DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2018)

Domenica II dopo Pentecoste (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marinetti ed. vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e con la verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’Apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, si direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia, ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio portato sulla terra da Gesù Cristo, è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio, odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi Io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi Cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi, generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori Cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi Cristiani che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, ma se noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo, che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante, all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi. Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. É vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità, comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vita ai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’

anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ordine della carità vuole che amiamo noi stessi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non lo sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se lo fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma l’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo con la limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano l’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata

a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma con le opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

[Ut supra, omel. VI]

Gesù disse: Un certo uomo fece una gran cena ed invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero perché tutto era pronto. Ma quelli tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andarla a vedere: te ne prego abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo disse: Ho menato moglie e perciò non posso venire. E tornato il servo, ogni cosa riferì al padrone. Allora il padrone di casa indignato, disse al servo: Esci tosto nelle piazze e per le strade della città e mena qua i mendici, i monchi, gli storpi e i ciechi. Poi il servo gli disse: Signore, si è fatto come hai comandato e vi è ancora posto. E il padrone disse al servo: Va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare affinché la mia casa si riempia. Perché io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati assaggerà la mia cena „ .

Evidentemente la Chiesa ci fa leggere la parabola che vi ho recitata, in questa Domenica che corre nell’ottava del Corpus Domini, perché in essa vede in qualche modo adombrato, almeno indirettamente, il banchetto eucaristico. Somigliantissima a questa parabola di san Luca, a quella che troviamo nel capo XXII di S. Matteo, a talché parve ad alcuni interpreti che in sostanza le due parabole fossero una medesima parabola con alcune leggere differenze. Ma se le raffrontiamo accuratamente tra loro, è agevole il vedere che sono distinte, e che Gesù le recitò in tempi e luoghi diversi, con diverso intendimento, e che gli aggiunti diversi non permettono di confonderle in una sola (S. Ireneo e dopo lui il Maldonato ritennero identica la parabola riferita dai due Evangelisti con qualche differenza. Forse fu la stessa parabola proposta due volte da nostro Signore con qualche varietà e con diverso fine). Gesù, nei versetti che precedono la nostra parabola, aveva esortato gli uditori di mettersi sempre all’ultimo posto e di invitare ai conviti quelli che, essendo poveri, non possono ricambiare, perché, in tal modo operando, la mercede sarà data da Dio nella vita futura. Si comprende facilmente il perché di questa dottrina di nostro Signore, quando si avverta ch’Egli la espose mentre si trovava a mensa presso uno de’ principali farisei che l’aveva invitato. Udita quella dottrina, un tale che sedeva a mensa e di cui il Vangelo non ci lasciò il nome, esclamò: “Beato colui che siederà alla mensa nel regno di Dio. „ Allora Gesù, cogliendo occasione da quelle parole, disse la parabola che siamo per spiegare e nella quale rappresenta il regno di Dio sotto la immagine, a Lui famigliare, d’un grande convito. Ora a noi, o carissimi. – “Un certo uomo fece una gran cena e invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero, perché tutto era pronto. „ Chi è desso quest’uomo, questo signore, che fa la gran cena? Chi rappresenta? Indubbiamente esso rappresenta Dio, o l’uomo-Dio, Gesù Cristo. E la cena che cosa adombra? Può adombrare la Chiesa militante: può adombrare eziandio la S. Eucaristia; ma sembra più naturale il dire che raffigura la vita eterna, la gloria celeste, a cui tutti sono chiamati gli uomini. Voi vedete che in questa senso la cena racchiude indirettamente la Chiesa militante e la S. Eucaristia, perché nessuno può aver parte a questa cena se prima non sia entrato nella Chiesa e non abbia partecipato alla Eucaristia. Si dice cena, perché si dà sul chiudersi della vita presente, che rispetto all’eternità è come un giorno, perché è come la mercede dovuta a chi ha lavorato tutto il giorno. Si dice poi cena grande, sia perché ivi tutti sono invitati, sia perché dura eternamente, sia perché la ricchezza di quella cena non ha l’eguale per la copia dei beni che faranno sazio ogni nostro desiderio. Il servo, che a nome del padrone chiama al banchetto gli invitati, rappresenta i profeti, gli Apostoli, tutti i continuatori del ministero apostolico, tutti i ministri della Chiesa, per mezzo dei quali Dio, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, fa udire la sua voce ed invita tutti alla Cena dell’Agnello, all’acquisto cioè, della vita eterna. Ho detto che Dio invita; alla gran cena; ma taluni di voi potrebbero farmi osservare che il sacro testo dice: molti e non tutti — Vocavit multos. — Ma voi sapete la parola molti significa talvolta tutti, la moltitudine, e veramente tutti sono molti, e qui senza dubbio, tutti sono invitati alla gran cena. E non è verità di fede che Iddio vuol salvi tutti gli uomini? che Gesù Cristo è morto per tutti? che Dio non vuole che alcuno perisca? La stessa ragione non ci dice che Dio, infinita bontà, deve volere la salvezza e la felicità di tutti gli uomini senza eccezione? Ora se Iddio, quanto è da sé, non chiamasse tutti alla sua cena, non tutti li vorrebbe salvi, giacché quelli che non invita, non possono venire a lui, e non venendo, perirebbero necessariamente. Dio pertanto invita, chiama  tutti al convito della vita eterna: vari sono i modi, ma non uno è escluso. Dio chiama con la parola dei profeti, dei patriarchi, degli apostoli, dei ministri: Dio chiama con l’esempio, coi rimorsi, con le ispirazioni interne, direttamente, indirettamente, coi libri, con le figure, con la voce della coscienza, in mille svariatissime maniere, note a Lui solo, ma invita, ma chiama tutti; e chi non fosse chiamato potrebbe dirgli: Signore! io non potevo venire alla vostra cena senza essere chiamato da Voi; Voi non mi avete chiamato e perciò non sono venuto: se colpa v’ è, non è mia, ma Vostra, perché non faceste giungere a me la vostra voce. Ecco perché Gesù nella parabola, non dice che l’invito fosse rifiutato ad un solo, verità che più innanzi nella parabola sarà più  manifesta. – Checché sia degli altri, vi è tra voi un solo che non sia stato invitato alla cena della vita eterna e ripetutamente e con le più calde istanze? Dio non vi ha prevenuto con le sue grazie, facendovi nascere in seno alla Chiesa? Non ha circondata la vostra infanzia, la vostra fanciullezza, la vostra giovinezza, la vostra virilità, la vostra vecchiaia de’ suoi favori?  Quante volte il servo del gran Padrone è venuto a voi, a chiamarvi, ad invitarvi alla cena? Come avete risposto? Alla vostra coscienza la risposta… – Gesù prosegue la sua parabola: “Gli invitati, tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. „ Voi sapete, che rifiutare un invito grazioso ed autorevole senza motivo proporzionato, è offesa che si fa, e tanto maggiore quanto è maggiore la dignità della persona che invita. E non dirle col fatto che non curiamo l’onore d’essere suoi commensali, che preferiamo i nostri comodi. Che scusa addussero gli invitati? – Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andare a vederla: te ne prego, abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo: Ho menato moglie e perciò non posso venire. „ – Gli invitati che rifiutano di recarsi alla cena sono distinti in tre categorie e in queste tre categorie gli interpreti vedono indicate le tre concupiscenze capitali, che secondo S. Giovanni signoreggiano il mondo: la concupiscenza degli occhi, la concupiscenza della carne  e l’orgoglio della vita, ossia l’amore sregolato dei beni materiali, dei piaceri sensuali e della propria eccellenza. E in vero tutti i motivi o, meglio, i pretesti, pei quali l’uomo si sottrae agli inviti della grazia e si rifiuta di sedere al banchetto della vita eterna, si riducono costantemente a questa triplice concupiscenza, che ci incatena ai beni della terra, ai piaceri del corpo e all’orgoglio del proprio spirito. – “Che altro significa la villa, scrive S. Gregorio, se non i beni della terra? Egli se ne andò a vedere la villa, perché aveva tutti i pensieri e tutti gli affetti nei beni materiali (Homil. 36 in Evangel.). „ O miei cari figliuoli! quale spettacolo si dispiega continuamente sotto dei nostri occhi! Che fanno essi tutti o quasi tutti gli uomini? In mille modi essi corrono dietro senza posa ai beni della terra: chi attende al commercio, chi all’industria, chi ad acquistare campi e farli fruttare: tutti sono intesi ad accumulare danari, strumento del godere! È forse per questi beni, che Iddio ci ha creati? E quando pure potessimo procacciarli e possederli, vi troveremmo noi la felicità, la vera felicità, della quale andiamo in cerca? Oh! certamente no. Il nostro cuore, fossimo anche padroni del mondo intero, non direbbe mai basta, non troverebbe mai la felicità che domanda, sarebbe sempre inquieto e desolato. Perché dunque correre dietro a questi beni della terra, volgendo le spalle ai messi del Signore che ci invita alla sua cena, al godimento di quei beni che nessuno potrà più mai rapirci e che sazieranno per sempre tutti i desideri del nostro cuore? Questi beni della terra, dei quali siamo sì ghiotti, ci saranno irrevocabilmente tolti, al più tardi, alla nostra morte, e più li avremo amati e più acuto e straziante sarà il dolore di doverli lasciare. Dunque è sapienza lo staccare da essi il cuor nostro, prima che la morte ce ne divella a viva forza; è sapienza collocarlo là dove vivrà eternamente e dove troverà la vera e perfetta felicità. Nessuno pertanto di noi risponda villanamente a Dio, che ci chiama all’eterno convito: Ho comperato una villa, devo andare a vederla. –  – E l’altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli. „ In costui vediamo designati ancora quegli uomini che sono ingolfati negli affari mondani, come e peggio di quelli accennati sopra, giacché i buoi servono a coltivare la terra e sono congiunti, per naturale associazione di idee, alla terra ed ai proprietari della stessa. Tra la classe di uomini indicata sopra e quella qui designata, se male non vedo, corre quel divario, che corre tra i padroni o proprietari della terra ed i semplici coloni. Quei primi dicono: Noi abbiamo i nostri poderi, le nostre terre da vedere e dobbiamo sorvegliarne i lavori: sono i ricchi e i signori, che passeggiano pei loro campi, pieni d’orgoglio e dicono con altera compiacenza: tutto questo è mio. Questi secondi sono gli operai, gli uomini del lavoro, che stanno a’ cenni di quegli altri. Il lavoro è  dovere di tutti e nessuno può sottrarsi senza violare quella legge intimata al primo uomo: “Tu mangerai il tuo pane col lavoro delle tue mani e col sudore della tua fronte. „ Ma questo lavoro manuale, non deve mai impedire un lavoro troppo più nobile e necessario, il lavoro della mente e dello spirito che deve nutrire l’anima nostra. — Datemi un contadino, un operaio qualunque, che attendano solamente a svolgere la gleba del campo,  che siano sempre là curvi sugli istrumenti del lavoro, senza ricordarsi mai di Dio, della preghiera, dell’anima: per i quali la Domenica non differisce dal lunedì: i quali a chi ricorda loro che oltre il corpo vi è l’anima, che oltre il padrone terreno c’è il Padrone celeste, Iddio, e che bisogna santificare la festa, udire la parola di Dio, pregare e accostarsi  ai Sacramenti, rispondono: abbiamo altro da fare; ci attendono i campi, ci aspetta l’officina; questo contadino, questo operaio vi rappresentano a meraviglia l’uomo del Vangelo che invitato alla cena risponde: “Ho comperato cinque paia di buoi e vo’ a provarli. „ O carissimi figliuoli! non imitate costoro. Chiamati alla Chiesa, alla preghiera, al convito eucaristico, pegno del convito eterno del cielo, rispondete: Eccoci, veniamo. Al corpo la sua parte ed è ben larga, e all’anima la sua, che è ben poca cosa rispetto a quella del corpo. –  “Il terzo rispose: ho menato moglie e perciò non posso venire. „ S. Gregorio, in quest’uomo che rifiuta di intervenire al convito per ragione d’aver menato moglie, vede raffigurato l’uomo voluttuoso: Quid per uxorem nisi voluta carnis accipitur? (Hom. 36). È terribile, la sentenza d’un gran santo moderno, conoscitore perfetto della società, che disse: quelli che si perdono, o si perdono per il peccato di lussuria o non, senza di esso. „ Purtroppo è così. Dove sono, o mio Dio, quegli uomini o quelle donne che abbiano serbato monda l’anima loro in mezzo a questo contagio universale? Dove sono quelle anime che simili alla colomba noetica, abbiano aleggiato su questa terra senza posare il piede o imbrattare le candide piume sul fango che la copre? Voi solo, o Signore, lo sapete; ma devono essere ben poche, e perciò tanto più care a’ vostri occhi. Dilettissimi! entrate per pochi istanti nei penetrali del cuore, interrogate la vostra coscienza, e alla luce della fede, vedete se per avventura l’amore disordinato dei piaceri, la passione sensuale, quella che S. Giovanni chiama concupiscenza della carne, vi tenesse legati alla terra e vi impedisse di accorrere al banchetto celeste. Se così fosse, non perdiamo tempo: rompiamo questa catena, recidiamo queste funi, finiamola con queste tresche, con queste voluttà indegne di uomini, quanto più di Cristiani! Questa concupiscenza della carne è di natura sì rea, che lo schiavo di essa non si cura nemmeno di scusare il suo rifiuto all’invito del Signore, come fecero gli schiavi delle altre passioni. Questi dissero al servo che li invitava: ” Te ne prego, abbimi per scusato, „ e mostrarono nel rifiuto qualche cortesia; doveché quello bruscamente, villanamente rispose: “Ho menato moglie: non posso venire. „ La passione brutta ha questo di proprio, che soffoca i sensi più nobili del cuore, fa tacere gli affetti stessi più naturali e rende le anime volgari, abbiette, ingrate e peggio. “Via dunque, vi dirò con S. Agostino, via le vane e cattive scuse e andiamo al convito, ove le anime nostre saranno ristorate e nutrite. Non ci sia di ostacolo l’alterigia, non ci gonfi curiosità illecita, non ci metta paura la maestà di Dio, e non ce lo impedisca la voluttà della carne: andiamo e impinguiamoci (In Joan. c. 2, apud a Lapide). „ Non si vuole dimenticare, o carissimi: questa parabola fu detta da Cristo in un convito, offertogli da un principale tra i farisei, e indirizzata specialmente a quelli che l’ascoltavano, e in generale agli Ebrei che si mostravano ritrosi alla sua parola. Nei tre chiamati alla cena sono dunque adombrati direttamente gli Ebrei, e apprendiamo da Cristo che il loro rifiuto si deve attribuire all’orgoglio, all’amore delle ricchezze e alla propensione ai piaceri del senso. – Gli invitati rifiutarono di venire alla cena: resterà dunque questa deserta? La mensa sì talmente imbandita non sarà dunque onorata da commensali, a scorno del padrone? Tolga Iddio che così avvenga. “Il padrone di casa  indignato disse tosto al servo: Esci tosto per le piazze e per le vie della città, e mena qua i mendici, gli zoppi, i monchi ed i ciechi. „ I primi invitati appartenevano, come chiaro dal tutto insieme, alle classi ricche e ragguardevoli, e rappresentavano gli scribi, i farisei e in generale gli Ebrei, i quali, ammaestrati dai profeti e dalla legge, potevano conoscere facilmente la verità, rispetto ai poveri Gentili, avvolti in ogni maniera di errori. Ebbene: poiché i ricchi, i dotti d’Israele non vogliono venire alla cena imbandita dal padrone, cioè da Cristo, si chiamino al primo luogo i poveri, gli ignoranti, i reietti, questi mendici e storpi e ciechi; così si adempie la parola di Cristo, che disse: “I pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno dei cieli, e i primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi. „ E veramente fu così: mentre i peccatori, i publicani, le peccatrici, i veri storpi e mendici, lasciata ogni cosa, seguivano Gesù, gli scribi e i farisei, i grandi, i ricchi, non si curavano di Lui, lo sprezzavano, lo rigettavano, lo perseguitavano: mentre Israele, nella sua grande maggioranza, infatuato nei sogni d’una mondana potenza, volgeva le spalle a Cristo, i Gentili pieni di docilità e di fede correvano a sedersi alla sua cena. I figli del regno per il loro orgoglio, per le loro cupidigie uscivano  dalla casa del Padrone, e d’ogni parte vi entravano, al loro luogo, i Gentili nella semplicità della loro fede. É ciò che avvenne in tutti i secoli ed avviene anche di presente. S. Paolo, fin dai suoi tempi, scriveva che non erano molti i sapienti, non molti i potenti, non molti i ricchi, non molti i nobili che seguivano il Vangelo (I. Cor. c. l , vers. 26); Origene ripeteva lo stesso due secoli dopo, e noi pure in qualche senso lo dobbiamo riconoscere ai nostri giorni, sono quelli che riempiono le nostre chiese,  che ascoltano la parola di Dio, che si accostano ai Sacramenti, che osservano le pratiche religiose? Generalmente siete voi, o figli del popolo, uomini del lavoro, voi che vivete col sudore della vostra fronte: raro è che i ricchi, gli uomini della scienza, vera od apparente che sia, si vedano in chiesa mescolati con voi e facciano pubblica professione di fede. Anch’essi sono chiamati alla cena evangelica e chiamati forse prima e più efficacemente di voi; ma l’orgoglio della gloria, la superbia e le terrene cupidigie, che si accompagnano sì facilmente alle ricchezze, fanno loro rispondere: Non possiamo venire. Non possum venire. Non scandalizzatevi di questi nostri fratelli, non scoraggiatevi di trovarvi quasi tutti poveri a questa cena: Gesù Cristo lo predisse, e la sua parola non può cadere.  – ” Poscia il servo, così prosegue il Vangelo, disse al signore: Signore, si è fatto come hai comandato, e vi è ancor posto. „ Certamente il numero degli eletti è noto a Dio tantoché a quella cena eterna non siederà non più od uno meno di quelli, che nella sua sapienza ha destinato. Perciò le parole di questo servo, che riferisce esservi ancor posto, non possono lasciar luogo al sospetto, che Dio ignori il numero degli eletti; sono aggiunte soltanto per ornamento della parabola e per mostrare che Dio chiama gli uomini alla salute eterna in vari modi, largheggiando più o meno della sua grazia. – Il padrone disse al servo: va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare, sicché la mia casa sia ripiena. „ È questa la terza chiamata, che per ragione della estensione e dei modi pressanti mette in maggior luce la bontà del padrone di casa. Vuole che il servo percorra non solo le piazze e le vie della città, ma perfino le siepi fuor dell’abitato, e quanti ne trova di poverelli e zoppi e ciechi, e tutti li inviti non solo, ma li costringa ad entrare nella sua casa e prendere parte alla cena. Questa parabola prova ad evidenza come Dio voglia la salvezza di tutti, perché chiama e ripetutamente e in qualunque luogo o regione essi si trovino, senza badare alla loro condizione e miseria. Ponete mente a quella  parola fortissima “costringili ad entrare, compelle intrare—. Forseché Dio costringe ad entrare nella Chiesa e nel regno celeste? Forse che violenta la libertà nostra? No, mai: la libertà è dono di Dio e Dio non si ripiglia mai i suoi doni: anzi sta scritto che Iddio ci tratta con riverenza. Se Dio costringesse o forzasse comecchessia la nostra libertà, cesserebbe ogni nostro merito e perderebbe ogni valore il nostro omaggio, la nostra obbedienza. E verità di fede che noi possiamo resistere alla voce ed alla grazia Dio, e che quando la secondiamo, la secondiamo liberamente. Quella parola pertanto forte — costringili — ad entrare, significa chiamata energica, un impulso gagliardo, una grazia straordinaria, ma non mai un vero costringimento, che è impossibile, che farei torto a Dio ed a noi. La libertà nostra, che è riposta nella facoltà di scegliere, per la quale siamo arbitri, padroni dei nostri atti, è il maggior dono che Iddio ci abbia fatto, quello per il quale siamo a Lui più simili. Di questa libertà noi andiamo alteri, e guai se altri la offende od anche solo minaccia di offenderla. Chi non esalta e magnifica la libertà? Che non si fa per difenderla e conservarla? Eppure, vedete contraddizione! non sono pochi i dotti che, negando l’anima e riducendola ad una dote, funzione o qualità della materia, come il calore d’un corpo, negano necessariamente la libertà e fanno dell’uomo un essere che non può operare altrimenti di quello che fa, simili alla pianta che germoglia, fiorisce e fruttifica bene o male sotto i raggi del sole, simile al bruto che si regola coll’istinto! Tanto orgoglio congiunto a tanta bassezza! Levare a cielo la libertà, che poi si nega! Non apriamo le orecchie agli insegnamenti di costoro, che fanno ingiuria in pari tempo alla fede alla ragione e teniamo fermamente che abbiamo l’altissimo dono della libertà e che dell’uso suo dovremo rendere strettissima ragione. Taluno può forse meravigliarsi che il padrone di casa abbia usata quella parola sì forte: — Costringili ad entrare, — ma vi è un tale costringimento amoroso, che non ferisce la libertà, e di questo senza dubbio parla il Vangelo. – Una persona a voi cara e che voi altamente stimate vi invita, vi chiama presso di sé: voi non volete aderire: essa insiste, ripete l’invito, vi prega, vi piglia per mano, dolcemente vi tira, tanto fa e dice che finalmente fate il voler suo. Senza dubbio, quella persona non vi ha forzato nel senso rigoroso della parola, e voi potevate pur sempre rifiutare; ma è pur vero che altri potrebbe dire, che vi ha fatto dolce violenza e in qualche modo, vi ha costretto a fare il suo desiderio. Questa espressione “costringili ad entrare, „ ci fa conoscere e sentire al vivo quanto sia cocente il desiderio di Dio che tutti partecipino alla sua cena. – Si chiude la parabola con quella formidabile sentenza di Cristo: “In verità vi dico che nessuno di quelli che furono invitati, gusterà la mia cena. „ Furono invitati, rifiutarono villanamente: è dunque giusto che non assaggino quella cena che non vollero. Evidentemente, qui si parla della vita eterna, nella quale non potranno giammai entrare quelli che volontariamente si esclusero da se medesimi, respingendo i ripetuti ed amorosi inviti del Padrone. Deh! che nessuno di noi si trovi nel numero di quegli infelici, che col loro rifiuto al generoso invito di tanto Padrone, meritarono quella terribile condanna: “Io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati, assaggerà la mia cena. „

Credo …

Offertorium

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza

LO SCUDO DELLA FEDE (XIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

L’ESISTENZA DI DIO.

— L’esistenza di Dio dimostrata dall’esistenza nostra. — Dall’esistenza del mondo. — Dall’ordine dell’universo e del suo movimento. — Dal comune consentimento dei popoli. — Da coloro stessi che la negano.

— Capisco bene, che dopo d’esser stato convinto che devo credere a tutte le verità che insegna la Chiesa Cattolica, non avrei più da fare difficoltà di sorta per nessuna di esse. Ma il desiderio di istruirmi sempre più e di togliermi dalla mente ogni falsa idea anche intorno ai punti particolari della dottrina cristiana mi spinge a farmi da capo, certo che la sua bontà in rispondermi non verrà meno.

Ciò che tu desideri, lo desidero ancor più io per giovarti quanto più mi è possibile. Domanda perciò, esponi liberamente ogni dubbio, obbietta tutto quello che credi opportuno al tuo fine anche riguardo ai punti particolari della dottrina cristiana.

— Quale sarebbe adunque la prima verità da credere?

L’esistenza di Dio. S. Paolo dice chiaro a nome del Signore che chi vuol andare a Lui deve credere anzitutto che Egli esiste (V. Lettera agli Ebrei, Capo XI, Versetto 6). Epperò è questa la verità, che appare per la prima nell’insegnamento cristiano, la verità che ad ogni tratto ci è rivelata nelle Sacre Scritture sia dalle manifestazioni (teofanie) continue che di Dio ci sono in esse narrate, sia dalle affermazioni che esse ce ne fanno.

— Ma! Sarà poi vero che vi sia un Dio?

E sarà vero che ci sia tu?

— Oh! di questo mi pare di non dover dubitare.

Ma tu perché ci sei?

— Ci sono perché ci sono stati i miei genitori, che mi han dato la vita.

E i tuoi genitori perché ci sono stati?

— Oh bella questa! Perché ci furono i loro avi.

E i loro avi perché ci furono?

— Ma comprenderà bene che è sempre la stessa storia.

Oh no! questo che dici non è giusto. Se tu prendi in mano una catena e dalla fine di essa vai giù di anello in anello, arriverai certamente al primo. Così se risali da genitori in genitori bisogna pure che tu arrivi a trovare quelli che furono i primi genitori.

— Ciò è verissimo.

Or bene quei primi genitori, dimmi, hanno essi avuti altri genitori?

— Eh! allora non sarebbero più stati i primi.

Dunque come hanno fatto ad esistere quei primi genitori?

— Saran venuti fuori dalla terra.

Bambini o già adulti?

— Saran venuti fuori bambini.

Ma bambini non sarebbero morti subito per mancanza di aiuto?

— Allora saran venuti fuori adulti?

Adulti? Ma ti pare? Il solo pensiero che un uomo ed una donna siano saltati fuori dalla terra già grandi e grossi tutto ad un tratto non ti fa ridere? E poi perché, se ciò fosse avvenuto una volta, adesso non accade più mai?…  Inoltre come si son formati dalla terra questo primo uomo e questa prima donna?

— Si saran formati a poco a poco per mezzo di successive trasformazioni. Per esempio prima saranno stati un pugno di fango e poi questo pugno di fango per certe forze intrinseche si sarà sviluppato e trasformato in una specie di animale, questa specie di animale, ancora molto imperfetto, a poco a poco si sarà trasformato in un altro animale più perfetto, e questo in un altro ancor più perfetto fino a tanto che si sarà arrivati alla scimmia, e dalla scimmia il passaggio all’uomo non deve essere stato difficile.

Ah sì? E come mai da migliaia di anni, che il mondo si trova quale esso è, non si è più mai veduto nulla di simile ? Com’è che le scimmie sono sempre rimaste scimmie? che le rane sono sempre rimaste rane e i pesci sempre rimasti pesci? Com’è che se tu pigli un pugno di fango e lo poni, mettiamo, in una scatola, e lo lasci lì per anni ed anni, per secoli e secoli, rimane sempre un pugno di fango? E poi quando pure fosse come tu dici, non ci sarebbe ancor sempre da spiegare come cominciò ad esistere quel pugno di fango, e donde originarono quelle forze che lo hanno trasformato? Non ricordi il problema dell’uovo e della gallina? Un amico chiedeva ad un altro: Mi sapresti dire qual dei due sia stato prima: l’uovo o la gallina? — La gallina, rispose questi. — E questa gallina, riprese quegli, dond’è venuta? — Da un uovo. — E allora non fu più la gallina ad esistere per la prima. — Già lo vedo anch’io; dunque prima esistette l’uovo. — E questo uovo da chi provenne? — Eh, caro mio, vedo che non si finirebbe più sia a pensarla in un modo sia a pensarla ad un altro. — Dunque bisogna riconoscere che v’è stato chi produsse o il primo uovo o la prima gallina. – Alla peggio pertanto, tornando a noi, non bisognerebbe ammettere che c’è stato chi ha dato esistenza a quel primo pugno di fango e vi ha infuso dentro quelle forze?

— Ah! questo è vero.

Ma siccome il fango rimane sempre fango, perché non ha in sé e per sé nessuna forza che lo faccia passare ad uno stato migliore, siccome le bestie rimangono sempre bestie, siccome non è possibile che un primo uomo ed una prima donna, siano venuti fuori dalla terra né grandi e grossi, né piccoli bambini, e siccome vi è stato un primo uomo e una prima donna, da cui sono venuti al mondo tutti gli altri, perciò bisogna che vi sia stato qualcuno, che abbia formati il primo uomo e la prima donna, e ben si capisce qualcuno dotato di ragione e di volontà, di gran lunga superiore all’uomo, perché nessun uomo può formare per creazione un altro uomo; bisogna insomma che vi sia stato, che vi sia Dio.

— Ma come si fa a credere che ci sia Dio se non si vede?

E tu hai già veduto la tua mente? Hai già veduto l’aria? Hai già veduto la febbre? Eppure dubiti che ci sia la tua mente, che ci sia l’aria, la febbre?

— Ma la mia mente si rivela nei pensieri, che mi vengono, nelle parole che profferisco, nelle azioni che compio; l’aria la respiro, e la febbre posso sentirmela in dosso.

È la stessa cosa di Dio. Gira gli occhi intorno a te, levali in alto, gettali in basso, che cosa vedi tu?

— Vedo millanta cose. Vedo gli uomini, vedo gli animali, vedo le piante, vedo le case, vedo le colline, le montagne, il mare, i fiumi, il sole; di notte vedo la luna, le stelle!

E tutte queste cose che vedi chi le ha fatte?

— Talune, come le case, le hanno fatte gli uomini.

Benissimo! E vedendo una casa qualsiasi, fosse pure una miserabile catapecchia, ti è mai passata per la mente che siasi fatta da sé?

— Allora sarei un matto.

E se saresti matto nel pensare che una casa qualsiasi, fosse pure una catapecchia, si sia fatta da sé, non saresti matto egualmente nel pensare che siansi fatte da sé tutte le altre cose che esistono, e gli uomini non possono aver fatte, come le piante, i fiori, le erbe, le montagne, i mari, i fiumi, gli animali, gli uccelli, i pesci, le stelle, il sole, la luna, eccetera?

— Oh certamente.

Se adunque la luna, il sole, le stelle, i pesci, gli uccelli, gli animali, i fiumi, i mari, le montagne, le erbe, i fiori, le piante, eccetera, non si sono fatte da per sé, non ti rivelano chiaro che deve esistere qualcuno che le abbia fatte? che deve esistere il loro creatore? Che deve esistere Iddio?

— Sì, è vero.

Dicevano dunque bene quei due Arabi, ai quali chiedendosi in qual modo conoscessero che Dio esiste, rispondevano, l’uno: « Allo stesso modo che io riconosco dalle tracce segnate sulla sabbia che vi è passato un uomo od una belva; » e l’altro: « Non è forse l’aurora che mi annunzia il sole? » Epperò quanto giustamente le Sacre Scritture vanno dicendo che « la magnificenza della creazione fa vedere e conoscere all’anima nostra il Creatore d’ogni cosa « (v. Libro della Sapienza, Capo XIII, Versetto 5); e che « i cieli sono come le pagine di un libro, in cui si può leggere la sua gloria, e il firmamento annunzia ch’esso è l’opera delle sue mani, e il nome ammirabile di Dio si legge su tutta la terra » (v. Salmi XVIII e VIII). Ne son prova questi altri fatti. Il filosofo Sintennis prese un bambino e lo condusse in una villa segregandolo del tutto dal mondo e non parlandogli mai di Dio, pensando per tal guisa di poter dimostrare col fatto che l’uomo non arriva di per sé a conoscere l’esistenza di Dio. Ma rimase deluso. Perché cresciuto il fanciullo, un mattino lo vide tra l’incanto della natura indirizzare i suoi passi sopra un poggetto del giardino ed ivi inginocchiarsi e mandare baci al sole e dire: « O tu che sei così bello e che sei più vicino al Creatore di tutte le cose, salutalo per me, e digli ch’io l’amo! » Interrogato quindi il fanciullo chi gli avesse detto che c’era un Dio Creatore del mondo e chi gli avesse insegnato a pregare così, quegli rispose: « Tutto ciò che vedo e mi circonda, tutto mi dice che c’è chi ha fatto il mondo, e che io lo devo adorare. – Anche il giovane Tagliapietre di Saint Point, come narra Lamartine, ad un gentiluomo che lo interrogò, perché mai tutto solo attendesse al lavoro nella sua valletta rispose: « In tutta la mia vita non mi sono mai sentito solo un momento. Si è forse soli, quando si ha Dio al fianco e si è circondati da Dio? ». « Hai ragione, replicava il gentiluomo ; ma tu come hai saputo tutto da te sollevarti fino a questa presenza di Dio e avvezzarti a vedertelo al fianco come un amico? » – « Come ho potuto? Io sono ignorante, ma ho appreso da mia madre e da molte anime buone a conoscere e adorare Iddio. Ma quando anche ciò non fosse stato, quando pure non avessi mai udito il catechismo della Parrocchia, forse che non ci ha un catechismo in ogni cosa che ne circonda, il quale insegna agli occhi e all’anima dei più ignoranti? Il nome di Dio non abbisogna di lettere dell’alfabeto per essere letto. L’idea di Dio s’incontra coi nostri sguardi sin dal primo raggio di luce che ci visita e ci rallegra ».

« Dunque tu vedi Iddio? »

« Se lo vedo! E potrei io esprimere per quali modi e per quante immagini? Ora lo vedo come un cielo senza confine seminato di occhi da ogni parte Ora lo vedo come un mare che non ha lido, donde escono in gran numero isole e terre. Ora lo vedo come un gigante, carico di montagne, di mari, di soli, di mondi addossati l’un l’altro, di cui non sente il peso … Io sono un insipiente, le frasi e le immagini mie sono quelle di un ignorante… Ma io vedo il mio Dio! » – Il Metastasio espresse pur bellamente la stessa verità con queste due belle strofe:

Dovunque il guardo io giro

Immenso Dio, ti vedo;

Nell’opre tue t’ammiro,

Ti riconosco in me.

La terra, il mar, le sfere

Parlan del tuo potere:

Tu sei per tutto, e noi

Tutti viviamo in te.

Ma non è solo l’universo e la sua bellezza che ci mostrino l’esistenza di Dio; ce la mostrano altresì l’ordine, l’armonia, la disposizione ammirabile delle cose tutte. Se tu guardi un bel quadro, una bella statua, se tu consideri la struttura di un magnifico orologio, se tu ammiri un giardino ordinato con vaghissime aiuole, oseresti tu dire che quel quadro si è dipinto da sé e che i colori si sono distesi e stemperati gli uni accanto e sopra gli altri sulla tela fino a che ne è venuto fuori quel quadro stupendo? Oseresti tu dire che nel blocco di marmo, da cui è venuta fuori quella statua, da per sé si sono rotti i pezzi, levate le schegge lisciate le parti, fino a che di per sé si è formata la bella statua? Oseresti tu dire che in quell’orologio si sono collocati a posto di per sé i perni, e dentro di essi le ruote, e le une si sono di per sé incastrate nelle altre, tanto da mettere in movimento quell’orologio! Oseresti dire infine che in quel giardino le aiuole da se stesse si sono ordinate e piantate di fiori?

— Sarebbe da ridere.

Ebbene non sarebbe da ridere anche più nel vedere l’ordine che vi regna nell’universo, e dire che quest’ordine si è fatto da sé? Mira le stelle: ciascuna sta sempre al suo posto, percorre sempre la stessa orbita. Mira le stagioni; si succedono sempre regolarmente le une alle altre. Mira gli uomini, gli animali, le piante, si riproducono sempre secondo la loro specie. E non ci sarà dunque chi tutto ha ordinato così, come c’è un giardiniere che ha ordinato le aiuole di un giardino, come c’è un orologiaio che ha messo a posto le ruote d’un orologio, come c’è uno scultore che ha fatto una statua, come c’è un pittore che ha fatto un quadro?

— Sì, è vero, verissimo; ma non si potrebbe dire che il mondo si è fatto e ordinato a caso?

A caso? Ma che cos’è il caso?

— Non saprei dire.

Il caso, in questo caso, è nulla. E il nulla non fa nulla, non ordina nulla. Curiosa questa! Non diresti mai che il caso ha dipinto un quadro, tratta una statua, composto un orologio, ordinato un giardino, e vorresti dire che il caso ha fatto e ordinato l’universo?

— Ha ragione; ma se non si può dire che ciò abbia fatto e ordinato il caso, non può invece averlo fatto e ordinato madre natura?

Madre natura? Ecco; se per madre natura tu intendi quell’Essere che, dotato di intelligenza e volontà, ha tutto fatto ed ordinato, con ciò ammetti senz’altro l’esistenza di Dio creatore ed ordinatore, benché con una espressione affatto impropria e che tutt’altro che chiarire le cose non fa che ingarbugliarle. Ma se per madre natura intendi le proprietà e le forze che vi sono nel mondo, cioè nelle cose che essi stono, tu verresti a dire questa grande assurdità che il mondo si è creato ed ordinato dalle proprietà e forze che vi erano nel mondo già creato ed ordinato.

— E già, è così.

Aggiungi poi che oltre all’ordine nell’universo vi è il moto. Tutto ciò che nell’universo esiste tutto trovasi in movimento. Si muove la terra, si muovono gli astri, si muovono i mari, si muovono gli animali, le piante, si muove l’uomo, insomma non c’è essere alcuno che o in un modo o in un altro non si muova. Ora qualunque cosa che si muova, non altrimenti si muove, se non perché c’è una forza che la fa muovere. Questa forza potrà essere ripetutamente mediata, ma ti fa d’uopo da essa risalire ad una immediata. Quando ad esempio tu vedi un carrozzone elettrico che corre rapidamente sopra un binario, benché non veda esternamente alcuna forza che lo tiri o lo spinga, sai non di meno che è l’energia elettrica, con la quale è posto in comunicazione, che lo fa muovere. Ma l’energia elettrica è già ancor essa un movimento, del quale cercando la causa la troverai in un altro movimento, ad esempio in quello dell’acqua o del fuoco. E il movimento dell’acqua o del fuoco è cagionato esso pure da altro movimento. Così potrai da movimento in movimento andare fino ad un certo punto, ma alla fine ti è necessario arrivare ad una prima causa, che dà immediatamente movimento alle altre senza più essere mossa da alcuna, poiché altrimenti tu correresti nell’infinito senza potere trovare mai un punto ove fermarti, ciò che invincibilmente ripugna alla nostra mente. Ora quello che ti è d’uopo riconoscere gettando lo sguardo sopra un carrozzone elettrico, lo devi riconoscere gettando lo sguardo sopra qualsiasi altro essere, che ti capiti sotto gli occhi. E così da ogni essere in movimento (e tutti gli esseri, come già ti dissi, si trovano in un modo o in un altro in tale condizione), potrai e dovrai risalire a quell’essere, che senza punto essere mosso da alcuno è il motore di tutto, e che tutti intendono essere Dio.

— Anche questa dimostrazione è chiara. E congiunta alle altre non deve più assolutamente lasciar dubitare dell’esistenza di Dio.- Non di meno se ne dicono tante a questo riguardo… Per esempio, si dice che siano stati i sacerdoti, che abbiano inventato Iddio.

Chi parla così, parla assurdamente e non sa quel che si dice. Se io dicessi che tu hai inventato tuo padre…

— Mi metterei a ridere.

Ma molto più dovresti ridere quando ti si dice che sono i sacerdoti che hanno inventato Dio. I sacerdoti sono i rappresentanti di Dio presso gli uomini e i rappresentanti degli uomini presso Dio. Ora come mai i sacerdoti potevano essere tali, se prima di essi non era riconosciuta l’esistenza di un Dio, del quale essi si dichiaravano ministri? Dire adunque che i sacerdoti hanno inventato un Dio è la stessa assurdità che dire che i figli hanno inventato il padre.

— Ma non è forse verissimo che vi sono tanti uomini al mondo, che non credono all’esistenza di Dio?

È verissimo tutto il contrario. Tutti i popoli antichi e moderni, barbari ed inciviliti, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni clima, hanno riconosciuto che vi è Dio. Sono celebri in proposito le affermazioni di Cicerone e di Plutarco. « Non vi ha nazione sì rozza e sì selvaggia, dice il primo, che non creda l’esistenza degli dèi, sebbene s’inganni quanto alla loro natura ». E il secondo: « Voi potrete trovare una città senza muraglie, senza case, senza ginnasi, senza leggi, senza uso di moneta, senza coltura di lettere; ma un popolo senza Dio, senza preghiere, senza sacrifizio, senza riti religiosi, non si vide giammai ». Anche Massimo di Tiro osservò « che nel mondo vi ha un gran cozzo di leggi e di opinioni, ma che tutte le leggi e le opinioni si accordano su questo punto cioè che vi ha un signore e padre di tutte le cose ». – Pertanto se vi sono degli uomini, che non credano all’esistenza di Dio, prima di tutto essi sono assai pochi e difficilmente accade che non vi credano per sistema, per convinzione, e stabilmente, per un lungo corso di tempo. In generale dicono con la lingua di non credere all’esistenza di Dio, ma nel cuore la pensano ben diversamente; e se pure talvolta fanno una tal negazione per qualche tempo, quando cioè si trovano dominati da una sfrenata superbia, non persistono mai tuttavia in essa per lunghi anni, e il più delle volte al punto della morte cambiano parere. In secondo luogo quegli uomini, che non credono o dicono di non credere all’esistenza di Dio, sono per lo più coloro che lasciandosi sopraffare dalle loro malnate passioni, e dandosi ad operare il male, temono perciò i castighi di Dio e vorrebbero che Dio non esistesse, perché non li avesse a punire.

— Questo è vero, confesso che se talvolta ho avuto anch’io qualche dubbio sull’esistenza di Dio, l’ho avuto allora che ho accontentato od avrei voluto accontentare le mie cattive inclinazioni.

Vedi adunque che la Sacra Scrittura ha avuto ragione di dire che lo stolto ha detto in cuor suo che non vi è Dio. In cuor suo, e non nella sua mente, perché la negazione di Dio più che dall’offuscarsi della mente procede dal corrompersi del cuore. Chi si conserva buono, chi vive virtuosamente, non penserà mai a negare l’esistenza di Dio. – Il La Bruyère nel suo libro intitolato I Caratteri ha detto: « Io vorrei trovare un uomo sobrio, moderato, casto, equo, che dica non esservi Dio; egli almeno lo direbbe senza interesse; ma quest’uomo voi lo cercherete indarno ». E per altra parte c’è da meravigliarsi che vi siano stati e vi siano tuttora alcuni uomini che non credano all’esistenza di Dio? In una provincia di 500,000 abitanti non v i sono sempre per lo meno un 500 pazzi? È troppo naturale adunque che nella generalità degli uomini, i quali tutti ammettono la esistenza di Dio, ve ne sia pure qualcuno che non l’ammetta, e questa eccezione, eccezione rarissima, è una piena conferma della regola.

— Ma molti popoli nel credere all’esistenza di Dio non fecero cosa ridicola, come quelli ad esempio che credettero essere tanti dèi, e quegli altri che credettero essere dèi gli animali, le piante, gli astri o le statue fabbricate dalle loro mani?

Sì, è vero, molti popoli hanno errato nell’ammettere più di un Dio e nel credere Dio ciò che non era e non poteva assolutamente essere tale; ma con tutto ciò essi ammisero l’esistenza della divinità. Fecero adunque cosa ridicola nel concepire nella loro mente le pluralità degli dèi, e la essenza di Dio diversa da quella che è, ma fecero opera assennata credendo che Iddio esiste. Aggiungi poi che in generale tutti i popoli idolatri hanno pur sempre ammesso un Dio ai di sopra di tutti e di tutto. Sofocle in pieno teatro ricordava agli Ateniesi, adoratori delle divinità dell’Olimpo « che nelle leggi sublimi del mondo v’ha un Dio supremo, che non invecchia mai » (nell’Edipo).

— Ma i popoli nel credere all’esistenza di Dio non potrebbero essere stati vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi?

Vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi lo furono nel credere Dio ciò che non era Dio in tante maniere diverse secondo la diversità dei tempi, dei luoghi, delle passioni, come ad esempio lo sono tuttora certi abitatori delle Indie che per timore, per ignoranza e per pregiudizio credono divinità certi serpenti velenosissimi, ai quali perciò si guardano ben bene di dare la morte; ma i popoli non furono, né possono essere vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi in un fatto che si presenta uniforme e costante, lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi.

— E una tale credenza non sarebbe forse nata dalla superstizione?

Tutt’altro; perciocché la superstizione è l’esagerazione del sentimento legittimo della fede sincera in Dio: quindi coloro che si abbandonano alla superstizione non altrimenti lo fecero e lo fanno che dopo esservi già stata tra di loro la credenza che Dio esiste.

— Ma in questa credenza gli uomini non avrebbero potuto seguire una consuetudine?

Qualunque consuetudine deve avere la sua origine e la ragione per cui si è formata. Ora quale origine e quale ragione si potrebbe assegnare a questa consuetudine di credere all’esistenza di Dio? Eh! si ha bel cercare e ricercare, ma nel fatto uniforme e costante del credere all’esistenza di Dio non si può trovare altra spiegazione di questa: che una tale credenza è una inclinazione della nostra natura, è una legge intrinseca della nostra intelligenza.

— Ma moltissime volte la nostra intelligenza si sbaglia.

Sì; ma vorresti tu affermare che tutto l’uman genere, con a capo tanti filosofi pagani e cristiani, Mercurio Trimegisto, Talete, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, S. Agostino, S. Anselmo, S. Tommaso d’Aquino, S. Bonaventura, eccetera, eccetera, abbia errato? No, ciò non è possibile.

— Dunque che si ha da dire di coloro che si ostinano a negare Dio?

Si ha da dire che sono anch’essi una prova che Dio esiste. « Se l’ateo ritenesse per certo che Dio non esiste, non si affannerebbe tanto a combatterlo. Ma perché mai il suo odio contro questa verità si spinge fino alla collera? La sua collera sino al furore? Il suo furore fino alla rabbia? La sua rabbia fino alla follia? » – Il poeta greco Aristofane, nella sua commedia intitolata I Cavalieri, ha introdotto tra due suoi personaggi questo breve dialogo:

« Credi tu, o Nicea, che esistano gli dèi ? »

« Certamente ».

« E la prova? »

« Eccola: io li odio ».

Credilo, amico mio, non pochi atei son qui dipinti; « il loro odio contro Dio è figlio della fede che hanno in Lui, e dall’accento con cui dicono: « Dio non esiste », è agevol cosa conchiudere che Dio esiste » (Monsabrè).