CONOSCERE SAN PAOLO (21)

CONOSCERE SAN PAOLO (21)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei; (1)

CAPO I.

Introduzione. 

1. LA QUESTIONE DELL’AUTORE. CARATTERE E STILE DELLA LETTERA. — 2. TRADIZIONE ORIENTALE E OCCIDENTALE. — 3. PRETESI RAPPORTI CON FILONE. — 4. CONGETTURE DIVERSE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

I. Tra le lettere del Nuovo Testamento, la sola Epistola agli Ebrei è anonima. L’esordio, dove l’autore suole declinare il suo nome e i suoi titoli, è soppresso. L’allusione alle catene — che potrebbero essere quelle di Paolo — si appoggia sopra una falsa lezione (Ebr. X, 34, “vinctis”). Alcuni tratti assai vaghi e non privi di difficoltà hanno fatto pensare a San Paolo, ma possono benissimo convenire a molti altri: « Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà. Se viene subito, io vi vedrò con lui… Quelli dell’Italia vi salutano (Ebr. XIII, 23-24) ». Non vi sono altri particolari più espliciti; e vi sono in queste poche parole tre anfibologie. Altrove sembra che si distingua molto nettamente dalla prima generazione cristiana e che si metta tra coloro che hanno ricevuto il Vangelo di seconda mano (Ebr. II, 13). Per lo meno nulla finora rivela una personalità distinta. Lo stile poi ci mette completamente fuori di strada: non vi è nulla che sia più diverso dalla lingua e dalla maniera di Paolo. E non parlo soltanto del vocabolario al quale si dà spesso troppa importanza nelle questioni di autenticità, benché l’assenza di espressioni e di particelle di cui Paolo sembra non poter fare a meno, e la presenza di locuzioni estranee alla sua terminologia diano pure da pensare: parlo della dizione nel senso più largo, delle immagini, dei paragoni, della maniera di concepire e di presentare le cose: Non si può fare a meno che sottoscrivere al giudizio di Origene. « Lo stile dell’Epistola detta agli Ebrei è di carattere affatto diverso da quello dell’Apostolo. L’Epistola è di una grecità migliore, e chiunque è capace di dare un giudizio in questa materia, ne deve convenire ». Basta leggere il primo periodo così cadenzato, così proporzionato, così armonico, per convincersi che non è uscito dalla penna di Paolo. E il seguito della lettera non smentisce le promesse del principio. Nessun autore biblico, non eccettuato neppure San Luca, scrive con tanta purezza: nessun ebraismo, pochissime di quelle irregolarità e scorrettezze — anacoluti, iperbati, concordanze a senso — che abbondano nelle Epistole paoline. Il perfetto concatenamento del discorso, l’arte dei passaggi naturali, il tono oratorio sostenuto senza sforzo, la padronanza di una lingua sempre abbondante e sempre ben cadenzata, rendono questa lettera ben diversa dagli scritti di Paolo. L’eloquenza dell’Apostolo, fatta di passione e di logica, assomiglia ad un torrente impetuoso che rompe le dighe, mentre la nostra Epistola è un fiume maestoso le cui tortuosità appena temperano la monotonia. – L’Epistola è piena di reminiscenze e di allusioni bibliche; ma il modo di citare e di adoperare l’Antico Testamento, si allontana di molto dalle abitudini di Paolo. Questo quasi sempre cita a memoria, combinando insieme testi spezzati, mentre il redattore dell’Epistola copia parola per parola il suo manoscritto dalla Bibbia greca e non si permette mai delle citazioni composite. Paolo, benché segua ordinariamente la versione dei Settanta, non manca di ricorrere al testo originale quando vi è troppa divergenza; l’autore dell’Epistola non mostra in nessun punto di conoscere l’ebraico, anche quando vi è notevole divergenza tra i due testi. Paolo non attribuisce direttamente a Dio altre parole che quelle messe dalla Scrittura in bocca a Dio; l’altro chiama parole di Dio anche certi passi scritturali dove di Dio si parla in terza persona. Finalmente le formule di citazione sono interamente diverse, come può provarlo un solo confronto: l’Epistola agli Ebrei non adopera neppure una volta l’espressione come sta scritto (γέγραπται=ghegraptai), che è la formola consueta dell’Apostolo.

2. Eppure sono proprio i giudici più competenti in materia di stile, i Padri di Alessandria, quelli che unanimi e da tutti i tempi vedono in questa lettera l’opera di San Paolo. Clemente, dietro il suo maestro Panteno, Origene, San Dionigi, San Pietro, Sant’Alessandro, Sant’Atanasio, Didimo, San Cirillo, Eutalio — e lo stesso Ario, a quanto pare — tutti sono concordi. Non bisogna dire che essi chiudano gli occhi su la diversità di stile: per spiegarla, Clemente supponeva che la lettera, scritta originariamente in ebraico, fosse stata tradotta in greco da San Luca: ipotesi insostenibile e che infatti non ha più chi la difenda. Se vi è cosa certa, è che l’Epistola agli Ebrei fu scritta in greco: una traduzione non avrebbe mai tanta spigliatezza e tanta libertà di mosse; l’autore poi si serve esclusivamente dei Settanta, anche quando si allontanano dal testo originale; egli vi profonde le paronomasie, le assonanze, le allitterazioni, in una misura che non si può ammettere in un traduttore. L’arte con cui sa arrotondare i periodi, sarebbe un prodigio inaudito, se egli si fosse trovato dinanzi ai brevi incisi uniti per coordinazione di un testo ebraico qualunque. Finalmente, per non dire di tutto il resto, il ragionamento fondato sul doppio significato della parola διαθήκη (= diateke)  — alleanza e testamento — sarebbe affatto impossibile in lingua ebraica. Secondo Origene, le idee sarebbero di Paolo, e la dizione sarebbe di uno dei suoi discepoli noto a Dio solo. « I documenti storici giunti fino a noi, soggiunge Origene, fanno il nome di Clemente, vescovo di Roma, oppure di San Luca, autore del Vangelo e degli Atti ». Perciò, benché consapevole delle difficoltà, Origene sta a quella che egli chiama la tradizione antica e, in pratica, dimenticando i suoi dubbi di critico e di linguista, cita senza esitare l’Epistola sotto il nome di Paolo. La stessa cosa fa Eusebio, benché la metta una volta tra gli scritti contestati, per deferenza verso il sentimento degli altri. Tutta la chiesa greca col concilio di Antiochia [264] e con quello di Laodicea [390], con San Gregorio Taumaturgo, con San Cirillo di. Gerusalemme, con Sant’Isidoro di Pelusio, con Sant’Epifanio, con San Basilio e con i due Gregori, con San Giovanni Crisostomo e con Teodoro di Mopsuesta, con Severiano di Gabala, la chiesa della Siria con la Peshitto, con Sant’Efrem e con San Giacomo di Nisibi, fanno la stessa affermazione degli Alessandrini: in una parola, l’Oriente è unanime. – Ma in Occidente non è così: conosciuta a Roma, nel primo secolo, da San Clemente che se ne serve come di cosa sua, l’Epistola agli Ebrei generalmente non vi era considerata né come autentica né come canonica. Il frammento del Muratori e il prete Caio riconoscono soltanto tredici lettere di San Paolo. Né Sant’Ireneo, né Sant’Ippolito, a quanto dice il Gobar, non ne ammettono l’autenticità; infatti il primo non la cita neppure una volta nella sua grande opera contro le eresie ed è dubbio che vi faccia qualche allusione. San Cipriano pure si astiene dal citarla e quando afferma, con parecchi altri scrittori latini, che Paolo scrisse a sette chiese, sembra che equivalentemente neghi che essa sia opera dell’Apostolo. Tertulliano, non si sa su quali dati, l’attribuisce a Barnaba, e il modo con cui la cita, dimostra abbastanza che non la crede canonica. Tra gli eretici, Marcione la respingeva; invece il banchiere Teodoto, capo dell’oscura getta dei melchisedechiani, l’accettava. Non sappiamo quale fosse a questo riguardo l’atteggiamento di Covato e di Novaziano, ma non abbiamo nessuna ragione di pretendere, come qualche volta si è fatto, che essi se ne servissero per negare alla Chiesa il diritto di rimettere i peccati. Nel quarto secolo i dubbi persistevano ancora e non erano neppure dissipati nel quinto. Tuttavia San Gerolamo va nell’esagerazione quando sostiene che i Latini non avevano l’abitudine di accettare l’Epistola come canonica: vi erano contestazioni e disaccordi, non c’era unanimità né in un senso né nell’altro. Se l’Ambrosiastro e Pelagio non la commentano, se Febade, Ottato di Milevi, Zenone, Vincenzo di Lerino, Orosio, non se ne servono, se il codice Claromontanus e il codice Mommscianus la escludono dal loro canone, Vittorino, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, Lucifero di Cagliari, Paciano, Faustino, Rufino, le sono favorevoli; Pelagio e l’Ambrosiastro la citano qualche volta senza riserve; Filastro, in contradizione con se stesso, tratta da eretici quelli che la attribuiscono ad altri che a San Paolo; ma bisogna dire che Filastro, secondo la fine osservazione di Sant’Agostino, dà alla parola eretico un significato che è suo speciale. Ma quando il Concilio d’Ippona del 393 e quello di Cartagine del 397 ebbero inscritta nella lista dei libri canonici tredici Epistole di Paolo e l’Epistola agli Ebrei dello stesso Apostolo; quando Innocenzo I, nella sua lettera ad Esuperio di Tolosa nel 405, e il concilio di Cartagine del 419 ebbero catalogato semplicemente quattrodici Epistole di San Paolo, gli antichi dubbi intorno alla canonicità scomparvero e, benché non si portasse nessun argomento nuovo in favore dell’autenticità, a poco a poco si accettò l’opinione generale o almeno la maniera comune di parlare. Soltanto gli eruditi, come Isidoro di Siviglia, conservarono il ricordo delle discussioni passate la cui traccia sussiste ancora nel posto assegnato all’Epistola, o al decimo posto o alla fine delle lettere paoline oppure anche fuori della serie. – Proprio quando la questione sembrava definitivamente risolta da tre concili dei quali era stata l’anima, Agostino incominciò a dubitare dell’autenticità. I suoi scrupoli andavano sempre crescendo, e mentre prima soleva citare la lettera sotto il nome di San Paolo, negli ultimi anni se ne astenne o non lo fece se non con espresse riserve: a lui non veniva l’idea che una decisione conciliare potesse troncare la questione dell’autore; e non venne neppure tale idea a San Gerolamo che, dopo di aver assistito al concilio romano in cui l’Epistola agli Ebrei era stata per la prima volta attribuita a San Paolo, non temeva di scrivere: Nihil interesse cuius sit, cum ecclesiastici viri sit et quotidie Ecclesiarum lectione celebretur. La pubblica lettura dell’Epistola era un argomento in favore della canonicità, ma non pregiudicava punto l’autenticità di uno scritto anonimo. Legare la canonicità con l’autenticità e sostenere, come fa il Gaetano, che se l’Epistola non fosse di Paolo, non sarebbe canonica, è un errore teologico dei più madornali. È anzi un abuso di linguaggio il parlare qui di autenticità, perché autentico è opposto ad apocrifo, e nella lettera non vi è nulla che permetta di sospettare che l’autore si sia voluto spacciare per Paolo. – Dopo Origene, la questione non fece nessun passo avanti; l’ipotesi di un traduttore che avrebbe rivestito della forma greca l’originale ebraico di Paolo, pure dando il senso più largo alla parola traduttore, ipotesi messa avanti da Clemente di Alessandria, accettata da Eusebio e da San Gerolamo, adottata poi da parecchi teologi del medioevo, è totalmente abbandonata oggi e non merita di essere confutata. – D’altra parte gli autori che si sostituiscono a Paolo non soddisfano troppo. Harnack propone Aquila e Priscilla, soprattutto Priscilla, per motivo di non so quali caratteri femminili che si scoprirebbero nella lettera. Godet, senza un fondamento molto più sicuro, pensava a Silvano. Alcuni antichi fanno il nome di Luca e di Clemente di Roma, o come traduttori o come redattori. È certo che Clemente conosce la nostra Epistola e se ne serve, ma il suo stile è così diverso, che si può affermare sicuramente che non è sua. Egli coordina le proposizioni invece di subordinarle, profonde le dossologie, cita la Scrittura in un modo tutto suo, e finalmente le sue idee e la maniera con cui le esprime dimostrano un’altra mentalità. Contro San Luca saremo meno recisi, principalmente per le autorità che stanno per lui. Con l’autore dell’Epistola egli ha questo di comune, che scrive il greco con purezza e si mette nella sfera delle idee di Paolo; le sue relazioni con Timoteo e la sua dimora a Roma rispondono pure ad altri dati. Come aveva notato Clemente di Alessandria, tra l’Epistola e gli Atti vi è una certa affinità di lessico e di dizione. Ma senza contare che questi punti di contatto non hanno nulla di decisivo, e neppure di meraviglioso, come possiamo persuaderci che San Luca, un pagano convertito, conoscesse a fondo il rituale mosaico e desse tanta importanza a osservanze che per lui erano senza valore? E poi San Luca non rivela mai la retorica speciale e la coltura alessandrina di cui pare imbevuto il redattore della lettera. Questo carattere è appunto quello che ha fatto pensare ad Apollo, messo avanti da Lutero e sostenuto da molti critici. Apollo apparteneva alla compagnia di Paolo e conosceva Timoteo; era di Alessandria e poteva aver frequentato la scuola di Filone; era assai eloquente e o « versatissimo nella Scrittura ». Ma tutto questo prova al più che Apollo potrebbe aver composto l’Epistola agli Ebrei, se non vi si opponesse un’obiezione decisiva. Non si vede né quando né come Apollo avrebbe acquistato il diritto di parlare da maestro alla chiesa ebreo-cristiana, e non bisogna dimenticare che l’opinione la quale gli attribuisce la nostra Epistola, è totalmente sprovvista di fondamento storico e di base tradizionale. – Poiché si tratta di ipotesi, noi diamo la nostra preferenza a Barnaba: per lui vi è la testimonianza positiva di Tertulliano e di una parte notevole dell’Occidente. Egli era ebreo di nascita ed ellenista di educazione; come levita, conosceva il rituale mosaico; come abitante di Cipro, doveva avere familiare la letteratura alessandrina, inoltre godeva di grande autorità a Gerusalemme e nelle chiese della Palestina. A dire il vero, se la lettera pubblicata col suo nome più di un secolo fa, fosse opera sua, non bisognerebbe pensare a lui neppure per un istante; ma gli eruditi dei nostri giorni sono sempre più concordi nel riconoscere che l’Epistola detta di Barnaba non è di Barnaba. Non vi è dunque più contro di lui nessuna obiezione di peso, e si potrebbe considerarlo come redattore dell’Epistola sotto la direzione o l’ispirazione dello stesso Paolo.

3. Certi critici moderni, rinunziando a scoprire il nome del grande incognito, si accontentano di indicare un Alessandrino oppure « Un discepolo di Paolo, tinto di filonismo ». Questa formula è fallace: se ci limitiamo ad un confronto generico e superficiale, troveremo facilmente tra il nostro autore e Filone un buon numero di punti di contatto; ma se si stringe il parallelo, con l’appoggio di testi, la maggior parte delle somiglianze scompaiono o si cambiano in senso contrario. Filone chiama bensì il suo Logos gran sacerdote, messaggero, mediatore, intercessore; ma quali sono i titoli onorifici che egli non dà al suo Logos? Del resto, il Logos di Filone è gran sacerdote dell’universo, di questo gran tempio di Dio, che è l’uomo (De Somnis I): che rapporto si vede qui col pontefice della nuova alleanza? Si assicura che il Logos di Filone, come il Figlio dell’Epistola agli Ebrei, è chiamato ἐπαύγασμα (=epaugasma) e χαρακτήρ (=karakter), della sostanza divina; ma l’Epistola certamente prende la prima parola dal libro della Sapienza; e in Filone è l’anima umana, e non il Logos, che è il χαρακτήρ (=karakter) di Dio. Si vuole vedere un’analogia evidente nella maniera con cui i due autori trattano la storia di Melchisedec; ma Filone insiste principalmente su l’offerta del pane e del vino, di cui l’Epistola non dice neppure una parola, e la somiglianza si riduce, in ultima analisi, ad una etimologia delle più comuni, poiché nessuno ignora che in ebraico melek significa re, e zedeq vuol dire giustizia. Del resto l’allegorismo dei due scrittori non ha nulla di comune: le allegorie di Filone non sono altro che simboli morali e propri del significato accomodatizio; quelle dell’Epistola agli Ebrei, se cosi vogliamo chiamarle, sono tipi profetici. La stessa differenza — e più marcata ancora — si trova in un altro punto in cui si cercano invano somiglianze. I due scrittori frequentemente oppongono il cielo alla terra, il visibile all’invisibile, il passeggero all’eterno, l’immagine alla realtà; ma mentre il filosofo alessandrino [neo-platonico e gnostico –ndr.] si volge al passato, e di là dal mondo dei fenomeni contempla il mondo delle idee, il mondo intellegibile (κόσμος νοητός = kosmos noetos) che gli è servito di archetipo, lo sguardo dell’agiografo è continuamente rivolto al futuro, e gli avvenimenti della storia ebraica sono il libro in cui legge i destini della Gerusalemme celeste, eterna ed immutabile. Noi non ci fermiamo alle somiglianze di minimo valore, delle quali molte sono puramente immaginarie. Non si ebbe il coraggio di pretendere che « la parola di Dio più penetrante di una spada a due tagli (Ebr. IV, 12) » dovesse derivare dal λόγος τομεύς (= logos tomeus) di Filone? Come se il Logos divisore di Filone fosse cosa diversa da un demiurgo occupato a separare gli elementi della materia caotica: concezione affatto estranea all’Epistola. La parola più tagliente di una spada λόγος τομώτερος (=logos tomoteros) è la parola profetica che arriva infallibilmente al suo scopo. Riguardo poi al verbo petrispatein (moderare i propri sentimenti e le proprie passioni) che apparteneva al linguaggio filosofico del tempo, bisogna davvero essere a corto di argomenti, per sostenere che l’autore dell’Epistola lo abbia preso da Filone.

4. Se la dipendenza da Filone diventa sempre più problematica quanto più si studia da vicino, la dipendenza da Paolo — dipendenza di idee, e non di parole — diventa sempre più manifesta, ed è oggi ammessa da quasi tutti i critici. L’impressione che si riporta da una lettura ripetuta, è ben tradotta da uno dei migliori conoscitori della lingua biblica: « La rassomiglianza dei pensieri con quelli di Paolo, appare con un’evidenza sempre crescente, e nel tempo stesso si resta sempre più sorpresi che si sia trovato chi abbia attribuito a Paolo lo stile e la dizione (Moulton) ». Eccoci dunque ricondotti all’opinione di Origene, divisa ancora ai nostri giorni dalla maggioranza dei critici e degli esegeti, così cattolici come eterodossi. Origene distingueva tra l’autore ed il redattore, dando una larghissima parte al redattore. Paolo avrebbe dato le idee, l’ispirazione, e un discepolo di Paolo, noto a Dio solo, le avrebbe raccolte nella memoria, aggiungendovi gli opportuni schiarimenti (Eusebio, Hist. Eccl., VI, 25). A lui sarebbe dovuta la forma, l’unione delle parti, insomma la composizione; egli sarebbe lo scrittore di un’opera di cui Paolo resterebbe l’autore. – Si diceva una volta, nello stesso senso, che il secondo Vangelo era il Vangelo di Pietro, e il terzo quello di Paolo, perché San Marco e San Luca avrebbero riprodotto rispettivamente la predicazione dei due grandi Apostoli. L’opinione di Origene è abbastanza malleabile per piegarsi a tutte le esigenze dei critici; spiega relazioni e differenze e soddisfa ai dati della tradizione. Noi pensiamo che si debba accettare, e così pure pensano quasi tutti i cattolici, con differenze innumerevoli che non è né possibile né utile discutere. – Direttamente o indirettamente, la sostanza è di Paolo; la forma è di un incognito il cui nome è noto soltanto a Dio.

II. QUADRO STORICO E IDEA CENTRALE.

1. L’EPISTOLA È INDIRIZZATA A GIUDEO – CRISTIANI DELLA PALESTINA. — 2. IDEA DOMINANTE E DIVISIONE.

1. La questione della data e della destinazione ha per il teologo un’importanza appena secondaria. Lasciamo che i critici cerchino i destinatari dell’Epistola, in Roma, in Alessandria, in Antiochia, a Corinto, a Tessalonica e anche a Ravenna e nel borgo di Iamnia. La maggior parte di queste supposizioni fantastiche non meritano di essere neppure ricordate: al più meritano un cenno i partigiani di Roma e di Alessandria. Alessandria avrebbe qualche probabilità, se i destinatari di una lettera fossero obbligati ad essere del medesimo paese dell’autore, e se l’autore non avesse potuto apprendere la coltura alessandrina fuori di Alessandria: ma è cattivo segno, quando un’opinione si fonda sopra una pura ipotesi; e come spiegare che i Padri alessandrini, da tutti i tempi unanimi nel ricevere la nostra Epistola come canonica, non abbiano avuto mai il sospetto che fosse indirizzata alla loro chiesa? Il solo motivo di pensare a Roma, è il saluto dei fratelli dell’Italia, se si intendono per οἰ ἀπὸ τῆς Ίταλίας (= oi apo tes Italias) non i Cristiani residenti in Italia, ma quelli che ne sono originari. È troppo poco un’anfibologia, per fondarvi un’ipotesi sprovvista di ogni base tradizionale; tanto più che quel testo, anche nel senso più favorevole, ci porta sì in Italia, ma non a Roma. È possibile immaginare nella chiesa romana, composta in gran maggioranza di pagani convertiti, tanto fanatismo per il rituale mosaico, da trovarsi nel pericolo di apostatare piuttosto che rinunziarvi? Dire che l’autore si rivolga unicamente ad un piccolo gruppo di ebrei convertiti (Zahn), e che miri soltanto all’assemblea particolare riunita nella casa di Aquila e di Priscilla (Harnack), equivale a complicare l’arbitrario con l’inverosimile. – L’antica opinione che metteva in Palestina i destinatari dell’Epistola, conserva ancora tutte le probabilità. Essa ha dalla parte sua una tradizione rispettabile alla quale non fa contrappeso nessuna tradizione contraria; il titolo stesso che, pure non appartenendo al testo primitivo, risale per lo meno al secondo secolo, poiché si trova in tutti i manoscritti e in tutte le versioni; finalmente l’incredibile varietà e l’inconsistenza delle ipotesi che le si vollero sostituire. Essa ha soprattutto in suo favore, con i dati concordanti della data e dell’ambiente, i caratteri intrinseci: « un sapore di terra ebrea tanto marcato ed un’assenza così completa di qualsiasi allusione al culto pagano, che stentiamo a capire come vi si possa trovare la più piccola indicazione che riveli dei lettori usciti dal paganesimo ». – È impossibile, a nostro parere, portare la composizione dell’Epistola dopo la catastrofe del 70: il tempio è ancora in piedi, e il rituale mosaico è sempre in vigore. L’autore, è vero, si riferisce alla descrizione biblica del tabernacolo ed alla legislazione scritta del Pentateuco, senza tener conto delle modificazioni portate dal tempo, o perché suppone la pratica conforme alla regola, o piuttosto per dare alla sua tipologia un fondamento scritturale; ma si sente sempre che egli non combatte contro ombre, e che la sua polemica ha di mira realtà. presenti. Dopo la caduta del tempio che segnava la fine dei sacrifizi, dopo la rovina di Gerusalemme senza speranza umana di risurrezione, lo stato d’animo dei destinatari sarebbe un enigma indecifrabile. Prima di quella data fatidica, la loro tentazione si spiega: essi rimpiangevano il culto degli antenati con lo splendore e la pompa delle sue solennità, mal compensate, ai loro occhi, dallo spiritualismo cristiano. Detestati, calunniati, perseguitati, trattati da disertori dai loro compatriotti, si sentivano invadere l’anima da pensieri di scoraggiamento e di apostasia: alcuni si guardavano indietro e forse già erano vicini alla defezione. Si era alla vigilia di una gran crisi nazionale; il giudaismo si dibatteva negli spasimi di un’agonia che a molti poteva sembrare una risurrezione. L’ora era critica per gli ebrei convertiti: bisognava o fare causa comune con i patrioti fanatici, o romperla con loro sfidando la loro collera e le loro maledizioni; bisognava o rinnegare il Cristo, oppure uscire in campo con Lui, portando la sua ignominia. Scelsero l’ultimo partito gli ebrei convertiti quando, nel 66 o 67, all’avvicinarsi di Tito, si rifugiarono a Pella, non senza lasciarsi dietro certamente più di un traviato o di un indeciso. Per confermarli nella fede, l’Apostolo spediva loro la sua lettera.

2. L’Epistola agli Ebrei è una vera lettera, e non una tesi od un’omelia. Del trattato dommatico ha il disegno bene ordinato, il procedere regolare, il nesso degli argomenti e degli svolgimenti; essa ricorda l’omelia per il tono oratorio più elevato di quanto convenga a una corrispondenza ordinaria, per il continuo alternarsi dei punti speculativi e delle conclusioni parenetiche: tuttavia essa appartiene certamente al genere epistolare. Essa è indirizzata ad una cerchia ristretta di persone delle quali l’autore conosce bene il lato forte e il debole, esalta le virtù, riprende i difetti, cerca di scongiurare i pericoli. L’Epistola non è dunque un trattato, ma è una lettera che, se si vuole, ha dell’omelia, e che il suo autore qualifica col nome più esatto quando la chiama « una parola di esortazione ». Come parola di esortazione, ha uno scopo immediato e pratico: il dogma non è l’occasione della morale, ma la morale è la ragione di essere del dogma. L’autore — e non ne fa mistero — vuole fermare i giudeo-cristiani su l’orlo dell’abisso; egli dimostra a loro quanto la caduta sarebbe funesta e anche irragionevole, poiché sarebbe un ritorno dal più perfetto al meno perfetto, dalla luce del Vangelo alla penombra dell’economia antica. Per dimostrare che la legge di grazia è una religione migliore, stabilisce che essa è la Religione definitiva, immutabile, eterna, ideale. Avendo ogni religione lo scopo di facilitare l’accesso a Dio e di unirci a Lui, il valore di una religione si deve misurare dalla maniera più o meno efficace con cui raggiunge questo scopo. Ora la missione di operare l’avvicinamento tra il cielo e la terra, incombe soprattutto al sacerdote, intermediario tra l’uomo e Dio. Ecco dunque i tre postulati che l’autore dell’Epistola suppone continuamente e che il lettore non deve mai perdere di vista. — Un’istituzione religiosa si misura dall’unione che produce tra l’uomo e Dio. — Questa unione è tanto più intima, quanto più vicino all’ideale è il sacerdote mediatore. — Il valore, l’efficacia del sacrificio dà alla sua volta la misura del sacerdote. Ma mentre il parallelo tra il giudaismo e il Cristianesimo, che forma il vero argomento dell’Epistola, resta latente o appena penetra la superficie, il contrasto fra i mediatori delle due religioni e le funzioni sacerdotali di questi mediatori, forma il disegno apparente ed esteriore della lettera. I lunghi passi parenetici sono talmente collegati con le prove e portati così naturalmente, che non interrompono il corso della dimostrazione. – A prima vista si distinguono le tre parti seguenti in cui dogma o morale si fondono in un tutto armonico: La persona del Cristo opposta a quella degli altri mediatori, profeti, angeli, Mosè e Giosuè. Esortazione all’obbedienza e alla fedeltà (cap. I-IV). — Il sacerdozio del Cristo, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, opposto al sacerdozio levitico. Esortazione all’ideale e al più perfetto (cap. V – VIII). — Il sacrifizio del Cristo opposto al sacrificio del giorno dell’Espiazione. Pericoli dell’incredulità, valore della fede, esortazione alla perseveranza (cap. VIII- XIII). – Noi seguiremo questa divisione, aggiungendo un capitolo supplementare sul contrasto fra le due alleanze e le due economie, contrasto che è il fondo nascosto dell’Epistola.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.