Avvento, della Quaresima (dopo il Mercoledì delle Ceneri), di Passione (prima della Domenica delle Palme), delle Quattro Tempora dì Settembre ed il lunedì delle Rogazioni. Se ne fa sempre la commemorazione e si legge il loro Vangelo in fine della Messa.

In queste ferie, nelle Quattro Tempora dell’Avvento e nelle Vigilie Comuni (v. N° 6, b) se si fa l’Ufficio di un Doppio maggiore o minore o di un Semidoppio, nelle Messe private si può leggere la Messa della feria o della vigilia con la Commemorazione della festa, oppure la Messa della festa con la Commemorazione della feria o della vigilia.

La Commemorazione di tutti i fedeli Defunti esclude (anche se trasferita al giorno seguente, quando il 2 Novembre cade in Domenica) le Feste sia occorrenti che trasferite di qualsiasi rito.

6. — LE VIGILIE.

Le vigilie, o veglie, preparano con ufficio speciale la celebrazione della festa del giorno successivo. Alcune sono caratterizzate dalla penitenza e spesso da uffici più lunghi e dal colore violaceo dei parati. Vi sono vigilie:

a) Privilegiate:

di prima classe: vigilia di Natale e di Pentecoste che non cedono il posto a nessuna festa.

di seconda classe: vigilia dell’Epifania che non ammette che le feste di prima e seconda classe e di nostro Signore.

b) Comuni ordinarie: Apostoli, ecc.

7. LE MESSE VOTIVE.

Messe Votive si chiamano quelle che si celebrano, nei giorni prescritti dalle Rubriche, indipendentemente dall’Ufficio dei giorno e sono state istituite per soddisfare il voto o desiderio della stessa S. Chiesa, dei fedeli che le domandano, e del Celebrante medesimo.

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DIVISIONE SCHEMATICA DELL’ANNO ECCLESIASTICO

A. — CICLO DI NATALE

MISTERO DELL’INCARNAZIONE.

PREPARAZIONE

(Par. Violacei)

I. Tempo di Avvento (dalla 1a Dom. di Avvento al 24 dicemb.) – 4 Domen.

CELEBRAZIONE

(Par. Bianchi)

Natale

Epifania

II.Tempo di Natale   (dal 24 dic. Al 13 gennaio)      2 Domen.

PROLUNGAMENTO.

(Par. Verdi)

III. Tempo dopo l’Epifania)    (dal 14 gennaio alla Settuagesima) 6 Dom.

 

B. — CICLO DI PASQUA.

MISTERO DELLA REDENZIONE.

PREPARAZIONE

(Par. Violacei)

I. remota (Tempo di Settuag.) da Settuagesima alle Ceneri 3 Domen.

II. prossima (Tempo di Quares.)  dalle Ceneri alla Dom. di Passion         4 Domen.

III. immediata (Tempo  di Passione ) dalla Dom. di Passione a Pasqua               2 Dom.

CELEBRAZIONE

IV. Pasqua (Par. Bianchi)

Pentecoste ed Ottava (Par. Rossi)

(Tempo Pasquale) da Pasqua alla Trinità – 7 Dom.

PROLUNGAMENTO

(Par. Verdi)

V. Tempo dopo Pentecoste dalla Trinità all’Avvento                   – Domen. 24

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: FIDENTEM PIUMQUE ANIMUM DI S. S. LEONE XIII

Ancora una volta il Santo Padre Leone XIII, propone il Santo Rosario, come argomento di una sua lettera enciclica. Quella che può sembrare una “fissa”, in realtà, oggi soprattutto, si rivela come l’unico potentissimo rimedio dei nostri mali attuali, sociali, economici, materiali e soprattutto spirituali. Naturalmente parliamo del Santo Rosario pregato  nella Chiesa Cattolica, dai “veri” Cattolici uniti al Papa, S. S. Gregorio XVIII, successore del suo omonimo Gregorio XVII. Anche gli scismatici liberi-sedevacantisti, i tesisti anti-teologici del mezzo-Papa, i fallibilisti masso-gallicani, i settari della chiesa gnostico-satanica dell’uomo del Vaticano II, pregano con il Rosario, ma oltre che grazie materiali, che il Signore concede pure agli atei, ai miscredenti, ai massoni delle conventicole, ai maomettani e finanche al suo popolo deicida, il Signore non può concedere. Ci riferiamo alle grazie spirituali, quelle che riguardano la salvezza eterna, la perseveranza finale, la conservazione della fede Cattolica, la buona morte del penitente, il premio finale della corona immarcescibile in Paradiso … quelle si ottengono solo come “cittadini della Città di Dio”, la Chiesa Cattolica, ai quali soli la Vergine fa da Madre, avvocata e “acquedotto” di grazie, secondo la felice espressione di San Bernardo. Oggi tutti si affannano a trovare rimedi per ovviare ai mille gravissimi problemi della nostra era, rimedi che tutti, irrimediabilmente, si dimostrano inefficaci o addirittura peggiorativi. Leone XIII, per esperienza personale e come Vicario di Cristo, nonché Capo visibile della Chiesa, l’unica fondata dal Figlio di Maria Immacolata, ci ricorda invece che l’unico valido ed infallibile rimedio di tutti i mali dell’umanità, mali causati dall’azione del nemico infernale, comunque camuffato ed oggi in versione gay-clargy-man, è l’azione presso Dio della Vergine, sollecitata dalla preghiera a Lei più gradita: il Santo Rosario. Ed allora, dopo la lettura della lettera, approfittiamo pure noi di questa “arma potente” per sconfiggere i mali personali e della società in cui viviamo, senza dimenticare la speciale intenzione per la Gerarchia Cattolica ed il Santo Padre, Gregorio XVIII.

FIDENTEM PIUMQUE ANIMUM

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ


LEONE PP. XIII

Ai Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi ed altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la sede Apostolica.

Il Papa Leone XIII.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Abbiamo avuto spesso occasione, durante il Nostro sommo Pontificato, di dare pubbliche prove di quella fiducia e di quella pietà verso la santissima Vergine, che abbiamo nutrito fino dai più teneri anni, e che poi Ci siamo studiati di alimentare ed accrescere in tutta la Nostra vita. Infatti, essendoCi trovati in tempi infausti per la cristianità e pericolosi per la stessa società civile, abbiamo facilmente compreso quanto fosse utile raccomandare col massimo calore quel baluardo di salvezza e di pace che Dio, nella sua grande misericordia, volle dare all’umanità nella persona della sua augusta Madre, e che rese poi insigne nei fasti della Chiesa per una serie non interrotta di favorevoli avvenimenti. Molti popoli cattolici hanno corrisposto alle Nostre esortazioni e ai Nostri voti con sollecitudine, specialmente ravvivando la devozione verso il Rosario, con un’abbondante messe di splendidi frutti. Tuttavia Noi non possiamo desistere dall’esaltare la Madre di Dio, che è veramente “degnissima di ogni lode”, e dal raccomandare un tenero amore verso di lei, che è anche Madre degli uomini, e che è “piena di misericordia e piena di grazia”. Anzi, quanto più il Nostro animo, affaticato dalle sollecitudini apostoliche, sente avvicinarsi l’ora della partenza, tanto più fiduciosamente volge il suo sguardo a Colei che è come l’aurora benedetta, dalla quale sorse il giorno di una felicità e di una gioia senza tramonto. Ci rallegra, Venerabili Fratelli, il ricordo delle Lettere periodicamente scritte per raccomandare il Rosario, tanto gradito a Colei che si vuole onorare, e tanto utile a coloro che lo recitano bene; ma non è meno caro al Nostro cuore avere ancora la possibilità di riaffermare insistentemente il Nostro proposito, anche perché, ciò facendo, abbiamo un’ottima occasione per esortare paternamente le menti ed i cuori ad un sempre maggiore attaccamento alla religione, e per rinvigorire in essi la speranza delle ricompense immortali.  – Alla forma di preghiere della quale parliamo, fu posto l’appropriato nome di Rosario, quasi per esprimere nello stesso tempo il profumo delle rose e la grazia delle corone. Tale nome, mentre è indicatissimo a significare una devozione per onorare Colei che, giustamente, è salutata “Mistica Rosa” del Paradiso, e, cinta di una corona di stelle, è venerata come Regina dell’universo, sembra anche simboleggiare l’augurio delle gioie e delle ghirlande celesti offerte da Maria ai suoi devoti.  – E l’affermazione appare ancora più evidente, se si considera la natura del Rosario mariano. Nulla, infatti, ci è più raccomandato dai precetti e da gli esempi di Cristo Signore e degli Apostoli, quanto l’obbligo di invocare Dio e di supplicare il suo aiuto. I Padri poi e i Dottori della Chiesa insegnano che questo dovere è di tale importanza che invano confiderebbero di conseguire l’eterna salvezza coloro che lo trascurassero. Ma, sebbene chi prega, per la virtù stessa dell’orazione e per la promessa di Cristo, abbia la possibilità di impetrare le grazie divine, tuttavia, come tutti sanno, la preghiera trae la sua maggiore efficacia principalmente da due condizioni: dall’assidua perseveranza, e dall’unione di molti nella stessa orazione. La prima condizione viene messa chiaramente in evidenza dalle amorevoli insistenze di Cristo: “Chiedete, cercate, bussate” (Mt 7,7), a somiglianza di un ottimo padre, il quale vuole sì accogliere i desideri dei suoi figli, ma gode pure sentirsi da essi a lungo pregato, anzi quasi tormentato dalle loro suppliche, per legare sempre più strettamente a sé i loro cuori. Circa l’altra condizione, lo stesso Signore, in varie circostanze, ha proclamato: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio la concederà” perché “dove due o tre persone sono riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,19-20). Da tale insegnamento trasse ispirazione quella vigorosa sentenza di Tertulliano: “Ci raccogliamo insieme in adunanza ed in società, quasi per prendere d’assalto Iddio con le nostre preghiere; è questa una forma di violenza, ma da Dio molto gradita”[1]. È inoltre degno di menzione ciò che scrive l’Aquinate: “È impossibile che non siano esaudite le preghiere di molti insieme, quando esse formano quasi una sola orazione”[2].  – Ambedue queste condizioni si trovano perfettamente congiunte nel Rosario.  – In esso infatti — per tacere di altre riflessioni — col nostro ripetere le stesse preghiere ci sforziamo di implorare dal Padre celeste il suo regno di grazia e di gloria; e supplichiamo insistentemente la Vergine Madre affinché conceda il suo aiuto a noi peccatori durante tutta la nostra vita e nella nostra ora estrema, che è la porta dell’eternità. La stessa forma del Rosario, poi, si presta ottimamente per la preghiera in comune; tanto che, a ragione, esso fu chiamato anche “Salterio mariano”. Si mantenga pertanto religiosamente o si richiami in onore l’usanza che tanto fiorì presso i nostri antenati, quando le famiglie cristiane, nelle città e nelle campagne, consideravano come un sacro dovere il raccogliersi la sera, dopo le fatiche della giornata, davanti ad un’immagine della Vergine, per recitare il Rosario con alterna lode. Ed ella si compiaceva tanto di questo fedele e concorde omaggio che, come una madre tra la corona dei suoi figli, assisteva quei suoi devoti, ed elargiva loro il dono della pace domestica, come presagio di quella del Cielo.  – Fu appunto riflettendo sull’efficacia di questa preghiera in comune che, fra le molte altre Nostre disposizioni sul Rosario, abbiamo esplicitamente dichiarato “che era Nostro vivo desiderio che esso fosse recitato ogni giorno nelle cattedrali delle singole Diocesi, e tutti i giorni festivi nelle Chiese parrocchiali”[3]. Si osservi dunque con costanza e diligenza tale Nostra disposizione, e con soddisfazione constatiamo che detta pratica si diffonde e si congiunge ad altre pubbliche manifestazioni di pietà, come, per esempio, ai pellegrinaggi ai santuari più insigni: consuetudine che si afferma sempre più e che è da raccomandare. – Inoltre, codesta unione di preghiere e di lodi mariane presenta anche altri aspetti, che danno tanta gioia e utilità alle anime. Noi stessi — Ci piace qui ravvivarne il ricordo — abbiamo avuto modo di farne l’esperienza in alcune particolari circostanze del Nostro Pontificato, quando eravamo nella Basilica Vaticana, circondati da una folla immensa di fedeli di ogni categoria, i quali, uniti a Noi nelle intenzioni, nella voce e nella fiducia, attraverso i misteri del Rosario e le orazioni supplicavano con zelo la potentissima Ausiliatrice del popolo cristiano.  – E chi mai vorrà ritenere eccessiva e biasimare la grande fiducia risposta nell’aiuto e nella protezione della Vergine? Certamente sono tutti d’accordo nell’ammettere che il nome e la funzione di perfetto Mediatore non convengono che a Cristo, perché egli solo, Dio e uomo insieme, riconciliò il genere umano col sommo Padre: “Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che diede se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,5.6). Ma se “nulla vieta”, come insegna l’Angelico, “che qualche altro si chiami, sotto certi aspetti, mediatore tra Dio e gli uomini, in quanto dispositivamente e ministerialmente coopera all’unione dell’uomo con Dio”[4], come sono gli angeli, i santi, i profeti e i sacerdoti del vecchio e del nuovo testamento, senz’alcun dubbio tale titolo di gloria conviene, in misura ancora maggiore, alla Vergine eccelsa. Nessuno infatti può immaginare un’altra creatura che abbia compiuto o sia per compiere un’opera simile alla sua nella riconciliazione degli uomini con Dio. Infatti, fu lei che per gli uomini, volti all’eterna rovina, generò il Salvatore, quando all’annuncio del mistero di pace, portato dall’Angelo sulla terra, diede il suo ammirabile assenso, “in nome di tutto il genere umano”[5]. Ella è Colei “da cui nacque Gesù”, sua vera Madre, e perciò degna e grandissima “Mediatrice presso il Mediatore”.  – Siccome questi misteri sono proposti con ordine nel Rosario alla meditazione e alla contemplazione dei fedeli, ne segue che in questa preghiera risplendono i meriti di Maria nell’opera della nostra riconciliazione e della nostra salvezza. Nessuno può sottrarsi ad una soave commozione ogni volta in cui rivolge la mente a lei, sia quando visita la casa di Elisabetta per dispensarvi i divini carismi, sia quando presenta il Figlio suo pargoletto ai pastori, ai re, a Simeone. E che deve dirsi quando si consideri che il Sangue di Cristo, sparso per noi, e le membra sulle quali egli mostra al Padre le ferite ricevute, “come pegno della nostra libertà”, non sono altro che carne e sangue della Vergine? In realtà: “La carne di Gesù è carne di Maria; e, sebbene magnificata dalla gloria della risurrezione, tuttavia la natura di questa carne rimase e rimane quella stessa che fu presa a Maria”[6].  – Ma, come abbiamo altra volta ricordato, il Rosario produce un altro notevole frutto, adeguato alle necessità dei nostri tempi. Questo: che, in un’epoca in cui la virtù della fede in Dio è esposta ogni giorno a tanti pericoli ed assalti, il Cristiano trova nel Rosario mezzi abbondanti per alimentarla e raffozarla.

Le sacre Scritture chiamano Cristo “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2). “Autore”, perché egli stesso ha insegnato agli uomini un grande numero di verità in cui credere, specialmente quelle che riguardano lui, nel quale “abita tutta la pienezza della Divinità” (Col 2,9); e per di più, con la grazia e quasi con l’unzione dello Spirito Santo, concede generosamente il dono della fede. “Perfezionatore”, perché nel Cielo, dove convertirà l’abito della fede nella chiarezza della gloria, egli renderà evidenti quelle cose che gli uomini, nella loro vita mortale, hanno percepito come attraverso un velo. Ora tutti sanno che, nella pratica del Rosario, Cristo ha quel posto di preminenza che gli compete. Noi, meditando la sua vita, contempliamo quella privata nei misteri gaudiosi, quella pubblica in mezzo a gravissimi disagi e dolori che lo portano alla morte, e, infine, quella gloriosa che dalla sua trionfale risurrezione arriva fino all’eternità di lui, che siede alla destra del Padre. E siccome è necessario che la fede, per essere degna e perfetta, si manifesti esteriormente, “poiché con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10), nel Rosario troviamo anche un eccellente mezzo per professare la nostra fede. Infatti, con le preghiere vocali di cui esso s’intesse, possiamo esprimere la nostra fede in Dio, Padre nostro provvidentissimo, nella vita futura, nella remissione dei peccati, nei misteri dell’augusta Trinità, del Verbo incarnato, della divina maternità ed in altre verità. Orbene, nessuno ignora quanto grandi siano il valore ed il merito della fede: seme sceltissimo che oggi fa sbocciare i fiori di tutte quelle virtù che ci rendono graditi a Dio, e che un giorno produrrà frutti che dureranno in eterno: “Il conoscere te è perfetta giustizia, e il sapere la tua giustizia e la tua potenza è radice d’immortalità” (Sap XV,3).  – Qui sembra opportuno un richiamo ai doveri di quelle virtù, che la fede giustamente impone. Tra queste è la virtù della penitenza, di cui è una manifestazione l’“astinenza”, doverosa e salutare per più di un motivo. Se la Chiesa mostra, su questo punto, sempre maggiore mitezza verso i suoi figli, è però loro dovere compensare con altre opere meritorie la sua materna indulgenza. Ora, anche a tale scopo, Ci piace, in primo luogo, inculcare la pratica del Rosario che può produrre buoni frutti di penitenza, specialmente con la meditazione delle sofferenze di Cristo e della Madre sua.  – A coloro, dunque, che si sforzano di raggiungere il loro bene supremo, per un mirabile disegno della Provvidenza viene offerto l’aiuto del Rosario: aiuto più facile e più pratico di qualsiasi altro. Infatti basta una conoscenza, anche modesta, della Religione, per imparare a recitare con frutto il Rosario; inoltre, esso richiede così poco tempo che non può davvero recare pregiudizio ad altri affari. Ciò è confermato da opportuni e luminosi esempi della storia sacra, dove si legge che vi furono, in ogni tempo, molte persone che, sebbene ricoprissero uffici molto gravosi, o fossero assorbite da faticose occupazioni, tuttavia non tralasciarono, neppure per un giorno, questa pia consuetudine. – Ciò si spiega con quell’intimo sentimento di pietà che trasporta le anime verso questa sacra corona, sino ad amarla teneramente e a considerarla come inseparabile compagna e sicuro sostegno. Stringendola nella suprema agonia, esse ne traggono un dolce auspicio per il raggiungimento dell’“immarcescibile corona di gloria”. A tale auspicio giovano grandemente i benefìci della “sacra indulgenza”, purché di essi si abbia la dovuta stima: di tali benefìci il Rosario fu in larga misura dotato dai Nostri Predecessori e arricchito da Noi stessi. Non vi è dubbio che queste indulgenze, quasi dispensate dalle mani della Vergine misericordiosa, giovano molto ai moribondi e ai defunti, in quanto affrettano loro le gioie della sospirata pace e della luce eterna.  – Ecco, Venerabili Fratelli, i motivi che Ci spingono a non desistere dal lodare e dal raccomandare ai cattolici una forma così eccellente di pietà, tanto utile per arrivare al porto della salvezza. Ma a ciò siamo mossi anche da un’altra ragione di straordinaria importanza, sulla quale abbiamo già più volte manifestato il Nostro pensiero con Lettere ed Allocuzioni.  – SentendoCi, cioè, ogni giorno più fortemente stimolati e spinti ad operare dall’ardente desiderio — acceso in Noi dal Cuore santissimo di Cristo Gesù — di favorire la riconciliazione dei dissidenti, comprendiamo che questa mirabile unità non può essere meglio preparata e realizzata che in virtù della preghiera. Abbiamo presente l’esempio di Cristo, il quale supplicò lungamente il Padre, perché i seguaci della sua dottrina fossero “una cosa sola” nella fede e nella carità. Della validità della preghiera alla santissima Madre sua, finalizzata a questo scopo, esiste un’ampia documentazione nella storia apostolica. In essa, nella quale viene ricordata la prima riunione dei Discepoli, in supplichevole attesa della promessa effusione dello Spirito Santo, si fa speciale menzione di Maria, in preghiera con essi: “Tutti questi perseveravano concordi nell’orazione con Maria, Madre di Gesù”. Come, dunque, la Chiesa nascente giustamente si unì nella preghiera a lei — fautrice e nobile custode dell’unità —, è quanto mai opportuno che altrettanto si faccia ai nostri giorni in tutto il mondo cattolico, specialmente durante il mese di ottobre, che Noi, già da lungo tempo, abbiamo voluto dedicato e consacrato alla divina Madre, con la recita solenne del Rosario, per implorarne l’aiuto nelle presenti angustie della Chiesa. Si accenda dunque, dappertutto, l’ardore per questa preghiera, con lo scopo precipuo di ottenere la santa unità. Nulla potrà essere più soave e più gradito a Maria. Unita intimamente a Cristo, ella soprattutto desidera e vuole che coloro che hanno ricevuto il dono dello stesso battesimo, da lui istituito, siano anche uniti da una stessa fede e da una perfetta carità con Cristo, e tra loro medesimi. – Che i misteri augusti di questa fede, mediante il Rosario, penetrino così profondamente nelle anime che noi possiamo “imitare ciò che essi contengono, ed ottenere ciò che promettono!”.  – Frattanto, in auspicio dei divini favori, e a testimonianza del Nostro affetto, accordiamo di gran cuore a ciascuno di voi, al vostro clero ed al vostro popolo, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 settembre 1896, anno decimonono del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII

(1) Apologet. c. XXXIX.

(2) In Evang. Matth. c. XVIII.

(3) Litt. apost. Salutaris ille, datae die XXIV decembr. an. MDCCCLXXXIII.

(4) III, q. XXVI, aa. 1, 2.

(5) S. Th. III, q. XXX, a. 1.

(6) S. Aug., De assumpt. B.M.V., c. V, inter opp.

… et IPSA conteret caput tuum!!!

DOMENICA I DI AVVENTO (2018)

DOMENICA I DI AVVENTO (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XXIV: 1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]
Ps XXIV:4
Vias tuas, Dómine, demónstra mihi: et sémitas tuas édoce me.
Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.

Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Oratio
Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: ut ab imminéntibus peccatórum nostrórum perículis, te mereámur protegénte éripi, te liberánte salvári:
[Súscita, o Signore, Te ne preghiamo, la tua potenza, e vieni: affinché dai pericoli che ci incombono per i nostri peccati, possiamo essere sottratti dalla tua protezione e salvati dalla tua mano liberatrice.]

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Romános Rom XIII: 11-14.


“Fratres: Scientes, quia hora est jam nos de somno súrgere. Nunc enim própior est nostra salus, quam cum credídimus. Nox præcéssit, dies autem appropinquávit. Abjiciámus ergo ópera tenebrárum, et induámur arma lucis. Sicut in die honéste ambulémus: non in comessatiónibus et ebrietátibus, non in cubílibus et impudicítiis, non in contentióne et æmulatióne: sed induímini Dóminum Jesum Christum” .

Omelia I
[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia I; Torino 1899]

“È già ora che ci svegliamo dal sonno, perché al presente la salute è più vicina che quando credemmo. La notte è avanzata e il giorno è vicino: gettiam via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. Camminiamo con decoro, come chi cammina alla luce del giorno; non in crapule e in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia; ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza „ ( Ai Rom. XIII, 11-14).

Eccovi, o dilettissimi, voltati fedelmente nella nostra lingua i cinque ultimi versetti del capo decimoterzo della Epistola ai Romani, or ora letta nella santa Messa. È questa la prima delle quattro Domeniche d’Avvento, vale a dire di quel tempo sacro  nel quale la Chiesa, qual pia madre, è tutta intesa a disporre i suoi figliuoli alla venuta di nostro Signore, al santo Natale. La Chiesa col suo spirito ci trasporta in quel periodo sì lungo di tempo che corse da Adamo a Gesù Cristo, e facendo proprio il linguaggio dei profeti e dei patriarchi, quasi sposa che attende lo sposo, atteggiata di mestizia e di dolore pel suo ritardo, con le preghiere, col digiuno, con le astinenze, con i gemiti, con i sospiri e coi desideri più affocati, ne invoca e ne affretta la venuta [Nel linguaggio comune si dice che la Chiesa comincia con Gesù Cristo e con gli Apostoli e in un senso è vero. Ma sarebbe più esatto il dire che la Chiesa comincia con Adamo e si compie con Gesù Cristo e con gli Apostoli. Che cosa è tutta la rivelazione patriarcale e mosaica? È la preparazione o l’introduzione della Chiesa. Questa comincia con Adamo e finisce con l’ultimo cristiano che vivrà sulla terra: essa abbraccia tutti i tempi ed è sempre lo stesso spirito di Cristo che avviva la Sinagoga antica e la Chiesa, e solo per Lui si salvarono quelli che vissero prima di Lui, come si salvano quelli che vivono dopo di Lui, perché Egli solo è la vita e dalla sua pienezza tutti ricevono]. La Chiesa conosce troppo bene la natura umana e sa che ai sensi interni dell’anima devono sempre rispondere le cose esterne. Ora la Chiesa, in questo tempo del santo Avvento, collocandosi nei secoli che corsero prima della venuta del Salvatore, deve necessariamente avere a cuore quei sensi ond’erano informati i patriarchi, i profeti e i giusti tutti dell’antica legge. Quali dovevano essere questi sensi? Sensi di profonda mestizia, di dolore misto a rassegnazione tranquilla e perciò la Chiesa fa tacere l’organo, gli inni, i cantici tutti di letizia: vuole rimossi i fiori dall’altare e veste a lutto il tempio e i sacerdoti, prescrive l’astinenza e il digiuno. Quali dovevano essere i sensi dei patriarchi, dei profeti, dei giusti aspettanti ansiosamente la venuta del promesso Messia? Dovevano essere sensi di fede viva, di speranza ardente, di umiltà, di preghiera. E perciò la Chiesa mette sulle labbra dei suoi sacerdoti le parole de profeti e grida con essi: “Vieni, vieni, Signore: non tardare più oltre: sciogli i nostri ceppi, ci libera dai nostri peccati: manda l’Agnello, che deve dominare la terra. „ – Non sarebbe agevole in tutte le lettere S. Paolo trovare un tratto, che meglio di quello che ho riportato, risponda allo spirito, onde la Chiesa vuole informati i suoi figli e che più efficacemente li prepari a celebrare con frutto il mistero del santo Natale. – Io tolgo a spiegare brevemente queste ammirabili sentenze dell’Apostolo e voi vogliate aprire docilmente le orecchie del vostro cuore per udirle e riporvele bene addentro. È già ora che ci risvegliamo dal sonno grida l’Apostolo. E che sonno è questo, o carissimi? Vi è il sonno del corpo e vi è il sonno dell’anima. Nel sonno del corpo l’uomo rimane inerte: ha occhi e non vede, orecchi e non ode, lingua e non parla, piedi e non cammina, mani e non lavora: questo sonno del corpo nella giusta misura è un bisogno non altrimenti del cibo, perché ne ristora le forze. Anche l’anima ha il suo sonno e sonno troppo spesso colpevole. E quando, o carissimi, questo sonno dell’anima è colpevole? Quando l’anima non pensa mai o troppo raramente a Dio, al proprio fine, alla propria salvezza eterna: allorché, tutta immersa nelle cose del mondo, dimentica la preghiera e gli altri doveri religiosi. Allora essa si abbandona ad un sonno colpevole, che può essere foriero della sua morte eterna. S’io giro gli occhi intorno, in alto, in basso, che vedo? Ohimè! quante anime addormentate; mentre i corpi lavorano febbrilmente! Non ascoltano mai, o quasi mai la parola di Dio: non si curano di sacramenti, di leggi della Chiesa e della stessa legge divina. Invano la grazia, quasi alito divino, passa sull’anima loro, quasi raggio di luce batte sugli occhi suoi per destarla e avviarla sui sentieri della vita: essa è sepolta nel sonno. A quest’anima io grido con il grande Apostolo:  “Su; è ora di svegliarti, di provvedere a te stessa, di aprire gli occhi alla luce della verità, di scuoterti da dosso la polvere del secolo e di camminare nella via diritta del cielo.” — E tanto più è necessario svegliarci dal sonno spirituale, prosegue l’Apostolo, perché ora la nostra salute è più vicina che non quando credemmo. — Che vuol dir ciò, o dilettissimi? Fu già tempo, nel quale noi, figli di Mose, discepoli dei profeti, aspettavamo il Salvatore promesso: ora è venuto: l’abbiamo visto con i nostri occhi: io ve l’ho annunciato! e voi avete creduto in Lui: la salute adunque ora è più vicina, e se era colpevole la nostra trascuratezza prima della venuta di Gesù Cristo, sarebbe doppiamente colpevole ora, che viviamo della sua fede e che siamo più presso alla corona promessa. E le parole dell’Apostolo non sono rigorosamente vere per noi pure, dilettissimi? Grazie a Dio, da molti e molti anni noi abbiamo ricevuto il dono inestimabile della fede in Gesù Cristo e camminiamo secondo essa. Dal dì che potemmo conoscere ed apprezzare sì gran dono fino ad oggi quanti anni trascorsero! Da quel dì pertanto noi ci siamo sempre più avvicinati al termine di nostra vita e perciò ci siamo sempre avvicinati a quel momento, in cui si compirà la nostra salute e vedremo e possederemo Gesù Cristo. Quel momento è vicino, può giungere domani, oggi; non c’è tempo da perdere! Se siamo oppressi da quel sonno funesto dell’anima, di cui parla S. Paolo, svegliamoci tosto. “Levati tu, che dormi, grida l’Apostolo, e Cristo ti illuminerà. „ “La notte è avanzata e il giorno è vicino. „ Che notte è questa e che giorno è questo, di cui parla l’Apostolo? — È la notte sì buia del paganesimo, nella quale i Romani convertiti erano stati sì lungamente sepolti: è la notte rischiarata dagli albori profetici, nella quale gli Ebrei, allora divenuti Cristiani, erano vissuti, salutando da lungi il sospirato Salvatore: il giorno vicino, anzi presente, è il regno di Gesù Cristo, luce del mondo. La notte avanzata può significare altresì il secolo o la vita presente, piena di errori, travagliata da lotte e da passioni, e il giorno vicino può intendersi del giorno eterno, della vita beata, alla quale tutti affannosamente sospiriamo. Qui l’Apostolo, con la bella immagine del giorno e della notte, sollevando il pensiero alle alte verità della fede, con un linguaggio pieno di forza e di maschia eloquenza esclama: “Gettiamo dunque via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. „ Siamo usciti dalla notte del paganesimo: siamo usciti dalle ombre della legge mosaica: camminiamo alla luce della dottrina portata da Cristo: attraversiamo animosamente questo secolo perverso: siamo già presso a quel giorno nel quale vedremo Dio faccia a faccia: via adunque le opere delle tenebre, le opere cioè del paganesimo, le opere della legge mosaica, le opere del mondo, in cui viviamo, e vestiamo le armi della luce (giacché qui la parola armi significa chiaramente opere per ragione del nesso naturale, onde si lega alla sentenza precedente), le opere della fede, le opere di Gesù Cristo stesso. – E perché mai S. Paolo chiama le opere buone armi della luce? Perché le opere buone sono armi, che ci difendono dal nemico, che ci combatte, e perché come le armi sono ornamento di chi le porta, così le opere buone sono l’ornamento e la gloria di chi le compie. S. Paolo in questo luogo, col nome di opere della notte o delle tenebre designa certamente opere malvagie, i peccati, e col nome di opere del giorno o della luce indica le opere buone e sante. E perché ciò? I libri inspirati, acconciandosi alla nostra natura, ci fanno conoscere le cose invisibili e spirituali per mezzo delle visibili e materiali; nell’ordine visibile e materiale la luce non solo è la bellissima di tutte le cose, ma quella che fa bello e grazioso tutto ciò che è bello e grazioso, e là dove non risplende la luce, non vi è bellezza e regna la bruttezza. Egli è per questo che nel linguaggio della Scrittura le opere belle e sante si dicono opere della luce e le opere malvagie si chiamano opere delle tenebre. Fra la luce e la virtù, a nostro modo d’intendere, corre quel rapporto che corre fra le tenebre ed il vizio, ond’è che la virtù ama la luce e fugge le tenebre e il vizio odia la luce e cerca le tenebre e in esse si nasconde. “L’omicida si leva prima dell’alba, scrive Giobbe, uccide il povero, e la notte compie i suoi latrocini. L’occhio dell’adultero aspetta che calino le tenebre, e dice: Nessuno mi vedrà, e si copre il volto. Di notte i tristi sfondano le case segnate di giorno e per essi il giorno è ombra di morte „ (XXIV, 14 e seg.). Le tenebre ed il delitto si danno la mano, la notte e la colpa sono amiche, perché quella toglie la vergogna e franca dal timore. Meritamente pertanto S. Paolo sfolgora le opere malvagie chiamandole opere delle tenebre: Abjiciamus opera tenebrarum e vuole che vestiamo le opere della luce: Et induamur arma lucis. – Prosegue il grande Apostolo, non dimenticando mai la sua immagine della luce e delle tenebre, e scrive: ” Camminiamo con decoro come chi cammina alla luce del giorno. „ Se voi di bel mezzogiorno aveste a passare per le vie più frequentate d’una città, certi che tutti gli occhi sarebbero fissi sulla vostra persona, che fareste? Senza dubbio porreste ogni studio in camminare con gravità e decoro, e vorreste puliti gli abiti e debitamente acconciati e vi guardereste bene da tutto ciò che potesse esporre comechessia la vostra persona allo sprezzo od al biasimo del pubblico. Ebbene, dice S. Paolo: Voi, Cristiani, camminate sotto gli occhi degli uomini, e quel che più importa, di Dio, alla piena luce del giorno: dunque non dite mai parola, né fate atto alcuno, che non sia degno di voi: tutto il vostro esterno sia composto a gravità e decoro talmente che nessuno trovi in voi di che appuntarvi. Rischiarati dalla luce della fede, abbiate anche le opere della fede: Figli della luce, scrive in altro luogo l’Apostolo, camminate, cioè operate come si conviene ai figli della luce: Ut filii lucis ambulate. E un linguaggio pieno di nobiltà e d’energia e d’una forma brillante e poetica: ” Camminate come figli della luce! „ Voi non avete nulla da nascondere, perché non avete nulla di che arrossire: che tutti vedano le opere vostre e ne diano gloria a Dio, per il quale son fatte: a Dio che è la stessa luce e nel quale non vi è neo di tenebre. – Io vi prego, o carissimi, di por mente all’arte sapientissima con cui l’Apostolo ha dettato ed ha ordinato tra loro queste poche sentenze: egli parla del sonno, della notte, delle opere delle tenebre, della necessità di svegliarsi, del giorno, della luce e delle opere della luce: voi facilmente comprendete come tutte queste .espressioni, sonno, notte, opere delle tenebre da una parte, e dall’altra la necessità di destarsi,  l’idea del giorno e della luce e delle opere della luce, si legano strettamente tra loro per guisa che si confondono in una sola cosa, e allorché l’Apostolo condanna il sonno dell’anima e la notte, condanna in sostanza le opere delle tenebre, ossia le opere malvagie; quando per converso vuole che ci destiamo e vegliamo e viene parlando del giorno e della luce e inculca che camminiamo come di giorno, chiaramente egli ci esorta alla pratica delle opere buone e sante, proprie del cristiano, ondeché tutta la dottrina di questi versetti si può compendiare in queste due semplicissime sentenze: Fuggite le opere cattive e fate le opere buone. E quali sono in particolare le opere cattive, che si vogliono fuggire e le opere buone, che si hanno da fare? Risponde subito l’Apostolo “Non in crapule, non in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. ,, Non dovete credere che in questa breve enumerazione di disordini l’Apostolo abbia voluto comprendere tutte le opere delle tenebre, ossia tutte le opere malvagie, dalle quali il cristiano deve con somma cura guardarsi, no: volle solamente ricordare quelle che gli parvero più gravi e più comuni, e quelle, credo io, nelle quali sapeva maggiormente invischiati i fedeli, ai quali scriveva. L’intemperanza nel mangiare e nel bere, l’incontinenza e tutti in genere i peccati della carne, le risse, le discordie, gli odii e le invidie, che feriscono od uccidono la carità fraterna, sono opere delle tenebre, che non si dovrebbero tampoco nominare tra cristiani. Veramente ammirabile l’Apostolo nelle sue lettere! Egli talora spazia sulle vette dei più sublimi dogmi e, sollevando il lembo della fede, con rapidi tocchi ci lascia intravedere la luce sfolgorante, onde sono avvolti. Ma poi quasi subito discende nel campo, sì vasto della pratica e in brevissime sentenze condensa le verità morali più importanti e comuni e le presenta nelle forme più vive ed efficaci. Così in questo luogo leva la voce contro le crapule, le ubriachezze, le lascivie, le contese, le invidie, che sono i vizi più comuni e ne mette in guardia i fedeli. O fratelli e figliuoli miei! Uno sguardo alla nostra parrocchia, alle nostre famiglie, ciascuno di noi. Siamo noi tutti mondi da queste brutture? Non abbiamo noi seguito il vizio della gola? Non abbiamo noi alcuna volta secondato le sozze voglie del senso e gli stimoli della carne? Non abbiamo noi con le parole, col desiderio e con le opere rotta la carità coi fratelli nostri e fors’anche seminata tra loro la discordia? Se per mala ventura fosse, noi certo non saremmo nel numero di coloro che camminano alla luce e di giorno con decoro, ma piuttosto saremmo di quelli, che si avvolgono fra le tenebre, per nascondere le loro turpitudini. Che dovremmo fare? Finirla tosto e per sempre con queste opere tenebre: dovremmo “rivestire il Signore Cristo e non accarezzare la carne per concupiscenza. „ E sapete voi. che cosa importi vestire Gesù Cristo? E questa una espressione energica e sublime che più volte s’incontra nelle lettere di S. Paolo e che giova comprendere bene, Gesù Cristo, nostro capo e maestro supremo, è i1 modello sovranamente perfetto di tutte le virtù: tutto lo studio del cristiano, se bene si guarda, si riduce a copiare in se stesso Gesù Cristo, tanto che di Lui si possa dire: Ecco un altro Cristo. – Il cristiano nelle sue parole, nei suoi pensieri, nei suoi affetti, nelle sue opere, in tutto il suo interno ed esterno deve ritrarre Gesù Cristo per modo da esserne l’immagine fedele e vivente: onde come il nostro corpo si copre delle vesti e di esse si adorna, così l’anima nostra e in qualche senso anche il nostro corpo devono coprirsi e adornarsi delle opere di Gesù Cristo: ecco che cosa vuol dire: vestirsi di Cristo. – L’Apostolo chiude il suo dire con questa sentenza: “Non accarezzate la carne per concupiscenza: „ cioè non accarezzate la carne, appagando le sue voglie malnate. Con queste parole ribadisce la verità fondamentale della Religione cristiana sopra già toccata ed è che noi dobbiamo sempre e con tutte le forze resistere alle passioni, che si annidano nella nostra carne e ci trascinano giù per la china del piacere e della eterna perdizione. Ogni qualvolta, o cari, che mi cadono sotto gli occhi le ultime sentenze dell’Apostolo, che ho spiegato, il pensiero mio corre naturalmente ad un fatto dei più meravigliosi e commoventi che si leggano nella storia ecclesiastica e dipinto coi colori più vivi, descritto con gli accenti più caldi e più appassionati da quel medesimo, che ne fu l’attore. Udite: Nella seconda metà del secolo quarto viveva un giovane d’alti sensi, di cuore magnanimo: il mondo forse non aveva mai visto ingegno più acuto e più vasto del suo. Profugo dalla casa materna, corse da Cartagine a Roma, dì Roma a Milano, in cerca della scienza: si tuffò nel brago di ignobili passioni, volse le spalle alla fede succhiata col latte fra le braccia di una madre santa, che lo adorava e seguiva dovunque: divenne eretico, poi scettico. A quell’anima ardente, sitibonda della verità, caduta in fondo di un abisso di errori e di disordini, brillò un primo raggio di luce, leggendole opere di Cicerone e di Platone e udendo la parola piena di amore di un santo Vescovo. A poco a poco conobbe la verità, tutta la verità, come la poteva conoscere quell’aquila delle intelligenze: ma il misero non sapeva rompere la catena delle sue passioni: voleva ritornare a Dio, ma sentivasi impotente: piangeva, gemeva, ma indarno. Credo che sia difficile trovare pagine più vere e più eloquenti di quelle, nelle quali quel giovane, nel bollore dei suoi trent’anni, descrive le pene, le carezze, le lotte, gli sforzi, i dolori, le agonie ineffabili dell’anima sua: nessuno meglio di lui seppe fare la storia del cuore umano e penetrare nelle fibre più riposte dello spie e narrarne le vicende. Leggendo quelle pagine, bisogna fremere e lagrimare con lui che le dettò. Un giorno, non potendo più oltre soffocare il grido della coscienza, che lo lacerava, né finirla con le passioni che lo tenevano avvinto, ad un tratto si tolse di mezzo agli amici, che gli facevano corona, uscì precipitoso dalla stanza, si ritirò nel giardino che sorgeva a fianco, si buttò ai piedi di un albero e con le palme coprendosi il volto sciolse il freno alle lagrime. “Piangeva amaramente, dice egli, sulle mie turpitudini, ma non ancora poteva risolvermi ad abbandonarle. „ Ed ecco una voce come di fanciullo dalla vicina casa, che ripeteva: “Piglia e leggi, piglia e leggi”— Ascolta, si leva, asciuga le lacrime, rientra nella stanza, piglia il primo libro che gli viene innanzi (era il libro delle Epistole di S. Paolo), l’apre a caso e legge le prime parole che gli cadono sott’occhio: “Non in crapule ed ubriachezze, non sotto coltri e lascivie, non nelle contese e nella invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. „ Lesse, chiuse il libro e un raggio di luce serena e tranquilla inondò la sua mente, cessò la tempesta del cuore, sparirono i dubbi, una forza novella penetrò il suo spirito, una dolcezza inesprimibile si diffuse in tutta l’anima sua, di repente si sentì mutato in altr’uomo: il giovane miscredente e dissoluto era trasformato e convertito: la semplice lettura delle parole di S. Paolo, che abbiamo insieme spiegate e meditate, aveva operato il grande miracolo. Volete sapere chi era quel giovane incredulo e immerso nella libidine e che in un istante si trasformava in un credente e in un santo? Egli era il figlio di Monica, il grande Agostino. Potenza meravigliosa della parola e della grazia divina da una parte, e della volontà umana dall’altra!

Graduale
Ps XXIV: 3; 4
Univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur, Dómine.
[Tutti quelli che Ti aspettano, o Signore, non saranno confusi.]
V. Vias tuas, Dómine, notas fac mihi: et sémitas tuas édoce me.
[Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.

Ps LXXXIV: 8. V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam: et salutáre tuum da nobis. Allelúja. [Mostraci, o Signore, la tua misericordia: e dacci la tua salvezza. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secundum S. Lucam.

Luc XXI:25-33.

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Erunt signa in sole et luna et stellis, et in terris pressúra géntium præ confusióne sónitus maris et flúctuum: arescéntibus homínibus præ timóre et exspectatióne, quæ supervénient univérso orbi: nam virtútes coelórum movebúntur. Et tunc vidébunt Fílium hóminis veniéntem in nube cum potestáte magna et majestáte. His autem fíeri incipiéntibus, respícite et leváte cápita vestra: quóniam appropínquat redémptio vestra. Et dixit illis similitúdinem: Vidéte ficúlneam et omnes árbores: cum prodúcunt jam ex se fructum, scitis, quóniam prope est æstas. Ita et vos, cum vidéritis hæc fíeri, scitóte, quóniam prope est regnum Dei. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia fiant. Coelum et terra transíbunt: verba autem mea non transíbunt.

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia II; Torino 1899]

“Gesù  disse ai suoi discepoli: vi saranno segni nel sole e nella luna e nelle stelle, e in terra vi sarà, angoscia dei popoli e si udrà il rimbombo del mare e del fiotto. Gli uomini smarriti spasimeranno pel terrore e per l’aspettazione delle cose che sopravverranno al mondo, perciocché saranno scrollate le potenze del mondo. E allora vedranno il Figliuolo dell’uomo venire sopra una nuvola con potenza e gloria grande. E allorché queste cose cominceranno ad avvenire, levate in alto i vostri sguardi e alzate la testa, perché la vostra redenzione è vicina. E disse loro una similitudine: vedete il fico e tutti gli alberi. Quando han cominciato a germogliare, vedendoli, voi riconoscerete che l’estate è vicina. Così ancor voi, quando vedrete avvenire queste cose, sappiate, che il regno dei cieli è vicino. In verità Io vi dico che non passerà questa generazione finché tutte queste cose non siano avvenute. Passeranno il cielo e la terra, ma le mie parole non passeranno,,  (S. Luca, XXVI, 25-33).

– Fin qui l’Evangelo di questa prima Domenica d’Avvento. Udendo queste parole uscite dalla bocca di Gesù Cristo, voi tutti senza dubbio avrete compreso che si discorre della fine dei tempi, del gran giudizio, col quale si chiuderà la scena del mondo e sarà reso a ciascuno secondo le opere sue. Voi farete le meraviglie, che la Chiesa ci inviti a meditare la seconda venuta di Gesù Cristo in questi giorni, nei quali essa vuole che ci prepariamo alla sua prima venuta. Parlarci della magnificenza della venuta del Giudice supremo quando dobbiamo pensare alla povertà estrema e alle inenarrabili umiliazioni del divino Infante! Eppure nulla di più conveniente, o carissimi. Il terrore del finale giudizio ci deve scuotere salutarmente, ci obbliga ad entrare nelle nostre coscienze, ad esaminarle diligentemente e cacciarne il peccato se per sventura vi si appiattasse. E non è questo il miglior modo di prepararci a celebrare santamente la prima venuta di Gesù Cristo? Non basta: la prima venuta di Gesù Cristo sì umile, in apparenza sì spregevole, per molti potrebbe essere uno scandalo: la grandezza e la maestà della sua seconda venuta, come giudice dei vivi e dei morti, toglie questo scandalo e nel Bambino, che tra pochi giorni adoreremo sulla paglia, ci fa conoscere l’Uomo-Dio, il Figlio dell’Eterno. Ma è da venire al momento delle parole evangeliche sopra riportate. – Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle, e in terra vi sarà angoscia dei popoli e si udrà il rimbombo del mare e del fiotto. Gli uomini smarriti vivranno per il terrore e per l’aspettazione delle cose che sopravverranno al mondo, perché saranno scrollate le potenze dei cieli”. – Per intendere a dovere le parole di Gesù Cristo, è mestieri rifarci alquanto indietro e conoscere l’occasione e le circostanze, nelle quali le ebbe pronunziate.- Si avvicinavano i giorni, nei quali Gesù Cristo doveva compiere il suo sacrificio, dirò meglio, era alla vigilia della sua passione, giacché queste parole furono dette il lunedì od il martedì precedente la sua morte: e a Lui, che aveva accennato alla distruzione del tempio e al futuro giudizio. gli Apostoli mossero questa domanda: “Dicci, quando avverranno queste cose, cioè la distrazione del tempio e della città? E quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?” (Matteo XXIV, 3). Due cose pertanto gli Apostoli domandarono a Gesù, ed Egli rispose partitamente all’una e all’altra. Parla prima della distruzione del tempio e dello sterminio della città; poi passa alla sua seconda venuta ed ai segni che la precederanno. Tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca, più o meno diffusamente, riferiscono le parole di nostro Signore, come ciascuno può vedere nei loro Evangeli. La Chiesa in questa Domenica ci mette innanzi la risposta che Gesù Cristo diede agli Apostoli intorno al dì del giudizio ed ai segni che ne saranno forieri. E prima di cominciare la spiegazione lasciatemi mandare innanzi un’altra osservazione, che non mi sembra inutile: vi furono e vi sono ancora persone che indagano curiosamente quando verrà la fine del mondo. Sono ricerche inutili e pericolose: la Chiesa vieta di far calcoli su questo tempo: Gesù Cristo medesimo disse che nessuno conosce quel giorno, nemmeno gli Angeli, e aggiunse, nemmeno il Figliuol dell’uomo che vi parla. Certamente Gesù Cristo conosceva quel giorno, tantoché indicò i segni del suo appressarsi, ma volle far comprendere che non lo conosceva come uomo, e che se lo conosceva non poteva, né voleva dirlo. Del resto, o cari, se è lecito dire qualche cosa, mi pare evidente che la fine dei tempi è assai lontana. Se Dio fece precedere una preparazione di oltre quaranta secoli allo stabilimento del regno di Gesù Cristo, che è la Chiesa, mi pare ragionevole che questo regno debba essere assai più lungo. Dei mille cinquecento milioni di uomini che vivono sulla terrà, fin ora poco più di duecento milioni sono entrati nella Chiesa: è egli credibile che sì scarso numero di uomini debba essere il frutto di quella redenzione, che fu sì copiosa? Gesù Cristo è e dev’essere il Re dell’universo, e il suo regno dev’essere universale non solo, ma in qualche senso anche pacifico: al presente siam molto lontani da questo regno universale e pacifico di Gesù Cristo, e i figli di Israele, che prima della fine dei secoli debbono pure ritornare a Gesù Cristo, fino ad oggi si mostrano ostinati nella loro incredulità. Nessuno adunque di noi, dirò con san Paolo, si turbi quasi ché il giudizio estremo sia imminente (Tess. II, 1-2). Secondo ogni probabilità passeranno ancora alcune diecine di secoli prima che spunti quel gran giorno. Premesse queste osservazioni, veniamo alla spiegazione del testo evangelico. – Gesù Cristo parla di segni paurosi, che precederanno il dì del giudizio: di segni che appariranno nel sole, nella luna, nelle stelle e nel mare. Quali saranno questi segni? Gesù Cristo non dice nulla in particolare, ma fa capire chiaramente che saranno oltre ogni dire tremendi. Non vuolsi dimenticare che i profeti allorché annunziano grandi sventure o fatti meravigliosi, usano alcune volte queste stesse espressioni enfatiche molto famigliari agli orientali. — Onde è che, volendo il profeta Gioele annunziare il miracolo della Pentecoste e lo stabilimento della Chiesa, scrive: “In quei giorni farò prodigi in cielo e in terra; sangue e fuoco e colonne di fumo; il sole sarà mutato in tenebra e la luna diventerà sanguigna „ (II, 29, 30; Atti Apostoli, c. II 19, 20). Ora noi sappiamo che nel giorno della Pentecoste non si videro colonne di fumo, né il sole si mutò in tenebra, né la luna diventò sanguigna. Quel linguaggio pertanto significò soltanto il fatto straordinario della Pentecoste: fu un modo di dire simile a quello che talvolta usiamo noi per esprimere qualche fatto strepitoso: tremava la terra: pareva cadesse il cielo e andate dicendo. Qui il Salvatore adopera espressioni quasi uguali, parlando della catastrofe finale, e può essere, che, acconciandosi alle forme di dire comuni agli Ebrei, non intendesse propriamente di indicare ecclissi di sole o di luna, o sconvolgimenti di astri e di tempeste di mare, ma volesse soltanto accennare in generale a fenomeni straordinari e terribilissimi, che avverranno in quel tempo, senza determinarli in particolare. Ciò che vuolsi tenere indubitato si è, che la terra e il cielo annunzieranno l’avvicinarsi di quel giorno, che si dice per eccellenza giorno del Signore, con fenomeni e avvenimenti formidabilissimi. E perché sì tremendo apparato di cose? Per mostrare la grandezza di Colui che viene, la maestà del gran giudizio, ed anche, credo io, per atterrire i peccatori, che vivranno ancora sulla terra ed ottenerne la conversione. Sì: quegli scuotimenti paurosi della terra: quei turbamenti dell’atmosfera e dei cieli: quel rovesciarsi del mare sui continenti: quegli strani fenomeni, che riempiranno di sgomento tutti i popoli, saranno la voce di Dio, che li chiamerà a penitenza, e, non ne dubito, moltissimi in quei supremi momenti si convertiranno. I castighi divini sulla terra sono sempre prove della divina misericordia fino all’ultimo giorno dei secoli. Che faranno allora gli uomini superstiti? “Saranno tutti ricolmi di terrore in preda ad un’angoscia mortale. „ E qui la Scrittura adopra una frase che non posso tradurre. Essa dice: Arescentibus hominibus, cioè gli uomini si disseccheranno per lo spavento, che è quanto dire trambasceranno, agonizzeranno, rimarranno come morti alla vista del dissolvimento generale delle cose e dell’appressarsi del Giudice divino. Noi, o cari, non vedremo quel giorno tremendo, non vedremo quelle immani catastrofi, perché riposeremo nella tomba, anzi! … saremo polvere: ma l’anima nostra, dovechessia per essere, ne avrà conoscimento, sicura di sé, se salva; esterrefatta, se per somma sventura perduta. Noi abbiamo il beneficio grande di leggere ora sui Libri santi ed udire anticipatamente ciò che avverrà qui sulla terra prima dell’universale giudizio: facciamone adunque nostro pro, scuotiamoci dal sonno del peccato, giudichiamo ora noi stessi, come dice l’Apostolo, e non saremo giudicati, né paventeremo gli orrori di quel giorno. È questo senza dubbio il fine per il quale Gesù volle annunziarci e in poche linee descriverci il funereo apparato del giudizio supremo: vuole che lo temiamo al presente per sfuggirlo allora che sopravverrà. – Accennati rapidamente gli sconvolgimenti celesti e terrestri, che precederanno il termine dei tempi e lo spavento, onde saranno assaliti gli uomini, i quali tutti in vari modi cesseranno di vivere, Gesù Cristo ci mette innanzi ciò che porrà il colmo allo sgomento universale, la comparsa del Giudice divino. Il Figlio di Dio, nella sua prima venuta, sì umile e sì spregevole, mandò innanzi i patriarchi ed i profeti e particolarmente il Precursore, affine di preparargli la via, pregando ed esortando: comparve sulla terra nel cuore della notte, ignoto a tutti, nel silenzio più perfetto, dice S. Ignazio martire; in questa seconda venuta Egli comparisce in tutta la maestà che si addice a Lui, Figlio dell’Eterno. Il cielo e la terra si agitano e traballano sotto i suoi passi: non prega, ma comanda: ai suoi fianchi cammina, non la misericordia, ma la giustizia; viene come Giudice, non come Salvatore, e lo splendore immenso di questa seconda venuta è la giusta ricompensa dovuta alla umiltà della prima. – Eccolo, grida l’evangelista, eccolo “il Figliuolo dell’uomo venire in una nuvola con potenza e gloria grande. „ Come nelle mostre più solenni i re della terra vengono ultimi e tutti gli occhi son fissi sopra di loro, così in questo sublime spettacolo Gesù Cristo, il Re del cielo e della terra, dopo le schiere degli Angeli e dei Santi, comparisce per ultimo. — Il Figliuol dell’uomo, cioè l’uomo per eccellenza, l’Uomo-Dio, viene sopra una nuvola. È linguaggio figurato, che significa la sua potenza e grandezza e come egli qual Giudice sovrasti a tutte le creature, Angeli e uomini. Non dovete credere che Egli segga veramente sopra una nuvola, quasiché abbia bisogno di sedere e che le cose materiali possano aggiungere alcunché alla maestà della sua adorabile Persona. Questo si dice unicamente per acconciarsi a noi povere creature sensibili, che abbiamo bisogno di tutto questo apparato materiale per elevarci e per concepire alcun poco le grandezze divine. È cosa degna di considerazione che le grandi manifestazioni di Dio sogliano avvenire nelle nubi: una nube avvolge Dio che parla a Mosè: una nube riempie il tempio di Salomone: una nube apparisce sopra di Gesù sul Tabor ed una nube il toglie agli occhi dei discepoli allorché sale al cielo, ed è chiaro che si parla di nubi visibili. Per quel solennissimo giudizio Gesù Cristo non avrà bisogno né di trono, né di domande né di risposte, né di libri e nemmeno di tempo: si farà tutto in un lampo, in un batter d’occhio, in ictu oculi, come dice S. Paolo svelando le coscienze di tutti con la sua luce infinita e rendendo a ciascuno ciò che gli si deve secondo le opere sue, come avrò occasione di spiegare altrove più ampiamente. – Qui nostro Signore si rivolge ai suoi cari Apostoli e discepoli e parla loro come se fossero presenti al giudizio, e lo saranno certamente, e dice loro: “Quando queste cose avverranno, levate in alto gli sguardi, alzate le vostre teste, „ cioè rallegratevi. Gli altri saranno atterriti, saranno trepidanti, aspettando la sentenza irrevocabile: voi allora non vi sgomentate: fidenti levate gli occhi e contemplate il giudice sovrano. E perché? Perché “allora sarà prossima la vostra redenzione.„ Ma come, o Signore? La loro redenzione non è forse già compita qui sulla terra, nel tempo? Sì; qui si semina, là si miete: nei giorni della vita mortale si riceve la grazia; nel giudizio finale la grazia fiorisce e fruttifica e ci dà la gloria eterna. Fino a quel giorno l’anima, se giusta, si beava in Dio, ma il corpo giaceva nel sepolcro, o, fatto polvere, era disperso negli elementi: in quell’istante, in cui apparirà il Giudice celeste, i corpi risorgeranno e saranno ricongiunti alle loro anime, e perciò sarà compiuta l’opera della loro santificazione, o della loro redenzione, giacché l’anima sola non è tutto l’uomo, e solo allora egli sarà perfetto, quando riavrà il corpo rifatto e glorioso. Gesù Cristo aveva detto in termini quali saranno i segni forieri dell’ultimo giorno: ma non gli basta: vuol ribadire la verità con una similitudine, ch’Egli secondo il suo costume, piglia sempre dalle cose più volgari e che stanno sotto gli occhi di tutti. Come dicemmo, Gesù Cristo pronunciò queste parole poco prima della Pasqua, nel mese di marzo e in Palestina; in quel mese la terra si copre di fronde e fiori, ed io penso che allorché Gesù parlava ai suoi Apostoli avesse sotto gli occhi alberi verdeggianti e tra questi il fico, onde disse: “Guardate il fico e tutti gli alberi, così egli; quando mettono il germoglio, voi  in vederlo, riconoscete da voi stessi, che l’estate è vicina. „ Era un dire: Allorché vedete che gli alberi ingrossano le gemme e mettono le prime foglie, voi non errate dicendo: Eccoci all’estate; così, vedendo i segni, che ho accennato, dite pure con sicurtà: Ecco vicino il giudizio. Direte: Ma nessuno degli uditori di Gesù Cristo doveva vedere quei segni: perché adunque rivolge a loro la parola? Perché in loro e per loro parlava a tutti i futuri credenti, come suol fare in moltissimi altri luoghi del Vangelo. – Il Vangelo si chiude con queste due sentenze: “Io vi dico in verità, che non passerà questa generazione o quest’epoca finché tutte queste cose non siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le mie parole. „ Non credo che da labbra umane siano mai uscite e possano mai uscire affermazioni più franche e più audaci di queste. – Ponete mente a quella forma di dire — In verità vi dico, — che esprime la forza massima della affermazione: ponete anche mente a quella forma enfatica che non ha l’eguale: “Passeranno il cielo e la terra, ma non passeranno le mie parole. „ Una affermazione sì solenne non è possibile che sulla lingua di un pazzo, o di chi ha piena coscienza della propria infallibilità e che con uno sguardo signoreggia il futuro. Niuno mai osò, né oserà chiamar pazzo Cristo: Lui che ha trasformato il mondo, che stringe in sé il passato ed il futuro, che è il centro, onde si irradia ogni civiltà ed ogni progresso. Egli adunque aveva piena coscienza di ciò che diceva, aveva piena coscienza della sua divinità: sì, solamente un Dio poteva pronunziare quelle parole inaudite: “Passeranno il cielo e la terra, ma non passeranno le mie parole. „ E l’avvenire si affrettò a confermarle in parte tale che è guarentigia sicura dell’altra. Lo dissi a principio: due cose predisse Gesù Cristo in questo capo, la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo: la prima si adempì letteralmente trentacinque anni dopo che Gesù l’aveva predetta, e il mondo intero ne è testimonio: chi può dubitare che eziandio la seconda non si adempirà nel modo che Gesù predisse? Forse taluno troverà difficile il senso di quella sentenza del Salvatore: “Vi dico in verità che questa generazione non passerà finché tutte queste cose non siano avvenute; dalla quale sentenza sembra che la generazione vivente al tempo di Cristo dovesse essere spettatrice della fine del mondo, il che sarebbe manifestamente falso. La difficoltà si scioglie facilmente. Forse quella espressione: “Non passerà questa generazione„ si ha da intendere della sola distruzione di Gerusalemme, e veramente molti di quelli che vivevano al tempo di Cristo videro quella spaventosa catastrofe. Che se questa interpretazione non sembra in tutto conforme al senso proprio delle parole di Cristo, possiamo darne un’altra che toglie ogni dubbio e che è più comune. “Non passerà questa generazione, „ cioè non cesserà di esistere questa progenie di Abramo, questa nazione giudaica, finché e la distruzione di Gerusalemme, e la fine dei secoli non siano avvenute; fatto unico in tutta la storia dei popoli, la nazione giudaica, dispersa su tutta la faccia della terra, resta fino ad oggi e resterà distinta in mezzo a tutte le genti, qual prova permanente, che delle parole di Cristo non cade sillaba.Raccogliamo le cose dette sin qui e vediamo di cavarne qualche frutto a nostra edificazione spirituale. Gesù Cristo annunzia la fine dei tempi e il giudizio estremo e accenna ai segni paurosissimi che lo precederanno: il giudizio universale sarà la conferma del particolare, che per ciascuno di noi verrà tra breve, alla nostra morte. Quel gran giudizio non avrà nulla di terribile per noi se saremo nel numero dei giusti: anzi la sua venuta ci ricolmerà di gioia e compirà la nostra redenzione, ridonandoci il corpo ripieno di vita immortale e fiorente di eterna giovinezza. Facciamo adunque ogni sforzo per essere trovati in quel dì nel numero degli eletti, e lo saremo se cacceremo il peccato dal nostro cuore e vivremo nella grazia di Dio. Gesù Cristo lo disse: “Passeranno cielo e terra, ma non passeranno le mie parole. „

Credo

Offertorium
Orémus
Ps XXIV: 1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Secreta
Hæc sacra nos, Dómine, poténti virtúte mundátos ad suum fáciant purióres veníre princípium.[Questi misteri, o Signore, purificandoci con la loro potente virtú, ci facciano pervenire piú mondi a Te che ne sei l’autore.]

Communio
Ps LXXXIV:13.
Dóminus dabit benignitátem: et terra nostra dabit fructum suum. [Il Signore ci sarà benigno e la nostra terra darà il suo frutto.]

Postcommunio
Orémus.
Suscipiámus, Dómine, misericórdiam tuam in médio templi tui: ut reparatiónis nostræ ventúra sollémnia cóngruis honóribus præcedámus.
[Fa, o Signore, che (per mezzo di questo divino mistero) in mezzo al tuo tempio sperimentiamo la tua misericordia, al fine di prepararci convenientemente alle prossime solennità della nostra redenzione.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXIX)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO XXXIX.

IL PAPA.

Visibilità della Chiesa e spirito privato del protestantesimo. — Istituzione divina del Papato. — S- Pietro a Roma. — Autorità del Papa. — Sua infallibilità. — Necessità della medesima. — Anche di fronte ai Concili!. — Un’infallibilità pontificia non è un dogma nuovo? — E i Papi che hanno errato? — E quelli malvagi?

— È dunque proprio vero che Gesù Cristo nel fondare la sua Chiesa ha inteso di fondare una società visibile?

Non se ne può avere il minimo dubbio. Già fin dai tempi antichi i profeti avevano annunziato che Gesù Cristo avrebbe creato una società visibile a guisa di un regno potente, che si sarebbe esteso sino agli estremi confini della terra (V. Daniele, capo II, versetto 44); a guisa di una casa del Signore, che sta sulla vetta dei monti e si solleva sopra tutti i colli, ed alla quale sarebbero accorsi in folla tutti i popoli; a guisa di una città santa, nella quale sarebbero entrate le moltitudini delle nazioni ed i popoli gagliardi (V. Isaia., capo II e LX). Lo stesso Gesù Cristo poi promise durante la sua predicazione, che per la salvezza universale degli uomini avrebbe edificato la sua Chiesa: e parlando di essa la paragonò ad un gregge e ad un ovile, al quale dovevano pervenire tutte le pecorelle disperse per tutto il mondo; ad un banchetto, a cui sono chiamate persone di ogni stato; ad una rete gettata nel gran mare dell’umanità e che piglia ogni specie di pesci; ad un granellino di senapa, che si converte poscia in un albero immenso, nel quale vanno a riposarsi ogni sorta di uccelli; ad un regno di Dio aperto a tutti i popoli della terra.

— Come dunque i protestanti osano negare la visibilità della Chiesa?

Si capisce. Tutto il sistema del protestantesimo si basa sopra lo spirito privato. Essi sostengono cioè che ognuno degli uomini può stare da sé e dipendere direttamente da Dio, il quale illumina ogni uomo intorno a quel che deve credere e a quel che deve operare per mezzo della Bibbia; che perciò non vi è bisogno di nessun’autorità nella Chiesa, la quale ci spieghi e quel che dobbiamo credere e quel che dobbiamo operare. Quindi in conformità a questo suo errore capitale il protestantesimo nega la necessità che la Chiesa di Gesù Cristo sia visibile, nega cioè che debba essere visibile nel suo insegnamento, nel suo culto, nel governo delle anime, nell’autorità dei suoi Pastori e specialmente del Sommo Pontefice, lasciato da Gesù Cristo a governarla visibilmente sulla terra. E ciò esso fa propriamente per poter affermare di sé che, allontanatosi dall’ovile e sottrattosi all’autorità del supremo pastore il Papa, forma nondimeno la Chiesa di Gesù Cristo.

— E non risulta forse chiaro dal Vangelo che Gesù Cristo ha preposto un capo supremo a governare visibilmente la Chiesa?

Risulta chiarissimo. Tu sai che fra i dodici Apostoli suoi riguardò sempre Pietro come il primo di tutti. A lui cambiò il nome di Simone in quello di Cefa ossia Pietra, ad indicare che lo voleva fare la pietra fondamentale della sua Chiesa. Predicò di preferenza dalla barca di lui. Pregò distintamente per lui. Da lui cominciò a lavare i piedi agli Apostoli. Lui fece camminare sulle onde. A lui apparve singolarmente dopo la risurrezione; lui insomma designò chiaramente al disopra di tutti. E tutto ciò è ancor poco, perciocché ben più apertamente Gesù Cristo fece intendere il suo disegno e la sua volontà riguardo a Pietro. Quel dì, che a nome degli altri Apostoli Pietro confessò esplicitamente la Divinità di Lui, Gesù Cristo rivolgendosi ad esso gli disse queste precise parole : « Ed io dico a te, che tu sei Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa, e le potenze d’inferno non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche ne’ cieli » (V. Vangelo di S. Matteo, capo XXVI). – Nell’ultima cena poi rivolto a Pietro, gli dice: « Simone, io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno; e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli » (V. Vangelo di S. Luca, capo XXII). E dopo la sua risurrezione apparendo ai suoi discepoli e volgendosi ancora a Pietro, dopo averlo per tre volte interrogato se lo amava ed essersi inteso a rispondere che sì, gli disse due volte: « Pasci i miei agnelli; » ed una terza: « Pasci le mie pecorelle » (V. Vangelo di S. Giovanni, capo XXI). – Ora per negare che in queste sentenze Gesù Cristo abbia costituito Pietro capo, fondamento, clavigero, legislatore, pastore, maestro supremo del suo regno, cioè della sua Chiesa, bisognerebbe far contro allo stesso buon senso naturale.

— E si può essere certi che S. Pietro abbia riconosciuto d’aver ricevuto tale potestà e che gli altri Apostoli e i primitivi fedeli l’abbiano riconosciuta?

Certissimi. Difatti appena salito in cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro Apostolo in luogo di Giuda il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor egli che pel primo avendo convertito i Giudei, va pel primo a battezzare i Gentili. Così è egli Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S. Paolo, benché fatto Apostolo direttamente da Gesù Cristo non si tiene pago fino a che non ha fatto confermare il suo apostolato da S. Pietro.

— Ciò va benissimo. Ma non si potrebbe obbiettare che l’autorità che Gesù Cristo conferì a Pietro sia stato un privilegio personale?

Il credere ciò sarebbe lo stesso che credere che Gesù Cristo non abbia voluto che durasse in perpetuo la sua Chiesa, ma che invece con la morte di Pietro si disgregasse e andasse in rovina. Dimmi, a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato, di società, non si appalesa a primo aspetto la necessità di un rispettivo capo?

— Sì, senza alcun dubbio.

Dunque se Gesù Cristo voleva che la sua Chiesa durasse perpetuamente quaggiù (e lo volle davvero, perché ha dichiarato apertamente essere sua volontà che tutti gli uomini pervengano al conoscimento della verità), non doveva volere che a conservarsi integra, una, indissolubile vi fosse pur sempre in essa un capo supremo?

— Anche ciò è chiarissimo.

Dunque il primato di Pietro non è un privilegio personale, che abbia a perire con la sua morte; è un privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in tutti quelli che continueranno il suo Pontificato sino alla consumazione dei secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed infallibile magistero.

— Mi pare però che si dubiti assai che S. Pietro si sia recato a Roma a stabilire la sua cattedra episcopale.

Oh sì, caro mio, dai protestanti ciò si è messo in dubbio e lo si è negato addirittura, e sempre con questo intento maligno di negare l’autorità suprema del Vescovo di Roma. Ma il fatto della venuta, dimora e morte di San Pietro in Roma, e per conseguenza dello stabilimento della sua sovrana autorità in detta città è di una certezza storica tale, che fa peranche oggi sin ridere il doverlo provare. I monumenti archeologici specialmente, con quelle illustrazioni che ebbero ultimamente dal celebre Giovan Battista de Rossi, forniscono oggi, oltre ad altri innumerevoli, uno dei più convincenti argomenti della verità di tal fatto. D’altronde gli stessi protestanti e razionalisti dei dì nostri, in gran parte, benché non vogliano saperne del primato del Papa, Vescovo di Roma, hanno ancor essi respinto questo errore del vecchio protestantesimo. Dico però solamente in gran parte, perché taluno di essi che passa per la maggiore, come lo storico Ferdinando Gregorovius, osa asserire impudentemente, pur sapendo di mentire, che « la storia non sa nulla di questa presenza dell’apostolo Pietro in Roma, e che perciò non è altro che un fondatore leggendario della comunità romana ». E di ciò è a rincrescere assai, perché certi giovani studenti delle scuole superiori se si imbatteranno in tale asserzione, o se l’intenderanno a fare da qualche loro professore, senza punto darsi la pena di rettificarla con studi appositi, solo perché è l’asserzione di un tedesco, l’accetteranno come oro di coppella, e diranno poi contro la sentenza opposta e dimostrata matematicamente vera: « Ecco un’altra invenzione dei preti ».

— Stia certo che essendo stato posto sull’avviso, ciò non accadrà di me. Ma l’autorità suprema del Papa fu pure sempre riconosciuta lungo il corso dei secoli?

Sempre. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Concilii furono sempre d’accordo nel credere e proclamare che il Papa, il Pontefice romano è il Vicario di Gesù Cristo, il Successore di S. Pietro, il Reggitore e Maestro supremo della Chiesa universale. Ed ogni qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si trovarono nel dubbio e nella controversia per riguardo a qualche pratica religiosa o a qualche punto di dottrina fu sempre al Papa che si rivolsero, e fu sempre alla sua decisione che si affidarono ed obbedirono come all’oracolo divino, conoscendo per fede e di fatto che S. Pietro persevera e vive nei suoi successori.

— Vuol dire adunque che il Papa ha il potere di ammaestrare, dirigere e comandare anche i Vescovi?

Senza dubbio. Sebbene i Vescovi siano i successori degli Apostoli, opperò abbiano anch’essi quell’autorità divina, che Gesù Cristo diede agli Apostoli dicendo loro: « Tutto ciò che avrete legato sulla terra sarà pure legato in cielo; tutto ciò che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo; come il Padre celeste ha mandato me, così io mando voi eccetera, eccetera; » non di meno il Papa per essere il Capo supremo della Chiesa, per avere ricevuto da Gesù Cristo l’ordine e il potere di pascere non solo gli agnelli figura dei fedeli, ma eziandio le pecorelle figura dei Vescovi, di confermare nella fede i suoi fratelli, cioè gli stessi Vescovi, perciò ha realmente l’autorità di ammaestrare, dirigere e comandare anche i Vescovi, ed anche i Vescovi devono stare a Lui soggetti.

— E in tal guisa l’autorità dei Vescovi non ne scapita?

No affatto. L’autorità dei Vescovi, che come ti dissi, è pur essa divina, rimane quella che è. Epperò anche i Vescovi nella loro diocesi hanno il potere di ammaestrare nella fede, di conferire la grazia coi Sacramenti, di far leggi conducenti alla salvezza delle anime in particolar modo affidate alle loro cure, di punire con pene adatte alla natura ed indole della Chiesa i figli disobbedienti, e cose simili; ma la loro autorità è sempre subordinata a quella del Pontefice secondo che Gesù Cristo ha voluto, di quella guisa che in un esercito i diversi generali e colonnelli, avendo pur ciascuno una vera autorità, stanno tuttavia soggetti al generale in capo, costituito dal re anche sopra di essi.

— Ho inteso, e sono ora più che convinto riguardo all’autorità del Papa. Ciò che però non capisco ancor bene si è la sua infallibilità. Mi pare impossibile che il Papa, per quanto Papa, non possa peccare come tutti gli altri uomini! e che si debba aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli esprima su qualsiasi soggetto.

Come ? anche tu hai delle idee così storte a questo riguardo? Caro mio, l’infallibilità non è affatto l’impeccabilità come tu, ed altri pensano: la Chiesa non ha mai insegnato ciò; perché il Papa in quanto è uomo potrà anche egli peccare, e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per implorare il perdono delle sue colpe. Così pure non è vero assolutamente che l’infallibilità sia legata ad ogni sua parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli, come persona privata, esprimendo il suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra la teologia, o sopra la politica, o sopra l’arte, o sopra qualsiasi altra cosa può fallire. L’infallibilità è quella prerogativa, per cui il Papa come Capo della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede o i costumi, non può cadere in errore, né quindi ingannar se stesso o gli altri. Ecco che cosa è l’infallibilità.

— Tutto ciò va bene; ma io ho sempre udito dire che al mondo non c’è altri infallibile che Iddio!

Perdinci ! Tu mi spari davvero una bomba, ma è bomba di carta. Lo so anch’io che Iddio solo è infallibile, e so anche che Dio solo può conoscere il futuro, che Dio solo può far dei miracoli, che Dio solo può assolvere i peccati e compiere altre simili cose. Ma forse che Dio non può comunicare, quando gli paia e piaccia, questi doni a taluno degli uomini? Forse che non li abbia comunicati? Dunque anche essendo Egli solo infallibile può comunicare al Papa il dono dell’infallibilità e realmente glielo comunica, affinché quando parla come Papa, cioè come Vicario suo e definisce una qualche cosa che riguardi la fede o i costumi non cada in errore.

— Ma quale necessità che Dio partecipi la sua infallibilità al Papa? Io non la vedo affatto.

Non la vedi? Eppure non v’è nulla di più chiaro. Secondo le parole di Gesù Cristo a S. Pietro, ogni Papa deve pascolare agnelli e pecore, deve cioè istruire tutta la Chiesa, e questa deve ricevere i suoi pascoli, i suoi insegnamenti. – Ora se il Papa ne’ suoi insegnamenti circa la fede o i costumi errasse o per ignoranza o per malizia, non sarebb’egli come un pastore, che conduca gli agnelli e le pecore a pascoli avvelenati, un pastore che invece della vita darebbe loro la morte? – Inoltre il Vangelo ci dice che Gesù Cristo pregò pel Capo della sua Chiesa, affinché la sua fede non venisse meno e così potesse confermare in essa i suoi fratelli. Ma potrebbe fare ciò il Papa, se la preghiera di Gesù Cristo non fosse stata dal suo Celeste Padre esaudita, ed il Papa non fosse infallibile nel suo Magistero supremo? – Supponi che nella Chiesa nasca una questione gravissima riguardo a qualche dottrina o a qualche pratica religiosa, questione che assolutamente bisogna decidere per tranquillizzare le coscienze, per illuminarle e dirigerle secondo la verità; si potrebbe fare ciò, se il Papa, capo della Chiesa, appoggiandosi alla promessa di Gesù Cristo non potesse egli decidere in modo infallibile, che si tratta sì o no di una dottrina rivelata, di una pratica conforme o disforme alla legge di Dio?

— Le ragioni che mi adduce sono veramente forti; ma per decidere queste questioni religiose non si sono radunati pel passato e non si possono ancora radunare adesso e in seguito dei Concilii di tutti i Vescovi della Chiesa?

Sì, ciò è vero, ma anzitutto ti osservo che i Concilii ecumenici, ossia generali di tutti i Vescovi, non si possono raccogliere in ogni tempo, né possono essere per loro natura un tribunale permanente. E se la cosa fosse urgente e si esigesse subito una parola chiara, autorevole, che cessi i dissidi e tronchi le lotte, come si farebbe? In secondo luogo tu devi sapere che nessun Concilio può aver valore nella Chiesa se non è ratificato dal Papa, e che le decisioni dogmatiche di un Concilio ecumenico sono infallibili in quanto che in detto Concilio i Vescovi sono congiunti al Papa, capo della Chiesa, il quale, a guisa di sole nel quale s’incentra la infallibilità, la irradia sopra il corpo episcopale a lui unito.

— Vuol dire adunque che un Concilio, fosse pure di tutti i Vescovi del mondo, senza il Papa o contro il Papa, non sarebbe infallibile.

Precisamente così. Il Papa è sempre lui il fondamento della Chiesa, e qualsiasi corpo, fosse pure quello di tutti i Vescovi del mondo, che non si basi sopra il fondamento stabilito da Gesù Cristo, non può partecipare a quella incrollabilità di fede, che Gesù Cristo ha assicurato al detto fondamento.

— Ma il dogma dell’infallibilità del Papa non è ancor esso un dogma nuovo? Dunque i Papi, che esistettero prima di questo dogma, non saranno stati infallibili.

Ricorda quanto già ti ho detto riguardo alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. La Chiesa quando definisce un nuovo dogma non introduce una nuova verità da credere, ma dichiara che una dottrina, che sempre vi è stata nella Chiesa, è una verità rivelata da Dio precisamente perché fa parte della divina rivelazione. Dunque sebbene il dogma dell’infallibilità del Papa sia stato definito soltanto il 18 luglio 1870 nel Concilio Vaticano, perché allora si vide l’opportunità di definirlo, non di meno è una verità sempre esistita e in fondo in fondo sempre riconosciuta, dacché Gesù Cristo disse a San Pietro: « Tu sei Pietro; pascola i miei agnelli e le mie pecorelle; conferma nella fede i tuoi fratelli ».

— Ma pure alcuni Papi in passato non sono caduti in errore? Ho sentito parlare di Liberio, di Marcellino, di Onorio.

Basta, basta; ho già inteso. Ma prima di tutto bisogna ricercare se le cose, che di questi Papi si dicono, siano vere. In secondo luogo bisogna vedere se le cose, quali sono realmente, contengano errori contro la fede o la morale. E da ultimo, qualora ci fossero veramente degli errori, bisogna dimostrare se sono stati profferiti da questi Pontefici come da Papi, nell’esercizio supremo della loro autorità, propriamente per fare una definizione dogmatica, oppure come da dottori privati. Fino a che non si provino queste tre cose, e non si potranno mai provare, è inutile far delle obbiezioni aeree.

— Dunque non è mai accaduto che nella Chiesa vi siano stati dei Papi, che abbiano errato?

No; dei Papi che nell’esercizio supremo del loro ministero abbiano errato, non ve ne sono stati mai, e non mai ve ne saranno. Ed è questa una cosa al tutto mirabile che in sì lungo corso di secoli, con tante e sì svariate dottrine, che i Papi come Capi della Chiesa hanno proposte e definite, non siano mai caduti in alcun errore o contraddizione.

— Ciò che però non mi potrà negare si è che tra i Papi ve ne siano stati anche di quelli malvagi, per esempio un Alessandro VI, nei quali non saprei proprio come vi abbia potuto essere la infallibilità!

Io non ti nego che vi sia stato tra i Papi qualcuno di una vita non dicevole alla sublime sua dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? No, mai. Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che la sua vita privata non sia stata sempre buona, non diede mai alcun insegnamento, che pregiudicasse la fede e la morale cristiana. La purità della dottrina anche sotto di lui rimase intatta. – « In ogni epoca, ti dirò col valentissimo storico dei Papi, Dottor Lodovico Pastor, si sono dati nella Chiesa da canto a cattivi Cristiani anche indegni sacerdoti, come tra gli stessi Apostoli vi fu un Giuda. Ma a quella guisa che una cattiva incastonatura non scema il pregio di una gemma, così pure la peccabilità di un sacerdote non può recar scapito essenziale né al Sacrificio ch’egli offre, né ai sacramenti di cui è ministro, né alla dottrina ch’egli insegna. Il perché eziandio il sommo sacerdote (il Papa) non è in grado di togliere alcunché dal merito dei tesori celesti, che gli sono nella loro pienezza affidati e cui egli amministra e dispensa. L’oro rimane oro, sia che lo dispensi una mano pura od impura. Con questi criteri giudicava ormai Leone Magno; « La dignità di Pietro (e si può dire lo stesso della sua infallibilità) non va a scadere né anche in un indegno successore » (V. Storia dei Papi, ecc. di Lodovico Pastor, volume III, pagina 435).