CONOSCERE SAN PAOLO (24)

CONOSCERE SAN PAOLO (24)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei (4)

CAPO III.

Le due alleanze.

I. IL CONTRASTO DELLE DUE ALLEANZE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

Dimostrare la superiorità del Nuovo Testamento sull’Antico, stabilire nel tempo stesso il carattere assoluto e definitivo del Vangelo, è, come abbiamo detto, lo scopo reale, benché nascosto, dell’Epistola. A questa tesi si collegano tre punti fondamentali: il contrasto delle due alleanze, le obbligazioni della nuova economia, la consumazione delle promesse. L’idea di una nuova alleanza, con Gesù come mediatore, non è una specialità dell’Epistola agli Ebrei: Paolo ha già citato il testo di Isaia, che l’annunzia (Rom. XI, 27-28; Is. LIX, 20); egli e San Luca mettono esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia in relazione con una nuova alleanza conchiusa nel sangue di Gesù (I Cor. XI, 25; Luc. XXII, 20), e gli altri due sinottici esprimono lo stesso pensiero (Mat. XXIV, 28; Marc. XIV, 24). Quello che ha di originale la nostra Epistola, è che essa innesta la nuova alleanza sopra l’antica e fa uscire la Chiesa dalla Sinagoga, senza soluzione di continuità, come il frutto nasce dal flore o lo stelo dal germe. Sotto una forma paradossale che contiene un granello di verità, si è potuto dire che « l’autore dell’Epistola è un evoluzionista, e San Paolo un rivoluzionario… Uno abolisce la Legge, l’altro la trasfigura ». In fondo la differenza dei due punti di vista è assai piccola: Paolo dipinge meravigliosamente l’armonia e la connessione dei due Testamenti, e l’autore dell’Epistola non è meno radicale di Paolo riguardo l’imperfezione e l’abolizione della Legge mosaica: si direbbe anzi che è più radicale ancora, perché rifiuta alla Legge gli elogi che Paolo le dà a larga mano, ed insiste volentieri sopra i suoi vizi redibitori. – Era una Legge « carnale », intrinsecamente « invalida ed inutile » la quale doveva appunto per questo venire ripudiata a suo tempo. Incapace a « condurre nulla alla perfezione (Ebr. VII, 16) », non poteva dunque avere che un carattere relativo e passeggero: poiché l’autore suppone sempre l’esistenza di una economia soprannaturale che apre effettivamente all’uomo l’accesso a Dio. – L’Antico Testamento, rispetto al Nuovo, aveva tre svantaggi: era un contratto strettamente bilaterale e soggetto, per sua natura, ad essere annullato. — I mezzi stabiliti per stringerlo maggiormente erano insufficienti. — Finalmente portava in sé i caratteri di un semplice abbozzo e di una preparazione. L’antica Legge era una διαθήκη (=diateke); nel senso di alleanza (berith) ma non nel senso di testamento: la nuova invece è insieme l’una e l’altra cosa. Ora, dal momento che il testatore è morto, il testamento diventa irrevocabile. Qui troviamo un’idea comune a Paolo ed al redattore dell’Epistola. Un secondo punto di contatto è che la promessa fatta alla stirpe di Abramo, ha la natura di testamento — Paolo la chiama anche διαθήκη (=diateke) — in quanto è un contratto unilaterale col quale Dio si obbliga senza subordinare la sua obbligazione ad alcuna circostanza esteriore (Ebr. IX, 16-27). Il patto del Sinai invece era un contratto del genere do ut des, facio ut facias. Se il popolo violava i suoi impegni, Dio veniva sciolto dai suoi: così la storia sacra non è che una serie d’infedeltà da parte degli Ebrei, e di parziali abbandoni da parte di Dio, ben presto seguiti da riconciliazioni effimere. Geremia prediceva la fine di questo stato di cose la cui instabilità indicava abbastanza il carattere transitorio: « Io conchiuderò una nuova alleanza con la casa d’Israele e con la casa di Giuda, non un’alleanza come quella che ho fatto con i loro padri il giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra di Egitto. Poiché essi hanno lasciato la mia alleanza, io pure li ho abbandonati (Ebr. VIII, 8-12) ». – Il grave difetto dell’antico patto era la sua tendenza ad invecchiare ed a morire finalmente di vecchiaia (Ebr. VIII, 13), tendenza che non trovava nelle istituzioni mosaiche un rimedio sufficiente. Il sacrificio perpetuo aveva bensì lo scopo di simboleggiare l’alleanza e di ravvivarne il sentimento; d’altra parte i sacrifici per i peccati, che toccavano il loro punto culminante nel giorno dell’Espiazione, miravano a riconciliare le parti contraenti scancellando il ricordo delle infedeltà; ma tutto questo produceva soltanto una « giustificazione carnale », ed in virtù di una specie di finzione legale, poiché è evidente che il sangue degli animali non può lavare il peccato né purificare la coscienza (Ebr. IX, 9, 10). L’Antico Testamento non poteva dunque essere altro che un abbozzo. Per questo il Salmista predice un nuovo sacerdozio destinato a soppiantare il sacerdozio di Aronne; egli annunzia un nuovo sacrificio che renderà caduco il rituale levitico; Geremia profetizza una nuova alleanza che per forza si sostituirà alla prima (Sal. CIX, 4; Ger. XXXI, 31-34). Però questa nuova alleanza non è tanto la distruzione violenta, quanto la consumazione dell’antica. Le relazioni tra i due Testamenti sono espresse da queste quattro parole: ombra (skia), figura (upodeigma), antitipo (antitupos), similitudine (parabole) (X, 1). L’ombra è opposta al corpo, l’antitipo alla verità, la figura e la similitudine alla realtà. Si può notare qui che il linguaggio dell’Epistola differisce da quello degli altri scrittori sacri: essa chiama antitipo quello che Paolo chiamerebbe tipo, ed il tipo è per essa il modello presentato a Mosè sul Sinai con l’ingiunzione di riprodurlo: l’immagine (eikon), che essa oppone all’ombra, è il corpo (soma) della terminologia paolina. Ma il redattore dell’Epistola insiste più di tutti sul carattere figurativo dell’economia mosaica e lo esprime ordinariamente con antitesi tra la terra e il cielo, tra il presente ed il futuro, tra il materiale e l’immateriale, tra la copia e l’archetipo.

II. LE OBBLIGAZIONI DELLA NUOVA ALLEANZA.

1. NECESSITÀ DELLA FEDE. — 2. PERICOLI DELL’INFEDELTÀ.

1 . Due parole riassumono la morale della nostra Epistola: fede e perseveranza. « Avviciniamoci (a Dio) con un cuore sincero, nella pienezza della fede… Attacchiamoci incrollabilmente alla professione della speranza (Ebr. X, 22-23) »: questo è il ritornello che si ripete continuamente sotto forme diverse. Questa preoccupazione parenetica ci spiega già la parte diversa che la fede deve fare nell’Epistola agli Ebrei e nelle quattro Epistole maggiori di Paolo. In queste si trattava degli effetti della fede incipiente; nell’altra si tratta dei frutti della Fede perseverante. – Di questa fede l’autore dà una definizione che non è certamente alla maniera di Aristotele, per mezzo del genere e della differenza specifica, ma che tutta via le conviene perfettamente e la distingue da qualunque cosa che non è lei: « La fede è la realtà delle cose che noi speriamo, la prova di quelle che non vediamo (Ebr. XI, 1) ». – La parola greca (upostasis); ha tre significati ben determinati: fondamento, convinzione ferma e realtà. Fatta astrazione dal contesto, ciascuno di questi tre significati può entrare benissimo nella definizione della fede. La fede è infatti il fondamento della speranza ed in genere di tutta la nostra vita soprannaturale; essa è pure una persuasione ferma, tanto sicura, che non lascia nessun luogo al dubbio; finalmente è la realtà delle cose che speriamo, in quanto è una presa di possesso anticipata dei beni futuri ed impedisce alle nostre speranze di essere vane e fantastiche. San Tommaso si ferma al primo significato e v’introduce egli stesso la parola latina substantia: « L’oggetto della speranza, egli dice, è contenuto in germe nella fede, come l’oggetto della scienza è contenuto in germe nei principi; perciò la fede è il fondamento della speranza, come i principi sono il fondamento della scienza ». Tuttavia l’ultimo significato — quello di realtà — ci sembra preferibile, perché il primo o si riduce a questo (poiché il fondamento di una cosa non è altro che il suo substratum, la sua realtà) oppure scambia l’oggetto della speranza con la speranza: questo è inammissibile, perché il testo ha elpizoménon e non elpìdos Il secondo significato poi distruggerebbe il parallelismo tra i due membri della definizione, perché se upòstasis può significare persuasione, elegkos che ne è il correlativo, non vuol dire convinzione soggettiva. La fede è dunque non soltanto un pegno, ma anche un acconto dei beni sperati. Essa è, come dice San Tommaso, un cominciamento della vita eterna in noi; perché, secondo Sant’Agostino, il credere ciò che non si vede, è meritare di vedere ciò che si crede. L a fede è ancora la prova delle cose che non si vedono. Se fosse lecito tradurre elegkos, per convinzione, si darebbe ad upostasis  il significato di persuazione, e si potrebbe tradurre così tutto il versetto: La fede è una persuasione delle cose che si sperano, una convinzione delle cose che non si vedono. Ma disgraziatamente l’uso non permette questo senso: elegkos significa bensì argomento per confutare, confutazione, prova, azione del convincere se si vuole, ma non mai convinzione soggettiva. La traduzione della Volgata è dunque proprio esatta: argumentum non apparentium. Quelle cose che non si vedono, non sono soltanto le cose invisibili di loro natura, ma quelle che sfuggono allo sguardo della nostra mente. Senza averle vedute, noi sappiamo dalla fede che esse esistono: la fede per noi tiene il posto di prova. È evidente che questa parte della definizione è molto più estesa che la prima; essa abbraccia l’oggetto totale della fede, passato, presente e futuro, tutto ciò che crediamo su la testimonianza di Dio; mentre l’altra, confondendosi con l’oggetto della speranza, per questo appunto è ristretta alla realtà futura. I numerosi esempi di fede che riempiono tutto il capo XI, preciseranno ciò che può avere di indeterminato questa descrizione sommaria. In tutti gli esempi, senza eccezione, la fede indica l’adesione dell’intelletto alla testimonianza divina; ma siccome la verità da credere su la parola di Dio, non s’impone all’intelletto con la sua evidenza, vi è sempre un intervento della volontà che rende l’atto di fede libero e meritorio. Eccetto questi due punti comuni, i diversi atti di fede presentano una certa varietà, e se ne possono distinguere tre specie: « Dalla fede sappiamo che il mondo è stato fatto dalla parola di Dio, di modo che quello che si vede non è stato fatto da cose visibili ». Qui l’atto di fede si risolve in un atto dell’intelletto e comprende soltanto le sue parti essenziali: adesione della mente alla testimonianza della Scrittura ed intervento della volontà che piega l’intelletto ad ammettere, su la testimonianza di Dio, un fatto remoto che non si può verificare. Quando la testimonianza divina ha per oggetto una promessa, fede si unisce naturalmente con la speranza, e le due virtù, senza confondersi, si danno la mano. Tale è la fede di Sara, d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe e dei patriarchi in generale, la cui fede fu fiduciosa e la speranza fedele. Qualche volta la cosa promessa esige un miracolo subordinato alla fede dell’uomo: ci vuole allora quella fede viva che muove le montagne. Per la fede si divisero le acque del Mar Rosso, e caddero le mura di Gerico. Per lo più la testimonianza divina consiste in un precetto, o almeno porta con sé un obbligo diverso dalla fede stessa. La fede allora, se è sincera, dovrà essere operosa. Per la fede Noè costruì l’arca; Abramo abbandonò la patria, visse in esilio, stabilì di sacrificare suo figlio; Mosè affrontò l’ira di Faraone, disprezzò le delizie dell’Egitto, obbedì ai comandi divini; Rahab la meretrice accolse gli esploratori ebrei; i giudici, i profeti, i santi dell’Antico Testamento sfidarono tanti pericoli, sostennero persecuzioni, subirono la morte più crudele. « Per la fede » quei santi personaggi « hanno ricevuto testimonianza ». È vero che la Scrittura, la quale vanta la loro giustizia e racconta le loro grandi azioni, non sempre fa speciale menzione della loro fede; ma ciò non è necessario, poiché, secondo Abacuc, « il giusto vive per mezzo della fede ». La fede è la misura della giustizia, e la giustizia è la prova della fede: così si spiega la fede di Abele e di Enoc. La Scrittura non ne fa espressa menzione, ma dice di Abele, che offrì un’ostia più eccellente di quella del fratello, e che il suo sangue grida vendetta; di Enoc dice che egli piacque a Dio e meritò così di essere rapito in cielo. L’autore ne conchiude che fu per causa della loro fede: sia in virtù del testo di Abacuc che fa dipendere la giustizia dalla fede, sia, particolarmente per Enoc, per quel principio riflesso, che senza la fede è impossibile piacere a Dio. Come piacere a Dio, senza andare a Lui? E come andare a Lui, senza credere alla sua esistenza e alla sua provvidenza? Senza dubbio Dio, conosciuto con i soli lumi della ragione, può esercitare un’attrattiva su l’anima; ma questo sentimento filosofico non risponderebbe all’economia della nostra salute nello stato attuale di elevazione. Meno facile è il vedere perché non basterebbe la fede nell’esistenza di Dio. Non sarà perché l’anima non saprebbe portarsi verso Dio sicut oportet, se non lo considera come suo ultimo fine e, nello stato presente, come suo fine soprannaturale?

2. Quanto più necessaria è la fede, tanto più funesta è l’infedeltà. Per due volte sembra che l’autore presenti l’apostasia come un male irreparabile. Per apprezzare tutto il significato di questi passi, bisogna considerarli nel loro contesto: « Se noi pecchiamo deliberatamente dopo di aver ricevuto la piena conoscenza della verità, non vi resta più sacrificio per il peccato, ma l’attesa terribile del giudizio e l’ardore di un fuoco pronto a divorare i nemici. Chi violava la Legge di Mosè, era messo a morte su la deposizione di due o tre testimoni: di qual supplizio più terribile non sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio, avrà tenuto come profano il sangue dell’alleanza, nel quale fu santificato, coprendo di obbrobrio lo Spirito di grazia? (Ebr. X, 26-29) ». Il peccato che ha qui di mira l’Apostolo, non è certamente un peccato qualunque, anche grave, ma è il peccato per eccellenza, l’apostasia. La tendenza generale della lettera che tutto fa convergere intorno alla fede, e la sfera di idee in cui si muove l’autore, già permettono di sospettarlo. – L’esortazione che precede e quella che segue immediatamente, in cui si tratta soltanto di fede sincera, di speranza incrollabile, di fedeltà alle assemblee religiose, confermano questa impressione, e l’allusione a Mosè che puniva di morte l’idolatria su la deposizione di due o tre testimonianze, viene ancora a confermarla. Il peccato stesso è descritto come un atto che calpesta il Figlio di Dio, che considera come profano o impuro il sangue dell’alleanza, che copre d’infamia lo Spirito Santo, che succede alla piena conoscenza della verità di cui non può essere altro che una negazione. Tutti questi caratteri sono d’accordo ad indicare l’apostasia deliberata, la bestemmia contro lo Spirito Santo. Questo peccato non sarà rimesso né in questo mondo né nell’altro, perché inaridisce la sorgente della grazia e chiude la via al pentimento. Senza la fede infatti è impossibile piacere a Dio e riconciliarsi con lui. Al cristiano che, con piena conoscenza della verità, ricadesse nel giudaismo, non rimarrebbe più ostia per il peccato; non nell’istituzione mosaica la quale non prevede sacrifici per certe specie di colpe, e neppure nel Cristianesimo il quale possiede un solo sacrificio, quello della nuova alleanza da cui l’apostata si è separato. Certamente Dio che risuscita i morti, può sempre rianimare il germe disseccato della grazia e riaccendere la fiaccola spenta della fede, ma l’autore non doveva accennare a tale miracolo ipotetico, proprio nel momento in cui dipingeva a colori così foschi le conseguenze dell’apostasia. – La sua intenzione appare ancora più manifesta nel secondo passo. Egli vuol dare agli Ebrei l’alimento degli adulti e non il latte dei bambini, benché la loro istruzione non sembri corrispondere alla loro età nella fede. Egli lascerà dunque da parte i dogmi elementari che s’insegnano ai catecumeni, perché, soggiunge, « è impossibile rinnovare con la penitenza coloro che, una volta illuminati e favoriti del dono celeste e divenuti partecipi dello Spirito Santo… vengono a cadere, crocifiggendo di nuovo per se stessi il Figlio di Dio ed esponendolo all’infamia ». Tocca agli esegeti il fissare il senso esatto di ciascun inciso. Essi converranno senza dubbio che non si tratta qui di una colpa qualunque, ma di una caduta profonda, (παραπεσόντας = parapesontas) la quale rimette i colpevoli nello stesso grado degli Ebrei infedeli. Per ricondurli al punto da cui sono caduti, bisognerebbe di nuovo farli passare per le tappe dell’iniziazione cristiana e disporli nuovamente alla penitenza; ma questa via non si fa due volte. L’autore non dice che la loro conversione sia impossibile a Dio, e che per loro non vi sia più speranza; ma dice che è « impossibile » ai banditori del Vangelo « rinnovarli con la penitenza », di prepararveli di nuovo. E per farci intendere in che cosa consiste questo rinnovamento e questa preparazione, avverte che si asterrà dal ripetere le istruzioni che si danno ai catecumeni per disporli al Battesimo. Qui non si fa questione affatto del potere che ha la Chiesa, di rimettere i peccati.

III. CONSUMAZIONE.

1 . RIPOSO IN DIO. — 2. INIZIAZIONI GRADUALI.

1. L’unione con Dio è il fine ultimo della nostra esistenza, l’ultimo termine delle aspirazioni dell’uomo, lo scopo istintivo, se non riflesso, di ogni culto. Questo fortunato scioglimento è espresso nella nostra Epistola in termini assai indovinati: « il riposo di Dio », cioè il riposo di cui Dio gode dopo l’opera della creazione e della redenzione, il riposo di cui Egli ci vuol far godere con Lui e in Lui, il riposo di cui egli è l’autore e l’oggetto, il riposo che propone alle nostre speranze, sia come dono gratuito, sia come eredità, sia come ricompensa. Lo scrittore sacro, fedele al suo metodo tipologico, ne vede la figura nella terra promessa alla .quale aspiravano gli Ebrei, non tanto come al termine delle loro peregrinazioni, quanto come al centro della teocrazia, dove sarebbero stati più vicini a Dio, nel suo dominio e sotto la sua egida (Ebr. III, 7; IV, 11). Per molto tempo l’infedeltà ne li tenne lontani, e quando vi entrarono, dopo di aver disseminato di cadaveri le sabbie del deserto, si accorsero di aver ricevuto soltanto un acconto delle divine promesse. Le prospettive si allontanarono, ed essi intravidero un altro « riposo di Dio », quello che essi, come li scongiura il Salmista, non si devono chiudere con il loro indurimento: « Vi è dunque un sabato ulteriore per il popolo di Dio. E colui che entrerà in questo riposo divino riposerà egli pare delle sue fatiche, come Dio delle sue. Sforziamoci dunque di entrare in quel riposo, e guardiamoci dalla disobbedienza (Ebr. IV, 11) » che ne chiude l’entrata agli Ebrei increduli. Questo riposo di Dio è Gesù, antitipo di Giosuè, che ce lo promette e ce lo assicura.

2. Ma per potervi entrare, bisogna subire una serie di iniziazioni che sono lo scopo del sacerdozio del Cristo e che si esprimono con le quattro parole: « espiare, purificare, santificare, consumare »: termini quasi sinonimi, con differenze degne di studio. La parola « espiare » (ilaskestaia) — corrispondente all’ebraico kipper — è essenzialmente sacerdotale. Essa indica l’azione del sacerdote che scancella il peccato o lava le macchie morali nel sangue delle vittime. – Il compito di Gesù pontefice è « di espiare i peccati del popolo (Ebr. II, 17) » col suo sangue e di rendergli così propizio Dio. Ecco perché San Giovanni lo chiama « propiziazione per i nostri peccati » e San Paolo « propiziatore » o « mezzo di propiziazione (I Giov. II, 4) »; poiché i due effetti sono correlativi, e Dio si placa nella misura in cui i nostri peccati ricevono un’espiazione proporzionata. « Purificare » (katarizein) dice quasi la stessa cosa. Il sangue è il gran mezzo di espiazione ed è pure il mezzo ordinario di purificazione. Il Figlio « compie la purificazione dei peccati (Ebr. I, 3) » col suo sangue (Ebr. IX, 14): poiché « quasi tutto, secondo la Legge, è purificato nel sangue, e senza effusione di sangue non vi è remissione » dei peccati (Ebr. IX, 22). Quello che ha di speciale la purificazione compiuta da Gesù, è che essa, all’opposto dei riti mosaici, è spirituale, è interiore, tocca la coscienza, è assoluta e definitiva (X, 2). – L’espiazione e la purificazione sono come il rovescio della santificazione e della consumazione: le prime distruggono il peccato, e le altre vi mettono al posto suo una perfezione positiva. « Santificare » è consacrare un essere a Dio, segregandolo dagli usi profani, è destinare una cosa al culto divino, rendere una persona atta a questo stesso culto. Ma mentre la santità prodotta dai riti antichi era soltanto legale, la santità propria del Nuovo Testamento trasforma le anime: una terminologia identica esprime così concetti affatto diversi. Non è più il sangue delle vittime che « santifica operando la purificazione secondo la carne (IX, 13) »; ma è « il sangue dell’alleanza (X, 29) » nuova, è l’atto spontaneo del vero pontefice (X, 10) che offre se stesso in sacrificio, che consuma e consacra per sempre, una volta per tutte, quelli che santifica (X, 14). – La « consumazione » è forse la parola più caratteristica dell’Epistola. Consumare (τελειοῦν = teleioun), è rendere perfetto (τέλειος = teleios), cioè condurre al termine ideale (τέλος = telos) che segna il punto di perfezione di un essere. La Legge mosaica è ripudiata perché non poté consumare nulla (VII, 19). I santi dell’Antico Testamento intravidero il termine senza raggiungerlo, perché non conveniva che fossero consumati prima di noi (XI, 40). Gesù Cristo fu consumato per il primo: « Conveniva che Dio, dal quale e per il quale tutto esiste, volendo far entrare nella gloria un’infinità di figli, consumasse col patimento il capo della loro salute (II, 16) ». Il capo (arkegos) precede i suoi soldati all’assalto e li introduce nella città espugnata dopo di esser ivi penetrato lui medesimo. Ecco perché, « benché fosse Figlio, imparò l’obbedienza con quello che ebbe da soffrire e, consumato, divenne per tutti quelli che gli obbediscono il principio della salute eterna. (V, 9) ». Dovunque egli cammina innanzi ed apre la strada. Egli è consumato per tutta l’eternità (VII, 28) » e noi siamo « consumati (X, 14) » con Lui. Qui notiamo alcune differenze, ma ben più numerose somiglianze, tra Paolo ed il redattore dell’Epistola. Questi ci salva al seguito del Cristo e con la mediazione di Gesù pontefice, quello invece ci salva nel Cristo Gesù ed in unione col Cristo mistico; l’uno accentua la distinzione tra l’autore della salute e coloro che la ricevono, l’altro invece mette in rilievo l’identità del capo e delle membra. Né l’uno né l’altro ignora che l’applicazione individuale della redenzione è tuttavia da farsi, e che il sangue di Gesù non purifica l’anima se non per mezzo del rito sacramentale; ma l’uno e l’altro considera la funzione del Cristo come compiuta con un solo atto, col suo sacrificio volontario; l’uno e l’altro considera il rialzamento dell’umanità come già compiuto, in principio, dall’obbedienza amorevole del Figlio. Per tutti e due, noi siamo salvi soltanto nella speranza, ma la nostra speranza è certa, e vi è un vincolo strettissimo tra il principio della salute e la sua consumazione. « Voi siete venuti al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, alle miriadi di Angeli, all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti in cielo (XII, 22-23) ». Così noi già ci moviamo nella sfera della realtà celeste; la fede è una presa di possesso anticipata dei beni che si sperano, la carità è un anticipo della gloria, e la Chiesa è il vestibolo del cielo.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.