DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.
[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Lectio
Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17
Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, vol. IV, Marietti ed., Omelia XVII, Torino, 1889]

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

Ve lo dissi altra volta e ve lo ripeto oggi, la seconda metà della lettera ai fedeli di Efeso, e precisamente gli ultimi tre capi, non sono in sostanza che una magnifica serie di verità morali, che si confanno ad ogni classe di persone. Sembra che l’Apostolo voglia per poco condensare tutta la morale cristiana in quelle sentenze, senza nemmeno curarsi di ordinarle tra loro o darne qualche prova. Le annunzia con una chiarezza che è pareggiata solo alla brevità, le addossa l’una all’altra, e nella foga dello scrivere ne ripete più d’una, le inculca con tutto l’ardore della sua grand’anima. Si ammirano, e a ragione, le belle sentenze morali che qua e là sono sparse nei libri di Cicerone, di Epitteto, di Seneca e di Marco Aurelio, e quando si pensa che erano pagani, non possiamo tenerci dall’ammirare quegli uomini; ma io non dubito di affermare, che, raccogliendo tutte le sentenze morali di quei filosofi, non avremmo la decima parte di quelle che l’Apostolo, con una semplicità e concisione tutta sua, ha dettato in questi tre capi. – Dopo aver messo sott’occhio ai suoi cari figliuoli i vizi che dovevano fuggire, e le virtù che dovevano praticare, e il tesoro che dovevano custodire, accenna ai nemici che avevano da combattere, e con un linguaggio tutto militare, li ammaestra intorno al modo di combatterli e vincerli. E qui comincia il nostro commento. – S. Paolo, dopo aver esortato i figli ad ubbidire ai genitori, ed i genitori ad allevare, educare ed ammonire i loro figli, guardandosi dal provocarli ad ira; dopo aver esortati i servi ad ubbidire ai padroni di buon grado, e i padroni a trattare umanamente i servi, ricordandosi che anch’essi hanno un Padrone, che è Dio, continua e scrive: “Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. „ Allorché un capitano sta per spingere le sue schiere contro il nemico, un nemico formidabile, grida: “Soldati, siate forti, pugnate da valorosi: il vostro re vi guarda, ed egli ha pronte altre schiere per sostenere le vostre: avanti!” — Similmente l’Apostolo, incoraggiando i Cristiani alla battaglia contro il comune nemico, grida: ” Siate forti, e combattete da soldati intrepidi. „ E dove attingeremo la forza per combattere e vincere? — Non in noi stessi, che siamo deboli, senza confronto più deboli dei nostri nemici; ma in Dio, che è onnipotente, e sotto gli occhi del quale combattiamo. Egli ci avvalorerà, Egli sarà con noi, e col suo Nome sulle labbra e con la sua forza in cuore, noi saremo vincitori. In questa guerra sì aspra e crudele vincono quei soldati che diffidano di sé, che non escono dalle fila, dove l’ubbidienza li ha posti, che ripongono tutta la loro fiducia in Dio. – S. Paolo prosegue e dice: “Pigliate l’armatura intera di Dio, affinché possiate tener fronte alle insidie del diavolo. „ — Ogni Cristiano, scrive Tertulliano, è un soldato che pugna sotto la bandiera di Cristo: — ora ogni soldato deve avere la sua armatura: il soldato di Cristo e di Dio deve avere l’armatura, non degli uomini, ma di Dio, e questa deve indossare: Induite armaturam Dei. In che consista questa armatura di Dio lo vedremo tosto partitamente. – Ora ci piaccia considerare questa espressione di S. Paolo: “Affinché possiate tener fronte alle insidie del demonio: „ non dice che dobbiamo assalire il nemico (il che pure talvolta sì ha da fare), ma dice che dobbiamo far fronte, o resistere, come più sotto si esprime. Voi sapete che vi è un doppio genere di guerra, l’una dicesi offensiva, e si ha quando si assalta il nemico; l’altra difensiva, e si ha quando si mantiene il proprio posto e si aspetta a pie’ fermo il nemico per ributtarne gli assalti. In generale noi Cristiani dobbiamo attenerci alla guerra difensiva contro il nemico; per vincerlo a noi basta conservare la grazia, restar fedeli a Dio, mantenerci saldi al nostro posto, sventare le sue insidie occulte e respingere i suoi assalti scoperti; resistere, tener fronte alla tentazione, è vincere.E chi è desso il nostro nemico? Paolo l’ha nominato: ” Il demonio — Adversus insidias diaboli. „ Appena il nome del demonio gli è caduto dalla penna, l’Apostolo si affretta a farcelo conoscere, e scrive: “Noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma contro i principati e le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. „Non ingannatevi, grida S. Paolo, non abbiamo guerra contro la carne e il sangue, vale a dire contro uomini come noi, che sarebbe pur sempre faticosa e non senza pericoli, ma contro i demoni, che furono Angeli, e dei primi, principati e podestà (Da questo luogo di S. Paolo apparisce che anche nelle gerarchie superiori, come sono i Principati e le Podestà, v’ebbero degli spiriti apostati), e che hanno parte, e non piccola, nel governo di questo basso e tenebroso mondo, in una parola, contro gli spiriti malvagi, che ci contendono le cose e i beni celesti. — Quante cose apprendiamo da questa sentenza dell’Apostolo! Apprendiamo che esistono i demonii, che sono nostri giurati nemici e ci tendono senza tregua insidie e inganni; che per forza, scaltrezza e potenza, sono di gran lunga a noi superiori; che spiegano la malefica loro azione in questo mondo, adoperandosi ad impedirci il conseguimento dei beni celesti.I demoni adunque esistono, è un articolo di fede, che si incontra ad ogni pagina dei Libri santi, e a cui fanno eco le tradizioni di tutti i popoli della terra. I demoni sono spiriti, e perciò non si vedono, non si toccano, sono immortali, e non possiamo formarci un’idea precisa della loro natura, come degli Angeli buoni. Allorché li vedete dipinti qua e là nelle forme più brutte, più orride, non dovete credere che siano veramente tali, come non dovete credere che gli Angeli buoni abbiano forme di giovani bellissimi ed alati, come si rappresentano. Impotenti come siamo a farci un’idea di puri spiriti, siano buoni, siano cattivi, ci ingegniamo alla meglio di ritrarne le figure, bellissime di quelli, bruttissime di questi.Questi demoni furono creati da Dio, e creati buoni, adorni di grazia e ricolmi dei doni più eletti, e divennero malvagi perché si inorgoglirono, si levarono contro il loro Creatore e gli rifiutarono la dovuta ubbidienza, e Dio li cacciò dal cielo. E perché sono essi sì ripieni di odio contro di noi uomini, che non abbiamo fatto nulla contro di loro? — Perché sono malvagi, e i malvagi non vogliono che il male; perché, odiando Dio, odiano anche gli uomini, nei quali risplende l’immagine di Dio; perché essi rifiutarono la loro ubbidienza a Dio in quanto lo videro prima dei secoli fatto Uomo, e perciò ripetono la loro rovina eterna dall’amore singolare ch’Egli ebbe per noi uomini; perché in noi uomini combattono Gesù Cristo, Dio-Uomo, e quelli che sono chiamati a tenere il loro luogo.E perché Dio permette che i demoni, sparsi sulla terra, tendano insidie e combattano gli nomini? Perché la prova è necessaria per tutti: perché senza battaglie non c’è vittoria, senza lotte non c’è corona. Vi fu la prova su in cielo; la volle per sé Gesù Cristo e l’ebbero tutti quelli che furono prima di noi; perché non l’avremmo ancora noi? La storia del cielo e della terra, degli uomini e degli Angeli, è una storia di battaglie incessanti, di sconfitte e di vittorie: così vuole Iddio, così vuole il nostro bene; pigliamo adunque il nostro posto e combattiamo animosamente. Ma qui odo farmisi una difficoltà, che è prezzo dell’opera esaminare e sciogliere: San Paolo insegna che la nostra lotta è contro gli spiriti malvagi, non contro gli uomini: ma S. Paolo stesso e tutta la tradizione ecclesiastica ci insegnano che dobbiamo combattere anche contro la carne, contro le passioni, contro il mondo, e che questi sono nemici nostri non meno dei demoni. Come dunque si possono spiegare queste dottrine opposte? Non vi sono, né vi possono essere dottrine opposte nell’insegnamento cristiano. Certo la carne con le sue passioni, il mondo con i suoi scandali, i tristi con le loro arti sono nostri nemici, e contro di essi ci conviene combattere senza posa: ma chi poi ha sollevati contro di noi questi uomini? Chi ha messo in rivolta la carne e le passioni? Chi ha riempito la terra di tristi, e li muove ai nostri danni? Il primo artefice dei nostri mali, colui che introdusse nel mondo il peccato, la morte, le passioni, gli scandali, è il demonio; il mondo e la carne sono due alleati che il demonio ha tirato dalla sua parte, e dei quali si vale per combatterci; onde l’Apostolo poté ben dire che la nostra guerra è contro gli spiriti maligni, perché sono essi i primi e principali nostri nemici. E qui, o carissimi, non vi dispiaccia che mi allarghi alquanto e vi parli di queste lotte e battaglie, che abbiamo con la carne e con il mondo, e con il loro duce supremo, che è il demonio. Queste battaglie nel linguaggio comune della Chiesa si chiamano tentazioni. Ora io vi domando: Possiamo noi sfuggire alle tentazioni? A tutte è impossibile sottrarci: converrebbe non vivere su questa terra, non avere questo corpo, in una parola non essere uomini, e che Dio facesse un miracolo per affrancarcene, nondimeno dobbiamo riconoscere che un buon numero di queste tentazioni possiamo cessarle, schivando le occasioni, vegliando attentamente sui nostri sensi, mortificando le nostre passioni e usando di tutti quei mezzi, che la prudenza cristiana ci suggerisce. – E siamo noi obbligati a schivare tutte quelle tentazioni che è in poter nostro schivare? Indubbiamente, per l’amore che dobbiamo avere per noi stessi e per il timore di offendere Dio, noi abbiamo l’obbligo di schivare quelle tentazioni che prevediamo, e quest’obbligo è in ragione del pericolo, che ci farebbero correre di peccare e dei sacrifici necessari per sfuggirle. E come governarci con quelle tentazioni che sono inevitabili, o che per evitarle ci imporrebbero sacrifici impossibili o troppo gravi? Quando è una necessità affrontare la tentazione, non vi è ombra di peccato, appunto perché è impossibile che siamo costretti a commettere il peccato. Allora, o dilettissimi, non temete, fidenti in Dio, affrontate la tentazione, e non potrà fallire la vittoria. – Il primo passo della tentazione è il pensiero cattivo e il diletto che essa con la immaginativa ci fa pregustare, se acconsentiamo: il pensiero, che ci si affaccia non cercato, il diletto che ci cagiona, se noi non acconsentiamo, non costituisce peccato di sorta, nemmeno leggero. Se noi deliberatamente accarezziamo il pensiero cattivo, volontariamente ci fermiamo nel piacere disordinato, allora il nemico entra nell’anima nostra, e nel connubio della nostra volontà, con la tentazione si compie il peccato. Il peccato (e questo, o cari, non dimenticatelo mai), allora penetra nel vostro cuore e vi resta padrone, quando la vostra volontà apre la porta, e alla tentazione che domandava di entrare, dice: “Entra; sì, io ti voglio. „ Finché non pronuncia il si dell’assenso, la tentazione rimane fuori, e può menar rumore, minacciare, dilettare, rinnovare cento, mille volte le sue tentazioni e i suoi assalti, essa non può nuocere, anzi non fa che accrescere i meriti della resistenza. Ora ascoltiamo l’Apostolo, che ci insegna il modo sicuro di vincere qualunque prova, sia quanto si voglia fiera ed ostinata. “Presentatevi cinti i lombi da verità, coperti con la corazza della giustizia, calzati i piedi in preparazione all’Evangelo della pace, e sopra tutto pigliate lo scudo della fede, col quale spegnere i dardi infuocati del maligno, e prendete l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio. „ Voi vedete che S. Paolo, volendo armare il soldato cristiano per le battaglie contro gli spiriti malvagi, piglia bellamente l’immagine del soldato terreno. Il soldato, al tempo dell’Apostolo, doveva anzi tutto provvedersi di armi, che valessero a difenderlo dai colpi dei nemici, ed eccovi il balteo, o cingolo che si stringeva ai fianchi, e la corazza che gli copriva il petto, ed i calzari o le gambiere che difendevano le gambe e i piedi, e lo scudo, con cui riparava quasi tutta la persona, e finalmente l’elmo, che ricopriva il capo; è questa l’armatura intera del soldato antico, che Paolo con elegante e ingegnosa metafora applica al soldato cristiano. “Presentatevi cinti i lombi da verità. „ Il balteo, o cingolo militare, era un ornamento, e nello stesso tempo rendeva il soldato più spedito e pronto a camminare, onde anche al presente chi deve salire monti suole stringersi fortemente i fianchi. Anche il Cristiano deve correre per una lunga via, e spesso deve salire i monti ripidi e dirupati della virtù: stringasi dunque ai fianchi il cingolo, non materiale, ma spirituale della verità: Succinati lumbos vestros in ventate. La verità sia sempre con noi, sia come una cintura ai nostri lombi, e non sentiremo la fatica del cammino. Forse in questo luogo la parola verità, come vogliono alcuni interpreti, significa la schiettezza dell’anima, la fedeltà alle promesse fatte a Dio e la piena signoria che dobbiamo del continuo esercitare sopra noi stessi, rintuzzando le nostre passioni. Del resto ciascuno comprende che tutte codeste interpretazioni in sostanza si riducono ad una sola, ed è questa, che dobbiamo in ogni cosa seguire la verità, sempre, e la sola verità. “Siate coperti con la corazza della giustizia — Induti loricam justitice. „ La giustizia, nel senso più largo, usato nelle sacre Scritture, significa la virtù e la santità, il complesso di tutte quelle opere, che rendono l’uomo caro a Dio: la giustizia fa rendere a ciascuno ciò che gli si deve, e in questo senso la giustizia esprime la virtù e la santità nel suo grado più perfetto, ed è per questo che i Libri santi dicono uomo giusto, per dire uomo santo. Essere adunque coperti della corazza della giustizia vale quanto dire essere adorni di tutte le virtù; e se voi siete adorni di tutte, che potrà mai fare il nemico contro di voi? Nulla. – “E abbiate calzati i piedi in preparazione al Vangelo della pace. „ I piedi sono ordinati a camminare: S. Paolo adunque vuol dire: I vostri piedi siano coperti e difesi per guisa, che possiate camminare alacremente nelle vie del Vangelo, cioè osservare i precetti e le verità sante del Vangelo, che in mezzo alle pugne vi condurranno alla pace, alla vera pace, che supera ogni umana comprensione. Ma ciò che ” sopra tutto — in omnibus „ dobbiamo procurar di fare, è, scrive S. Paolo, –  di pigliare lo scudo della fede — Sumentes scutum fidei. „ La fede, cioè le verità rivelate nel loro complesso, la fede, cioè la nostra salda adesione alle verità rivelate, deve essere il nostro scudo di difesa in queste pugne contro il nemico. Allorché la nostra mente tiene fisso fermamente l’occhio sulle verità nella fede, per modo d’esempio della presenza di Dio, del giudizio divino, dell’inferno e andate dicendo, come volete che sia possibile darla vinta alle tentazioni? Ponete che allorquando il nemico vi eccita al furto, alla bestemmia, alla turpitudine od a qualunque altro peccato, vedeste Dio nella sua maestà di giudice, e dall’una parte il cielo con tutte le sue gioie, e l’inferno con le sue fiamme divoratrici, e vi si dicesse: Se tu commetti questo peccato, ti vedrai tosto chiuso per sempre il cielo, e sarai gettato in mezzo a quelle fiamme sempiterne, credete voi che un uomo potrebbe commettere quel peccato? Ah! Per quanto fosse violenta e terribile la tentazione in quella vista del cielo e dell’inferno e del Giudice supremo, troverebbe la forza di respingerla? Sopra mille forse non ne trovereste un solo forsennato al punto da volere il peccato e con esso precipitarsi subito nell’inferno. Ora che fa essa la fede? Ci mette vive sotto gli occhi le verità eterne, ce le fa toccare e sentire: come volete che l’uomo s’arrenda alla tentazione finche quelle gli stanno innanzi? La fede adunque è lo scudo impenetrabile che ci copre contro tutti gli assalti del nemico. –  S. Paolo, nella lettera agli Ebrei (capo XI), celebra le lodi della fede, ed afferma che tutti quelli che furono salvi, lo furono per la fede; per la fede i santi, continua l’Apostolo, vinsero i regni, operarono la giustizia, turarono le bocche dei leoni, spensero le fiamme, divennero forti in guerra, vinsero i tormenti, gli scherni, la morte, tutto. Contro questa fede si spezzeranno e si estingueranno i dardi infuocati del maligno. Solevano gli antichi non solo aguzzare la punta delle frecce, ma le avvolgevano in bitume e resina od altre materie infiammabili, e, appiccatovi il fuoco, le scagliavano contro i nemici per trafiggerli col ferro e bruciarli col fuoco. Le tentazioni, così S. Paolo, fossero anche come queste frecce acute e ardenti, non temete, si spunteranno e si spegneranno sullo scudo della vostra fede. Al primo indizio adunque della tentazione, al primo avvicinarsi del nemico, levate alto il vostro scudo, ravvivate la fede, pensate a Dio che vi guarda, che tiene in mano la corona, e la vittoria sarà vostra. “Prendete ancora l’elmo della salute — Galeam salutis assumite. „ Il soldato deve coprire e difendere ogni parte del suo corpo, ma sopra tutto il capo, perché là principalmente è la vita, e dal capo dipende tutto il corpo. Che sono le parole e le opere? Sono figlie, sono manifestazioni dei nostri pensieri, perché diciamo e facciamo poi ciò che prima pensiamo. Volete voi che le parole e opere vostre siano buone e sante? Badate ai pensieri, custodite la vostra mente con l’elmo della salute, e non lasciate mai che in essa entrino pensieri se non di salute degni d’un Cristiano. Dopo le armi che sono a difesa, l’Apostolo viene a quelle di offesa, e ne nomina una sola, la più nobile e più comune, la spada, scrivendo: “Pigliate la spada dello spirito, ossia la spada spirituale, che è la parola di Dio — Sumite gladium spiritus, quod est verbum Dei. „ Anche in altra lettera (agli Ebrei) S. Paolo paragona la parola di Dio ad una spada a due tagli, che penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito. La spada, debitamente maneggiata, serve a difesa, ma sopra tutto vale ad offesa, e con essa si ferisce e si atterra il nemico. Similmente, con la parola di Dio, che sveglia, avviva, nutre e rafforza la fede, difendiamo noi stessi ed atterriamo il nemico. Una fede, che non è alimentata dalla parola di Dio, è un seme, un albero, su cui non cade mai la pioggia, inaridisce e dissecca; è come l’occhio, a cui non risplende mai raggio di luce, è un corpo a cui vien meno il cibo. La fede, grida S. Paolo, viene dall’udito, cioè dalla parola: senza la parola, ossia l’istruzione, la fede dorme, se non è morta. Sopra abbiamo udito l’Apostolo comandare ai fedeli di pigliare lo scudo della fede, per spegnere i dardi infuocati del nemico; qui vuole che la nutriamo e la ravviviamo con la parola di Dio. – La parola di Dio, alimento della fede, noi la troviamo nei Libri santi e in tutte le letture buone, acconce alle condizioni speciali di ciascuno. Ma in modo affatto particolare la parola di Dio si ascolta in chiesa, allorché il ministro di Dio la spiega, e di questa singolarmente dovete essere solleciti. E perché? Perché essa v’è data dalla Chiesa in modo autorevole e sicuro; perché a questa parola, che si annunzia nel tempio, è congiunta una grazia speciale, e perché la presenza del popolo ivi raccolto è di edificazione a tutti. Non sia dunque mai che voi, o fratelli, potendolo, veniate meno a questo dovere di ascoltare la parola divina in chiesa, voi e i vostri figli. – Non dite: noi siamo istruiti abbastanza e non abbiamo bisogno di recarci in chiesa a udire il prete. Sarete istruiti, non lo nego, ma non sarà cosa inutile udirvi ripetere ciò che sapete. Non dite: noi studieremo la Religione da noi, in casa. Permettete che ne dubiti; avrete forse la volontà, ma io temerei che da voi non piglierete sì facilmente in mano il Catechismo per studiarlo: e poi lo faceste anche, sarete voi sempre sicuri di intenderlo a dovere? La fede, dice S. Paolo, è la spada spirituale: essa a poco a poco arrugginisce: è opera del sacro ministro mantenerla pulita e lucida e acuta: dunque ogni domenica portatela al tempio e l’avrete sempre quale dev’essere la spada del vero soldato di Cristo. – Cristo a nostro conforto e nostro ammaestramento permise d’essere tentato: come vinse e rimandò confuso e svergognato il tentatore? Col gettargli in faccia la parola di verità, la parola di Dio. Siate tutti, o cari, soldati di Cristo: date di piglio alle armi, che l’Apostolo vi ha messe innanzi, copritevi da capo a piedi, impugnate la spada della parola di Dio, maneggiatela con coraggio e la vittoria è sicura, e dopo la vittoria la corona.

Graduale
Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut formarétur terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

ALLELUJA

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro.
Allelúja. [Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum.
Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Omelia XVIII]

“Il regno dei cieli è assomigliato ad un re il quale volle trarre i conti con i suoi servi. E avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E non avendo egli da pagare, il suo padrone comandò ch’egli, la sua moglie e i suoi figliuoli e tutto quanto aveva fosse venduto, e così fosse pagato. Allora quel servo cadendo a terra, si buttò davanti a lui, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. E il padrone impietosito di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ora quel servo, uscito fuori, trovò uno de’ suoi conservi, il quale gli  doveva cento danari, ed afferratolo, lo strangolava, dicendo: Pagami ciò che mi devi! E quel suo conservo, cadendo in terra, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, ed io ti pagherò tutto. Ma colui non volle; anzi andò e lo cacciò in prigione finché avesse pagato il suo debito. Ora i conservi di lui, veduto il fatto, ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono tutto il fatto. Allora Il signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio! io ti condonai tutto quel debito, perché tu me ne avevi pregato. E non era dunque giusto che tu avessi pietà del tuo conservo, com’io ancora aveva avuto pietà di te? E adirato il suo padrone, lo diede in mano ai carcerieri infino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non rimetterete di cuore ciascuno al proprio fratello i falli suoi „ ( S . Matteo, XVIII, 24-35).

È questa la lezione evangelica, che oggi la Chiesa ci propone di meditare. Questa parabola fu recitata da Gesù Cristo in Galilea, nell’ultima dimora che vi fece, poco prima dell’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per la festa della Scenopegia o dei Tabernacoli; festa che cadeva intorno al venti di settembre, e durava otto giorni; onde si può ritenere che la parabola fu come il termine della sua predicazione in Galilea, sette mesi circa prima della sua morte. Un valente scrittore moderno della vita di Gesù Cristo afferma che tutta l’indole, tutto il carattere del regno dei cieli predicato da Gesù Cristo, è racchiuso in questa bellissima parabola (P. Didon, vol. 1, pag. 477). Essa adunque è ben degna di tutta la vostra attenzione. Prima di cominciare la spiegazione della mostra parabola, è necessario conoscere i fatti che diedero occasione a Gesù di proporla. Da S. Luca (capo XVII, 3) apprendiamo che Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Se il fratello tuo ha peccato contro di te, riprendilo: e se si pente, tu perdonagli. „ Qui sottentra S. Matteo, e narra che Pietro allora, rivoltosi a Gesù, disse: “Signore, quante volte, peccando contro di me il fratel mio, gli perdonerò? Fino a sette volte ? „ E Gesù gli disse : “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette; „ espressione che nell’uso ebraico vuol dire sempre, senza limiti. Data questa risposta, Gesù disse la parabola che dobbiamo interpretare. Fin d’ora voi comprendete, considerati gli antecedenti, che l’argomento e lo scopo della medesima debba essere ribadire la necessità del perdono. “Il regno dei cieli è assomigliato ad un re, il quale volle trarre i conti con i suoi servi. „ Altra volta accennai il significato diverso che nei libri del nuovo Testamento ha l’espressione regno dei cieli. E fuor di dubbio che qui essa significa il tutto insieme che è necessario per entrare e restare nella Chiesa, per appartenere al regno di Gesù Cristo nel tempo e nella eternità. – Non occorre il dirlo, il re è Dio, è Gesù Cristo medesimo; i servi sono i credenti, i debiti del servo rappresentano le offese o i peccati, la resa dei conti il giudizio divino, il castigo inflitto al servo la pena dovuta ai peccati a rigore di giustizia. Il re, dice il Vangelo, volle fare i conti con i suoi servi di quanto essi gli dovevano, ed egli doveva a loro. Carissimi! Noi viviamo nella casa di questo buon Re, che è la  Chiesa: siamo i suoi servi, e siamo provveduti largamente e per modo, che non ci manca nulla. Noi dobbiamo prestare i nostri servigi e ubbidire ad ogni cenno il Padrone celeste; noi, sue creature, saremmo obbligati a servirlo in ogni cosa, anche senza mercede, perché Egli è padrone nostro assoluto; ma è tanta la sua bontà e la sua magnificenza, ch’Egli vuole pagare e generosamente ogni nostro servigio, come vuole eziandio che noi rispondiamo d’ogni nostro fallo e ne portiamo la giusta pena. C’è un libro, il libro della nostra coscienza ed il libro della sapienza infinita di Dio, sul quale tutto si scrive, ciò ch’Egli ci dà e ciò che noi tacciamo, pensiamo o diciamo. Nulla sfugge, nulla si dimentica, nulla si cancella; quei due libri sono indistruttibili, e contengono l’intera storia della nostra vita, e secondo il risultato di quelli sarà la mercede o la pena che riceveremo. E questa una verità consolante e insieme terribile; consolante, perché d’ogni opera buona, ancorché minima, avremo il premio; terribile, perché di ogni atto, di ogni parola men che retta avremo il condegno castigo. Quel libro lo scriviamo noi stessi, di nostra mano, in ogni istante, bene o male che sia, e lo scriviamo, lasciate che così mi esprima, con la punta di diamante della nostra libera volontà. Prima della resa finale dei conti, noi possiamo cangiare le partite dei debiti col pentimento, e possiamo anche cancellare i crediti, le opere buone con i peccati; in breve è in poter nostro scrivere su quei libri ciò che vogliamo, mutare le parti, aumentare crediti o debiti: il risultato ultimo si vedrà quel dì che il Padrone ci dirà: “Rendi conto delle opere tue opere”. Questo pensiero ci stia sempre dinanzi agli occhi della mente, affinché ci sia uno stimolo continuo a cancellare i debiti ed accrescere i crediti, fuggendo i peccati e compiendo opere buone. – Ma ripigliamo la parabola.”Avendo cominciato a fare i conti, fu presentato al re un servo, che era debitore di diecimila talenti. „ Debito enorme, ma che rappresenta purtroppo secondo verità i debiti che noi abbiamo con Dio. Miei cari! Abbracciamo con uno sguardo rapido tutti i peccati per noi commessi dal dì che acquistammo l’uso della ragione fino ad oggi, per il corso di venti, quaranta, sessant’anni. Tutti i peccati di pensieri, di desideri, di parole, di opere, di omissione, commessi da giovinetti, da uomini, da vecchi, in casa, da soli, in compagnia, in scuola, in mezzo alla società, nei vari uffici tenuti, contro Dio, il prossimo, nell’adempimento dei nostri doveri e andate dicendo. Mio Dio! Qual numero sterminato! Il pensiero ne rimane oppresso. E dire che questi peccati, in quanto sono commessi da noi, creature miserabili, contro Dio, suprema Maestà e sommo nostro benefattore, e commessi sotto i suoi occhi, e commessi per un vile piacere, e commessi abusando dei doni suoi, hanno una cotale infinita malizia! Tutto questo considerando, non è vero, o cari che, per ragione del numero e della gravezza, i nostri peccati costituiscono un debito immenso con Dio e rispondono pur troppo ai diecimila talenti, che il servo doveva al suo padrone? Scoperto il gran debito, il servo sventurato non lo poteva negare; era l’opera sua: bisognava pagarlo. Ma come mai un povero servo poteva pagare quel debito colossale? Era impossibile. Così, o dilettissimi, è impossibile a noi, con le sole nostre forze, pagare i debiti che abbiamo con Dio. La speranza di cancellarli per noi è tutta riposta nella smisurata bontà di Dio, che voglia benignamente condonarceli. Continua la parabola: “Non avendo il servo con che pagare, il padrone comandò che egli stesso, il servo, la moglie ed i figli e tutto quanto aveva, fosse venduto, e così fosse pagato. „ Noi inorridiamo udendo che per pagare i debiti potessero essere venduti, non solo il servo debitore, ma la moglie ed i figli, e ci sembra ed è veramente spaventosa crudeltà. Ma è da avvertire che Gesù Cristo espone una parabola, e non approva, né disapprova siffatta enormità, come non approvò, né poteva approvare il furto del fattore ingiusto. – È da sapere, che le antiche legislazioni davano il diritto ai creditori, non solo di gettare in carcere i debitori impotenti a pagare, ma di venderli e di vendere eziandio le loro mogli ed i loro figli; e questa legge pare fosse in vigore, in alcuni casi almeno, anche presso gli Ebrei (Vedi il libro IV dei Re, capo IV, 1, seg.). Qui torna acconcio ricordare la sapientissima regola, che quanto alla spiegazione delle parabole ci dà S. Giovanni Crisostomo; la regola è questa, che non si vuol sempre applicare ogni parte della parabola in guisa, che quadri rigorosamente alla verità. Se qui si volesse spingere il significato della parabola in modo da applicarla in ogni sua parte, dovremmo dire che dei debiti del marito e del padre ne debbono rispondere anche la moglie ed i figli, e che questi possono essere puniti per i peccati commessi da quelli, che sarebbe orribilissima iniquità. Noi sappiamo che i peccati sono personali, e che ciascuno deve rispondere dei peccati proprii e non di quelli commessi da altri, siano pure persone tra loro legate da vincoli strettissimi. Gesù Cristo, nella parabola, come dissi, narra la cosa come avveniva o poteva avvenire, senza approvarla. All’udire quel terribile comando che fece, che disse il misero servo? È facile immaginarlo: non gli restava che una cosa sola da tentare, e la tentò. “Cadendo a terra, si buttò dinanzi al padrone, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ È il grido che esce dal cuore di chi sente la propria impotenza, del naufrago, che si dibatte in mezzo al mare, che non ha speranza se non nell’altrui soccorso. “Abbi pazienza per me — Patientìam habe in me. „ Egli non nega il suo debito, non lo diminuisce, non si scusa, solamente implora pietà. In tutto questo, noi pure possiamo e dobbiamo imitare questo servo: dobbiamo riconoscere e confessare il cumulo dei nostri peccati, guardarci dallo scusarli come che sia, riporre ogni nostra speranza nella misericordia di Dio, e gridare a Lui: “Abbi pazienza, abbi pietà di me, o Signore. „ Il servo, in quelle distrette crudeli, sotto la minaccia del padrone, era sincero? La lingua era essa fedele testimonio del cuore? Ciò che subito dopo avvenne, ci mostra che solo il timore gli strappò di bocca quel grido affannoso, e che nel cuor suo non v’era ombra di pentimento. Del resto nelle parole che aggiunge: “Io ti pagherò tutto „ si scorge una bugia. In qual modo, egli, povero servo, carico di famiglia, poteva nutrire filo di speranza di potere quandochessia pagare per intero quel debito immenso ? Non era meglio per lui confessare la propria impotenza ed appellare umilmente alla bontà e carità del padrone, anziché promettere ciò che non avrebbe potuto far mai? Parla di voler osservare giustizia quando non può avere scampo che nella misericordia! Ecco l’orgoglio male dissimulato. Il padrone a quella vista, a quel grido, a quella scena, s’impietosì: Misertus autem dominus servi illius. Lo rimirò con occhio di compassione, e senza badar punto alla promessa del misero: “Io pagherò tutto, „ non ridusse il debito a quelle proporzioni che rendevano possibile al debitore il pagamento, che sarebbe stato larghezza grande, ma, secondando il suo cuore, gli condonò tutto, nulla esigendo: Et debitum dimisit ei. Quale generosità! Quanta carità in questo padrone! Essa ci rappresenta al vivo la carità veramente infinita di Dio verso di noi peccatori. Noi ci gettiamo ai piedi di Lui nella persona dei suoi ministri: riconosciamo la moltitudine dei nostri debiti, dei nostri peccati, e la impossibilità di soddisfare alla sua giustizia: noi gli diciamo: Signore, abbiamo peccato: le nostre iniquità sono senza numero: siamo pentiti, perdonateci; — ed Egli, il buon Dio, ci condona ogni debito e ci rimanda consolati. – Ho detto che quel servo malvagio non era pentito in cuor suo, come apparisce da ciò che narra subito dopo il Vangelo. Come dunque quel padrone gli condonò il debito, egli che doveva leggergli in cuore e che doveva conoscere ciò che, uscendo di là, avrebbe fatto? Nel Vangelo non è scritta parola che non giovi a nostra istruzione. Dio certamente fugge nel nostro cuore e vede se siamo pentiti dei nostri peccati allorché ci inginocchiamo ai piedi del suo ministro; se, pentiti, alla parola del suo ministro che dice: “Io ti assolvo, „ aggiunge la sua, e l’anima è sciolta da ogni peccato. Ma se noi diciamo con la lingua: Siamo pentiti, — e il cuore non risponde, Dio, che vi legge, alla parola del ministro: “Io ti assolvo, „ non aggiunge la sua, e noi partiamo con tutti i peccati sull’anima e forse con l’aggiunta d’un sacrilegio, se mentiamo alla nostra coscienza. In questo luogo del Vangelo, il Re, o Padrone, che raffigura Dio, volle fare la parte del ministro e mostrare che si appagava della confessione esterna, quasi non vedesse dentro dell’anima, e ciò, credo io, a conforto di quanti in suo luogo esercitano questo ufficio di misericordia. Il servo, avuta l’intera condonazione di tutto il suo debito, uscì e se n’andava a casa. Noi ci immaginiamo quell’uomo pieno di gioia, di gratitudine verso il generoso padrone, e, come avviene in questi casi, con l’animo tutto inchinevole ad atti caritatevoli e magnanimi. Ma non era così. Appena uscito, quel servo, a pochi passi del padrone, “trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari, e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: Rendi ciò che mi devi. „ Chi di noi non sente ribollire il sangue e fremere l’anima tutta al vedere questo servo scellerato, che due minuti dopo aver avuta la piena condonazione del suo debito sì enorme, afferra per il collo il suo compagno e vuole il pagamento di poche lire, che gli sono dovute? La carità avuta dal padrone gli imponeva di usarla col suo conservo. Questo, colto all’improvviso, a quel modo, non seppe far meglio che imitare il suo creditore stesso, e cadendo anch’egli ai piedi, non del padrone, ma del suo compagno, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ All’udire dalla bocca del conservo quelle stesse parole ch’egli aveva rivolte al padrone con esito sì felice, al vedersi ai piedi il compagno in quell’atteggiamento stesso ch’egli aveva tenuto col padrone; a quella promessa di pagar tutto, che si poteva credere sincera, perché possibile, anzi facile l’adempirla, trattandosi di sì lieve somma, pare che il feroce servo dovesse sentirsi disarmato e dovesse o accontentarsi della promessa, o rimettere, come era più naturale, tutto il debito. Non fu così. A quell’umile preghiera del conservo parve maggiormente sdegnarsi: non volle saperne nemmeno di aspettare; se ne andò e lo cacciò in carcere finché restituisse il debito. Il contrasto tra la condotta del padrone col servo debitore, e laèàp condotta del servo debitore con il suo compagno è così mostruoso, che lo spendervi intorno più parole è affatto superfluo: è cosa che si sente più che non si possa dire. Qui viene spontanea una applicazione pratica assai importante. Dio ha condonato a noi, a ciascuno di noi, il gran debito dei nostri peccati, e quante volte! E noi, abbiamo noi perdonato ai fratelli nostri, che per avventura alcuna volta ci offesero? Le offese da questi recateci sono cose lievissime confrontate a quelle che noi abbiamo fatte a Dio, sia pel numero, sia per la gravezza. Ebbene: Dio ha perdonato a noi, e forse noi abbiamo rifiutato di perdonare al fratello! Il Creatore perdona alla creatura e la creatura non perdona alla creatura! L’infinita Maestà perdona a questo miserabile servo, e questo miserabile servo ricusa il perdono al fratello, suo conservo! E se perdona tal volta con la lingua, non perdona sempre col cuore, e cova in fondo all’anima il rancore, l’astio e il segreto desiderio della vendetta, che si rivela nella parola amara, nel fare altezzoso, nell’atto di dispetto! – Ritorniamo alla nostra parabola. “I compagni di quel servo videro ogni cosa e ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono quanto era accaduto. „ Questo particolare della parabola è come l’ornamento della stessa, ed aggiunge naturalezza al fatto; il padrone, che è Dio, non ha bisogno che altri gli faccia conoscere le cose. “Il padrone allora chiamò quel servo, e gli disse: “Servo malvagio! Io ti condonai tutto quel debito, perché me ne pregasti: non era dunque giusto che tu pure avessi pietà del tuo conservo, com’io l’ebbi di te? „ Rimprovero più giusto e più meritato di questo non si può immaginare. ” E il padrone sdegnato lo mise in mano ai carcerieri finché restituisse tutto il debito. „ Il carcere qui significa senza dubbio il carcere eterno, troppo dovuto a quel servo spietato ed ingratissimo verso il suo Signore. Questa sentenza del padrone non è senza una difficoltà, ed è mestieri snodarla. Noi sappiamo che allorquando Iddio ci perdona i peccati, questi sono perdonati per sempre, e quando pure per nostra sventura ricadessimo negli stessi od in altri, quelli non rivivono più mai, né ce ne chiederà conto. Come dunque avviene che qui il padrone condanna il servo per quei debiti, o peccati, che gli aveva generosamente condonati? Come si spiega? Forse è da intendere la parabola in questo senso, che il servo crudele non era pentito del fallo, e perciò non aveva ricevuto il perdono che in apparenza: la sua atroce durezza col conservo mostrò pubblicamente che pentimento non c’era, e quindi gli si infligge il castigo prima minacciato. Forse, e meglio si può intendere in quest’altro modo: il debito era rimesso, cancellati tutti i peccati: ma la crudeltà feroce usata col conservo era sì detestabile delitto, che equivaleva nella gravezza al debito già prima condonato, e perciò traeva sul miserabile lo stesso castigo. – Qual è l’insegnamento di questa parabola? È tutto racchiuso nell’ultima sentenza sì bella e sì chiara: ” Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello. „ Volete voi da Dio il perdono dei vostri peccati? Perdonate ai fratelli vostri le offese che vi hanno fatto. Non volete voi perdonare? Neppure il Padre perdonerà a voi. Torna qui quella sentenza del Vangelo: “Perdonate e sarete perdonati; „ e l’altra della orazione insegnataci da Gesù Cristo stesso: ” Perdonate a noi i nostri peccati come noi perdoniamo ai nostri offensori. „ E non vi sfugga, o cari, quella parola assai significante, che si incontra nella sentenza del divino Maestro: “Se non condonerete di cuore. „ Intendete? Il perdono non deve essere sulle labbra e negli atti esterni, ma deve sgorgare dal cuore: De cordibus vestris: là risiede, come la colpa, così la virtù.

Credo

Offertorium
Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit. [Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta
Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui. [Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericodia restituire a noi la salvezza.]

Communio
Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus. [L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio
Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.
[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

 

 

 

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.