LO SCUDO DELLA FEDE (XL)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XL.

I POTERI DELLA CHIESA.

Le leggi Della Chiesa. — Perché ci proibisce di mangiar carne il Venerdì? — Perché condanna la libertà eli stampa e proibisce certe letture? — Almeno per chi è forte e sagace, e di certi autori moderni non vi dovrebb’essere proibizione di sorta. — Perché la scomunica? — E la fumosa Inquisizione _ E Galileo torturato e imprigionato? E la strage di S, Bartolomeo?

— Da quanto mi ha detto ho riconosciuto che vi ha nella Chiesa un’autorità costituita da Gesù Cristo, autorità che è divina e vera nei Vescovi e nel Papa, ma che nel Papa, Capo supremo di tutta la Chiesa, si concentra e risiede in tutta la pienezza. Ora vorrei sapere che cosa deve e può fare questa autorità.

Te lo dirò in brevi parole:

1° Può e deve ammaestrarci intorno alle verità della fede.

2° Può far delle leggi regolanti il culto divino, la preghiera, le feste, i riti sacri, l’amministrazione ed il ricevimento dei Sacramenti, gli atti penitenziari della vita cristiana, i voti e il genere di vita dei religiosi eccetera.

3° Può esaminare, giudicare e condannare tutte quelle dottrine e tutti quegli atti, che non sono conformi al suo insegnamento e che si oppongono al suo governo.

4° Può infine per mezzo di pene salutari e conformi all’indole e natura sua punire coloro, che si rendono colpevoli in qualsiasi modo contro di lei, contro la sua fede e la sua legge.

— Ormai da quanto ho inteso dirmi, mi sono più che persuaso che la Chiesa ha il potere e il dovere di ammaestrarci intorno alle verità della fede e che noi dobbiamo credere a tutti i suoi insegnamenti per essere veri Cristiani. Ma non capisco ancora come la Chiesa possa anche fare delle leggi, e stabilire certi precetti.

Questo potere della Chiesa è pur esso chiaramente indicato e stabilito nel Vangelo da queste parole: « Tutto ciò che legherete sulla terra, sarà pure legato in cielo » ; parole, con le quali Gesù Cristo dice in sostanza che saranno approvati in cielo quei comandamenti, che la Chiesa farà qui in terra.

— Ma non basta forse la legge di Dio?

E tu credi che la Chiesa facendo dei precetti aggiunga propriamente qualche cosa alla legge divina? La Chiesa con i suoi precetti in sostanza non fa altro che svolgere ed applicare ai singoli casi la legge del Signore. Veniamo a qualche esempio. Iddio nella sua legge ci ordina di santificare i giorni festivi, e la Chiesa, comandandoci di assistere in essi alla Santa Messa, ci svolge il precetto del Signore e ci ammaestra intorno al modo, con cui dobbiamo santificare detti giorni. Iddio ci ordina di credere fermamente in Lui, e di rispettare la dignità della nostra natura col non abbandonarci a brutti peccati, e la Chiesa proibendoci la lettura di libri empi ed osceni, ci aiuta a mantenere ferma la nostra fede e rimuove un grave pericolo per la purità dei nostri costumi. Iddio vuole che noi ad ottenere il perdono dei nostri peccati ci confessiamo al sacerdote suo rappresentante, e la Chiesa ordinandoci di far ciò almeno una volta all’anno ci sprona ad eseguire il volere di Dio. Insomma la Chiesa con le sue leggi va attuando nel modo più opportuno la legge divina, come nella civile società la magistratura va attuando il codice civile.

— Ciò va benissimo. Tuttavia di certi precetti della Chiesa non mi so proprio bene dar ragione. Perché ad esempio la Chiesa ci obbliga ad astenerci dalla carne il venerdì e in altri determinati giorni dell’anno? Che cosa deve importare a Dio se io mangio di grasso oppure di magro?

Tu parlando così, dici dei veri spropositi. La Chiesa ci obbliga al magro al venerdì ed in altri giorni, come pure ad una certa età ci obbliga al digiuno, per farci eseguire il precetto di Gesù Cristo, col quale ci ha ordinato di fare penitenza dei nostri peccati. E siccome poi Gesù Cristo, vero uomo ma pur vero Dio, ha dato Egli il potere alla Chiesa di far delle leggi, perciò a Lui importa moltissimo che noi la ubbidiamo in tutto quello che essa ci comanda.

— Ma dunque Dio ci dannerà per un po’ di carne?

Dio ci dannerà pei nostri peccati, che commettiamo eziandio violando i precetti delle Chiesa. Del resto non ha Iddio condannati Adamo ed Eva per aver mangiato un pomo vietato?

— Ma ho sempre inteso dire, che non è ciò che entra in bocca, che macchia l’uomo.

E già che è così. Ma se l’anima non è macchiata dalla carne che mangi, resta macchiata dalla disobbedienza che commetti verso la Chiesa direttamente, e indirettamente verso Dio che comanda di obbedire alla Chiesa.

— Ma quando si tratta di ammalati, di deboli, di gente piena di occupazioni…

E allora la Chiesa non intende di obbligarli. Basta che chi si trova in tal condizione

se la intenda col suo confessore o col suo parroco: la Chiesa non vuole altro se non che le si professi la sommissione dovuta.

— Ma ciò che non mi va proprio si è quel condannare la libertà di stampa e mettere certi libri all’Indice, proibendone la lettura.

Per contendere alla Chiesa l’autorità di interdire certa stampa e di proibire i libri nocivi alla fede ed ai costumi, converrebbe negare la giurisdizione, che tiene su tutta la società. Si nega forse ad un vignaiuolo il diritto di strappar via dalla vigna, che coltiva, le male erbe e gli sterpi? Si nega ad un pastore il potere di allontanare il gregge dai pascoli e dai fonti nocivi? E alla civile società si contende forse l’autorità di sequestrare quegli scritti che fossero diretti a turbare l’ordine civile? Anche la Chiesa adunque deve avere questa autorità per la sua conservazione e per il bene de’ suoi figli.

— Ma intanto col combattere la libertà di stampa la Chiesa impedisce agl’ingegni di erudirsi.

Dimmi: è forse impedire al fiume la libertà del suo corso alzargli d’ambe le parti gli argini perché non straripi? o non è un aiutarlo a conservarsi con tutte le sue acque, a correre pieno e maestoso, a seguire insomma con più sicura libertà il suo corso naturale? Così fa la Chiesa col reprimere quanto più le è possibile la sfrenata libertà di stampa; contiene entro giusti limiti l’ingegno, perché si eserciti più vigoroso in opere degne di esso e non diventi un flagello della società e della Religione.

— Ma perché mentre lo spirito umano è in progresso e tutto il mondo profitta della civiltà moderna, rinunziare a tanta copia di lumi, che si diffondono pei libri e pei giornali!

Perché non è progresso né civiltà ciò che tende a distruggere l’ordine morale e religioso, ciò che mira a guastare la mente e a corrompere il cuore, ma turpe regresso.

— Eppure certi libri sono scritti in così bello stile, che sarebbe gran danno per la propria coltura il non leggerli.

Potrei risponderti che certi libri sono scritti in uno stile sì orribile, che è un gran danno per la propria coltura il leggerli, Ma supponiamo che sia come tu dici. Dunque per imparare il coraggio avrai d’ora innanzi a metterti a scuola da una banda d’assassini, perché sono la gente più audace che vi sia? Eh! Caro mio! per quanto si tratti di bello stile, non bisogna perciò mettere a pericolo la propria fede e la propria virtù ravvoltolando la mente nel pantano di certi libri, di certi romanzi, e di certi giornali.

— Ma quando uno si sente già forte e sagace abbastanza da distinguere il bene e il male e da respingere questo e appigliarsi a quello, che male c’è a far la lettura di quei libri e di quei giornali?

Quando pure si fosse gli uomini più sagaci e più forti del mondo, sempre si dovrebbe tremare, avendo detto lo Spirito Santo: « Chi ama il pericolo perirà in esso; e non è possibile maneggiare la pece senza restarne contaminato ». Per le cattive letture non sono forse caduti uomini insigni per dottrina e santità? Tant’è: si ha un bel dire: So distinguere… sono forte abbastanza… la realtà è questa, che a poco a poco la lettura di tali libri o giornali ti trasfonde per siffatta guisa nell’anima i loro pensieri, le loro parole, i loro apprezzamenti, i loro giudizi, le loro massime, che anche senza avvedertene si vanno oscurando in te i lumi della fede, l’errore destramente mascherato e gradatamente insinuato prende in te le sembianze della verità, e non va a lungo che tu pensi, parli, apprezzi, giudichi come il libro o il giornale che leggi; e se si tratta di libro immorale l’immaginazione si riempie di impuri fantasmi, il cuore si turba e si accende di impure fiamme, la volontà si guasta e si corrompe, e il senso trionfa sulla ragione. Quindi nessun pretesto può coonestare le cattive letture, epperò a costo di qualsiasi sacrificio, se vogliamo essere Cristiani, Cattolici veri, dobbiamo per sempre rinunziarvi ed astenercene, obbedendo alla Chiesa, che giustamente si vale della sua autorità a proibircele.

— Ma per lo meno certi autori moderni, che hanno acquistato gran fama letteraria, ancorché bacati nella fede e nel costume, non si hanno a leggere per riguardo alla loro bella forma? ed anche un po’ per vedere come la pensano?

Io, per me, ti dico che no. Che vuoi? A questo riguardo sarò un po’ retrogrado, ma io qui ti parlo da sacerdote, cioè da rappresentante di Gesù Cristo, e la sua legge non muta mai. Vedi: conosco degli amici miei, che erano prima di sentimenti al tutto cristiani, e che poi essendosi dati a leggere cotesti autori moderni, che tu sai, incominciando a gustarne l’arte, in breve divennero più o meno liberi pensatori. L’esperienza quotidiana lo dimostra, ed io oso sfidare chiunque a mostrarmi il contrario, che quando pure questi autori col fascino della loro arte paganeggiante non pervertano l’animo totalmente, lo piegano tuttavia a quello spirito di conciliazione fatale, che in breve rende facili e avvezzi a quella tolleranza dell’errore, a quel pratico accomodamento a tutte le idee, che con vero rincrescimento dei buoni, già si vede penetrato in certo giornalismo cattolico, che in ciò eccedendo i limiti di giusta e lodevole modernità, sia pure senza cattivo intento, fa tuttavia i punti d’oro ad ogni nuova opera vuoi letteraria, vuoi teatrale di quegli autori, magari senza aggiungere una parola sola di biasimo o di avvertenza sugli errori e sull’immoralità che ivi si asconde; ciò che riesce ad un tradimento del vero, ad una profanazione del bene e ad un fatale sfibramento del carattere cristiano. Epperò se oggidì molti, tra coloro istessi che la pretendono a Cattolici, sono pervenuti nella letteratura, nell’arte, nel teatro, anzi nella stessa filosofia, teologia e Religione a transazione col senso anticristiano, gli è appunto perché intesero portare a cielo quegli autori moderni e se ne diedero con passione alla lettura. D. Bosco, quel gran maestro ed amico della gioventù, non voleva neppure che certi autori e certe loro opere si avessero a nominare. Ma già… ei portava ancora il codino! Poveretto!

— Ho inteso perfettamente il suo latino; e sarà mio fermo proposito di regolarmi a questo riguardo secondo gl’insegnamenti che m’ha dato. Ma ora mi snodi un po’ un’altra difficoltà. Perché la Chiesa talvolta fa uso della scomunica e di altre pene contro certi Cristiani?

Perché la Chiesa ha i l diritto di provvedere con l’esercizio del potere coercitivo, datole da Gesù Cristo alla conservazione dell’ordine divino, che la fa essere la vera ed unica società religiosa istituita da Gesù Cristo. E siccome chiunque commetta una grave offesa all’unità della sua fede o alla santità de’ suoi costumi, diventa un pericolo per la comunanza cristiana, perciò essa sapientemente e prudentemente lo distingue dalla medesima per mezzo della scomunica, che è un privare l’individuo della comunione ossia partecipazione dei beni, che nella Chiesa vi sono.

— Ma per tal guisa la Chiesa non si mostra crudele?

Come? crudele la Chiesa per l’esercizio di un diritto il più ovvio del mondo, quello

cioè di separare un membro che rechi danno agli altri? Ma allora si deve pur dire crudele il padre, che manda fuori di casa il  figlio ribelle; crudele lo Stato, che sbandisce dal suo seno un cittadino turbolento; crudele quella società che cassa dal novero dei suoi membri un socio indegno. D’altronde credi tu che la Chiesa prima di infliggere questa ed altre simili pene, non proceda sempre con la massima longanimità? Sii certo che prima di ricorrere a questi estremi essa tenta mai sempre tutte le vie per ricondurre prima al dovere chi se n’è allontanato.

— Non mi potrà però negare che la Chiesa siasi mostrata crudele assai con la sua famosa Inquisizione!

Me lo immaginava che saresti venuto fuori anche tu con l’Inquisizione! Ma a questo riguardo io intendo di sbrigarmela teco brevemente e nettamente. Ed anzitutto, dimmi tu, che cosa era l’Inquisizione?

— Ma… io ho inteso dire che era quanto più di inumano vi possa essere… che per essa si infliggevano agli eretici i più orribili tormenti che nel tempo stesso si stava a godere dai vescovi, dai preti e dai frati lo spettacolo delle vittime che si contorcevano

Basta, basta. Vedo che anche tu non fai che ripetere le solite calunnie e intanto non

mi sai dire propriamente che cos’era l’Inquisizione. Dunque te lo dirò io. Essa era un tribunale istituito in molti paesi cristiani col concorso dell’autorità ecclesiastica e civile, composto di uomini i più ragguardevoli per la loro scienza e virtù, avente per ufficio di scoprire, giudicare e reprimere gli atti tendenti a rovesciare la Fede Cattolica. Ora questa istituzione non era dessa saggia, utile, anzi necessaria alla Chiesa, in quei tempi, in cui l’eresia andava facendo tanta strage tra i suoi figli?

« Questo tribunale, dice il Cantù (Vedi Storia universale, tomo XI, capo VI) , ammoniva per due volte prima di aprire qualunque processo, e non comandava che l’arresto degli eretici ostinati e recidivi; accoglieva il pentimento e si limitava a castighi morali; la qual cosa gli permetteva di salvare una moltitudine di persone, che i tribunali ordinari avrebbero condannate ». Dov’è adunque quella crudeltà, che tu appioppi alla Chiesa per ragion dell’Inquisizione? Del resto io non ti nego che i re, che domandavano alla Chiesa l’istituzione dell’Inquisizione nei loro Stati, ne abbiano abusato. Ma di questi abusi si dovrà rendere responsabile la Chiesa? quella Chiesa che per parte sua non lasciò di deplorarli e biasimarli? Quante volte i Papi intervennero colla loro autorità sia per assolvere dalle loro condanne gli eretici, sia per riprendere severamente gli inquisitori della loro durezza, sia per scomunicarli quando non obbedivano ai loro ordini di essere più miti!Dunque la Chiesa per parte sua nell’istituire l’Inquisizione non ha fatto altro che valersi della pienezza de’ suoi poteri e stabilire un tribunale di legittima sorveglianza, di alta protezione, di equità e di indulgenza. Sgraziatamente certi sovrani per ragioni politiche, come ad esempio in Ispagna, inventarono ed applicarono contro gli eretici delle pene gravissime. Ma di questi eccessivi rigori la Chiesa non ha colpa alcuna.

— Certamente, se le cose stanno così, e non ne dubito punto, la Chiesa non ha nessuna colpa. Ma… e Galileo torturato e imprigionato per aver scoperto che la terra gira intorno al sole? e la famosa strage di S. Bartolomeo?

Calunnie vecchie anche queste. Anzitutto è falsissimo che Galileo sia stato torturato, come comprovano molti scrittori, non già preti, ma laici, e vari documenti inediti scoperti alcuni anni orsono a Firenze. Che poi sia stato imprigionato non si può neppur dire, perché  fu condannato, sì, alla detenzione per qualche tempo, ma dopo pochi giorni di rilegazione nella villa del Pincio lo si lasciò libero di scegliere il luogo dove scontarla, ed egli scelse la casa del suo miglior amico, l’arcivescovo Piccolomini di Siena, e di là si ritrasse poi nella sua villa di Arcetri. Che sia stata condannata la sua dottrina non lo nego, ma non in quanto sostenesse il moto della terra intorno al sole, che questo già prima e più chiaramente di Galileo l’aveva sostenuto Copernico, ma in quanto che Galileo a sostenere la sua tesi, benché giusta, non si peritò di interpretare a modo suo e non esattamente la Bibbia, che gli scienziati di quei tempi ritenevano erroneamente contraria, in varii suoi testi, alle opinioni di Galileo, e pretendere fondato sulla Bibbia il suo sistema. Epperò se la Congregazione Romana si ingannò, oltreché non si può dire che abbia errato la Chiesa, perché la Congregazione del S. Ufficio non è la Chiesa, alla fin fine fu indotta in errore dai sapienti di quel Tempo. Ecco tutto. E di ciò si può fare, come si fa, un gran capo d’accusa contro la Chiesa? [Oggi è dimostrato chiaramente che il sistema copernicano è assolutamente falso e si regge solo su speculazioni cervellotiche senza uno straccio di prove. Le uniche prove anzi, oltre a formule matematiche strampalate ed incomprensibili ai più – formule regolarmente aggiornate da affabulatori vari e sempre nuovi – su foto truccate degli enti spaziali, come per il farlocco “sbarco sulla luna” – sbarco nello studio cinematografico, pieno di errori ed incongruenze, oggi replicato da sbarchi su Marte (in realtà in studi televisivi ultramoderni!) ed in futuro su presunti pianeti sempre rigorosamente e perfettamente sferici, senza poli schiacciati e senza asse obliquo. Le tesi di Galileo, oggi ridicole e che chiunque, con un semplice cannocchiale, può agevolmente confutare e smascherare, risentivano del culto di Mitra, il dio sole, cioè lucifero spacciatosi portatore di luce al centro dell’universo, culto oggi in gran auge presso le conventicole massoniche che ancora, presso il grande pubblico … di ignoranti, sostengono la tesi eliocentrica con il denaro del pubblico erario americano –NASA ladrona!? – Ci dispiace essere in disaccordo con il Carmagnola, ma il Santo Uffizio era un organo ecclesiastico primario nella difesa della verità Cattolica, e quindi parte integrante della stessa Chiesa,  – per questo è stato prontamente eliminato dalla setta del Novus Ordo Vaticano II – per cui non poteva sostenere l’errore; e qui fa piacere sottolineare che il Prefetto del Santo Uffizio ed i suoi collaboratori gesuiti, non si sbagliarono affatto nel valutare le idiozie del Galileo, già condannate giustamente in Copernico – entrambi, come Newton, Keplero, Bacone e compagni, si occupavano di astrologia, esoterismo, alchimia … altro che scienziati. Fu il Papa dell’epoca Urbano VIII che protesse e salvò il suo “amico” Galilei da una sacrosanta condanna. Purtroppo questo dimostra solo che l’eresia copernicana – eresia religiosa e scientifica insieme – si era fatta strada tra il clero infettandolo di incredulità e revisionismo verso la parola di Dio contenuta nella Scrittura Sacra, e di essere quindi in disaccordo con i canoni del concilio di Trento, oltre che con l’Infallibilità della dottrina cristiana, … come volevano appunto gli gnostici kabalisti dell’epoca e della massoneria odierna – ndr. -]

— No, certo.

Riguardo poi alla famosa strage di San Bartolomeo, avvenuta la notte del 25 agosto 1572 a Parigi, e di poi in molte altre città della Francia, per cui furono a tradimento e barbaramente trucidati un gran numero di Ugonotti ossia Calvinisti, è un fatto chiaro che fu soprattutto un colpo di stato politico macchinato dall’astuta Caterina de’ Medici, madre del re Carlo IX, e dai principali Signori della Corte di Francia, che per tal guisa, sotto il pretesto della Religione, si vollero sbarazzare di coloro, che da oltre venti anni ponevano sossopra la nazione con tumulti, rivolte, attentati contro la stessa persona del re, persecuzioni contro i Cattolici e stragi spaventose commesse dovunque potevano. Ma è certissimo che gli ecclesiastici in ciò non entrarono per nulla, e se vi entrarono fu per salvare quanti più Ugonotti fu loro possibile.

— Ma il Papa Gregorio XIII all’udire la notizia dell’eccidio non fece cantare il Te Deum?

Al Papa si fece intendere che il re con la sua famiglia era scampato da una grande congiura; epperò se egli a tale notizia rese pubbliche grazie a Dio, non lo fece per la strage degli Ugonotti ma per lo scampo del re e della Francia. Così stanno le cose. E coloro i quali si dilettano di alterare la storia per disonorare la Chiesa, dovrebbero per lo meno riconoscere che la crudeltà, le barbarie e le stragi, che si commisero per anni ed anni, a sangue freddo, contro i Cattolici in Inghilterra, in Irlanda, in Iscozia, in Olanda e in Danimarca sono cose sì orrende, che la strage di S. Bartolomeo a petto di esse diventa cosa di ben poco rilievo.

— Sono ben lieto di aver appresa la verità anche intorno a questi punti e di sapere che

la Chiesa non ha mai in alcun modo esorbitato nella sua autorità.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (11): modello di pazienza

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (11)

[A. Carmignola: il Sacro Cuore di Gesù; S.E.I. Ed. Torino, 1930-imprim. ]

DISCORSO XI

Il Sacro Cuore di Gesù modello di pazienza

Otto secoli prima che il divino Maestro, Gesù, venisse sulla terra, il profeta Isaia aveva vaticinato, che alla scuola di Lui gli uomini avrebbero profittato non solo colle orecchie, ma ancora con gli occhi, vale a dire non solo con l’apprendere per mezzo dell’udito i suoi santi insegnamenti, ma eziandio col considerare cogli occhi della fede, della pietà e dell’amore gli ammirabili suoi esempi. Et erunt oculi tui videntes præceptorem tuum. (Is. xxx, 20) Perciò appunto l’Apostolo san Paolo ci esorta non solo a ricordarci delle lezioni di Gesù Cristo, ma a tenere ancora fissi del continuo gli sguardi della nostra mente sopra delle sue opere, assicurandoci che per tal guisa noi ricaveremo frutti meravigliosi nella scienza della fede, e consumeremo l’opera importantissima della nostra salute: Aspicientes in auctorem fidei, et consnmmatorem Jesum. (Hebr. XII, 2). E quanto giusta sia questa esortazione noi da alcuni giorni l’andiamo toccando con mano, perché studiando le speciali virtù del Cuore Santissimo di Gesù Cristo veniamo a conoscere, che non solamente ce le ha insegnate con la dottrina, ma più ancora le ha col fatto praticate. Che se ciò è verissimo di tutte quante le virtù, a me sembra che lo sia in modo particolare della pazienza. E di fatti, che cosa fu mai tutta la vita mortale del Sacratissimo Cuore di Gesù, dal primo all’ultimo istante, se non un continuo patire, non solo vincendo ogni tristezza, ma ancora con amore e con gioia, non ostante che nei patimenti non avesse chi lo consolasse? E questa è appunto la pazienza eroica del Cuor suo, che Gesù molti secoli innanzi presentò alla considerazione degli uomini, quando disse per mezzo del santo re Davide: Il mio Cuore si aspettò obbrobri e miserie, e aspettai chi entrasse a parte di mia tristezza e non vi fu, e chi mi porgesse consolazione, e noi trovai: Improperium expectavit cor meum et miseriam, et sustinui qui simul contristar etur, et non fuit, et qui consolaretur, et non inverti. (Ps. LXVIII, 21) E questa è pure la pazienza che la Chiesa ci invita ad adorare in modo particolare nel dì della festa del Sacro Cuore di Gesù, dicendoci: Christum prò nobis passum, venite, adoremus: Venite, adoriamo Cristo, che è stato paziente per noi. È giusto adunque, che fra le virtù speciali del Cuore Sacratissimo di Gesù, io vi animi ad imitare ancor questa mettendovi in luce l’ammirabile esempio di pazienza datoci dal Sacro Cuore.

I. — Troppo giustamente, o miei cari, la terra sulla quale noi passiamo facendo il nostro viaggio per l’eternità, è chiamata valle di lagrime. Da tutti e da per tutto si piange, perché da tutti e da per tutto si soffre. Or è una lunga e grave malattia, or è la morte di un padre, di una madre, di un figlio, di uno sposo; or è un rovescio di fortuna, or è un’infame calunnia, or è la destituzione da un impiego, or è la mancanza del lavoro, or è la privazione di ciò che è più necessario alla vita, or son varie di queste cose insieme, che si rovesciano sopra del nostro capo e ci traggono dal labbro i dolorosi accenti del travagliato Idumeo: Che vita! che vita è mai la nostra! Breve e ripiena di molte miserie. Homo…. brevi vivens tempore repletur multis miseriis. (Job. XVI, 1). Tant’è; questa è la legge, che gravita sull’umanità peccatrice. Se l’umanità non avesse peccato, come sarebbe andata esente dalla morte, così sarebbe sfuggita agli assalti del dolore. Ma poiché l’umanità ha peccato in Adamo e continua pur troppo a peccare nei suoi discendenti, perciò essa è condannata alla morte, e a tutti i dolori fisici e morali, che la precedono e la producono. Sì, o miei cari: Homo nascitur ad laborem et avis ad volatum; (Job. v, 7) come agli uccelli è naturale il volo, così all’umanità peccatrice è naturale il patire. – Tuttavia secondo l’insegnamento cristiano i patimenti non sono soltanto una punizione della colpa originale e delle colpe nostre personali, ma sono ancora per divina bontà un gran mezzo di espiazione e di santificazione. Ma a tal fine è assolutamente necessaria la pazienza nei medesimi, quella virtù che modera la tristezza e l’affanno, che si genera nei nostri cuori dai travagli presenti. Sì, dice S. Paolo, la pazienza è necessaria, affinché, conformandoci al divino volere in mezzo alle avversità, giungiamo all’acquisto dei beni soprannaturali promessici da Dio in questa e nell’altra vita: Patientia vobis necessaria est, ut voluntatem Dei facientes, reportetis repromissionem. (Hebr. x, 36) E la ragione di questa necessità, insegna S. Tommaso, si è che non vi ha cosa, che tanto impedisca l’uso della ragione e tanto ritragga la volontà dal bene quanto la tristezza. Quanti per cagione della tristezza son divenuti siccome stolti o pazzi! E quanti ancora per la tristezza hanno perduto affatto il senno e si son data spontaneamente la morte! E non è per la tristezza, cagionata dai mali della vita, che molti infelici danno di mano ad una rivoltella e se la sparano al cuore, oppure vanno a lanciarsi sotto le ruote di un treno che corre, od a precipitarsi da una altura in fondo alle acque, o si tolgono altrimenti la vita? È necessario adunque, che in tempo delle tribolazioni, da cui non è possibile ad alcuno l’andare esente, vi sia una virtù, che sgombri dal cuore questa tristezza cotanto dannosa, mantenga in vigore la ragione e sostenga la volontà nell’esercizio del bene: e questa virtù è la santa pazienza. E qual cosa vi ha mai, che torni tanto utile quanto il sopportare con pazienza le tribolazioni? A che servono, a che riescono le tribolazioni pazientemente tollerate? Esse, servono anzitutto ad espiare, vale a dire a soddisfare la divina giustizia dei tanti peccati, che abbiamo commesso. Ponete mente: Dio è giusto e come la sua giustizia vuole premiata anche la più piccola delle nostre buone opere, così esige la punizione anche del nostro più leggiero peccato. Riandando pertanto la vostra vita e trovandovi ad esempio un peccato, benché sia un solo, voi dovete dire a voi medesimi : Ecco che ho dato a Dio una ragione per castigarmi; trovandovene due, quattro, dieci, voi dovete dire: Ecco due, quattro, dieci ragioni in mano a Dio per punirmi. E quando rivolgendovi addietro non vedeste che una tela continua di peccati, non dovreste riconoscere, che Egli ha tutte le ragioni per far gravare su di voi tutto il peso della sua mano punitrice? Ma se Egli ha tante ragioni di punirci, non è giusto, non è bene che Egli lo faccia? Ah, che direste di un padre, che ornai le desse tutte vinte al suo figlio, che non lo punisse più quando manca? Voi direste che un tal padre più non ama il suo figlio; e direste bene. Dunque guai a quei poveri peccatori, che Iddio più non castiga in questa vita ! Il loro più grave castigo è quello di non essere più castigati. Il vederli nuotare nelle comodità, nelle ricchezze, nei piaceri senza ombra di tribolazione è cosa che spaventa. Una felicità siffatta deve farci tremare. Se pertanto noi siamo peccatori, e Dio pietoso ci manda le tribolazioni, sopportandole con pazienza, ripariamo facilmente alle passate colpe. Ma non solo le tribolazioni servono ad espiare i peccati nostri, ma molte volte anche i peccati degli altri. Pensate a quel che Dio aveva detto ad Abramo: che se in Sodoma e Gomorra vi fossero stati anche solo dieci giusti, Egli avrebbe perdonato a tutte le migliaia di colpevoli, ed allora comprenderete qualche cosa dell’onnipotenza espiatrice del patire. Quel giovane ha scosso il giogo soave di Cristo, si è allontanato da Dio per correre senza freno le vie del più schifoso piacere. Il puzzo de’ suoi peccati sale al trono di Dio, e Dio ha già armato la sua destra per colpirlo. Ma quel giovane ha una madre, una madre che prega, che si strugge in lagrime per il suo pervertimento, e Dio si placa, e Dio lo risparmia, Dio lo aspetta. Quell’uomo è da dieci, venti, trent’anni, che più non dischiude il suo labbro alla preghiera, che più non prende la Pasqua, che più non rende a Dio alcun omaggio di sorta. E Dio n’è stomacato. Dio vorrebbe farla finita con lui, toglierlo di vita e precipitarlo nel baratro infernale. Ma quell’uomo ha una moglie, che piange il dì e la notte, delle figlie, che pregano, che partecipano alle lagrime della sconsolata loro madre, e questi dolori commuovono il Cuore di Dio e lo inducono a misericordia con quell’uomo traviato. E se i popoli non ostante tanti peccati che si commettono, vivono ancora, se essi non crollano sotto il peso delle loro iniquità, se Dio non manda d’un tratto i suoi fulmini dal Cielo ad incenerire le nuove Sodoma e Gomorra, egli è perché in mezzo a tanti peccatori vi sono ancora delle anime giuste, che sospirano, che gemono, che soffrono, che in uno coi patimenti di Gesù Cristo, offrono a Dio i patimenti loro in espiazione degli altrui peccati. – In secondo luogo le tribolazioni servono mirabilmente a distaccare il nostro cuore dal mondo e ad unirlo a Dio. La nostra vita sopra la terra è tutta piena di fantastiche illusioni, le quali tanto più si moltiplicano ed hanno forza per sedurci quanto più siamo allegri e viviamo nella prosperità. Oh quante vane sicurezze e quanta presunzione nell’uomo, dal momento che non sente più nulla che lo molesti o lo affligga! quante cose dimentica! quante altre ne immagina! Qual compiacenza prende del suo stato! Ah se egli sgraziatamente rimane così, senza alcuna sofferenza né fisica, né morale, anche solo per qualche anno, la terra avrà per lui tali incanti da fargli impallidire e persino eclissare quelli del Paradiso. Quest’uomo insomma diventerà del tutto cieco, non vedendo più né il suo fine, né la strada che lo conduce. Ma vengono le tribolazioni, ed allora che succede? Ecco i fantasmi svaniscono, ricompaiono le realtà, e ripigliano sul suo cuore l’imperio loro dovuto. Sì, come le ricchezze, i piaceri, gli onori, le prosperità mondane inebriano lo spirito, snervano il cuore, corrompono l’uomo e lo perdono, così per contrario l’umiliazione, la miseria, il dolore, l’avversità lo distaccano dal mondo e da se medesimo, lo guariscono e lo salvano. – In fine le tribolazioni sopportate con pazienza ci giovano efficacemente a santificarci. Ed in vero, come dicono i santi libri non si getta forse l’oro nella fornace affine di purificarlo? Non si batte il ferro a colpi ripetuti e non lo si passa sotto l’azione del bulino per pulirlo e farlo lucido? Non si martella il sasso per cavarne una bella statua? Non si squarciano le viscere della terra per renderla feconda? Non si tagliano spietatamente i rami della pianta per moltiplicarne i frutti? Non si batte con nodosi bastoni il grano per purgarlo dalle ariste e dalle paglie? Ecco altrettante graziose immagini per indicarci il concorso delle tribolazioni nella gran d’opera della santificazione nostra. E chi non sa per propria esperienza quanto più siasi inclinati al bene nelle ore dell’angoscia, che in quelle dell’allegrezza? Le tribolazioni anche in un’anima giusta mantengono l’umiltà, le fanno toccare con mano la propria debolezza, il grande bisogno che ha dell’aiuto del cielo, ad ottenerlo la inducono a rifuggire ognora più dalla terra, a ripararsi nel Cuore del Crocefisso, e colla semplicità di un fanciullo a sfogarsi con Lui, a chiedergli il suo aiuto, la sua assistenza: e chi può dire l’abbondanza di grazie, che ne riceve! Da questi sacri ritiri l’anima, sostenuta da una forza, di cui ella medesima non sa spiegare il valore, si alza risoluta, coraggiosa, intrepida a correre la via della giustizia e della santità. Sì, disse l’Apostolo, la virtù nel patire si perfeziona: virtus in infirmitate perficitur; (II Cor. XII, 8) la pazienza rende perfetta l’opera intorno a cui si travaglia, ha soggiunto S. Giacomo; patientiam opus perfectUm habet; (I, 4) e Gesù Cristo stesso assicurò nella pazienza la salute dell’anima: In patientia restra possidebitis animas vestras. (Luc. XXI, 19)

II. — Essendo adunque la pazienza nelle tribolazioni di tanta necessità per la nostra salute, il Cuore Sacratissimo di Gesù volle darcene il più ammirabile esempio. E ciò egli fece in tutto il corso della sua vita, dal primo all’ultimo istante, perciocché la concezione, la nascita, la puerizia, la fanciullezza, !a virilità, l’agonia e la morte furono sempre accompagnate da amarezze, da avversità, da contraddizioni, da travagli e da dolori. Tota vita Jesu crux fuit et martyrium, ha detto l’autore dell’Imitazione; tutta la vita di Gesù fu una crocifissione ed un martirio continuo; ma tutto in tutta la vita egli sopportò con la più eroica pazienza, anzi, tutto egli accettò liberamente, di sua propria volontà, potendone andare esente. No, Gesù Cristo non subì i patimenti, come noi figliuoli del peccato dobbiamo subirli; egli li assunse, perché così gli piacque per nostro amore e per nostro esempio. Entrando nel mondo Iddio Padre gli propose di salvare gli uomini patendo per essi o non patendo, godendo anzi ogni sorta di beni; e Gesù abbracciò il modo più eccellente e più sublime: Proposito sibi gaudio sustinuit crucem confusione contempta. (Hebr. XII, 2) Ed avendo scelto questo disegno, chi dirà come lo riducesse in atto? Parlando di ciò Mosè ed Elia sopra il Tabor, dice il Vangelo, che lo chiamarono un « eccesso. » Sì, dice S. Bonaventura, con ragione quanto patì Gesù Cristo per noi fu chiamato eccesso, perché fu veramente un eccesso di dolore da non potersi mai credere, se non fosse già avvenuto. Questo dolore fu veduto dai profeti così grande, che non sapendo a che cosa di più grande paragonarlo, lo paragonarono all’immensità del mare: Magna est velut mare contritio tua, (Thr. II, 13) e non dubitarono di mettere in bocca a Gesù Cristo queste fortissime espressioni: I torrenti delle afflizioni entrarono fino al fondo dell’anima mia: Intraverunt aquce usque ad animam meam; ( LXVIII) l’anima mia è ripiena di mali: Expleta est malis anima mea; (Ps. LXXXVII) o voi tutti, che passate lungo la via, fermatevi e vedete se vi è dolore simile al mio: 0 vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus. (Thr.. I, 12). – Ed in vero, quanto più si è sensibili e delicati, tanto più le afflizioni premono il cuore e lo fanno soffrire. Che soffre mai la pietra sotto i colpi dello scultore, essendo essa priva di sensazione? Che cosa soffre la vite sotto i l ferro del viticultore, che la pota? Allora sembra che versi qualche lagrima, ma in realtà non sente dolore alcuno. L’animale invece già soffre e si lamenta, quando vien ferito, perché esso sente, benché non abbia coscienza del dolore. Ma assai più dell’animale sente l’uomo, dotato di ragione e formato con un organismo tanto sensibile e delicato; e tra gli uomini sente maggiormente chi è dotato di maggior sensibilità e delicatezza. Or chi può dire quale fosse la sensibilità e la delicatezza del Cuore di Gesù Cristo? Chi può dire, per conseguenza, quanto gravitassero sopra del Cuor suo tutte le avversità, le contraddizioni, le privazioni, i travagli, i dolori, che dovette soffrire? A ciò si aggiunga, che sebbene egli avrebbe potuto da per se stesso raddolcire tutti i suoi patimenti, e porgersi una adeguata consolazione, tuttavia non volle punto farlo, ed in quella vece, rimossa prodigiosamente ogni consolazione e respinto ogni raddolcimento, lasciò che le afflizioni il tormentassero, ciascuna secondo il genere suo, il più che era possibile. Né si creda, che ciascuna di tali afflizioni tormentasse il Cuore di Gesù in quel tempo soltanto, che veniva realmente a piombargli sopra; no, ciascuna di quante ne dovette soffrire, lo travagliò sempre in ogni istante, perché sempre ed in ogni istante col suo sguardo profetico l’ebbe a sé dinnanzi. Sempre vide la sua povertà, il suo esilio, le sue privazioni, le sue fatiche, i suoi sudori; sempre vide la durezza dei suoi Apostoli, l’incostanza e l’ingratitudine delle turbe, la rabbia dei suoi nemici, le loro male arti contro di Lui; sempre vide il tradimento di Giuda, l’abbandono dei suoi Apostoli, la sua cattura, gl’insulti ai tribunali, la condanna di croce; sempre vide la flagellazione, la coronazione di spine, la crocifissione, l’agonia e la morte. E nel vedere sempre questi immensi mali, sempre li soffriva tutti insieme nella misura stessa, con cui ciascuno a suo tempo si fece sentire. Oh! ben a ragione Gesù Cristo fu chiamato l’uomo dei dolori per eccellenza, e che conosce a fondo l’afflizione, virum dolorum et scientem infirmitatem; (Is. LIII) ben a ragione ha detto un Santo, che i patimenti di Gesù Cristo sono sì grandi, che l’insieme di tutti i patimenti sofferti dagli uomini in loro confronto non è che un nulla. Eppure, come immense furono le infermità e le pene sofferte dal Cuore di Gesù Cristo, così immensa fu la pazienza, con cui andò loro incontro, le accettò, le prese e le sopportò. Quella espressione di tanta rassegnazione al divino volere, fattane uscir fuori nell’agonia del Getsemani: « Padre, non la mia. ma la tua volontà sia fatta, » è l’espressione, che continuamente,, in ogni istante della sua pazientissima vita, usciva dal suo Cuore Sacratissimo per salire al cielo quale nuvola di incenso al trono del suo divin Padre, perciocché, come dice S. Cipriano, tutta la vita di Gesù Cristo fu un continuo esercizio d’invitta pazienza, né vi fu atto in lui, che non fosse accompagnato da tale virtù.Di quale stimolo adunque deve esserci un tanto esempio! Ed in vero quale tribolazione può mai accadere a noi, che non abbia patito maggiore Gesù Cristo? Siamo noi per avventura afflitti da acerbi dolori e da penose infermità? Ma quanto più acerbi furono i dolori del Cuore di Gesù! quanto più penose le infermità sue! Siamo noi travagliati dalla povertà? Ma quanto più ne fu travagliato Gesù! Siamo stati abbandonati dagli amici, traditi dai confidenti? Ma quanto più fu abbandonato e tradito Gesù! Siamo stati defraudati della mercede di nostre fatiche? Siamo stati derubati dei nostri averi? Ma a Gesù furono tolte anche le vestimenta e fu fatto morire nudo in croce! Siamo stati ingiuriati, calunniati, disonorati? Ma a Gesù non è toccato mille volte peggio? Ci tocca convivere con persone dì carattere insopportabile, di maniere dure e ributtanti? Ma Gesù ha sofferto ogni sorta di rozzezze nel convivere per tre anni con gli Apostoli! Vanno fallite le nostre speranze intorno a chi fu oggetto delle nostre cure più affettuose? Ma anche per Gesù andò a male la brama di far del bene all’ingrata Gerusalemme! Ci accade di perdere una persona, che formava la consolazione e la dolcezza della nostra vita? Ma Gesù ha fatto il sacrificio di se stesso per noi! Qual cosa adunque potrà accaderci tanto penosa, che ad esempio del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo non possiamo soffrire anche noi con pazienza? E se Egli tanto ha sofferto per noi, Egli che è il Creatore, il principe, il padrone, noi che siamo le creature, i sudditi, i servi, non vorremo soffrire nulla per Lui? Di Abimelec si racconta, che dopo aver distrutta la città di Sichem, risolvette di espugnarne la fortezza col fuoco. E perché a ciò era necessario ammassare a pie’ delle mura grande quantità di tronchi e di rami, condotto il suo esercito presso una vasta e folta selva, cominciò egli con la scure a tagliar un grosso ramo ed a portarlo verso la fortezza, dicendo ai soldati: Fate ancor voi quello che vedete me a fare. E ad un esempio sì nobile i soldati tutti presero, gareggiando, a tagliar rami ed a seguire il capitano. Or ecco quel che fece il Sacratissimo Cuore di Gesù con noi. Egli sapeva, che in questa valle di lagrime avremmo tutti dovuto patire. E sebbene con autorità sovrana Egli avrebbe potuto, senza soffrir nulla egli, presentarsi a noi e dirci: « Patite; » tuttavia, perché noi nell’impazienza nostra gli avremmo forse risposto: Fa un bel dire a noi che patiamo, a Voi che nulla avete patito; che fece Egli? Prese Egli sulle spalle la croce più pesante e più dolorosa, si assoggettò a tutte le infermità della nostra natura, e chiudendo per tal guisa la bocca ad ogni nostro lamento, ci disse ad un tempo stesso: « E non vorrete far voi quello che ho fatto io? » Ah! dopo di ciò non ci resta più altro, che seguitare il sublime esempio del Cuore di Gesù Cristo e camminare sulle sue vestigia. Sì, esclama il principe degli Apostoli, Cristo ha patito per dare alla nostra pazienza il più grande esempio: Egli ha camminato per una strada di spine, perché ancor noi gli teniamo dietro e premiamo le sue pedate: Christus passus est prò nobis, vobis relinquens exemplum, ut sequamini vestigia ejus. ( I Pietr. n , 21). « Gesù Cristo, soggiunge S., Agostino, è stato come un medico pietoso, che sebben sano, appressa il primo le labbra ad un’amara medicina perché, sul suo esempio, non abbia difficoltà di trangugiarla l’infermo. Non diciamo adunque: Non ho voglia, non ho cuore, non ho forza di bere il calice dei patimenti, che Dio mi manda; poiché il nostro Salvatore è stato il primo a beverlo sino alla feccia: « Ne dicas non possum, non fero, non bibo; prior bibit medicus Jesus, ut bibere non dubitar et œgrotus » (Serm. 88 de Temp.) – Fissiamo adunque lo sguardo sopra il Cuore di Gesù Cristo e nel vederlo tanto paziente fra tanti dolori, fra tanti obbrobri, fra tanta povertà, fra tante ingiustizie e fra tanti torti, non lasciamo di dire ancor noi in mezzo alle pene nostre: Signore, sia fatta, non la mia, ma la vostra santa volontà! Lo sguardo alla pazienza di Gesù Cristo ha tenuto nella più invitta pazienza Maria ai pie’ della Croce, gli Apostoli tra le più aspre persecuzioni, i martiri tra i più orribili strazi, gli anacoreti tra le più acerbe mortificazioni, i confessori fra le più gravi avversità. Diceva S. Maria Maddalena de’ Pazzi: « Ogni gran pena riesce gustosa, quando si mira Gesù in Croce ». Giusto Lipsio trovandosi una volta molto afflitto dai dolori, uno degli astanti cercava di animarlo a soffrirli con prontezza, mettendogli innanzi l’esempio degli stoici; ma egli allora guardando il Crocifisso: « questa, disse, è la vera pazienza ». Volendo dire che l’esempio di un Dio, che tanto ha patito per nostro amore, questo basta per animarci a patire ogni pena per amor suo. – S. Eleazaro interrogato dalla vergine sua sposa, S. Afra, come egli soffrisse tante ingiurie da gente villana senza punto risentirsi, rispose: « Sposa mia, non pensare, che io sia insensibile a queste ingiurie; ben io le sento, ma mi rivolgo a Gesù Crocifisso e non lascio di mirarlo fino a che l’animo mio non si tranquilli. » Così lo sguardo alla pazienza del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo ingenererà ancora la pazienza del cuor nostro. In sull’esempio di questo Cuore, che ci importerà di agonizzare per l’anima nostra? di lottare contro l’impazienza nostra sino all’effusione del sangue? Che anzi, le tribolazioni non saranno ricevute da noi con gioia, e ricercate eziandio con amore, qualora ci mancassero?

III. — Ma oltre l’esempio del divin Cuore di Gesù, tre altri motivi devono spronarci all’esercizio della pazienza. Il primo si è il consolantissimo pensiero, che, essendo travagliati con le tribolazioni in questa vita, è segno che Dio ci vuol risparmiare le tribolazioni eterne: Et hœc mihi sit consolatio, diceva Giobbe, ut affligens me dolore non parcat: (VI, 10). Questa sia la mia consolazione, che il Signore mi affligga quaggiù e non mi perdoni, acciocché mi perdoni nell’altra vita. Ed in vero chi col peccato si è meritato l’inferno, come può lamentarsi, se Iddio gli manda qualche croce? Anche qualora nell’inferno non si avesse a soffrire che un piccolo dolore, pur tuttavia trattandosi di un dolore eterno, ben volentieri dovremmo essere disposti a patire quaggiù qualsiasi dolore grave che non è che temporale e che quanto prima ha da finire. Ma i dolori dell’inferno non sono tutti, oltrecché eterni, gravissimi? E supponiamo pure, che vi sia tra noi chi non abbia meritato l’inferno, per avere fortunatamente conservato l’innocenza battesimale, non avrà egli almeno meritato il purgatorio? E i patimenti del purgatorio non sono pur essi quanto mai terribili? Diceva S . Agostino, che dessi sono più tormentosi di qualsiasi dolore possa patirsi in questa vita. Tutti adunque contentiamoci di essere tribolati in questa vita per essere risparmiati nell’altra. Tanto più che in questa vita accettando le tribolazioni con pazienza, patiremo con merito, mentre invece nell’altra vita avremmo a patire di più e senza merito alcuno. Il secondo motivo che deve pure animarci alla pazienza è un altro pensiero più consolante ancora di quello che abbiamo testé ricordato, quello, cioè, che seguendo volentieri Gesù nei patimenti, lo seguiremo altresì nella gloria. Egli stesso ha detto di sé, che così gli convenne patire per entrare nella gloria, che gli appartiene: Oportuit Christum pati et ita intrare in gloriam suam. (Luc. XXIV, 26) E dal presente la sua gloria riceve dai patimenti della sua vita tanto splendore, che non può immaginarsi il più grande. Per questo, per la sua pazienza nel soffrire e nell’assoggettarsi ad ogni travaglio, fino a quello della morte, Iddio lo ha esaltato e gli ha dato un nome, che è al di sopra di ogni nome, al pronunziarsi del quale si piegano riverenti le creature del cielo, delle terra e degli abissi; per questo lo vediamo coronato di onore e di gloria: Videmus Jesum propter passionem mortis gloria et honore coronatum. (Hebr. II, 9) Ora di questa gloria saremo fatti partecipi ancor noi, se, come faceva S. Paolo, ai meriti della pazienza infinita del Cuore di Gesù, aggiungeremo i meriti della pazienza nostra. Ed al pensiero della gloria infinita che ci aspetta, come non sostenere volentieri e con coraggio qualsiasi pena? Il contadino negli stenti e nei sudori della seminagione si anima al pensiero del copioso raccolto; il soldato nei pericoli e nelle sofferenze del campo si anima nel pensiero della medaglia d’onore che gli sta preparata; il vero Cristiano, il vero devoto del Cuore di Gesù Cristo, imitatore delle sue virtù, si animerà a portare la croce dei patimenti, a bere il calice delle avversità, ripetendo con l’Apostolo: Il patire di questo mondo è nulla al confronto dell’eterno godere, che ci sta apparecchiato: Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis. (Rom. VIII, 18) – Le momentanee e leggere tribolazioni vanno operando in noi un cumulo eterno di gloria: Momentaneum et leve tribulationis nostræ, æternum gloriæ pondus operatur in nobis. (II Cor. IV,17). Ed è questo pensiero, che faceva dire a S. Agapito martire, giovinetto di quindici anni, quando il tiranno gli fece circondare la testa di carboni ardenti: « È cosa troppo dappoco, che mi sia bruciato questo capo, che ha da essere coronato in cielo. » È questo pensiero, che faceva ripetere a S. Francesco di Assisi: « Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto. » È questo pensiero ancora, che fece giubilare quel romito, che giacendo in mezzo ad una selva, tutto coperto di piaghe e con le carni che gli cadevano a pezzi, pure allegramente cantava, ed interrogato da un guerriero, di là passato a caso, come mai avesse voglia di cantare in quello stato, rispondeva: « Con ragione io canto, perché tra me e il Cielo non si frappone che questo muro di fango del mio corpo, che cadendo a brani mi fa vedere più vicino il tempo dell’eterno godere. » Questo insomma è il pensiero, che tanto animava i Santi alla pazienza, e questo deve pur essere il pensiero, che conforti noi nelle tribolazioni nostre. – Ma da ultimo il motivo più nobile, che deve spingersi ad abbracciare con pazienza le pene, i dispiaceri, le infermità, la povertà, i disprezzi, le desolazioni ed ogni altro patimento di questa vita, ha da essere l’amore di questo Sacratissimo Cuore di Gesù e il conseguente desiderio di dargli gusto. Dice l’Ecclesiastico, che « vi hanno degli amici, che sono tali soltanto in tempo di prosperità, ma più non lo sono in tempo di tribolazione, (VI, 8) » Ma la testimonianza più certa dell’amore è il patir volentieri per la persona amata. Caritas patiens est, omnia suffert. (I Giov. XIII, 4) E l’amore al Cuore di Gesù Cristo fa abbracciare con pazienza tutte le croci, che Egli crede di mandarci. Perciò nella vita dei Santi, che tanto amavano Gesù Cristo, troviamo ancora, che questo era il gran motivo, che l’induceva non solo a patire con pazienza, ma a ricercare in ogni modo i patimenti. S. Caterina da Genova, dopo che fu ferita dal divino amore, diceva che non sapeva che cosa fosse patire, benché dovesse sottostare a gravissime pene. S. Geltrude asseriva, che tanto godeva nel patire che nessun tempo gli pareva più penoso di quello, in cui non aveva da patire. S. Procopio martire, quando il tiranno gli apparecchiava nuovi tormenti, prendeva a dirgli: Tormentami quanto vuoi; non sai tu, che a chi ama Gesù Cristo non vi è cosa più cara, che il patire per Lui? E S. Teresa non si fidava di vivere senza patire, sicché spesso esclamava: O patire, o morire. E Santa Maria Maddalena de’ Pazzi si avanzava a ripetere: patire e non morire! Tant’è, o miei cari: non già, come osserva S. Bernardo, che ai santi mancasse la sensibilità; ma l’amore, che portavano cosi ardente a Gesù Cristo faceva loro superare e disprezzare i dolori e le tribolazioni che sentivano. Amiamo adunque, amiamo ancor noi questo Cuore Sacratissimo, e l’amore renderà anche a noi facile ogni cosa.

Concludiamo. Giacché in questa vita, o di buona o di mala voglia si ha da patire, procuriamo di patire con merito, cioè con pazienza. Lasciamo che gli uomini del mondo, vittime insensate de’ suoi pregiudizi e degli inganni del demonio, rifuggano da ogni patire e si abbandonino ad ogni godere; deploriamo che nelle tribolazioni, cui sottostanno, si lamentino, imprechino e si disperino; noi invece, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Jesum, con lo sguardo rivolto al Cuore pazientissimo di Gesù, autore e consumatore di nostra fede, seguiremo volentieri il programma della vita cristiana, da Lui compilato e sottoscritto dal suo Sangue: « Patire qui in terra, godere lassù in cielo, amare dappertutto. » E perché si abbia ad essere realmente, prostrandoci ora dinnanzi al Sacro Cuore di Gesù diciamogli con affetto: O nostro Maestro e Modello Santissimo! Il vostro Cuore così trafitto e così paziente ci fa ben comprendere, come i patimenti sono in nostra mano un gran mezzo per espiare le nostre colpe, per conoscere le vostre vie, per santificare le nostre anime. Ma voi vedete la debolezza nostra! Se noi per tanto non abbiamo il coraggio di chiedervi, come facevano i Santi, di accrescere le nostre pene, proponiamo almeno per vostro amore di sopportare in pace quelle, che per la nostra salute ci invierete, e di offrirle al vostro Divin Padre insieme con le vostre pene. Deh! Dateci voi la forza necessaria per adempiere un sì santo proposito, affinché portando ora volentieri con voi la croce delle terrene tribolazioni, ci sia dato un giorno di essere partecipi delle vostri celesti ed eterne consolazioni.