LE VIRTÙ CRISTIANE (8)

LE VIRTÙ CRISTIANE (8)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIa

LE VIRTÙ CARDINALI

CAPO I.

UN’OCCHIATA ALLE VIRTÙ CARDINALI

Sin qui qui il nostro discorso fu di quelle virtù, che nel Cristianesimo meritamente primeggiano sopra le altre; perciocché si riferiscono alle attinenze immediate tra le creature e il Creatore, tra i figliuoli e il Padre loro celeste. Invero la fede, la speranza, la carità, la religione, corrispondendo alla nostra naturale tendenza verso l’Infinito e l’Eterno, ci sublimano sopra di noi medesimi, e ci fanno vivere col pensiero, col desiderio e con l’affetto in quel Signore, che ci trasse dal nulla, e poi, diventati peccatori, misericordiosamente ci redense. Ma, poiché ogni principio di bene è da Dio, segue che le virtù, onde ci avviciniamo e ci uniamo a Lui, riescono seme fecondo di ogni nostro morale perfezionamento. Oltre a ciò, benché coteste virtù non mirino principalmente alle nostre relazioni col prossimo; pure spirano intorno un’aura viva di sapienza, di bontà e di morale bellezza, che, come zeffiro soave, si diffonde altresì nei nostri fratelli. Laonde la fede. La speranza, la carità e la religione, intanto che ci fan volgere gli occhi al Cielo, diventano pure quasi anelli che ci congiungono a tutti gli uomini. Per esse ci è dolce di credere, di sperare, di amare insieme con coloro, che, come noi, sono figliuoli del primo padre Adamo: e altresì di adorare Iddio, di ringraziarlo e di pregarlo, aspirando ad avere tutti, come è detto dei primi fedeli, un cuor solo e un’anima sola. – Ma vi hanno pure varie altre virtù, le quali riguardano più direttamente le relazioni intime dell’uomo con se stesso e col prossimo, Le diciamo virtù morali, cioè virtù, che intendono praticamente a ordinare secondo rettitudine la vita, e i costumi degli uomini. Il loro numero non si può dire con assoluta certezza determinato, essendo spesso gli ufficj loro così somiglianti, che, fra gli scrittori, taluno ne novera e distingue più, e tale altro meno. Prima del Cristianesimo fu insegnato dai maestri di religione e di etica, e principalmente dai filosofi che le virtù morali derivano tutte, quasi figliuole, da quattro virtù principali. Le quali la filosofia morale di quei tempi paragonò ai cardini, su cui si sostengono ed elevano gli edifizj; e però le disse virtù cardinali. Esse sono la prudenza, la temperanza, la fortezza e la giustizia, dai più. indicate con quest’ordine. Ad altri piace ordinarle diversamente, ma l’ordine loro rileva poco; perciocché queste quattro virtù sono indubbiamente unite con vincolo d’amore tra loro, ma non derivano strettamente l’una dall’altra. Nel Cristianesimo i Padri della Chiesa e gli altri maestri in divinità accettarono (e fecero bene) quest’appellazione, venuta dalla retta filosofia antica, e trasfusero le idee e il nome di coteste virtù sì nell’etica cristiana, Sì nell’insegnamento religioso. Però oggi, sino nei catechismi che i nostri fanciulli mandano a memoria, si tratta delle virtù cardinali. Invero sant’Agostino nel 1° Libro del Libero arbitrio insegna che la buona volontà dell’uomo si volge tutta intorno alle quattro virtù cardinali, prudenza, temperanza, fortezza e giustizia, e nel Libro secondo della Genesi contro i Manichei paragona queste quattro virtù ai quattro limpidi fiumi, i quali abbellivano e irrigavano  l’Eden. San Gregorio poi nei suoi Moralia, guardando più da vicino al significato delle parole virtù cardinali, dice che le quattro virtù cardinali sono le quattro basi, che stanno ai quattro angoli della nostra casa spirituale. Infine, la distinzione e il nome di virtù cardinali, accettata anche nel medio evo da san Tommaso, e da tutta la Scolastica del tempo, di secolo in secolo è arrivata sino a noi. I maestri di filosofia e di etica pagana attinsero il concetto di queste virtù in parte dalla luce dei primi principj che irraggia la coscienza umana, in parte dalla tradizione della divina rivelazione, non mai smarrita interamente, neppure tra le tenebre dell’idolatria, e in parte dal loro retto e talvolta altissimo filosofare. – I Padri della Chiesa cattolica, anzi la Chiesa stessa, accentando e facendo suo ogni sprazzo di luce vera, che trovò nel paganesimo, si appropriò anche le virtù cardinali. Ma il principale concetto di esse lo prese dalla Bibbia, nella quale ciascuna delle quattro virtù è non raramente commentata e dichiarata. Massimamente però lo tolse dai Libri sapienziali, e dagli insegnamenti di Cristo; benché né la Bibbia né Cristo dessero mai a cosiffatte virtù il nome di virtù cardinali. – Se non che il Cristianesimo, mentre s’accostò con la sua luce e con la sua sapienza celestiale a queste virtù, fece altro ancora. E levandole sino a Dio e nobilitandole, con quell’aura soprannaturale e celestiale che spira sempre intorno ad esso, in un certo tal qual modo le trasfigurò, benché nella sustanza rimanessero quali erano. Al Cristiano, in vero, è bello l’esser prudente, temperante, forte e giusto; ma ci vuole altresì che queste virtù nascano in lui, quasi fiore di cielo, per effetto della divina grazia, e lo elevino, insieme con le virtù teologali, a Dio. A noi non basta l’essere prudenti e temperanti e forti e giusti, perché l’esserlo ci è comandato dalla retta ragione e dall’etica naturale; ma molto più lo vogliamo, perché con queste virtù glorifichiamo il nostro Padre celeste, ci rassomigliamo a Lui, e acquistiamo meriti per possederlo e amarlo nella vita futura. Sappiamo, che cosiffatte virtù ordinano in gran parte la nostra vita morale e i nostri costumi; e questo è certo un bene assai desiderabile. Ma quale scopo mai duraturo e santo avranno la vita morale e il buon costume nostro, se non ci dovranno unire dolcissimamente al nostro primo Principio, e farci vivere e godere in eterno con Dio? Se, dopo di aver molto combattuto con noi stessi, e spesso col prossimo, per vivere secondo queste virtù naturali, dovessimo poi putrefarci tutti, e diventar pascolo di vermi in un orrido sepolcro, che nella sustanza poco differisce da un letamajo, pare a voi che avremmo ricavato un gran pro dal sacrifizio nostro? – Dante Alighieri, che, come mi avvenne di notare parecchie volte, fu anche teologo profondissimo, nei primi versi della seconda Cantica vede il Purgatorio non già nelle inferiori parti della terra, poco discosto dal limbo e dall’inferno, secondo l’opinione comune dei teologi del medio evo, ma in un monte, con otto ripiani, cioè l’Antipurgatorio, i sette cerchi e il Paradiso terrestre. Ora quel che fa al nostro proposito, è che Dante dopo di aver detto:

E canterò di quel secondo regno / Ove l’umano spirito si purga, / E di salire al Ciel diventa degno;

nell’entrare che fa in Purgatorio, si trova trasportato dall’aura morta dell’Inferno, che gli aveva contristati gli occhi e il petto, al regno luminoso del Purgatorio. Ed ebbe ragione di così chiamarlo; perciocché nel Purgatorio le anime, benché per un certo rispetto sieno come in carcere, e molto soffrano per purificarsi dalle lievi macchie con cui passarono da questa vita; pure nella sustanza sono giuste. Or in questo monte, l’Alighieri vede dapprincipio quattro stelle, le quali chiama anche luci sante; e le quattro stelle e luci, per consentimento di tutti gl’interpreti, denotano le quattro virtù cardinali, che sono splendori delle anime, unite all’eterno Sole che è Dio. – Più avanti nell’Ottavo del Purgatorio Dante medesimo vede le tre virtù teologali, anche esse, come tre stelle luminosissime; le quali valgono più delle stelle precedenti, e sono, come si direbbe oggi, stelle di prima grandezza, perché, nota il divino Poeta, miran più profondo. (Purg. XXXI, III, 130). Infine le une e le altre, cioè quelle che esprimono le virtù cardinali, e quelle che significano le teologali, Dante le vede trasformate in ninfe, o, che è il medesimo, in castissime e vaghissime donzelle.» Ma le virtù cardinali danzano alla sinistra del carro glorioso di Beatrice, nel quale è figurata la Chiesa; e le teologali (come più degne) danzano alla destra di esso. Le une e le altre però, considerate come virtù che si debbono praticare nella vita terrena, dicono di sé stesse: Noi siam qui Ninfe, e nel ciel siam stelle (Purg. XXXI, 106). Il paragone delle ninfe l’Alighieri lo dovette assai facilmente prendere da sant’Agostino; e però qui mi par bello di aggiungere ciò che trovo in una Lettera del medesimo sant’Agostino: “Gli atti delle virtù (teologali o cardinali che sieno), sono in questa vita terrena quasi ninfe; ma nella patria eterna le virtù e il premio della virtù saranno una medesima cosa. Qui nella terra le virtù sono in atto, lì nel cielo sono nei loro effetti; qui nelle opere, là nel premio; qui nei loro ufficj, lì nel loro ultimo fine. – Affissiamo dunque la mente nelle quattro sante stelle delle virtù cardinali, dopo che abbiamo mirato col nostro debole occhio, le tre teologali. Pensiamo, che le une e le altre si uniscono bellamente nelle nostre anime, e formano il limpido cielo stellato delle virtù cristiane; le teologali come stelle di prima grandezza, e le cardinali come stelle di seconda grandezza. Di poi ci volgeremo a considerare anche altre virtù, che si possono stimare quasi derivanti dalle cardinali; ma che noi guarderemo in una luce loro particolare, cercando d’impararle da un dolcissimo e nobilissimo Sermone di Gesù Cristo. È il sermone sapientissimo, che da quasi diciannove secoli è detto il Sermone della montagna; un sermone, che è e sarà sempre la fontana d’acqua salutare, messa da Gesù nel bel mezzo della Chiesa, per irrigarla e fecondarla con le virtù e la perfezione cristiana.

LE VIRTÙ CRISTIANE (9)

LO SCUDO DELLA FEDE (191)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. –

Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

II. — Il giudizio particolare.

D. Credi tu a un giudizio dell’anima dopo la morte?

R. Noi crediamo che subito dopo la morte, l’anima prende la direzione di vita che conviene ai suoi meriti.

D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio?

R. Là dov’è l’anima, là dov’è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c’è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.

D. È strano!

R. Sì, quale mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt’a un tratto davanti a Lui nella piena luce!

D. Non vi è dunque tribunale?

R. È questa una metafora tolta dalla vita sociale.

D. Che cosa significa questa metafora?

R. Comparire al tribunale, per l’anima, è prendere davanti a Dio il sentimento di ciò che essa è, di ciò che vale, di ciò che ha fatto, di ciò che ha utilizzato o profanato, e di quello che ne segue per la sua sorte eterna.

D. Non vi è dunque sentenza, come non vi è tribunale?

R. Non vi è bisogno di sentenza. Il nostro bilancio interiore co’ suoi effetti: ecco la nostra sentenza. Sotto gli auspici della grazia, de’ suoi gradi o della sua assenza, la vita eterna è in noi sostanzialmente; ciascuno porta in sé il suo inferno o il suo cielo. Colui che fa il bene è subito beatificato dentro, come una terra seminata che le stagioni favoriscono; colui che fa il male è subito ferito dentro, spogliato, disorganizzato, tagliato fuori di comunicazione con Dio, sola forza che arricchisce, consegnato alla creazione ostile, e così votato alla sventura.

D. L’unico tribunale è dunque in noi?

R. Sì, ed è la coscienza; ma la coscienza voce di Dio, e non la falsa coscienza formata dai nostri vizi.

D. Questo tribunale è sempre eretto?

R. È sempre in segreta attività; ma alla fine, tutta la causa si chiarisce.

D. Ed è anche in noi il luogo di esecuzione?

R. E dove sarebbe, a titolo principale? Si tratta del nostro destino. Ma la creazione vi collabora. Operi bene o male, l’uomo è subito trasformato nella natura della sua propria azione, e posto così in accordo o in conflitto con l’ordine morale che Dio regola. La sua felicità o la sua infelicità sono fin d’allora acquisite, salvo che egli non cambi. Noi siamo di fronte al mondo come colui che fa la sua scelta prima di partire.

D. Siamo noi dunque rigorosamente gli agenti del nostro destino, compreso il nostro destino eterno?

R. Noi siamo gli autori del nostro destino, nell’interno e per l’azione dell’ordine divino. Il destino eterno non è che la manifestazione dello stato di coscienza che il giusto o il peccatore hanno provocato in se stessi, e la fissazione eterna de’ suoi effetti. L’uomo vola allora con le sue proprie ali e respira del suo alito, quell’alito dello Spirito Santo la grazia del quale gonfiò il suo cuore; oppure è preso nelle sue proprie reti e vi soffoca. « Dio per punire il male, non ha che da lasciarlo fare » (LACORDAIRE). « La loro colpa non è una cosa e la loro pena un’altra; ma contro di loro si rivolge la loro colpa stessa » (S. GREGORIO).

D. Perchè si parla allora di vita futura? La vita eterna è tutto il tempo.

R. Di fatti, la vita futura non è futura; adesso appunto noi vi entriamo. « Il regno di Dio è dentro di voi », disse nostro Signore. La vita eterna non si estende in durata, ma in profondità, e la successione dei nostri giorni non serve che ad acquistarla o a ritrovarla se l’abbiamo perduta.

D. E anche îl cielo e l’inferno occupano tutto il tempo?

R. Essi non sono tutto il tempo in manifestazione, ma sono tutto il tempo in sostanza; perché alla fine non fanno altro che rivelare due stati dell’anima: lo stato di grazia o l’assenza di grazia, la virtù o il peccato.

D. Donde viene che non lo sentiamo?

R. Ho già risposto parlando della grazia. Ma donde viene che spaccando un grano, non vi si trova il fiore, o la spiga?

D. Vorrei capire la differenza precisa tra la coscienza di oggi e la coscienza nell’ora del giudizio.

R. Oggi la coscienza ci avverte; allora, sarà tutta occupata nel convincerci. Qui la sua voce è coperta dai nostri desideri, dalle nostre passioni; allora essa stessa coprirà ogni voce e si pareggerà all’anima tutta quanta, tutta riflessa in se stessa. Non abbiamo detto che l’anima separata sarebbe a se stessa il suo proprio lume, sotto l’irradiamento divino?

D. Una sincerità assoluta, e in qualche modo sostanziale?

E. L’identità con se stesso, nella propria chiarezza.

D. Formidabile sincerità!

R. Sincerità formidabile per tutti, e per il peccatore terrificante, crudele come l’inferno, del quale essa è una parte. Perciò Tertulliano evoca con una specie di terrore quell’ora in cui l’anima « sarà tutt’insieme e il reo e il testimonio ».

D. Che confusione, senza dubbio!

R. Una confusione infinita, davanti all’infinita perfezione divina e alle possibilità infinite che in se stessa aveva l’anima peccatrice. Eccola quest’anima miserabile privata della suprema e futile consolazione di lagnarsi; infatti dove trovare una commiserazione disponibile, in colui che dichiara se stesso e per se stesso la causa de’ suoi mali?

D. E tutto ciò è irrevocabile?

R. Ciò è necessariamente irrevocabile, se uno è veramente arrivato al termine; perché la durata è interminabile. Il destino non si ricomincia.

D. Il dramma antico non ha niente di paragonabile a una tale fatalità!

R. È vero, e vi è di che allibire, quando si pensa che nei nostri cinquanta, sessanta o settant’anni — a meno che lo spazio non sia assai più breve — una formidabile eternità si nasconde.

D. Ma se noi rinunziamo?

R. « Noi siamo imbarcati » (PASCAL). La felicità è la nostra vocazione, e noi non possiamo rinunziarvi senza delitto. Felicità, infelicità, ecco l’alternativa. E Dio era debitore a se stesso di proporci l’opzione; ma non vi era luogo di autorizzarci a rigettare il problema, perché la felicità, qui, coincide col dovere. Se il Signore dei nostri cuori vuol renderci felici, è una ragione di disubbidirgli?

LE VIRTÙ CRISTIANE (7)

LE VIRTÙ CRISTIANE (7)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C.; Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO VI.

LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

Fede, speranza e carità, essendo quasi ali  che librano l’anima nostra in alto, per diversi modi ci elevano a Dio, e a lui dolcemente ci uniscono. Con la fede il nostro intelletto aderisce a Dio, in quanto è eterna e infinita Verità, di essa Verità si nutre, e quasi in essa si trasforma. Con la speranza noi corroboriamo la nostra debolezza, mercè l’infinita fortezza di Dio, ci rendiamo capaci di sperare e di raggiungere gli eterni e inenarrabili beni della vita avvenire. Massimamente poi con la carità, la nostra volontà libera, e di per sé tendente al bene, aderisce intimissimamente a Dio, Bene immutabile ed eterno, a Dio Bene sommo che è pur Bellezza infinita, lo ama, e se ne sente riamato; onde quasi in Lui si trasfigura e con Lui s’immedesima. – Ma Iddio la mente umana lo considera anche in un altro modo, cioè come Creatore e Signore nostro, come infinitamente più alto, più possente, più sapiente, e più perfetto, che noi non siamo. Laonde l’uomo vede tra sé e Dio un’inferiorità e dipendenza infinita; e l’inferiorità e la dipendenza, non che scemino, s’accrescono nel nostro intelletto, mercé lo sviluppo dell’ingegno, la coltura, la scienza di ciascuno. Perciocchè nell’atto, che la mente nostra si fa ricca di nuove cognizioni, gli s’ingrandisce pure l’idea di Dio, e gli si rivela meglio la smisurata serie delle cose, che essa non conosce, e che Iddio conosce e produce. Ora il frutto spontaneo della cognizione, che noi abbiamo dell’infinita inferiorità e dipendenza nostra da Dio, eccita di per sé un simile e riverente moto dell’anima verso di Lui; un moto che diciamo religione. La virtù della religione, volerla definire esattamente, è dunque quella virtù, per la quale ci facciamo atti, e c’ inchiniamo a rendere a Dio, supremo Principio e Signore di tutti e di tutto, ciò che dobbiamo a Lui, per effetto della sua somma eccellenza, e della nostra infinita inferiorità e dipendenza da Lui. – Ora questa virtù della religione, secondo la dottrina del Cristianesimo, è duplice. Altra è la virtù della religione naturale, la quale deriva in noi dai primi principj impressi da Dio nelle anime nostre; altra è la virtù della religione soprannaturale, la quale procede dalla fede. Nel Cristiano però vivono ambedue le virtù, e vivono siffattamente unite, che diventano come una sola. In vero la fede fa nel nostro intelletto l’ufficio d’un lume nuovo e splendentissimo, che accresce e nobilita il lume della ragione; sicché l’occhio delle mente nostra, sgombro da ogni nebbia di dubbiezza o di errore, mercé la fede nelle cose che han relazione a Dio, vede meglio e più lontano. Per questa teorica si comprende quel che sia la religiosità nell’uomo, e come essa esista anche negli infedeli o negli erranti nella fede; perciocché la religiosità e un tesoro inerente alla natura umana; la quale, anche per essa religiosità e, come credono alcuni per essa principalmente, si distingue dalla natura animale. – E si comprende ancora, come il pagano, il musulmano, l’eretico e anche il barbaro abbiano un naturale inchinamento alla virtù della religione, e talvolta, anche tra gli errori loro, ne compiano in modo naturale e imperfetto gli atti. Tutti costoro adorano e onorano con pensieri e affetti erronei la suprema Deità; ma pure l’intendimento di adorarla e di onorarla, sempre lo hanno. Gli stessi miscredenti, i quali vorrebbero spegnere in sé medesimi il sacro fuoco della religiosità, impressovi da Dio, io credo che o rarissimamente o non mai ci arrivino del tutto. Il far forza alla natura è impossibile, e il pensare di esservi riuscito non è altro che una delle svariatissime forme dell’orgoglio umano. E, quanto ai miscredenti, è pure da considerare che taluni di essi confondono la religiosità con la religione; onde solo perché non hanno potuto o voluto distruggere quel sentimento vago e indeterminato, che spinge l’uomo alla vita e agli atti religiosi, stimano di essere essi stessi religiosi. Ma la verità è che la religiosità è solo un seme, posto da Dio nell’anima dell’uomo, e che questo seme sboccia, fiorisce e fruttifica in noi soprattutto per effetto della fede e della nostra buona volontà, che traggono dalla religiosità i molteplici atti della religione. – Ma consideriamo la virtù della religione, in quella maniera in cui fiorisce e vive nelle anime dei buoni Cristiani, cioè arricchita dal lume della fede soprannaturale, e alimentata da quel soffio vitale della grazia, che ce la rende meritoria della beata vita eternale. Allorché ci sentiamo dipendenti da taluno, e ad esso inferiore; la tendenza nostra naturale al bene, che in sostanza è amore, prende la forma di affettuosa venerazione; e ne abbiamo prove parlanti in tutte le attinenze delle buone famiglie cristiane, e in moltissime altre relazioni della vita quotidiana. Ora allorché la dipendenza e l’inferiorità sono non solo grandissime, ma infinite; allora questo sentimento di affettuosa venerazione s’accresce sopra ogni misura, e prende il nome particolare di adorazione. L’adorazione invero è l’atto supremo della religione, ma non è esso solo, che la costituisce. Vi ha ancora altri atti di religione, i quali però sono così intimamente uniti all’adorazione, che la mente umana appena li distingue. L’uomo, che sente l’infinita dipendenza sua da Dio, riconosce naturalmente da Lui, Bene infinito ed eterno, ogni bene, che abbia: ed ecco. che nell’amore suo, insieme con l’adorazione, sorge spontaneo il rendimento di grazie. Ancora, poiché alcuni beni mancano all’uomo, e altri beni ei teme di perderli, altri ei li desidera e spera; ecco, che sorge nell’animo nostro altresì quella pia e amorosa elevazione a Dio della mente e del cuore, la quale diciamo preghiera. Infine dov’è mai l’uomo, che non abbia peccato, e anzi che non senta di aver molto peccato, almeno per effetto delle sue colpe veniali? Ora l’idea del peccato, il quale in sustanza è un deviare dal Creatore, e un piegare intemperante verso le creature, fa nascere tosto in noi il desiderio del perdono. Il desiderio del perdono ci spinge a chiederlo a Colui, di cui violammo la legge, e che solo può darcelo. Dalle cose dette si conchiude dunque che la virtù della religione sta tutta in una elevazione dell’animo nostro a Dio; nella quale si intrecciano e s’armonizzano l’adorazione, il rendimento di grazie, la preghiera e l’invocato perdono dei nostri peccati. Quattro nobili e dolci sentimenti son questi che si assommano nel divin Sacrificio eucaristico, il quale, come mi accadde di dire nella Dottrina Cattolica, è perciò la sustanza della virtù della religione nel Cattolicismo, e il centro luminoso e fiammeggiante di tutt’i nostri atti di religione. – Questi varj atti di religione, dei quali è come centro l’adorazione, si chiamano con un sol nome: culto. Or dalle dichiarazioni fatte sin qui risulta chiaro, che il culto di Dio è prima d’ogni altro interiore e dell’anima; perciocchè l’adorare, il render grazie, il pregare e l’impetrare nascono, come ogni pensiero, ogni affetto e ogni moto somigliante, dall’intimo dell’anima umana. Ma poiché i pensieri, gli affetti e i moti dell’anima non solo si specchiano esteriormente per segni visibili; ma per essi si completano e si perfezionano; così avviene nel culto di Dio. Il culto esterno è specchiamento e completamento dell’interno; per modo che, se in taluno ci fosse questo secondo, senza il primo, esso risulterebbe come un’ombra o piuttosto come un fantasma vano, a cui manca ogni sustanza. – I principali segni estrinseci d’ogni pensiero o affetto o movimento qualsiasi dell’anima, sono due, cioè la parola e l’arte; due segni tanto ammirabili, che la mente umana, al pensarli, si sente irresistibilmente spinta a benedire il Signore, il quale è stato tanto buono, che ce ne ha fatto dono. Mercé la parola, i pensieri, gli affetti, i desiderj, le speranze e qualunque moto dell’anima nostra si riflettono nelle anime dei nostri fratelli: mercè le parole di essi, pensieri, affetti, desiderj, speranze e altri moti dell’anima loro si comunicano a noi. Ma non questo solo. Il seno ammirabile della parola umana rischiara, perfeziona, abbellisce e completa tutto ciò, che l’anima ha dentro di sé, e vuole trasfondere fuori. Or di questo segno tanto efficace della parola si giova il culto per tutte due le ragioni che si sono dette. Se ne giova per chiarire, perfezionare, abbellire e completare i pensieri e affetti suoi verso Iddio; e se ne giova altresì, per comunicare questi suoi nobili pensieri e affetti ai propri fratelli. Per siffatta guisa, allorché abbiam viva nell’animo la virtù della religione, ci torna caro di far bene al prossimo con l’esempio del nostro culto, e di riceverne parimente da essi con l’esempio del culto loro. Quante e quante volte l’animo nostro, distratto dalle passioni e dalle mondanità, si commuove e si eleva a Dio nell’entrare in un tempio, dove echeggia per le volte il suono misterioso e grave dell’organo, sposato con cento e cento voci di fedeli, che cantano i cantici della Chiesa nel semplice e soave ritmo delle melodie ecclesiastiche! Tra tutte le comunanze di pensieri e di affetti, che si manifestano tra gli uomini, non ve ne ha alcuna, che sia più bella, più nobile e più fruttuosa di questa che nasce dal culto esteriore. Perché dunque gli avversarj della fede nostra ci oppongono che il volgersi con la parola parlata a Dio è inutile; perciocché basterebbe la parola pensata, la quale Iddio onnipresente a tutti ascolta egualmente? Certo, è pur verissimo che Iddio ascolta egualmente chi parla solo col pensiero e con l’affetto a Lui, e chi gli parla servendosi del dono della parola da lui ricevuto. Ma quando parliamo solo interiormente (e il farlo non ci è punto vietato) chi ci può dar mai quella vena abbondante e inesauribile di pensieri e sentimenti santi, calorosi e poetici, che hanno le nostre preghiere interiori allorché siano avvalorate dalla parola parlata non solo nostra, ma anche dei nostri fratelli? Se dunque noi aggiungiamo al culto interno di Dio, anche il culto esterno; ciò giustamente deriva da un moto spontaneo dell’animo, e riesce all’accrescimento e al perfezionamento del culto medesimo. – L’altro segno esteriore dei nostri pensieri e affetti religiosi, ovveramente del nostro culto a Dio è l’arte religiosa; un segno che il Protestantesimo ha quasi interamente ripudiato, ma che è caro al Cattolicismo, come la pupilla degli occhi. L’Alighieri, parlando dell’arte in generale, dice in prima:

Che la natura lo suo corso prende

Dal divino intelletto e da sua arte.

Riconosce dunque un’arte eterna e infinitamente bella, anche in Dio. Poi aggiunge, che l’arte umana, imita, quanto può, la natura creata dal Signore; quasi come scolaro imita il maestro suo. Di che conchiude che la natura, essendo figliuola di Dio, e l’arte figliuola della natura; l’arte dunque si ha da considerare quasi nipote di Dio. Le quali idee Dante le scolpisce mirabilmente così:

Che l’arte vostra quella, quanto puote,

Segue, come il maestro fa il discente,

Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote.

Ora, per queste sottili e verissime considerazioni, ogni arte bella ha un certo parentado con Dio stesso. Ebbene quanto più non l’ha da avere l’arte religiosa? Però cotesta arte religiosa, giustamente si considera come una nuova forma della parola nostra, volta a Dio. È una parola questa dell’arte religiosa, meno precisa, determinata e chiara, che non sia quella, della parola parlata; ma è una parola anch’essa, che si volge particolarmente alla nostra fantasia, affinché ajuti l’anima ad elevarsi a Dio e ai divini misteri. – Tutte le arti belle possono diventare e diventano in effetti parola di religione, e costituiscono una parte rilevante del nostro culto esterno. La pittura e la scultura, rappresentandoci in diversa forma i fatti più nobili e misteriosi della religione, ci rappresentano altresì lo stesso Iddio, Gesù Cristo, la benedetta sua Madre e gli Angioli e i Santi: oltre a ciò assommano leggiadramente ed eloquentemente tutt’i principali concetti della nostra fede e della nostra morale cristiana. L’architettura sacra dei templj parla a noi, secondo i diversi stili, talvolta più particolarmente la sublimità infinita di Dio, talvolta più propriamente l’infinita sua ricchezza. E sarebbe forse meglio il dire che i templj architettonicamente costruiti e ornati essendo opera umana, effigiano come in ispecchio gli alti e nobili concetti, che noi abbiamo di Dio, per virtù della divina rivelazione. Però allorché, tra le varie e armoniche bellezze dei nostri templj cristiani, ornati dalle pitture e dalle sculture sacre dei più grandi maestri, echeggia il suono dell’organo, or come tempesta dell’anima turbata nel mare burrascoso della vita, or come gemito di chi soffre e spera, or come preghiera, or come rendimento di grazie a Dio; allora nello stesso luogo la musica si disposa alle altre arti belle, e ce ne accresce gli splendori. Che dire poi quando a questo mirabile concerto di arti belle, si uniscono nello stesso luogo, per mezzo della parola parlata, i cantici soavi e nobilissimi della nostra poesia religiosa? Allora accade nel tempio cristiano ciò, che non si vede in nessun altro luogo. Tutte le arti belle si dànno ivi amorevolmente convegno, ed esprimono un sol pensiero e un solo amore nobilissimo; il pensiero, dico, dell’anima umana, che liberamente spicca il suo volo sino a Dio, e lo benedice; lo adora, lo ringrazia, lo prega con il culto cattolico. – Un antico scrittore afferma che l’arte religiosa è principalmente ordinata a parlare le verità della religione agli animi grossi. Ed è vero, però in questo modo. Sopra gli animi grossi, che sono più involti nei sensi, l’arte ha una particolare efficacia. Ma anche gli animi nobili, elevati in alto per cultura e per scienza, si giovano del linguaggio dell’arte religiosa, come ciascuno può intendere facilmente. È basti qui dell’arte religiosa, considerata come possente ed efficace mezzo di culto esterno; e volgiamoci un tratto ad un’altra considerazione. – Tutto il culto religioso, che costituisce la virtù della religione, si assomma principalmente in una sola nobilissima e dolcissima parola: orazione. Questa parola però è così ricca di significati, che compendia tutte le principali relazioni dell’anima con Dio. In vero l’orazione abbraccia il culto interno ed esterno; perciocché l’anima cristiana, talora prega raccolta in sé stessa, senza movimenti di labbra, e talora prega anche esternamente, profferendo l’orazione insegnatale da Cristo; o le altri orazioni della Chiesa, dei Santi, o infine quelle che la pietà e il fervore mettono improvvisamente su le labbra di ciascuno. Altre volte l’orazione prende anche una forma più artistica, ed entusiastica; ed è quando si sposa al canto. Così avviene per esempio in quelle ore solenni, in cui un’onda di popolo commosso canta i Salmi, il Page lingua, o il Te Deum o altro. Ancora, chi dice orazione, dice tutti quei vari moti dell’animo verso Dio, dei quali si è discorso più avanti. L’anima infatti, che prega, intreccia in una sola armonia celeste, quasi diverse note d’un sol canto, l’adorazione, il rendimento di grazie, l’invocazione del perdono, e la domanda di tutto ciò, che rettamente desidera o spera, sia nel mondo della vita presente, sia in quello della vita avvenire. Chi prega bene, lo muove amore; un amore santo che s’apre con Dio, e diffonde l’anima in Dio, come usa amico con amico. Però il suo linguaggio è vario, come è varia la parola dell’amore; ma in ogni sua parola vi ha sempre una scintilla d’amore. – Questo soave e nobile linguaggio dell’orazione è così inerente alla natura umana, che lo adoperano anche le false religioni; e in certi momenti spunta altresì su le labbra degli increduli più induriti. Non pertanto intelletto umano, allorché è gonfio d’orgoglio o per falso sapere o per abuso di scienza, vi sofistica sopra vanamente. Infatti, ci ha filosofi, che, silloggizzando poveramente e superbamente, tentano di disseccare questa cristallina e ubertosa fontana di grazia e di consolazione, che Iddio ci ha dato nell’orazione. Ce ne ha poi altri, i quali concedono all’uomo di adorare e di ringraziare Iddio di tanti benefizj; ma, quasi come fanciulli, a cui pare di vedere un fantasma, si adombrano, e si ribellano appena si tratti di chiedere a Dio un qualche benefizio spirituale o temporale che sia. Non dubitano di opporsi audacemente a questa nobilissima e comunissima inclinazione di tutto il genere umano, che pregando chiede dal Signore beni spirituali e temporali, e affermano che Iddio non può né deve esaudirci mai. Si arrogano il diritto di far da maestri a tutti gli uomini, ai passati e ai presenti, alle genti più civili e alle più barbare, e dicono: non egli forse immutabile l’Iddio vero ed eterno; che, mentre tutto muta intorno a Lui, sta fermo nella sua immutabilità? E se Egli è sempre e sustanzialmente immutabile, perché gli chiedete voi di mutare, dandovi questo o quel benefizio che non avete? Ancora, se Dio vi concedesse ciò che gli chiedete, non sarebbe la volontà sua in qualche modo sottoposta alla vostra? Infine quel che noi chiediamo, dipende forse dal nostro libero arbitrio? E allora, perché preghiamo? Non dipende da esso? E allora perché domandare che Iddio muti le sue leggi eterne? A queste difficoltà, le quali derivano unicamente dal non saper noi a prima giunta accordare il domma dell’immutabilità di Dio con quello dell’efficacia della preghiera; l’Angelico Dottor san Tommaso risponde così: “Bisogna che si ammetta l’utilità dell’orazione; ma che ciò sia fatto in guisa, che né noi imponiamo la necessità alle cose umane soggette alla divina Provvidenza, né stimiamo mutabili i divini ordinamenti. Per render ciò chiaro, s’ha da considerare che non solo la divina Provvidenza anticipatamente ha determinato gli effetti che debbono avvenire, ma ancora ha determinato da quali cause e in quale ordine debbano avvenire. Or tra le cause della divina Provvidenza, si hanno da noverare le cause di alcuni nostri atti umani. Però è necessario che gli uomini facciano alcune cose, non perché con i loro atti mutino i divini ordinamenti: ma affinché, per i loro atti, si adempiano certi effetti, secondo l’ordine disposto da Dio. Ciò avviene nell’ordine naturale: e ciò avviene egualmente nell’orazione. Infatti noi non preghiamo per mutar il divino ordinamento, ma per impetrare quelle cose, che, per mezzo delle orazioni dei giusti, Iddio vuole che si compiano. Così Iddio vuole che gli uomini preghino. Gli uomini dunque preghino, affinché meritino di ricevere ciò, che l’Onnipotente ha decretato di dar loro prima dei secoli; e così è insegnato da san Gregorio nel Libro dei Dialoghi. (Summa Theolog – II, II. quaest. 83, artic. 2.). Per viemeglio chiarire la nobile e profonda dottrina del Cristianesimo, qui avanti dichiarata tanto sottilmente da san Tommaso, è bene di por mente che la divina Provvidenza governa il mondo non solo con leggi fisiche, ma altresì con una sapientissima e ammirabile legge morale. Anzi le leggi fisiche Iddio le soggetta a quella morale. Il non volere, per accecamento o per orgoglio intellettuale, riconoscere nell’universo altra legge che la fisica, ciò è sorgente di moltissimi errori dei miscredenti, e in modo particolare dell’errore che si riferisce all’orazione. E intanto, anche a voler guardare attentamente le sole leggi fisiche, che governano il mondo materiale, esse stesse, con la sapienza e l’armonia del creato, rivelano l’esistenza di un’altra legge sapientissima e morale nell’universo. Però la verità è, che, come la legge fisica, la quale governa in modo supremo e con ineffabile armonia l’universo materiale, si dirama in molte leggi fisiche particolari, quali sono, per esempio le leggi del moto, dell’attrazione, dell’elettricità, della gravità dei corpi ecc.; così parimenti avviene nella suprema legge morale dell’universo. Anche questa deriva dall’armonia di varie leggi, alle quali presiede sempre la perfettissima, sapientissima e provvidissima volontà di Dio. Le varie leggi, che, sottoposte a Dio, o provenienti da Dio, costituiscono l’universo morale, sono gli atti del nostro libero arbitrio, la grazia divina illuminatrice e infiammatrice dell’animo umano, il miracolo e l’orazione. Ciascuna di queste leggi particolari si accorda mirabilmente con ciascun’altra, quasi sorella con buona sorella, ché provennero tutte nel mondo, come gemelle, dal supremo Intelletto e Volere di Dio. La divina Provvidenza poi le governa tutte, e le costituisce come unica e suprema legge morale dell’universo. Molte cose dunque avvengono nel mondo, per effetto delle leggi fisiche, e molte per effetto delle leggi morali; ma la Provvidenza con la sua prescienza, con la sua sapienza, con la sua bontà e con la sua onnipotenza ordina l’una e l’altra legge, la fisica intendo e la morale, agli altissimi suoi fini, e principalmente alla propria glorificazione e alla nostra eterna beatitudine. – Volendo poi applicare questi principj in modo particolare all’orazione, io conchiudo questo Capo del mio libro, togliendo dalle Conferenze dell’illustre Domenicano Monsabré un brano assai bello e opportuno al mio argomento. Egli dunque dice così: “Iddio legislatore universale conosce le opere sue dal principio alla fine, e dal principio alla fine le governa con forza e soavità. Per effetto di questo conoscimento e del suo potere, egli ha regolato ab æterno gli effetti e le cause, come ab æterno ha ordinato che di molte cose umane sia causa la preghiera. ab æterno Iddio ha detto nel cuor suo di Padre: alla tale ora dei secoli feconderò le terre sterili; alla tal’ora dei secoli guarirò gli ammalati e consolerò gli afflitti; alla tale ora dei secoli illuminerò le intelligenze e rassoderò la virtù nei cuori; alla tale ora dei secoli salverò i popoli dalla morte; alla tal’ora dei secoli io farò prodigi, e, se sarà necessario, metterò sossopra la natura e scuoterò le anime; perché alla tale ora dei secoli i mici figli ginocchioni, stenderanno verso di me supplichevoli le mani, e con le orazioni si getteranno negli abissi della mia bontà infinita. Dio ab eterno disse ciò; ed è forse perché questa parola eterna, si compie tutt’i giorni, che voi osate accusare Iddio d’inconstanza?” (Monsambré, Conf. XXI. L’immutabilità delle Leggi del Governo divino, e la preghiera.).

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni

Desclée e Lefebre e. C. Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO V.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ E GLI AMORI PARTICOLARI

Nel Capo II del Genesi, Moisè, dopo di aver descritto il delizioso soggiorno dell’Eden, nel quale il Signore aveva messo l’uomo, dice così: “E da questo luogo di delizie scaturiva un fiume ad innaffiare il paradiso, e questo fiume di là si spartiva in quattro capi o quattro fumi minori. L’uno di essi è detto Phison, e scorre nel paese dove nasce l’oro, l’altro Gehon, il terzo Tigri; il quarto è l’Eufrate.” Ora nel primo gran fiume, che fu uno dei più belli ornamenti dell’Eden, e che si apriva in quattro fiumi minori, vi ha un’immagine parlante del dono d’amore, datoci dal Signore. L’ amore in noi, in sustanza, è uno; ma poi, volgendosi a diversi obbietti, si divide non in quattro amori soltanto, come avveniva del fiume dell’Eden, sì bene in un numero indefinito di amori, i quali anzi possono esser tanti, quanti sono gli obbietti, in cui l’intelletto e il cuore umano trovano un raggio del vero, del bene e del bello divino. Anche in questa molteplicità di amori, noi specchiamo finitamente e imperfettamente il Signore Iddio che, sebbene massimamente uno, quando creò l’universo, “aperse in muovi amor l’eterno Amore.! (Parad. XXIX). Intanto, poiché noi si può, per virtù di grazia, metter le ali al nostro libero amore, e, di naturale che è, elevarlo anche ad amore soprannaturale di carità; ne segue che la carità può ben entrare in tutt’i nostri amori particolari, purché siano buoni. Cotesti amori sono moltissimi; e io accennerò soltanto i principali, perchè nei Cattolici. si accenda il desiderio di nobilitarli, e santificarli tutti nella virtù dolcissima della carità. Dirò dunque della carità soprannaturale nell’amore di sé, nell’amore coniugale, nell’amore domestico, in quello degli amici, e in ultimo volgerò in occhiata anche all’amore di quei beni esteriori, onde è tanto ricco l’universo. L’amore dei beni particolari, come fu detto, può diventare reo, o perché l’obbietto suo è malo, con qualche apparenza di bene, la quale se mancasse, l’amore tornerebbe impossibile, o per troppo o per troppo poco di vigore che l’amore abbia. E allora, per cotali forme d’amore disordinato, avviene che la creatura vada contro il suo Creatore, o per dirlo con Dante avviene che “Contra il Fattore adovra sua fattura”. Allorché poi l’obbietto dell’amore è buono, e non si trasmoda o per troppo o per troppo poco; l’amore naturale è buono, secondo natura. Ancora, si può più concisamente affermare, che, avendo Iddio messo una gradazione ordinatissima nei vari beni creati; l’amore, sempre che obbedisce a questa gradazione, è naturalmente buono, e se la turba e la capovolge risulta naturalmente reo. – Or dunque diamo una rapida occhiata ai vari amori particolari, che si sono qui avanti indicati, e accostiamoli alla carità soprannaturale; la quale fiammeggiante, possente .e feconda com’è, ha due forze, l’una d’impedire gli amori particolari che trasmodino, l’altra di nobilitarli e di incelarli. Tutti questi amori buoni sono tali, perché le creature, in quanto esistono, sono buone; ed essendo altresì effigiate sul tipo delle idee dell’intelletto divino, riescono acconce a svegliare desiderio di sé. Nondimeno, pel peccato d’origine, per i peccati attuali più o meno frequenti e gravi, onde l’uomo si corrompe e si disordina, per le tentatrici vanità del mondo, per la guerra interiore, che ciascuno sente in se stesso; questi amori dico, non prima spuntano nell’animo umano, intoppano in gravi difficoltà, sicché agevolmente diventano amori disordinati. E le principali difficoltà sono due: o che l’animo sia talmente preso da un amore particolare, che trasmodi, ed esca fuori del retto ordine suo: o che, l’amore umano pel suo smodato inchinamento alle cose corporee e basse, anziché elevarsi principalmente (com’è suo debito) a ciò che è spirituale e alto, discenda e si prostituisca in basso. Se, ponghiamo, un’affettuosa madre famiglia ecceda tanto nell’amore particolare del figliuolo, da dimenticare l’amore del consorte, del prossimo, di Dio; costei malamente ama, perché nel suo amore, benché in sustanza buono, c’è il troppo. E se, amando il figliuolo, l’amore non lo volge principalmente all’anima di lui, che è la parte più nobile e più degna di amore, ma invece lo volge tutto al corpo, che è cosa bassa e vile in comparazione dell’anima; ed ella ama disordinatamente, e però malamente. Ebbene ci ha forse nel mondo un balsamo, che valga a risanare, a riordinare, a nobilitare e a elevare in alto, fino a Dio, questi varj amori particolari? Vi ha indubbiamente; ed è un altro amore santo, celestiale, nobile, che è l’amore di carità. Quando un’onda vivace di carità scorre tra le onde svariate dei nostri amori umani, le raccoglie tutte in sé, comunicando ad esse la propria virtù. Nondimeno allorché l’amore particolare, qualunque esso sia, è sanato e rinvigorito dall’amore di carità, non ismette punto la sua natura di amore particolare e umano. Oltre a ciò, per il contatto che l’amore particolare e umano ha con l’amore universale e celeste, esso si trasfigura e, senza perdere la sua natura, si eleva all’ordine soprannaturale. Avviene di ciò, quel medesimo che avviene dell’occhio umano. Il quale, se guarda sempre e soltanto in basso, non vede che la terra; e, se per lo contrario guarda in alto, non perde la capacità a guardare la terra: ma le colline, i monti, il cielo, le stelle lucenti lo elevano in una regione immensamente più bella e viemaggiomente lo rallegrano. Per questo sponsalizio dell’amore umano con la carità, ciascun amore buono particolare riesce fontana di meriti per la vita eterna. Laonde gli amori di padre, di figlio, di marito, di moglie di amico nel Cristiano fervente, oltre alle dolcezze proprie di ciascuno di questi affetti, riescono sorgenti delle ineffabile ed eterne dolcezze della vita avvenire. Queste cose i figliuoli della Città del mondo o non le comprendono, o le stimano sogno di fantasie poetiche, e pure sono verissime. Lo potrebbero vedere. essi stessi; perciocché anche nella vita civile dei Cristiani si vedono ad occhio nudo le trasformazioni che l’amore umano ha subìto nel Cristianesimo e in tutta la sua vita. E ora volgendo dapprima uno sguardo all’amore particolare di sé, nel quale l’amante e l’amato sono un medesimo; si potrebbe forse assommare tutta la dottrina del Cattolicismo in questo nobile insegnamento di sant’Agostino: “Tu che ami gli uomini, li hai da amare o perché sono giusti o affinché diventino giusti. E dunque in pari modo tu che ami te stesso, ti devi amare o perché sei giusto o affinché lo diventi.” (De Trinitate 8, cap. 6.) – Nondimeno l’amare in questo modo sé stesso torna quasi impossibile, quando l’amore naturale non sia sanato e nobilitato dall’amore di carità; anzi, anche sanato da esso, non è senza grandi malagevolezze. La persona umana, dirò così, siede regina tra l’anima e il corpo suo, e ama l’una e l’altro non solo con amore necessario ma altresì con amore libero. Disgraziatamente dopo il peccato del primo padre, essa si sente spinta dai proprj inchinamenti a volgere l’amore più in basso, che in alto, più al corpo, che all’anima; onde assai delle volte ama più secondo la carne, che non secondo lo spirito. Or questo amore intemperante e disordinato che ama il corpo e tutte le cupidità sue sopra ogni cosa, è l’egoismo; l’egoismo, dico, che, impedendo all’amore di diffondersi fuori, lo ingrettisce, lo imbestia, lo chiude in uno strettojo di morte, e lo rende tarlo roditore di tutta la vita morale. E questo egoismo, quando invade anche lo spirito, e fa che esso ami sè stesso smodatamente fuori di Dio e del prossimo, diventa orgoglio; il quale è un egoismo un po’ più spirituale dell’altro, ma egoismo anch’esso. – Penetriamo. più addentro in questo argomento dell’amore che ciascuno ha da avere a sé medesimo, prendendo liberamente i pensieri dall’Angelico san Tommaso, e dichiarando alcune particolarità di quell’amore buono di sé, che in gran parte sboccia, come vago fiore, dall’amore di carità. L’uomo, che vive in carità, quando si tratta del proprio bene spirituale, deve amare sé più del prossimo, e di qualsiasi altra creatura; e ciò per questa ragione. L’uomo ha da amare sé e il prossimo, in quanto che l’uno e l’altro partecipano al bene divino. Ma, poiché ove si tratta di una stessa persona, l’unità dell’amante e dell’amato maggiore dell’unione tra due, cioè tra l’amante e il prossimo amato, è giusto che nei beni dello spirito noi amiamo più noi stessi che il prossimo. Da ciò segue, che nessun uomo deve volere il male proprio del peccato (ciò che sarebbe contrario all’ultimo fine della beatitudine) per liberare qualche suo fratello dal peccato. Per lo contrario l’uomo che vive in carità, deve più amare l’anima altrui, che il proprio corpo; e ciò, sia perché nell’ordine dei beni lo spirituale vale molto più del corporeo, sia perché nel soffrire qualche detrimento corporale per la persona amata, ama secondo la perfezione della virtù, e però ama anche se stesso, e il bene proprio spirituale. – Ma il Cristiano nell’anteporre il bene spirituale del prossimo al proprio corpo, deve forse andar tanto avanti dal metter la vita propria per la salute dell’anima del prossimo? Non certo sempre. Invero san Tommaso insegna così: (vedi 2, 2, q. 26, art. 4 in cor.)“La sollecitudine e la cura della vita del proprio corpo appartiene a ciascun individuo intimamente, e come cosa propria: non è lo stesso della salute spirituale del prossimo, da qualche caso particolare infuora. Però non è necessario, per necessità di carità, che l’uomo esponga la vita propria per la salute spirituale del prossimo, se non nel caso in cui ha obbligo stretto di provvedere ad essa. Nonpertanto che taluno offra la propria vita spontaneamente per la salute del prossimo, ciò appartiene non all’obbligo ma alla perfezione della carità” (2, 2, q. 26, art. 5 ad 1). E questa perfezione, elevata a un grado infinito e divino, è la perfezione della morte di Gesù Cristo; il quale, secondo la frase biblica, premuto sotto il torchio di dolori ineffabili, volle soffrire il tormento della Croce, e morì per la salute di tutto il genere umano. Questa medesima perfezione del dar la vita pel prossimo, Gesù la meritò e la ispirò ai molti milioni di martiri; i quali morirono di certo per testimoniare la fede, ma anche per la salute delle anime. Il sangue invero, da ciascun martire sparso sulla terra, riuscì seme di martiri novelli, e il sangue di tutti uniti insieme fu uno dei fonti di salute, dato alla Chiesa per salvare le anime; perciocché il martirio cristiano riesce uno dei validi argomenti della verità del Cristianesimo, e una forma nobilissima e fortissima di apostolato cattolico. – Se non che la fiamma viva e lucente della carità, che sana e nobilita l’amore di sé stesso, sana e nobilita altresì lamore conjugale. L’amore conjugale, anche guardato naturalmente, non è onesto e buono se non nel matrimonio indissolubile; perciocché solo nel matrimonio indissolubile raggiunge tutta la sua finalità. Nonpertanto questo amore conjugale, esso più di tutti gli altri, dopo il peccato di origine, tende a discendere in basso; e però esso più di tutti gli altri ha bisogno della sanatrice virtù della carità cristiana. – Di nessun altro amore la Scrittura divina dichiara la natura e la perfezione sua primitiva così particolarmente, come dell’amor conjugale. Iddio medesimo infonde questo amore in Adamo, creando da lui e come immagine di lui, la consorte Eva, e volendo che egli la tenga come un altro se stesso. Poi comanda ad entrambi che s’amino come fossero una sola persona, ché tanto vale il dire: saranno due in un solo corpo. Or questa nobile e strettissima forma d’amore, di due che sono uno, essa è la legge dell’indissolubile amor conjugale; una legge ammirabile, che il peccato rese difficile, ma che Cristo confermò e rese agevole, mercè la virtù illuminatrice e santificatrice del Sacramento matrimoniale. Ancora, benché questo amore conjugale sia, più che tutti gli altri, turbato dalla tirannia della concupiscenza (che senza esser peccato, viene dal peccato e al peccato c’inclina – Conc. Trid.); pure nel nuovo Testamento questo amore, dico, è levato a una grande altezza dall’Apostolo san Paolo. Il quale di esso e di nessun altro amore dice, che s’abbia da paragonare all’amore di Cristo colla Chiesa: “Mariti, amate le vostre mogli, come Gesù Cristo amò la Chiesa.” (Eph.V, 25). –   Or chi non sente in queste parole il soave profumo di celestialità e di santità, che Gesù Redentore vuol diffondere in questo amor conjugale, che le passioni hanno fatto cadere sì in basso, e che il Cristianesimo vuol levare assai in alto, e santificare, principalmente perché è il primo amore, onde sorge il genere umano, cioè le famiglie che lo formano? Profondo mistero di carità divina è questo, che nello stesso amore, cui il peccato ha più contaminato e gettato nel fango, in questo stesso amore sovrabbondi la divina bontà; sicché esso debba ricopiare, quanto le cose umane e basse possono ricopiare le divine e altissime, il tipo ineffabile di amore divino, onde Gesù Cristo amò e ama la sua immacolata e dolcissima Sposa la Chiesa. Intanto, l’amore di carità, quando abbellisca e vivifichi l’amore conjugale, non solo gl’impedisce di scendere tutto in basso, ma lo ordina, lo nobilita, e fa meritorio dell’eterno premio. Produce poi due etti principalissimi, ai quali è bene di fare un cenno. In questa forma di amore tra uomo e donna: brutali passioni sono riuscite, massimamente nel paganesimo, tanto ardenti e micidiali, da annientare nel  matrimonio l’amore onesto e conjugale; anzi ciò che resta nel matrimonio paganamente inteso non è neanche amore. A noi Cristiani la cosa pare al tutto assurda; ma ciò non impedisce che tra i pagani d’un tempo e i paganizzanti dell’età nostra la cosa sia certa, anche audacemente affermata dagli stessi maritati. Infatti, allorché nel matrimonio la donna è schiava, e tiranno l’uomo; dove è mai più l’amore onesto e conugale, anzi donde esso nascerebbe mai tra i conjugi? Né la tirannide, né la schiavitù furono o saranno mai sorgenti d’un sentimento così nobile, bello e ricco, com’è il sentimento di amore, L’una e l’altra, cioè la schiavitù e la tirannide, di lor natura alimentano capricci brutali e ignominie. Per restaurare dunque nel matrimonio il regno dell’amore, volto al bene e a tutte le finalità conjugali, il Cristianesimo insegna essere eguali nella sustanza l’uomo e la donna, dichiara la donna non serva, ma compagna dell’uomo, e poiché procedettero l’una dall’altro, li costituisce anzi, pel matrimonio una sola persona morale. Ma questo, che il Cristianesimo insegna, non si compie mai, se la carità del Signore, aleggiando intorno al talamo conjugale, non sani e non nobiliti l’amore dei conjugi, così spesso corrotto. Ben è vero che san Paolo vuole che le donne sieno soggette ai loro mariti, come al Signore, ma questo comandamento di soggezione è infinitamente distante dalla schiavitù pagana, e, non che impedisca l’amore, giova anzi a nutrirlo. Perciocché esso corrisponde alla natura stessa dell’uomo e della donna, all’indole di lei, a cui l’obbedire per amore è dolce, e contribuisce all’unità conjugale, la quale ha bisogno, anch’essa, di un certo ordine gerarchico. La soggezione della donna al marito in tutto ciò che non è peccato, costituisce l’obbedienza maritale; e l’obbedienza nel Cristianesimo, non che escludere l’amore, ne è la forma propria, sempre che l’amore sia tra due, l’uno inferiore all’altro. La carità dunque soprannaturale rinnova e alimenta nei matrimonj cristiani l’amore buono conjugale. – Un altro effetto mirabile della carità nell’amore conjugale è questo. La carità dà gran valore alle due finalità spirituali del matrimonio, cioè la piena unione intellettuale e morale dei conjugi, e l’educazione buona della prole. Tutti due questi beni sono impediti dalle cupidità, che tirano gli animi in basso, e l’uno e l’altro bene la carità li fa sentire e amare ai conjugi veramente Cristiani. I quali, anche se l’amore umano, per ragioni umane, con l’andare degli anni, tende a intiepidirsi; per la carità a poco a poco si unificano sempre più nei pensieri, nei desiderj, negli affetti, nelle speranze, nei dolori. E quel che più rileva, essi fermissimamente credono e sperano, che questa spiritualissima loro unione si accrescerà e si perfezionerà nel cielo, dove l’amore di Dio piuttosto che impedire i buoni e santi amori umani, li centuplica e li corona di dolcezze ineffabili. Quanto all’educazione dei figliuoli (poiché educare alcuno non è altro che farlo buono), la carità impedisce che l’educazione sia volta, come accade nei matrimonj pagani o paganeggianti, principalmente al corpo e ai beni terreni; ma eleva i figliuoli in più spirabil aere, mercè gli alti ideali della fede e della morale cristiana. La stessa coltura intellettuale dei figliuoli, la quale, senza Dio e senza il suo santo amore, riesce argomento di orgoglio, e finisce per essere anche essa vanità di vanità; per l’amore di Dio e del prossimo si eleva a una incommensurabile altezza. Gli studj, la letteratura, l’arte, la scienza servono allora non ad alimento di vanagloria e di basse cupidità, ma al perfezionamento proprio, alla glorificazione di Dio e al premio della vita eterna. – Dopo le cose dette, sarebbe quasi inutile il parlare della carità nella famiglia, perciocché l’amore di famiglia, quasi rivo da fonte, deriva dell’amore conjugale. quale amore di famiglia, come una fedele immagine ritrae l’originale, così esso ritrae con piena somiglianza la bontà o la reità dell’amore conjugale. Nondimeno io trascriverò qui alcune parole dell’Apostolo san Paolo, che, nel parlare con ispirata sapienza della famiglia cristiana, non ebbe chi lo agguagliasse mai. Eccole: “Figliuoli, siate obbedienti ai vostri genitori, perciocché ciò è giusto…. E voi, o‘ padri, non provocate ad ira i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e nelle istruzioni del Signore. Servi, siate obbedienti ai vostri padroni (terreni), con riverenza e sollecitudine nella semplicità del cuor vostro, come a Cristo…, servendo con amore, come pel Signore, e non come per gli uomini…. E voi, o padroni, fate altrettanto riguardo ad essi, ponendo da parte l’asprezza, e non ignorando che il nostro e il loro Padre è nei cieli, e che Egli non è accettatore di persone.’” (Ephes. I, 1 e seg.). Queste parole veramente d’oro sono sfavillanti di tanta spiritualità e di tanta luce, che basterebbero esse sole a nobilitare e a governare tutti gli amori di famiglia, l’amore cioè dei genitori e quelli dei figliuoli, l’amore dei padroni e quello dei servi; i quali tutti debbono essere quali membri (l’ uno più e l’altro meno nobile) d’un medesimo corpo, e diventare come una sola persona morale. – Principalmente però è da notare che nelle parole di san Paolo è ammirabile e nuovo il connubio nelle relazioni di famiglia tra l’amore e il principio gerarchico. L’amore deve governare tutte le relazioni domestiche: ed esso diventa poi comando in chi è superiore, e diventa obbedienza in chi è inferiore: sempre però nella sustanza deve restare amore, e amore che ci unisce anche a Dio e a Cristo: Obbedite come a Cristo; servite con amore, come al Signore, pensate che il vostro e il loro Padre è nei cieli. Le quali verità, se ci consolano e ci nobilitano grandemente, quando si pensa alle relazioni tra i genitori e i figliuoli, riescono al tutto ammirabili e nuove, allorché si guardi alle attinenze dei servi e dei padroni. La servitù, dico, quella che intende ad alcuni ufficj umili nelle case, il Cristianesimo la trasformò radicalmente, la costituì e la fece vivere non solo nell’amore tra il padrone e il servo, ma in un amore di carità che si eleva sino a Dio. Laonde il servo, secondo l’Apostolo, ami il padrone, ma lo ami in Dio, e così similmente il padrone ami il servo, ma lo ami in Dio, Padre dell’uno e dell’altro. Del rimanente il mutamento, avvenuto per le idee cristiane e pel soffio della carità nella relazione di servitù e di signoria domestica, si manifesta bellamente anche nel linguaggio nostro comune, in gran parte ringiovanito e nobilitato dal Cristianesimo. Il Cristianesimo, col diffondere nuove idee, ha creato molte parole nuove o ha dato significati nuovi alle antiche. Però il servo di casa, lo diciamo cristianamente non servo, ma domestico, che, è come dire persona che appartiene alla casa (domus) e alla famiglia. Che se forse non mai, come ai dì nostri, le relazioni tra padroni e domestici sono diventate spinose e arruffate, ciò dipende da che la coscienza cristiana, cioè il sentimento vivo, forte ed efficace del bene e del male, si è di molto affievolito e offuscato, sì nei padroni, sì nei domestici. Spesso le idee cristiane ci sfiorano la mente quasi come una bella poesia; ma non mettono radici nel cuore e nel sentimento, e allora poco o punto giovano. – Oltre le forme particolari d’amore già toccate, ve ne ha un’altra più spirituale, e forse più bella ancora: intendo l’amore di amicizia. L’amore d’ amicizia per fermo rassomiglia più di tutti gli altri a quello di carità; onde l’Angelico san Tommaso dà il nome di amore d’amicizia all’amore che Iddio ha verso di noi. Ciò non impedisce che anche questo amore d’amicizia, di per sé tanto puro e nobile, possa o corrompersi o, come le piante malaticce, imbozzacchire allorché l’aura celeste di carità non vi spiri dentro. L’ uomo specchia il proprio animo in tutt’i suoi amori; di che, juando l’animo è o disordinato, o uso a inclinarsi al basso, e a troppo ripiegarsi sopra sé stesso per egoi0smo, anche l’amore di amicizia riesce gelido o contaminato dagli stessi vizj. Però l’amore di amicizia esso altresì ha bisogno che la carità lo sani, lo ordini, lo nobiliti, e lo renda meritorio, secondo l’insegnamento della Bibbia nell’Ecclesiastico « Colui, che teme Iddio, ed egli avrà facilmente una buona amicizia.» (Eccl., VI, 14, 15). In quella guisa che san Paolo riesce ammirabile nel descrivere e nobilitare l’amore conjugale e familiare; così i Libri sapienziali dell’antico Testamento ci han lasciato una tale dipintura dell’amicizia, che la più bella e soave non si trova. Parla il Signore, ispiratore dei divini Libri, com’è naturale, dell’amicizia che vive nella carità, e la effigia così: “L’amico fedele è una protezione possente, e chi lo trova, ha trovato un tesoro. Nessuna cosa è da paragonarsi a un amico fedele, e neanche una massa d’oro e d’argento è degna di esser messa in bilancia con la fedeltà di lui. L’amico fedele è balsamo di vita e d’immortalità, e coloro che temono il Signore, lo troveranno. — Come l’unguento e la varietà degli odori rallegrano il cuore; così i buoni consigli dell’amico danno conforto all’animo. Non esca dall’animo tuo il tuo amico, e non ti dimenticare di lui, quando sii venuto in ricchezze.” (Proverb, XXVII; Eccles., XXXVII 6). — Gli stessi Libri sapienziali dipingono al vivo la perfidia dell’amicizia finta; e poi escono in queste parole: “Oh scelleratissima invenzione, donde sei uscita tu a ricoprire la terra di tante malvagità e perfidie!” (Eccles. XXVII, 3.). – E ora consideriamo un po’ addentro questa dolcissima virtù dell’amicizia cristiana, facendo in parte nostri i pensieri di sant’Agostino, dell’Angelico san Tommaso, e anche di Dante, che nella dottrina morale, come nella teologica, fu così fedele discepolo dell’Aquinate. La virtù dell’amicizia consiste nella concordanza e nell’unione degli animi in una medesima volontà. Ma, per costituire amicizia vera e secondo carità, questa unione deve riguardare in prima il fine ultimo della volontà umana, il quale è il bene. Questo fine l’amicizia se lo ha da mettere avanti agli occhi molto di più, che non i desiderj particolari di essa volontà. In quella medesima guisa che si direbbe vero amico di un infermo chi gli procurasse la salute, e non chi aderisse ai desiderj nocivi di lui; così s’ha da pensare d’ogni buona e vera amicizia cristiana. Laonde sant’Agostino in uno stupendo suo sermone distingue tre forme di amicizia possibili, dicendo così: “Vi ha degli amici, uniti di amicizia mala, la quale anzi non s’ ha a dire neanche amicizia; perciocché nasce da coscienza rea. Costoro commettono insieme opere male e pajono amici, perché li anima una stessa coscienza malvagia. Oltre di questa perfida amicizia, ve ne ha un’altra, la quale è materiale o piuttosto profana, ed essa consiste nella consuetudine dell’abitare, del parlare, e dello stare insieme con diletto; sicchè l’amico si rattrista se l’altro lo lascia; e quando vivono unitamente, l’uno non si vorrebbe mai dall’altro disgiungere. Questa amicizia è di per sé onesta; ma è amicizia di consuetudine non di ragione. Anche gli animali, in certo modo, hanno una simile amicizia. Due cavalli mangiano insieme, e desiderano di non separarsi; cammina l’uno, l’altro si affretta di seguirlo, come amico ad amico; se il padrone rattiene uno dei suoi cavalli, quando l’altro si allontana, il primo appena gli esce dalle mani che lo raffrena, va e corre con fuga verso il compagno. Vi ha infine un’altra amicizia assai superiore, e questa amicizia non è di consuetudine, ma di ragione. Essa nella vita presente si fonda tutta nella fedeltà e nella benevolenza, che gli amici hanno tra loro. Ancora, una tale amicizia ha il principale suo fondamento in tutto ciò che è divino, o che proceda da Dio. Laonde quando l’amico vede nell’amico il bene, ed ei lo ama, e così facendo ama in esso il suo Iddio. (August. « In quodam sermone, citato nel Flores Doctorum etc.). Oltre a ciò, l’amicizia buona è pure dolcissima cosa, in quanto che appaga i desiderj onesti e buoni degli amici, con i quali vive in concordia e unità di volere. In vero il Cristiano amico, come nota l’Angelico, si diletta del bene dell’amico suo, e comunica a lui il proprio bene; dona ciò che può all’amico, senza attender di essere richiesto, e così il dono suo riesce più spontaneo, più libero, più gradito. Chi lo riceve, non soffre del pensiero di gravare l’amico, anzi gode ed è grato a lui del libero suo amore. L’uno e l’altro prendono diletto di un modo di dare e di ricevere così nobile e santo. Ancora, l’amico, se, per un verso, si rattrista del male dell’amico suo, per un altro verso, se soffre egli stesso, rivela al suo diletto il male proprio quanto più tardi può, e attenuandolo, quanto può: va prontamente a lui, quando lo sa afflitto, e va non chiamato, perché l’aspettare l’invito gli parrebbe scemamento di amore. Per questa soave comunicazione dell’amicizia, la conversazione con gli amici ci riesce sopramodo dilettevole. Ed è giusto; perciocché la conversazione ci manifesta il bene dell’amico, che a noi è quasi bene proprio. E, poiché per il senso del vedere, meglio che per gli altri sensi, si conoscono le cose, segue che gli amici principalmente desiderano di vedersi. Infine, essendo certo che l’uomo può meglio conoscere e valutare i beni degli altri, che non i propri, ragionevolmente accade che l’uomo si diletti più del conversare con l’amico, che non con se stesso. Tali sono dunque le sante e nobili delicatezze dell’amicizia cristiana. Però Dante a ragione scrisse che non si può avere vita perfetta, senza amici, e che nell’amicizia buona la virtù d’un amico accresce quella dell’altro amico.  (Convit., I, 8; 1, e 3. — Qui cadrebbe opportuno di dire alcun che del dolcissimo e nobile amore di patria; ma ho in animo di parlarne distesamente altrove, Ora basti il considerare che le cose dette dell’amore di famiglia valgono egualmente per l’amore della patria, la quale è in senso largo la nostra seconda famiglia.). – Se non che l’uomo è stato così naturato da Dio, che ha propensione di amore non solo verso le persone, ma anche verso le cose sensibili. E con ragione; perciocché amore è tendenza al bene, e anche le cose senili sono buone, anzi molto buone, secondo che è detto nel Genesi: “ E Iddio vide tutto ciò che aveva fatto ed era molto buono.” (Gen. I, 31). Per quali ragioni tutte le cose create siano in sé buone, fu già accennato avanti; ma non è inutile ricordarlo anche qui. Sono buone, e anzi molto buone le cose create, perché riflettono anch’esse la luce dell’infinito Bene, che è Iddio. Certo, chi voglia paragonare questi riflessi della divina luce, con le nobili e spirituali immagini di Dio, che sono l’Angelo e l’uomo, li dirà riflessi pallidi e opachi, o piuttosto quasi ombre, in cui appena si vede qualche scintilla della divina Bellezza. Ma l’eterna Bellezza, che nelle cose create imperfettamente si specchia, è tanto fuori di ogni misura, che anche una piccola scintilla di luce sua basta per indurci ad amarle, e talvolta disgraziatamente, per la degenerata natura nostra, ad amarle anche troppo. – In vero tutta la natura materiale effigia Iddio in un modo misterioso, e parla a noi di Lui. Così la bellezza dei colli, dei campi, dei fiori, delle stelle effigia a noi la eterna Bellezza di Dio; il mare e l’indefinita e azzurra volta del cielo ci dànno immagine dell’Immenso, dell’Eterno, dell’Incomprensibile; l’ordine e la grande armonia del creato ci parla l’ ordine infinito e l’ eterna armonia, che regna in Dio, e anzi è Dio stesso; il sole infine con la sua luce effigia gli splendori del divino intelletto, e col suo calore ci specchia Iddio medesimo primo eterno e fiammeggiante Amore. Or, poiché anche le cose materiali, perché effigiano Iddio, sono veri beni; l’amore nostro per esse, secondo il divino ordinamento, doveva servirci come di scala al nostro amore a Dio; sicchè l’un amore non si disgiungesse mai dall’altro. Ma disgraziatamente, pel peccato d’origine tutte le gerarchie furono turbate e guaste, e principalmente le gerarchie di amore. Ne seguì che l’uomo quasi sempre ami disordinatamente i beni esteriori, e il disordine riesca tanto micidiale, che la scala di amori, la quale dovrebbe farci ascendere verso il Bene e l’Essere infinito, che è Dio, spesso ci fa discendere verso il male, e il non essere che è il nulla. – Oltre a ciò i beni materiali, da Dio creati, altri servono alla nostra vita, e ci dilettano per questo: altri la migliorano e pur ci dilettano: altri hanno per giunta un loro diletto particolare, che è del corpo, ma che lo sente lo spirito e tutta la persona. Così per esempio l’aria, l’acqua, il cibo ci mantengono la vita, le ricchezze e gli agi ce l’abbelliscono e migliorano; il canto degli uccelli e le melodie delle voci e degli istrumenti rallegrano l’udito; i fiori, la marina, i colli, la luce rallegrano l’occhio; e le frutta gustose, e il frumento, e il succo della vite ci riescono grati al gusto. Tutti questi beni noi li amiamo, e giustamente li amiamo. Ma, poiché il peccato ci trae in basso possentemente, assai delle volte noi li amiamo troppo; li amiamo tanto, sino a dimenticare tutta quella aurea serie di beni spirituali, che valgono tanto di più, e sino lo stesso Bene eterno infinito. – Le cose materiali dunque, che, per le ragioni dette, sono di per sé amabili; l’uomo, dopo il peccato, quasi sempre le ama troppo e disordinatamente e male; s’impiglia in esse, ed esse gl’impediscono il volo dell’anima verso i beni spirituali, e verso Iddio stesso. Ma la dolcissima carità, come sana e ordina e nobilita santifica gli altri amori particolari; così fa egualmente dell”amore alle cose sensibili. Produce tutti questi benefici effetti, sia per lume e per movimento di grazia interiore, sia per effetto suo proprio. L’amore di carità ci adusa a dare a ciascuno dei molti beni, tra i quali viviamo, il suo valore proprio, senza scemare o accrescere d’una sola dramma il pregio reale d’alcuno; onde solo per chi ha vera carità, l’oro è oro, l’argento è argento, il rame è rame; tutti i beni insomma si valutano per quel che sono. L’amore di carità ci dà norme sicure nel conoscerli, sia mercè la fede, sia mercè la comparazione di ciascun bene umano con l’infinito Bene. Dippiù ci abitua a vivere di amori nobili e altamente ideali, i quali naturalmente rimpiccioliscono alla nostra mente tutti gli amori dei beni materiali, e ci procura molti diletti spirituali interiori e nobili, che ci fanno o poco o punto desiderare quei diletti materiali, che ai peccatori pajono soli desiderabili. Soprattutto la dolcissima e benefica carità di Gesù Cristo, facendoci vivere più nella vita avvenire ed eterna, che nella vita presente e temporanea, c’induce a considerare come intoppo o come superfluità ogni amore, che, fuori dell’ordine e con troppa vivacità, ci leghi ai beni terreni. – Le cose, che ho detto sin qui in questo Capo, e nei precedenti intorno alla fede, alla speranza e alla carità, tre note in una sola armonia, sono, come uno sprazzo luminoso, messo in paragone di un oceano di luce. E nondimeno esse hanno prodotto in me che scrivo (perché non dirlo?) e spero producano in qualcuno dei miei lettori, due effetti principalissimi. Il primo è che mi hanno mostrato la bellezza delle tre celesti virtù, fede, speranza e carità, o piuttosto mi ci hanno fatto meglio e più profondamente pensare. L’altro è che, scrivendo mi si è chiarito e rinvigorito il convincimento, che errano grandemente coloro, i quali stimano queste virtù essere quasi fantasmi o sogni di asceti, senza fondamento alcuno nella natura umana, e anzi fatte per contradirla. Mille volte no. Fede, speranza e carità mi rassomigliano alla scala veduta in sogno da Giacobbe; la quale, se con la cima toccava il cielo, con la base era assai ben fondata su la terra. Esse sono indubbiamente virtù celestiali, ma corrispondono in modo ammirabile alle propensioni, ai desideri, ai bisogni della nostra mente, del nostro cuore, di tutta l’anima nostra. E l’anima nostra si sente migliore, più forte, più viva, più capace di moto, quando si eleva a queste nobili altezze, che non quando s’impantana negli amori del senso, delle vanità e delle ricchezze. Ben è vero che queste dottrine, come insegnò Gesù Cristo, le comprendono piuttosto gli umili, che non i sapienti del mondo; ma anche costoro sarebbe bene che almeno ci pensassero un po’ su, e non sarebbe, io credo, senza frutto. Per quanto l’uomo si voglia imbestiare tra le corruttele e le passioni, qualcosa di alto, di grande, di nobile resta sempre nel suo spirito, e almeno in alcune ore della vita, egli non può restar sordo alla voce interiore che gli grida: in alto, in alto il cuore: perché mai tu elevi con tanto compiacimento lo sguardo al cielo, e non vuoi levare la mente e il cuore a chi creò questo cielo, e, a nostro modo d’intendere, misteriosamente vi abita? E se, poniamo, qualche uomo mondano o paganeggiante o tentennante nel bene, oltre al pensare a queste virtù, con uno sforzo della volontà si avvicinasse un po’ ad esse; chi sa che non incomincerebbe, per impulso di grazia, a sentire anch’egli che il Signore è soave, molto soave a coloro i quali lo amano, e che il giogo di Cristo è pieno di dolcezze, e il peso della legge di lui è leggero?

LO SCUDO DELLA FEDE (190)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

I. — La morte e l’immortalità.

D. La vita soprannaturale che descrivesti è destinata secondo te a proseguire e non finisce con la morte?

R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l’immenso movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che una soglia; al di là vi è quello che Carlyle chiama «il più Alto Mondo ».

D. Perché toglierci la vita e restituircela?

R. La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur, non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi prendiamo, per noi stessi e per altri, alla morte riparatrice di Cristo.

D. Tuttavia siamo distrutti.

R. L’io terreno è di fatto distrutto; perché l’anima non è l’uomo. Ma l’anima è la parte essenziale dell’uomo, e l’uomo completo sarà un giorno ristabilito.

D. Comprendi tu una tale divisione, una tale separazione?

R. Il mistero del nostro essere è quello di trovarsi così per natura in una regione di frontiera, che partecipa di due sfere, e forma un composto instabile la cui dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione hanno qualche cosa di sublime. L’unione in noi della materia e dello spirito suggella in un angolo dell’universo, poi altrove, l’unità dell’opera divina.

D. Frammenti dell’universo che si muove e si disgrega incessantemente, non dobbiamo noi subirne la sorte?

R. Frammenti dell’universo Spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello spirito, imitare e raggiungere lo spirito?

D. Perchè lo spirito non finirebbe come il resto?

R. Perché esso comincia sempre. Là dove l’evoluzione della vita ha un termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma l’evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha prodotto la quercia, ricca di un’altra ghianda; lo spirito ha davanti a sé l’infinito della indagine e degli acquisti possibili, l’infinito della verità e del bene. Per lui, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di partenza, finché non è pervenuto a incontrare il suo oggetto supremo. E quest’oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua infinità inesauribile lo lancia di nuovo, invece di frenare e di arrestare il suo sforzo.

D. Ma l’anima non è tutto spirito.

R. L’anima non è tutto Spirito, perché anima il corpo, e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, siccome il suo compito di animatrice non impiega tutte le sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che l’uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di materia e di spirito, e, secondo quello che precede, di morte e di vita.

D. Come spieghi a te stesso la sopravvivenza?

E. Per una parte di sé, quella che vedi, l’uomo è un frammento dell’universo, un convegno delle forze generali. Ma, per rapporto a questo fondo di sostanza e a queste energie della parte bassa, vi è un’eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l’amore, la libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È quello che abbiamo rilevato a proposito della creazione dell’uomo, In ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù per rapporto all’ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l’anima dipenda nel suo sbocciare, nel suo essere attuale, né per conseguenza nella sua durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell’occasione di un’opera di carne; è soggetta all’azione delle forze che si rivelano nella carne, senza tuttavia ridurre la sua attività interiore o le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al determinismo. Dunque, la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione; una scossa, ed eccola prendere la tangente.

D. In due parole…

R. Quello che spiega l’immortalità della vita è l’immortale della vita.

D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova?

E. Questo prova sotto certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge Egli stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione. D’altronde, se, per l’anima, si tratta di una immortalità cosciente e attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.

D. Come pensare senza l’organo del pensiero?

E. Appunto, il cervello non è propriamente l’organo del pensiero. Gli è indispensabile quaggiù, ma per l’elaborazione della sua materia, che è l’esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l’attività pensante e l’attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.

D. Se il cervello è indispensabile al pensiero quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?

R. Uno stesso potere, collocato in diverse condizioni, può avere diverse esigenze.

D. Da che dipenderebbe, secondo te, la differenza?

R. Qui c’è mistero; ma si può credere che si tratti, per l’anima, di una differenza di orientamento e di attenzione profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle sue oscure chiarezze al punto di non poter aprirsi a un’altra luce. La sua propria luce spirituale le sfugge prima dell’esperienza delle cose; essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atto di spirito riguardo ai corpi.

D. È una condizione sorprendente!

R. Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest’anima, posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura corporea. Quando si riflette a questa condizione, si capisce che l’anima, povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come offuscata da questo corpo, abbagliata di materia, se si può dire così, e resa impotente a

percepire lo spirito, perfino quello che è in lei e che è lei. La pellicola di luce che circola sopra la nostra terra non basta forse a nasconderci tutto il cielo? I nostri deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La notte rivelatrice, per l’anima, è la morte.

D. Perché la morte sarà una rivelazione?

R. Perché l’anima, sciolta, sarà resa alla sua natura spirituale, e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il rigiro dei sensi, potrà inoltre sperimentare l’invisibile.

D. Quale invisibile?

R. Gli altri spiriti, diventati ora del suo dominio e, se posso dire così, del suo mondo; ma specialmente Dio, se a questo Dio piace di fare verso l’anima — per una discesa d’intelligibile, invece che per una salita — l’antico ufficio dell’universo.

D. Perché lo vorrebbe Egli?

R. Perché è il fine della sua creazione, e soprannaturalmente, il fine di tutta l’opera redentrice. Quaggiù, noi siamo abbandonati all’universo per l’informazione della nostra mente come per la nutrizione della nostra carne; l’universo, espressione dell’idealità creatrice, vestigio di Dio ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne sappiamo estrarre; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande movimento che opera l’anima attraverso alla vita, ci congiunge alla sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del mondo.

D. Perché desidereremmo un tale avvenire?

R. Perché tal è la destinazione che Dio ci dà, e del resto questa brama, checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra natura.

D. Aspiriamo noi a pensare in Dio?

R. Noi aspiriamo a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la nostra piena vita è in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra attività del nostro essere.

D. Da che cosa riconosci tu un tale istinto?

R. Da quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel tormento dell’infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla dell’azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di captare in effigie quello che non si può raggiungere in sé; parliamo per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo che iniziare, nelle condizioni di questo mondo. Nell’essere umano vi è una attesa essenziale che tutto può soddisfare, veduto in desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro possesso. – Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie postume: « Ho camminato verso l’orizzonte per cogliervi qualche cosa che non esiste »,

D. Tu descrivi le nature che si chiamano precisamente inquiete,

R. Io descrivo la natura stessa, che è un’inquietudine sostanziale, se così posso parlare, poiché nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale apparisca essa stessa, non l’acquieta mai.

D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere.

R. Non è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfi punto, e che tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della stessa forma, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto, sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange » (FLAUBERT): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò che era veramente desiderato. La nostra brama ha sbagliato oggetto, diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare, al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.

D. Di certi felici successi non diciamo noi che sorpassano la nostra attesa?

R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune misurate in se stesse, l’attendevamo in noi come pienezza, ed è la pienezza che non viene.

D. Non sempre siamo ingannati in tal modo.

R. Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d’una passione allucinata o d’uno sragionamento puerile, appena l’anima profonda si desta. E questo ci dice che il fine di questa vita non è in lei stessa; questo ce lo dice con più evidenza che la sventura, che l’ingiustizia subìta, che le delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri spropositi. – La norma secondo la quale si giudica della nostra miseria e dell’insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.

D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca?

R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri? Non vi è qui un segno?

D. Un segno di che?

R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell’anima propria, come dice la Scrittura? L’appello interiore è un fatto proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato di questo fatto, se non vi è niente fuori dell’esperienza? Come mai l’idea della pienezza può anche solamente entrare nei nostri fragili cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una mediocrità irremissibile, perché, in noi, questa provvista di speranze illimitate? Noi non possiamo raggiungere quello che è evidentemente il nostro fine, quello verso il quale, per l’autentico impulso del desiderio profondo, la natura ci slancia. La traiettoria umana si delinea, lascia vedere le sue coordinate, ed essa non si percorre punto. – Noi siamo un albero la cui specie è nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturali. È «una sconciatura » (PASCAL). Non può finire così ogni cosa.

D. Perchè?

È. Perché la natura naturante, in noi, non s’inganna, e non inganna noi. Essa non si può dirigere verso il vuoto. Uscita dall’ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge, Non si cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse erba vi sarebbe l’erbivoro? Colui che constata il desiderio insaziabile nel quale consiste essenzialmente l’essere umano e nega che sia possibile la sua soddisfazione rassomiglia all’uomo che ha fame e nega il pane.

D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo.

R. Noi lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l’immensità del sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti ci appariscono allora uccelli dell’infinito presi al laccio; per quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per l’ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che l’infinito, solo l’infinito ci contenta? Chi ignora quale malinconia segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta un poco il velo d’errore! In fondo ai nostri stati felici vi è un sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce esso se non a un misterioso al di là?

D. Credi tu che molti sappiano queste cose?

R. I più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro l’analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei Cristiani supplicanti, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino lì, per un sollievo, i loro fardelli di vita terrena, che essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e tutti, scorgono ad intervalli: voglio dire, l’appetito dell’indefinibile e del perdurevole faciente corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall’ispirazione che essi provocano, l’appetito dell’al di là di tutto, del Tutto, del Tutto misterioso.

D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto dell’uomo, invece di cercare al di sopra?

R. Il loro sentimento è lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro aprono i sensi, è ancora l’infinito, riconoscibile dalla sua ombra. Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che piomba in un mare pieno di notte per pescare degli astri.

D. Tutto questo non si riferisce che all’ampiezza degli oggetti della vita, e non alla durata di quest’ultima. Pensi tu che noi vogliamo vivere eternamente?

R. Noi vogliamo vivere senz’altro, e questo esige la vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un mondo che crolla, sentendo qualcosa che non crolla. Sotto la chiarezza degli oggetti che occupano e ingannano il nostro appetito di vivere, scorre un fiume di notte che ci trascina giorno per giorno, verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (PASCAL).

D. Eppure il nostro appetito di vivere, nel fatto, si attacca a questa vita limitata,

R. È impossibile capire che ci si affanni tanto ‘per preservare «un lampo tra due notti» (ENRICO POINCARÉ). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un’altra vita, anche se non lo si confessa.

D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri discendenti e delle opere nostre.

R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza. Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l’effetto e il segno dell’eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze d’immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell’inevitabile e prossimo inghiottimento?

D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la generosità, se non il desiderio proprio.

R. È bello essere generosi, e nulla è più commovente che il sentimento d’un padre, d’un amico, d’un patriota, che dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio amico prosperi, il mio paese abbia il trionfo? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa bellezza, e quale segreta delusione al cuore stesso di colui che vi si eleva, se essi vengano a dire a se stessi: Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la morte!

D. La sapienza è di contentarsi della propria misura, a più forte ragione di potere oltrepassarla un poco.

R. Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è la rassegnazione cristiana, sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è contradittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre e imponga loro per sapienza la rinunzia e questo stesso volere. L’anima non vi si risolve punto; ne fanno testimonianza tutte le letterature, del pari che ogni cuore. Del rimanente, come osservò Renan, «è quando l’uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che l’uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».

D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente, în noi, questo sentimento dell’eternità che dici insito nei nostri pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?

R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono tanti momenti che ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d’estasi fuori del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto, nell’amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le forze eterne; momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver fiducia nella sorte e che la grande vita non muore…: tutto questo dice la nostra essenza Vera, e, come diceva un eroe della grande guerra, «che cosa è una palla al cuore? essa gli può far del bene ».

D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è niente?

R. «Tutto quello che deve finire non è niente» (S. AGOSTINO). Fuori dell’eternità, noi siamo come colui che si trastulla a costruire castelli di carta sull’orlo del suo sepolcro.

D. La cooperazione con altri non ci rialza?

R. Termino la mia frase: — e che aderisce a una società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta, sostenerli, ripararli, ricostruirli… davanti al comune sepolcro.

D. In tali condizioni, la morte prende un valore che le si concede di rado.

R. Proprio Renan disse che morire è compiere un atto « di una portata incalcolabile ».

D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna?

R. Il numero dei negatori non cambia nulla alle verità. I negatori, se fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che guarda attraverso alle orbite vuote della morte » (SHAKESPEARE). Io aggiungo che in simile materia la negazione è condannevole in ogni ipotesi.

D. Perché?

R. Perché nessuno, senza un’estrema temerità, può pretendere di essere sicuro che l’immortalità non ci sia punto, e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno rispettare il mistero.

D. La negano generalmente per fini pratici; si ha paura che l’ideale faccia perdere il senso della realtà.

R. Ciò avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia eternità di tempo. Si dimentica che «il Vangelo e il calendario agricolo sono opera d’uno stesso autore » (MAURIZIO BARRÈS).

D. Non vi è però una certa opposizione tra l’idea dell’eternità e le cure terrene?

R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le preoccupazioni appassionate, ma non l’attività normale. La vita eterna ispira al vero Cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la morte, i beni e i mali; ma non ammollisce il suo coraggio. Pensa che la civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente che credeva all’eternità, e tutte le nostre inquietudini di avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.

D. Da che dipende questo?

R. Dal fatto che la vita eterna è l’autentico sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il suo trattore davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla serietà di questa, e al contrario sarebbe sorprendente che ciò che mi difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.

D. A chi sono più utili queste riflessioni sopra l’altra vita?

R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le nostre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere vie così differenti secondo lo stato di questa eternità, che è impossibile fare un passo con senso e con giudizio senza regolarlo con la mira di questo punto, che dev’essere il nostro ultimo oggetto » (Pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza di rinsavimento di molto anime. Essi rendono felici degli individui ai quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini evangeliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita quotidiana, come l’eroica pazienza dei martiri.

D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente?

R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito dell’anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l’immensità del cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l’anima e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il fluire della carne, fa credere illusoria l’eternità, e siccome tuttavia il sentimento dell’eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.

D. Ciò è incosciente?

R. Per lo più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l’insensato o il peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per impedirci di vederlo » (PASCAL).

D. Queste parole sono tragiche!

R. «Leggi anche queste: « Tra noi e l’inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo ».

D. Se si pensasse così costantemente, non si potrebbe più vivere.

R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata la meta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c’è bisogno d’ipnotizzarsi sulla morte.

D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i teosofi?…

R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai se ne è accorto »; i teosofi s’immaginano, suppongono; gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo, salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell’Uomo che è in cielo.

D. L’idea di trasmigrazione ha un significato morale; si tratta di purificazioni successive, di una prova della libertà.

R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema cattolico, e con garanzie di verità, invece dell’asserzione arbitraria del pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio non ha bisogno di tante esperienze per sapere ciò che valgo; Egli scruta i reni e i cuori e li giudica in conseguenza.

D. Dove va dunque l’anima nostra dopo la morte?

R. Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L’anima non va in nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle localizzazioni nello spazio. La morte, per l’anima, non è punto un cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l’anima funziona diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.

D. E arriva così alla fissità?

R. A una fissità che non è un’immobilità, ma che, rispetto all’indagine attuale, è un termine, e, rispetto alla morte vivente che è la vita del corpo, una immutabile vita. Noi abbandoniamo la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.

D. Tu concepisci questo come un’armonia dell’opera divina?

R. Sarà di fatto l’armonia di tutto, in ragione della quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita eterna ».

D. E il punto di arrivo di tutto?

R. «La terra è come le arie di marcia della Chiesa; essa è per salire al cielo » (C. PÉGUY).

D. È forse quello che tu chiami, credo a modo degli Alessandrini, la rientrata in Dio, ossia il Ritorno a Dio?

R. Tutto il movimento della natura materiale, della vita, del pensiero, dell’attività morale e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La creazione è un immenso sollevamento di marea che sfugge dall’oceano divino e che vi ritorna.

D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo ritorno.

R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruzzaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i «nuovi cieli» sulla « nuova terra » la grande massa delle acque.

II. — Il giudizio particolare.

D. Credi tu a un giudizio dell’anima dopo la morte?

R. Noi crediamo che subito dopo la morte, l’anima prende la direzione di vita che conviene ai suoi meriti.

D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio?

R. Là dov’è l’anima, là dov’è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c’è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.

D. È strano!

R. Sì, quale mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt’a un tratto davanti a Lui nella piena luce!

LE VIRTÙ CRISTIANE (5)

LE VIRTÙ CRISTIANE (5)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO IV.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ: L’amore del prossimo.

Nella virtù teologale della carità, secondo che ci venne fatto di definirla, vivono tre nostri nobilissimi amori; cioè l’amore di Dio, l’amore di noi stessi, e l’amore del prossimo: non ci vivono però allo stesso modo. Chi ha il prezioso tesoro della carità nell’anima, ama Iddio Bene sommo per sé medesimo, essendo esso di sua natura infinitamente amabile; ama poi sé e il prossimo, guardando sé e il prossimo in quel supremo e ottimo Bene, a cui si sente congiunto per creazione e per redenzione intimissimamente, e più che figliuolo non sia stato mai congiunto al padre o alla madre sua. Or questo amore, che lega l’anima in carità a Dio, a sé e al prossimo, benché si apra in tre amori; pure, risulta tanto stretto, che ciascuno dei tre non istà mai senza dell’altro; onde allorché se ne disnodi uno, gli altri due pure si sciolgono. In effetti non ci ha amore di carità verso Dio, che non sia in pari tempo amore buono di sé e del prossimo; né ci ha amore di carità a sé e al prossimo che non sia altresì amore di Dio. In somma la carità noi la possiamo rassomigliare al getto d’una fontana limpidissima, nella quale l’acqua dal basso zampilla in alto, e dall’alto ritorna in basso. Egualmente, per virtù soprannaturale di grazia, l’amore di carità, da noi che siamo in basso, zampilla verso Dio nell’alto, e poi da quell’altezza smisurata, a cui è giunta, ridiscende in noi stessi e nel prossimo. Indi risale e ridiscende sempre con non interrotta alternativa; e solo un atto malvagio del nostro libero arbitrio, rompendo l’amicizia dell’anima nostra con Dio, interrompe questo salire e discendere dell’amore dall’uomo, ricco di grazia, a Dio, e da Dio all’uomo. A questa unità dei tre amori, di cui s’è parlato, parrebbe contradire il fatto che sì nel Deuteronomio, sì nei santi Evangeli questi tre amori ci sono comandati non in un solo ma in due comandamenti: il primo che è dell’amore di Dio, e l’altro dell’amore di sè e del prossimo. Ma, come è detto nella Somma Teologica di san Tommaso, il secondo comandamento d’amore è compreso nel primo, al medesimo modo che le conseguenze d’un principio qualsiasi sono in esso principio comprese. Or, poiché non tutti gli uomini hanno tanto lume e vigore d’ intelletto, da vedere le conseguenze chiare nei principj loro; Iddio provvidissimo volle per i meno capaci distinguere l’unico precetto in due. (Sum. 2, 2 quæst. 44 art. 2 in corso.). Teniamo dunque bene a mente questa intima e perfetta unione dei tre amori; perciocchè essa è veramente il centro di tutta la sfera ampissima delle virtù cristiane, le quali non sono altro che irradiamento di questo amore uno o triplice, secondo che diversamente si considera. Dopo san Giovanni e san Paolo, pochi uomini compresero sì addentro il mistero dell’amore santo, come quel dottissimo e santo Vescovo d’Ippona Agostino, che, essendo stato prima amatore passionato del mondo, la divina grazia trasformò in amatore passionatissimo di Dio e del prossimo. Bello è sentirlo enfaticamente esclamare: “L’amore di Dio e l’amore del prossimo esso è etica, è logica, è fisica; esso è tutta la salute delle nazioni.?” (Epist.). Altra volta poi, infiammato com’era di accesa carità, scrisse: “Se tu, o uomo, ami con amore di carità, fa pure ciò che vuoi e farai bene… Studiati di tener dentro dell’anima tua ben abbarbicata la radice dell’amore buono; perciocchè da essa non germoglierà altro che bene.” (De laudibus charitatis), Laonde, quando il medesimo Santo, nel suo aureo Libro della Città di Dio, abbracciò in una sola occhiata tutto il genere umano, dalla creazione alla consumazione sua, e lo vide diviso in due grandi Città, l’una di Dio, e l’altra del mondo, una simboleggiata da Gerusalemme, e l’altra da Babilonia; allora con alta e ottima sapienza affermò che “queste due Città vivono di due amori; la prima dell’amore di Dio, la seconda di quell’amore inordinato di sé, che egli chiama amore del secolo, e che possiamo anche dire egoismo.” (Super Ps. 64).” Ancora, nella stessa Città di Dio aggiunge che “ogni creatura, essendo nella sustanza buona, può essere amata bene e male: bene, se la si ami secondo l’ordine suo, male se la si ami seguendo la perturbazione di questo ordine. ” (De Civit. Dei. L. XV). E ora, che abbiamo veduto dove nasca e dove si alimenti l’amore di carità verso noi stessi e il prossimo, volgiamoci un tratto a considerare in modo particolare il secondo comandamento di carità : “amerai il prossimo come te stesso.” Parlando del prossimo, parliamo anche di noi medesimi; perciocchè nessuno è tanto prossimo all’uomo, quanto ciascun uomo a se stesso. Che se vi ha qualche particolarità da indicare intorno all’amore di sé, ne faremo un cenno poi. L’amore del prossimo, che, dopo la promulgazione dell’Evangelo, fu più comunemente detto dilezione o carità fraterna, ha tante e sì nobili attinenze con Gesù Cristo, che chi non lo guarda e studia in Lui, mai non lo comprende appieno. È giusto anzi dire che si farebbe bene a studiarlo più spesso e più profondamente, di quel che non si faccia, in Gesù Cristo. Bellissimi sono pure gli esempj, che Gesù medesimo ce ne ha dati nei Santi suoi; ma, come questi, per le loro sembianze particolari e più umane, possono giovarci per un certo rispetto; il tipo divino della carità fraterna, che è Gesù Cristo, li comprende tutti nella sua universalità, e ha una bellezza e un’efficacia assai maggiore. In vero volgendo io umilmente e amorosamente la mente a Gesù Cristo, Maestro supremo della fraterna carità, ciò che mi colpisce più, e mi par più degno di nota, lo trovo nelle parole stesse, da lui adoperate nel darci cotesti precetti. “Il comandamento mio, Egli dice, è questo che vi amiate l’un l’altro, come Io ho amato voi. Un nuovo comandamento dò a voi che vi amiate anche voi l’un l’altro come io v’ho amati… Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro. ” (Joan. XV, 13; XIII, 34 e 35). Son poche e brevi queste parole dell’Evangelo; ma da esse sfavilla una così soave e smagliante luce d’insegnamenti intorno alla carità fraterna, che né prima né poi se ne vide mai maggiore. Ponderiamo dunque bene le parole del Vangelo, e apriamo la mente alla luce bellissima che diffondono. – Dunque il comandamento della fraterna carità è comandamento di Gesù Cristo. Come mai questo, se la legge di natura è pur la legge antica questo comandamento lo conobbe, e lo promulgò? — È comandamento di Gesù Cristo, perché è il comandamento, che ei predilige sopra tutti gli altri — È  comandamento nuovo. Come mai nuovo, se già era stato dato? E nuovo, perché quasi dimenticato dagli uomini, e perché doveva essere elevato a perfezione nuova. Ancora, questo comandamento della carità fraterna dobbiamo mirare, benché essa sia tanto alta, che il raggiungerla, è assolutamente impossibile. La misura è: amare gli uomini, come Gesù Cristo gli ha amati e gli ,ama. Infine la carità fraterna (e qui vedo la maggiore importanza della cosa) è il segno di riconoscimento dei credenti in Gesù Cristo e nella Chiesa sua; è il vessillo, o piuttosto è la pacifica orifiamma della milizia cristiana. Certo, nel nostro vessillo, o piuttosto nella nostra pacifica orifiamma, non manca la luce di nessuna virtù; ma l’oro e la fiamma che sfavillano visibilmente e principalmente nel vessillo cristiano sono (è bene tenerlo sempre a mente) oro e fiamma di carità fraterna. Di nessun altro comandamento, datoci da Gesù Cristo, si dicono cose simili a queste; e ciò non può stare che sia avvenuto senza profonde ragioni. Neppure dell’amore di Dio, che certo primeggia sull’amor fraterno, e che illumina e infiamma l’amore fraterno, Gesù disse parole somiglianti. Per quali ragioni mai? Le ragioni di questo, direi privilegio della carità fraterna possono esser molte. Io farò cenno di una sola, che la mente mi suggerisce, mentre che scrivo, e che mi pare ottima. Il primitivo intendimento di Dio nel creare l’uomo, e mettergli intorno l’universo, con tutte le sue inenarrabili bellezze, fu che l’uomo dovesse dal conoscimento di sé, dei suoi simili e delle altre creature salire al conoscimento di Dio, e, anche per giusta conseguenza, dall’ordinato amore di sé e delle creature salire all’amore di Dio. Cotesta dottrina è chiaramente insegnata da San Paolo in alcune parole « della sua Lettera ai Romani, le quali sono di questo tenore: “Ciò, che di Dio può conoscersi, è manifesto negli uomini (cioè nell’interno lume donato loro da Dio), e le invisibili cose di Dio, per le cose fatte comprendendosi, si veggono: per esse si vede anche l’eterna potenza e l’essere di Dio: onde siamo inescusabili se non lo conosciamo.” Parimenti, poiché in chi ha luce d’intelletto, il conoscimento è il principio dell’amore, ne segue che l’uomo doveva anche dall’amore di sé, dei simili e delle altre creature ascendere all’amore di Dio. Nel regno della gloria l’amor nostro ha un moto e un ordine inverso all’ordine e al moto della vita presente. Nel futuro regno della gloria, dall’amore di Dio, come da un’altissima cima, il cuor nostro discenderà all’amore delle creature; perciocché quel primo ed eterno Amore c’investirà pienamente e sarà fonte d’ogni altro amore. Nella vita presente però dall’amore delle creature che nella vita soprannaturale è ordinato e santificato dalla divina grazia, dobbiamo d’ordinario ascendere all’amore di Dio. Ora il peccato d’origine e gli altri peccati che seguirono, hanno onninamente turbato e capovolto quest’ordine L’amore di noi stessi, dei nostri simili e delle altre creature visibili, per effetto dell’orgoglio, dell’egoismo e delle cupidità, anzi che elevarci all’amore di Dio, ci allontanano da esso. Fu dunque ottimo e sapientissimo consiglio di Dio che la redenzione di Gesù Cristo (detta a ragione da san Paolo nuova creazione) rinnovasse, per mezzo d’ una santa carità fraterna (derivante dall’amore di Dio) l’ordine primitivo. Per tal modo quello stesso amore delle creature, che, avvelenato dalla colpa, per quattromila anni allontanò tutto il genere umano da Dio; quello stesso, santificato poi e nobilitato dalla carità di Gesù Cristo, diventò lo strumento più efficace per crescere la fiamma dell’amore buono nelle anime, e ravvicinare tutto l’universo a Dio. – Ma, che che sia di questa ragione, quello che ho detto privilegio della carità fraterna, si scorge altresì in tutta l’economia del Cristianesimo, e riesce sempre più evidente a chi guarda con intelletto d’amore lo stesso Gesù Cristo nella sua natura, nella sua vita, nei suoi prodigi, nei suoi insegnamenti. Gesù Cristo, eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, e dal Padre eternamente generato, per amore degli uomini assume la natura umana, e si fa amico anzi fratello primogenito di tutti gli uomini. Per amore fraterno Egli vive trentatré anni tra gli uomini, bambino, fanciullo, adolescente, giovane; per amore fraterno paga il debito del peccato di tutti, e tutti redime dalla schiavitù del male. Inoltre, Gesù ama le anime di tutto il genere umano, illuminandole delle verità, che fanno ad esse conoscere l’eterna e incommutabile Bellezza. Per amore dei corpi nostri risana miracolosamente gli uomini o ciechi o mutoli o paralitici oppressi da febbre o storpj; per amore di essi li alimenta col miracolo dei pani, se famelici, o anche li risuscita, se morti. Le sue più soavi e belle parabole, come quelle del Samaritano, e del figliuol prodigo, sono, quasi direi, un cantico nuovo di amore fraterno. Quando la Maddalena gli unge i piedi con un unguento di nardo di spigo di gran pregio, e li asciuga con le trecce dei proprj capelli; Gesù prende occasione dal fatto per dire che la carità di lei sarà predicata a quanti conosceranno il Vangelo. Per inculcarci l’amore del prossimo egli, Maestro divino, lava i piedi ai suoi discepoli, e comanda che essi facciano il medesimo. Nel giudizio universale, che spesso ci vien dipinto con colori foschi e paurosi; Gesù fa comparire non la giustizia austera con le terribilità sue, ma la bella e soave figura della carità fraterna, dicendo che essa sarà il criterio principale del premio o della pena eterna. Infine il maggiore sforzo dell’amore era sembrato, sin allora agli uomini il morire per l’amico; e Gesù muore anche per i suoi nemici. Anzi, poiché tutti gli uomini fratelli di Gesù Cristo, per i loro peccati, erano nemici di Lui, in quanto era Dio; è necessario conchiudere che tutta la vita di Cristo non solo si consumò nell’amore fraterno, ma in un amore fraterno che fu in pari tempo amore dei nemici. – Benediciamo dunque il Signore, che fondò il Cristianesimo sulla pietra preziosa dell’amore fraterno, ci dette questo amore dolcissimo per vessillo della nostra santa milizia, e ci lasciò tali esempj di mutuo amore, che la mente umana si smarrisce nel pensarli, intanto che ne ritrae consolazioni ineffabili. Alla luce, fulgida più che oro, di questo amore fraterno, datoci da Gesù Cristo, non solo la filantropia, ma tutte le altre forme di amore umano impallidiscono, e appena pajono ombre d’amore. In vero questo amore fraterno, donatoci da Gesù Signore, poiché vive nell’amore di Dio, si appropria (quanto può creatura) le perfezioni dello stesso Iddio, in cui l’amore e l’essere sono un medesimo. In quella guisa che ogni raggio prende la luce dal sole; così avviene del nostro amore fraterno, che, mentre, a modo del sole, si diffonde su tutte le creature, viene in noi dal Creatore. Come Iddio è buono, possente e santo; così buono, possente e santo è il nostro amore fraterno; e dippiù, come Iddio è sapiente, previdente e provvidente; così il nostro amore è saggio e prevede e provvede ai bisogni del prossimo. Da quel seme di carità di Dio, che vive nella nostra carità fraterna e la abbellisce, e la feconda, procede che di questo amore, e di nessun altro si possa dire ciò che scrisse san Paolo nella sua prima ai Corinti. ‘Quando io parlassi, dice l’Apostolo, e dicono con lui tutti coloro che amano il prossimo in Dio; quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, sono come un bronzo suonante o un cembalo squillante. E quando avessi dono di profezia, e intendessi tutt’i misteri, tutto lo scibile; e quando avessi tale una fede da traslocare le montagne, se non ho la carità sono un niente. E, quando distribuissi in nutrimento dei poveri tutte le mie facoltà, e quando sacrificassi il mio corpo a essere bruciato, se non ho la carità, a nulla mi giova. La carità è paziente, è benefica; la carità non è astiosa, non è insolente, non si gonfia; non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse; non si muove ad ira, non pensa male; non gode dell’ingiustizia, ma fa suo godimento il godimento della verità; a tutto s’accomoda, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.” (I Cor. XIII, 1 e segg.). Se non che l’amore fraterno secondo Gesù Cristo, ha una dote sua propria, che lo distingue da tutti gli amori umani. Questi amori sono più o meno particolari; e l’amore fraterno di carità è universale; tanto universale, che effigia in certo modo l’immensità e l’onnipresenza di Dio. Cotesto nostro amore fraterno trasvola sul tempo, e su lo spazio; o piuttosto abbraccia tutta la distesa del tempo e dello spazio, sino a che peregriniamo su la terra, e poi vive e fiammeggia fuori del tempo e dello spazio nell’eterno regno di Dio. Noi Cristiani amiamo gli uomini di tutt’i tempi; sicché non ci ha uomo, da Adamo insino all’ultimo nato di donna, il quale non entri nella sfera della nostra carità. Ci sentiamo stretti in amore con gli uomini del passato; perché procediamo da essi, come il frutto dall’albero, e da essi avemmo tutto il tesoro del sapere e della civiltà presente, che accumularono per noi tra molti stenti, fatiche e dolori. Non furono forse i nostri avi, e gli avi dei nostri avi che edificarono i nosti tempj, abbellirono le nostre case, provvidero ai nostri bisogni, e ci apparecchiarono tanta messe di opere d’arte, d’industrie, di commerci, di ricchezze e di agi? — Amiamo gli uomini del nostro tempo, i quali sono doppiamente nostri fratelli, datici come amici e cooperatori nella vita che meniamo. Anche che questi fratelli, alcuni di essi, sieno malvagi, altri poveri d’ ingegno, altri superiori e altri inferiori a noi, essi, per ordinamento di Provvidenza, formano tutti, in vario modo, parte della nostra vita, e ci riescono benefici. Chi tra loro coltiva la terra la quale ci alimenta; chi c’insegna con la dottrina; chi ci arricchisce con l’industria; chi in modo più intimo partecipa alla vita nostra domestica e familiare. Anche i più malvagi tra loro, e, che ci sono o ci pajono nemici, senza volerlo, ci beneficano esercitando la nostra pazienza, stimolando il nostro zelo, distaccandoci dai desiderj e dalle opere vane della Città del mondo e dai piaceri del senso. — Con gli uomini infine dell’età ventura i nostri legami di carità fraterna pajono minori; perciocchè essi, i quali sono presenti al cospetto di Dio che è fuori di ogni tempo, per noi non sono ancora. Ma nondimeno, poiché la vita del genere umano è una catena di tanti anelli, che grado grado si annodano e poi si spezzano, e di tanti nuovi che si formano, e si uniscono tra loro; è indubitato che, come noi ci giovammo dell’opera delle età passate, gli uomini dei secoli avvenire si gioveranno dell’opera nostra. Or il Cristiano questo bene, che gli uomini dell’età ventura avranno, per mezzo di noi viventi nell’età presente, non solo lo prevede, ma lo desidera, e, quanto è da sé, lo procura; perciocché ei ben sa che non solo gli uomini del passato e del presente sono nostri fratelli, ma anche quelli dell’avvenire. Del rimanente si può forse pensare un sol uomo, dal primo Uomo Adamo che non nacque, sino all’ultimo che morrà nella consumazione dei secoli, che non sia creatura del nostro infinito Padre Iddio e plasmato, dirò così, dalle sue mani? Non risplende forse in ogni figliuolo dell’uomo l’immagine somigliantissima del suo Creatore? E l’uomo pagano, barbaro o giudeo non fu egli redento da Cristo, che in senso strettissimo morì per tutti? Dunque non v’ ha, né è giusto che esista mai un solo uomo, il quale non sia oggetto del nostro amore fraterno. Questo, che fu detto del tempo, vale molto più dello spazio. Se io amo l’uomo, che, in quanto uomo, cioè nella sua unione col corpo non esiste più; come mai non amerei colui che, è lontano da me, sia anche per centinaja e centinaja di miglia? Egli vive sotto diverso cielo, forse giace tra le tenebre, nella stessa ora, in cui io mi sento rallegrato dalla luce; ma non ha egli un corpo come è il corpo mio, non pensa come io penso, non ama come io amo, non desidera come io desidero? Qualunque sia l’uomo che vive lontano da me, o egli è un credente che vive tra i beni desideratissimi della civiltà cristiana; ed egli è mio fratello, anche per la fede, per l’amore di Dio e per l’aura benefica della civiltà cristiana, che respiriamo insieme: o è un pagano, un miscredente, uno schiavo, un barbaro, un selvaggio; e io lo amo egualmente: perché ho compassione del suo stato, e perché mi par amore nobile e santo ogni sforzo mio di giovargli in tutt’i modi, e di correre in ajuto del fratello perduto, se non fosse altro, col desiderio. – La perfezione poi che avrà questa fraterna carità, quando nell’eterno regno possederemo Iddio, è appena credibile. L’amore nostro alle creature si accenderà tutto nell’amore e nel possedimento di Dio; e noi, uniti in dolce amore alla perfettissima volontà di Dio, ci perderemo in essa come le acque nell’oceano. Però le creature le ameremo, com’Egli le ama, e anche, secondo che si dirà appresso, con quei vincoli particolari, ond’Egli stesso, Autore supremo della natura e della grazia, ci legò ad esse. – Ma consideriamo ora in un altro aspetto questo dolcissimo amore di carità fraterna; che, quando fosse bene inteso e largamente diffuso, basterebbe, anche solo, a sciogliere tanti e tanti problemi della vita morale e civile dei popoli. L’amore unisce nobilmente l’amante all’amato: l’intelletto all’intelletto, la volontà alla volontà, la persona alla persona. Però l’amore comunica all’amato il bene proprio, e tutto ciò, in cui l’amante trova una ragione di bene. Quindi segue che la carità fraterna, riconoscendo, come bene supremamente desiderabile, il Bene eterno e infinito, che è Iddio, si adopera principalmente nel dare Iddio all’amato, e con Dio la fede, la grazia, la carità di Lui. E, poiché tutti i beni umani sono, per vario ordine e gradazione, immagini del Bene supremo, e anche essi veri beni, giustamente desiderati e desiderabili, secondo l’ordine e la gradazione loro; l’amante del prossimo si sforza di comunicare allo stesso modo anche i beni finiti al prossimo amato. Laonde la carità fraterna, imitando Iddio eterno e infinito Amore, dona i beni spirituali e materiali, gli eterni e i temporali. Tutti questi beni furono un dono di Dio a noi; e tutti noi egualmente li doniamo ai nostri fratelli. Per effetto di questa fraterna carità che vive in Dio; chi ha dono di scienza, dà la scienza all’intelletto del prossimo amato; e chi ha dono di amore buono, dà amore buono alla volontà del prossimo; chi è ricco nell’anima, dà questa ricchezza all’amato, e chi è ricco dei beni di fortuna, egualmente li dona al prossimo suo. È un continuo donare l’ufficio della carità fraterna: a chi è infermo dà la sanità, a chi soffre, il balsamo della consolazione, a chi è famelico, il cibo, a chi è prigione, la libertà. In somma la carità, per la virtù diffusiva dell’amore, fa del fratello che ama, un altro sè stesso; e ciò che vuole per sé, ed ei lo vuole pel fratello, e ciò che dà a sé, lo dà parimenti al fratello suo. Talvolta la carità può giungere a così eccelsa perfezione, che chi arde della carità fraterna di Gesù Cristo, quasi non fa più distinzione tra sé e il suo fratello; gli pare di fare a sé ciò che fa a lui, e ama sé nel fratello, e il fratello in sé: tanta è la forza unitiva dell’amore, molto più quando sia amore diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo. Ben è vero che tutto ciò non si compie, senza che all’amante manchi qualche cosa di quello che resterebbe in lui, se non amasse. Questo è propriamente ciò che diciamo sacrificio. Ma il Signore, avendoci dato naturale inchinamento ad amare, ha posto in quello che diciamo sacrifizio una certa spirituale dolcezza, la quale c’inclina a farlo; una dolcezza, che allora principalmente si sente, quando l’animo sia nobile e avvezzo ad amare, non secondo la carne e il sangue, ma secondo lo spirito e la carità del Signore. Questa carità fraterna, benché aspetti il suo premio nel regno eterno, pure ha ineffabili consolazioni anche qui in terra. Amore chiama amore; ed è vero dell’amore di carità, come di ogni altro qualsiasi amore, che nessuna cosa lo accende, lo infiamma e lo abbellisce tanto, quanto il sentirsi riamato. Di qui segue, che chi ama con amore di carità, poiché si sente riamato, prova in ciò un incentivo nuovo ad amare. Ben è vero che anche in questa forma d’amore di carità, che è tanto nobile e disinteressata, non mancano, per effetto dell’umana corruttela, le ingratitudini, ma le eccezioni e i casi particolari non hanno forza a distruggere ciò che è di per sé vero e secondo natura. Del rimanente poiché in questo amore fraterno di carità v’è Dio e il suo amore; le ingratitudini umane poco o punto ci tangono: anzi esse riescono spesso ad accendere nuovo amore negli uomini giusti, e molto più nei Santi; i quali, a poco a poco, nella creatura quasi non vedono altro che il Creatore. Le cose fin qui dette della carità fraterna, se io giudico rettamente, sono in piena armonia con quanto v’ha di più nobile e bello nella natura umana. Certo, nobile e bellissima cosa è l’amore, talmente naturato nella creatura intelligente, che, tra tutti gli uomini, non ve ne ha alcuno che non abbia amore. Questo amore, che tutti sentiamo in noi stessi, può, senza dubbio, scendere in basso, volgendosi a quelle cose, che sono inferiori all’uomo, e può restare nella stessa creatura amante. Ma può altresì, come fiamma viva e forte, spingersi in alto. E si spinge in alto, sempre che l’intelletto presenta all’uomo alte e nobili idealità, come beni, anzi come beni grandemente amabili; e d’altra parte l’uomo affisandosi in essi, liberamente li ama. Ora come mai l’amore si potrebbe spingere più in alto che in Dio, considerato primamente in sé stesso, come suprema Bontà e Bellezza, e poi nelle immagini sue più care che sono le creature intelligenti e amanti? Oltre a ciò, noi abbiamo tutti, come si dirà, un inchinamento irresistibile ad essere amati, anche con amore universale, e a questo inchinamento corrisponde il desiderio della lode e della gloria. Ebbene, se vogliamo in nostro benefizio l’amore universale, non è dunque al tutto giusto e consono alla natura che rendiamo agli altri quell’amore che vogliamo per noi stessi? Oltre di che la medesima nostra natura ci spinge per un altro modo ad amare tutti gli uomini. Alcuni degli uomini naturalmente siamo spinti ad amarli, perché da essi aspettiamo ciò che essi hanno e noi non abbiamo, o almeno non abbiamo nella stessa misura loro: dico, la scienza, la cultura, l’arte, le ricchezze, la virtù o altri beni somiglianti. Altri uomini, che ci pajono o sono poveri di tutto, li dovremmo amare per naturale sentimento di compassione, e di fraternità; un sentimento, che l’uomo, quando non è corrottissimo, non perde mai interamente; un sentimento, che o è o pare comune anche agli animali bruti, e tanto più, quanto essi sono meno imperfetti. Anche senza il dono della carità soprannaturale, ogni animo nobile e gentile sente compassione del prossimo o povero o infermo o ignorante o vizioso, e sente una voce dentro di sé che gli dice soccorrilo: è tuo fratello. Non dico per questo che l’amore, il quale non abbia altro fondamento che quello della natura, riesca molto efficace e operativo. Tutt’altro. Perciocchè, se v’ha una voce naturale di compassione e di fraternità, che spinge l’uomo ad amare il prossimo; ve ne ha un’altra assai più possente e forte di egoismo, la quale gli grida di continuo nell’animo: pensa a te stesso, ama te stesso, godi tu e i tuoi cari del bene che hai. — Il frutto dunque di questo amore naturale del prossimo è un frutto malaticcio, scarso e che dura appena un’ora e sparisce, Il fatto prova che non è neanche un milionesimo di quello, che ha prodotto e produce nel mondo la carità cattolica. Del rimanente è secondo l’ordine di Provvidenza che questo frutto dell’amore umano ci sia; ed anche è secondo l’ordine di Provvidenza che riesca sì povero e scarso. Ogni qualsiasi frutto dell’amore umano, con la sua esistenza, ci prova che la carità universale del prossimo è al tutto conforme alla nostra natura, la quale, anche corrotta, ha inchinamento all’amore universale, a scarsezza poi e povertà di questo frutto naturale, ci prova quanto sia nobile, bella e santa la carità di Gesù Cristo, che, elevandoci al soprannaturale, nobilita, santifica e moltiplica in infinito tutto il bene naturale che Iddio Creatore ci diede, e che noi, per nostra colpa, perdemmo in gran parte. Oh dolcissima carità  fraterna, o gemma preziosissima donataci da Gesù Cristo, se io fossi riuscito a innamorare di te almeno qualcuno degli uomini, oh come mi riterrei veramente beato!

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO III.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ

L’amore dell’uomo verso Dio

Insieme con la speranza, e quasi sua gemella, nasce dalla fede anche la virtù teologale della carità, la quale supera di gran lunga in isplendore ed eccellenza le due precedenti. – Basterebbe a indicarlo il nome stesso di carità, col quale noi nominiamo anche l’Iddio nostro, secondo che è detto in san Giovanni: Dio è Carità. Per tal modo un medesimo nome, in noi, esprime una virtù dell’animo, e in Dio, la sua stessa essenza. Mille volte dunque sia benedetto questo nome divino, e pur umano di carità; il quale ha nella vita dell’universo dolcezza, possanza e sublimità grandissima, soprattutto Perché l’uomo lo prende da Dio, in cui non è né fede, né speranza, ma è carità eterna e infinita. – Or bene, per parlare meno indegnamente della virtù della carità, incominciamo dal levar gli occhi dell’intelletto in alto. E poiché la carità non solo si diffonde da Dio nelle anime nostre, come le altre virtù teologali; ma essa in Dio è Dio stesso, accostiamoci con le ginocchia della mente inchine al nostro Signore, eterna e infinita carità. Studiamo dapprima, secondo l’alta sapienza cattolica, che cosa è carità in Lui, o che il medesimo, che cosa è amore in quel primo ed eterno amore, e, a nostro modo d’intendere, primo ed eterno Sole, da cui l’amore, come raggio benefico, piove in tutto l’universo. Così ci tornerà assai più agevole di conoscere addentro la virtù teologale della carità, e di ammirarne la bellezza inenarrabile. In vero; se Dio intende e muove e prevede e provvede; se Egli è infinitamente e semplicissimamente buono, buono tanto, che tutte le cose, fuori di Lui, e le stesse intelligenze angeliche o umane si possono a comparazione di Lui chiamare cattive; è certo che in Dio sia perfettissimo e nobilissimo amore, e che anzi Egli sia infinito ed eterno Amore. Infatti l’amore è l’essenza di Dio; ed è inoltre la cagione dell’essere, della bontà e della perfezione di tutte le cose; di modo che, se l’amore di Dio non fosse, non sarebbe né perfezione, né bontà, né uomo, né angelo, né cosa nessuna in luogo veruno. Di tutti gli affetti umani due soli, senza più, si trovano in Dio; l’amore e il gaudio. I quali in lui non sono affetti, cioè accidenti, ma sustanza; perciocché ciò che è in Dio, è Dio, e conseguentemente sustanza. E come mai tutto il mondo spirituale e tutto il mondo corporale amerebbero essi, se Dio non amasse? Ogni altra cosa può Iddio, fuori solamente che non amare sé stesso, essendo in lui l’amante e l’amato un medesimo. Or questo amore, onde Iddio ama infinitamente sé stesso, i teologi lo chiamano naturale, non perché sia naturale, come è naturale alle altre cose umane dove non è elezione; ma perché tutto ciò che è in Dio vi è in modo così eminente ed eccellente e indiviso, che non si può né dichiarare con parole, né in alcuna maniera immaginare con la mente che sia diversamente da quel che è. – Questa è la sustanza dell’alta e profonda scienza cattolica intorno all’amore considerato in Dio, e ho detto amore, e avrei potuto pure dire carità. Perciocché le due parole di carità e di amore si usano l’una per l’altra nell’infinito nostro Padre, e assai spesso anche in noi, secondo che si vedrà nel seguito del discorso: con questa avvertenza però, che sempre che parliamo di Dio o delle virtù soprannaturali, i due nomi si usano parimenti senza difficoltà; ma non è il medesimo allorché ci accade di volgere il discorso all’amore nostro secondo natura. Il quale, anche che sia buono, non lo diciamo carità; perché carità nell’uomo è propriamente amore puro e procedente da soffio della divina grazia. Ora dall’amore guardato in Dio, discendiamo col pensiero all’amore che investe tutto l’universo, dandogli ordine, armonia e unità. Iddio, primo, eterno e infinito Amore, com’è detto, crea per amore libero tutto l’universo, e nell’universo, come in lucente specchio, effigia, in vario modo, e in maggiore o minor grado l’amor suo. Onde è giusto il pensare che, in certa guisa, e secondo la propria natura, il mondo materiale ami, il mondo animale ami, e ami in modo infinitamente superiore lo spirituale. Tutti questi amori, qualunque nome prendano, sono raggi del primo ed eterno Amore; ma nel mondo materiale il raggio divino è opaco e appena visibile; si vede un po’ più nel vegetale; e anche alquanto di più nel mondo animale. Nello spirituale poi, questo raggio divino che è uno splendore di luce vivissima, specchia ed effigia il primo ed eterno Amore, come la immagine finita può effigiare e specchiare il Vero, il Bello e il Buono infinito. Nell’amore libero in vero, e nella intelligenza che gli fa lume e lo guida, sta la ragione delle parole sublimi e amorose dette da Dio nella creazione dell’uomo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza.” In vero, amore, preso nella sua più ampia significazione, è tendenza al bene. Però Iddio, volendo sapientemente creare il mondo per effigiare sé stesso, dette ai diversi ordini delle creature una naturale tendenza al bene, o che è il medesimo dette loro amore naturale; ma non in pari grado. Infatti, la natura materiale ama, seguendo inconsapevolmente la tendenza al suo bene relativo, datogli da Dio. Alla terra, per esempio, ha concesso di tendere al centro, e alla fiamma di tendere in alto. Ama in egual modo la natura vegetale, e anche meno imperfettamente, avendo quasi una certa elezione inconsapevole nel trovare il proprio bene piuttosto in un luogo, che in un altro; onde vediamo alcune piante stare e prosperare lungo le acque, altre sopra i gioghi delle montagne e altre nelle piagge e a piè dei monti. E ama altresì la natura vegetale in modo più chiaro per certi mutui attraimenti, che assomigliano agli attraimenti della natura animale; onde il Linneo descrisse, per ragione di somiglianza, gli amori, le nozze, i talami delle piante. Gli animali poi hanno più manifesta tendenza al bene, e più manifesto amore non solamente per tendenza ai luoghi, ma tra sé stessi, per attraimento scambievole dell’uno verso dell’altro, e verso la specie, e verso gli animali generati da loro, e anche verso le altre specie di animali. L’uomo poi, che contiene in sé un piccol mondo, con l’amore naturale ama molto e assai variamente in tutti modi, che s’è detto degli altri ordini di creature. Ama poi in un altro modo più perfetto; cioè ama, come la natura angelica, altresì con l’amore libero, che è il vero tesoro di tutta la sua vita, come ci accadrà di vedere tra poco. Intanto, è assai utile il notare che un nodo universale di amore unisce tra loro anche i diversi ordini delle creature, per modo, che la natura inferiore tende alla superiore, ed è quasi attratta ad essa; onde il perfezionamento suo sta nell’avvicinarsi alla natura più nobile. Così la perfezione della natura materiale è di avvicinarsi alla vegetale: nella vegetale sono più perfette quelle piante o fiori che assomigliano alla natura animale, e nella natura animale quegli animali che più si avvicinano all’uomo, benché la distanza, che corre tra questi due, è sempre incommensurabile. Come è bello dunque il vedere tutto l’universo esser congiunto armoniosamente per virtù d’amore! Come è soave il pensare che questo amore universale è veramente il cantico, sempre antico e sempre nuovo, che le creature cantano in ogni istante al loro Creatore! – Il dì che Iddio, per infinito amor suo, ci arricchì d’intelligenza, dette a noi e agli Angeli una tendenza naturale, o che è il medesimo un amore naturale a tutto ciò, che si presenta all’intelletto sotto l’aspetto di bene; e questa tendenza generica a tutto che è bene, o pare bene, è amore naturale necessario e immancabile nell’uomo; amore senza errore, cioè senza possibilità di errare. Ma non bastò questo all’infinito amore di Dio, per l’uomo, che forgiò a propria immagine e, somiglianza. Lo arricchì anche d’un’altra larga fonte di amore, e fu l’amore libero: amore, che a noi è bene supremo e tesoro inestimabile; bene e tesoro che sono la sorgente perenne della nostra libertà, e però di ogni nostra virtù. Ora cosiffatto amore, che è il principio della vita libera e morale, può errare, ed errando, genera il male per tre modi. Il primo è quando si ama il male, il quale si mostra sotto specie di bene; l’altro quando si ama il bene finito più che non si dovrebbe, e l’infinito meno del dovere; l’ultimo, quando non si conserva nell’amare l’ordine dovuto ai diversi beni degni d’amore: nei quali beni Iddio pose una gradazione ammirabile, conosciuta per lume dato al nostro intelletto, e molto più per lume supremo di rivelazione e di grazia. – Intanto l’amore libero dell’uomo, poiché è moto dell’animo verso il bene (anche se consideriamo l’uomo fuori del soprannaturale) si può volgere al Bene supremo e infinito che è Dio. Se col solo lume di natura l’uomo può avere una qualche cognizione pallida e imperfetta di Dio; come mai col suo amore libero, ei che ama i beni finiti con amore possente, non potrebbe fare altrettanto col Bene infinito? Nondimeno s’ha da notare che questo volo di amore libero verso Dio, senza ajuto di grazia soprannaturale, sia perché siamo finiti, e molto più perché siamo corrotti dal peccato d’origine, riesce un volo lento, mal sicuro, pieno di difficoltà, come vediamo accadere talvolta agli uccelletti appena usciti dal nido. I beni finiti con i loro attraimenti ci tirano a sé; le passioni ci volgono in basso; e gli uni e le altre ci tarpano le ali, che ci dovrebbero sospingere in alto verso il Cielo. Laonde, senza la infinita misericordia di Dio, la rivelazione e la redenzione, che hanno dato al nostro amore un ardore e un impeto soprannaturale verso il Bene supremo, e lo hanno trasformato in carità; il nostro amore a Dio sarebbe pallido e fiacco sempre. Risulterebbe piuttosto ombra d’amore, come vediamo accadere in quasi tutti coloro che vivono fuori della luce della divina rivelazione; i quali o non amano punto Iddio, o lo amano con un sentimento vago e incerto che si dilegua come nuvola alla più piccola folata di vento. – Ora dunque volgiamoci con l’animo riconoscente a quella carità di Dio che è stata diffusa nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato; (Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis – Rom. V, 5). e con animo commosso scrutiamone il dolcissimo mistero. La carità di Dio è una virtù soprannaturale, che va definita così “Carità è virtù teologale, per la quale amiamo Dio e le sue infinite perfezioni sopra tutte le cose, e amiamo noi stessi e il prossimo per Dio.” (Vedi Theolog. Mor. Auctore Augustino LEHMKUHL, S. – J. – Tom. I, p. 198). La quale definizione, benché sia fatta oggi, dopo molti secoli di studj profondi, e di analisi e di sintesi di tutte le verità insegnate da Gesù Cristo, appena per qualche parola differisce da ciò che insegnò Gesù, allorché, interrogato da un giudeo, qual fosse il gran comandamento della legge, rispose: “Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito: questo è il massimo e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo. Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta la legge e i profeti.” (Matt. XXII. 35, e segg.). Intanto, per fare qualche riflessione intorno a questa regina delle virtù teologali che è la carità, in prima è mestieri considerare che, se l’amore consiste nella tendenza al bene, è al tutto secondo ragione che l’animo nostro si muova verso il Bene sommo, con la maggior tendenza di cui è capace, o che è lo stesso con amore relativamente sommo di che segue il comandamento divino dell’Evangelo essere in piena armonia con la nostra sana ragione. Ancora, se oltre a questo Bene sommo, ci hanno beni finiti e creati; è secondo ragione che questi altresì siano amati. E, poiché questi beni finiti e creati non stanno di per sé, ma sono derivati, e derivano dal primo Bene sommo ed eterno; chi non vede che essi s’hanno da amare congiuntamente col Bene sommo, e come derivanti da esso? Di qui segue altresì che l’amarli contro del Bene sommo riesce in errore e colpa grandissima; e l’amarli fuori di esso Bene sommo, o è errore e male relativamente leggero, o talvolta è soltanto un pericolo, che ci avvicina al male. Così si arriva facilmente da un sano concetto dell’amore alla profonda e nobilissima teorica del bene e del male, dataci dal Cristianesimo, e pienamente conforme alla ragione. Nondimeno ad alcuni amatori del mondo, affogati, come sono, nel pantano dei vizj, e delle passioni, e rimpiccioliti da beni meschini della terra, riesce assai difficile o quasi impossibile il pensare che l’uomo abbia tant’ala, da volgersi al sommo Bene, e amare con amore sommo ciò che è assolutamente impenetrabile e invisibile. Ma contro costoro è giusto considerare che il vedere con gli occhi del corpo il Bene, ce lo fa spesso amare di più; ma in effetti l’amore nostro nasce non dal vedere degli occhi, ma da un’altra visione assai superiore che è la visione dell’intelletto. Onde noi amiamo molte cose astratte e concrete che non si vedono, e anche talvolta le persone umane, senza che l’occhio corporeo le conosca punto. Chi invero direbbe che un buon figliuolo non possa stringersi di molto amore alla genitrice sua, quando anche, per caso, non la conosca con l’occhio del corpo, ma solo con l’occhio della mente, sapendo la bontà di lei, e l’affetto che gli porta, e i sacrifizj grandi che ha sostenuti e sostiene per lui? Lo stesso avviene in noi dell’amor di Dio. Che importa a noi di non vederlo con gli occhi del corpo, se lo vediamo, almeno opacamente, con l’occhio della mente, e questa visione ci è accresciuta e perfezionata di molto dalle fede? I figliuoli della Città del mondo affermano che sia impossibile amare Iddio, nascoso sotto il velo impenetrabile della sua gloria. Ma a me pare piuttosto che sia impossibile o quasi il non amarlo. Non lo vediamo e non lo conosciamo noi l’Iddio nostro in noi stessi, e in tutto l’universo? Non ci parlano forse di lui il cielo, il mare, i monti, i ruscelli, le piante, i fiori e gli animali? Non cantano le sue glorie i cieli dei cieli, le stelle, la luna, il sole? La verità, la bontà, la bellezza, dovunque la troviamo, non ci specchiano e non ci fanno conoscere Iddio? E poi tutt’i misteri della nostra fede non sono come tanti raggi di luce, che Iddio manda sopra di noi, e che c’inducono a meglio conoscerlo e a più amarlo? È dunque al tutto secondo ragione che il Bene sommo, ancorché invisibile e tanto grande, che noi ne abbiamo idea e cognizione qui in terra soltanto per ispecchio e in enimma, lo amiamo con amore sommo, ossia superiore a quello, onde amiamo i beni finiti e derivati da Lui; i quali, al paragone del Creatore eterno, sono poco più che immagine e parvenza di bene. – Se non che, a prima giunta, parrebbe che il fatto contradicesse ciò che si è detto dell’amore sommo, onde il buon Cristiano ama Iddio, anche tra le miserie della vita presente. Alla mente di alcuni si affaccia questa obiezione. Dove si trova mai l’uomo che ami Iddio con la tenerezza, con l’ardore, con l’impeto, e con l’entusiasmo, col quale si amano talvolta le creature? E si trova, sia pure tra i Santi, chi pianga la perdita che fa del sommo Bene per peccato grave, con lagrime tanto calde e profuse, quante sono le lagrime d’una buona madre, la quale ha perduto tutto il suo bene terreno, perdendo il figliuolo e non patisce consolazione alcuna? Sì, ciò è vero; ma non se ne può trarre nulla contro l’amor sommo che noi si deve a Dio, e che tanti e tanti milioni di uomini, anche tra le miserie dei nostri tempi, gli portano. Infatti l’amore, da noi portato a Dio in questa terra, come insegna san Tommaso, non è al tutto della medesima natura di quello, che portiamo alle creature. L’amore, che abbiamo a Dio, è principalmente un amore riverenziale, che nasce dalle infinite perfezioni del Signore, e dalle infinite bontà sue verso di noi. Nell’amore poi che nutriamo verso le creature, non manca la cognizione dei pregi e delle bontà delle creature; ma vi entra, per giunta, l’affetto. Ora è proprio dell’affetto umano, che esso si ecciti per i sensi, e per certi vincoli personali che la natura pone. Così accade che la perdita del sommo Bene, anche che sia sommamente amato, d’ordinario si sente assai meno della perdita di un bene terreno, nel quale all’amore estimativo si aggiunge l’amore affettivo e passionato, che manca all’altro. Le quali cose l’Angelico san Tommaso assomma in poche parole, dicendo che l’amore nostro a Dio deve esser sommo quanto alla preferenza e all’apprezzamento del sommo Bene, non però sommo quanto alla passione e all’affetto; appretiative, sed non affettive summus. – Ma scrutiamo ancora più addentro la natura della carità, ché è dolce il penetrare nelle doti più intime di essa. Secondo l’Angelico, la carità è perfetta da parte della creatura. quando essa ama tanto, quanto può. Ora è chiaro, che la creatura può profondersi nell’amore di Dio per tre modi diversi. Il primo è che tutto il suo cuore, in ogni proprio movimento, viva. E sia in Dio. Questa è perfezione di amore, che corrisponde alla vita della visione beatifica in Cielo, e che non è possibile nella vita terrena, nella quale l’uomo non può in ogni suo atto pensare a Dio, e vivere dell’amore di Lui. Un’altra perfezione di amore di minor grado si ha quando l’uomo pone tutto il suo studio nel volgersi a Dio e alle cose divine, messe da parte le cose umane, ad eccezione di quelle che la presente vita richiede. Questa maniera di perfezione di amore è possibile nella vita terrena; ma non può esser comune a tutti coloro che hanno carità. – L’ultima forma di carità si ha quando l’uomo abitualmente mette tutto il suo cuore in Dio, per modo che ei non pensi liberamente e non voglia mai cosa alcuna contraria al divino amore: e questa perfezione di carità è comune a tutti coloro che hanno carità. (S. Theol., 2, 2, q. 24, art. 8 etc.). Così dunque si conchiude rettamente che la carità nostra verso Dio è come una piramide, la quale ha una base, un punto medio, e una cima altissima. Alla base è la perfezione della carità comune, che si assomma in questo pensiero; mai niente contra Dio, o che è lo stesso contro la divina legge. Nel punto medio della piramide è la carità di pochi i quali, oltre a non volere far mai nulla contro Dio, aggiungono l’allontanamento o di cuore o di fatto dai beni umani, salvo i necessarj alla vita terrena; e questa è la perfezione dei Santi; una perfezione d’amore infocato, che diciamo eroismo d’amore, perciocché eroismo è quell’atto, che trascende la legge morale dei nostri doveri e ci leva in alto. A questa medesima perfezione di amore, o piuttosto a questo medesimo eroismo si votano particolarmente i religiosi, come al punto, cui debbono tendere. Alla cima della piramide la perfezione della nostra carità è un amore, il quale si riposa, si muove e s’infiamma tutto dell’Iddio pienamente posseduto con la visione e con la gloria. Per questo amore eterno del Paradiso ciascun beato, pensando alla sua vita terrena, potrà dire con linguaggio biblico: Le mie tenebre, o Signore, davanti alla tua faccia sono diventate come il mezzodì. Intanto per conchiudere questo dolcissimo e altissimo tema dell’amore di Dio, io trascrivo qui alcune stupende parole di sant’Agostino, con vivo desiderio che chi legge, le possa applicare a sé stesso, e ne tragga frutti di consolazione e di dolcezza: “Ciò che la coscienza, senz’alcun dubbio, o Signore, mi assicura, è che io ti amo. Tu mi colpisti il cuore con la tua parola, e subito ti amai. Ma e il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essa, ecco che da ogni parte mi dicono che ti ami, né restano di dirlo a tutti gli uomini, “ acciò sieno inescusabili.” (Rom. I, 20). Ma la tua misericordia si fa sentire più addentro “in chi tu degni di far pietà, e cui ti piace far grazia;” (Rom. IX, 15), altrimenti il cielo e la terra narrano le tue lodi ai sordi. Che amo io dunque quando ti amo? Non già l’appariscenza in ordine ai corpi, non già l’armonia in ordine ai tempi, né il brillar di questa luce amica ai nostri occhi, non la soave melodia del canto, non la fragranza dei fiori e degli unguenti e degli aromi, né  la manna, né il miele, né gli amplessi della voluttà. Non amo, no, queste cose amando il mio Dio; e tuttavia amo certa luce, certa voce, certo odore, certo cibo, certo amplesso, allorché amo il mio Dio, luce, suono, cibo, amplesso all’interno mio senso; dove all’anima mia risplende ciò cui spazio non contiene, dove risuona ciò che il tempo non dilegua, dove olezza ciò che le aure non dissipano, dove si assapora ciò che l’edacità non iscema, e dove congiungesi ciò che la sazietà non ributta. Questo è che io amo, quando amo il mio Dio.” (Conf. Lib. X, cap. 6).

LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO II:

LA VIRTÙ DELLA SPERANZA.

Nel capo precedente, parlando della fede, m’accadde di paragonarla al tronco dell’albero della vita, da Dio posto nel mezzo dell’Eden. Ora il primo ramo, che spunta di quel tronco è senza dubbio la speranza; ma non spunta solo. Insieme con questo ramo ne nasce un altro egualmente vigoroso e bello, il quale è la carità. Tutte due coteste virtù vivono della fede siffattamente, che, come il succo vitale d’un albero dal tronco va nei rami, ed è sempre in comunicazione col tronco stesso; così avviene di queste tre virtù. Esse nascono, s’alimentano, vivono e vigoreggiano insieme. Oltre a ciò, a quel modo che il tronco e i rami d’ un albero, col passare degli anni, si elevano sempre più in su verso il cielo; così fede, speranza e carità ci avvicinano di grado in grado al Cielo del Paradiso; dove un dì riposeremo beatificamente nelle grandi e amorose braccia di Dio. Ma, poiché noi fummo creati dal Signore per vivere prima qui in terra, insieme con la vita soprannaturale e religiosa, la vita terrestre e secondo natura; anche il fondamento di queste virtù tanto celestiali lo troviamo nella vita terrena e nella natura umana. Onde, se la fede divina è, come fu detto, una sublimazione della fede umana; il medesimo vale della speranza divina, alla quale ora volgeremo con affettuoso animo il pensiero. Sperare è, secondo natura, attendere con desiderio un bene qualsiasi vero o apparente. Ora, poiché la vita nostra è piena di desiderj non soddisfatti o non pienamente soddisfatti; è dunque certo che noi viviamo in gran parte di speranze. I giovani poi sono in modo particolare speranzosi, perché in essi abbondano i desiderj, e anche perché, come nota san Tommaso, per cagione dell’età, ei vivono poco o punto nel passato, e molto nell’avvenire. Ancora, poiché l’uomo desidera insieme i beni dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, della memoria, del corpo e anche quelli esteriori dell’universo; è giusto dire che tutti questi beni egualmente noi li speriamo. E li speriamo, o che non li abbiamo, o talvolta anche che li abbiamo. Avendoli, speriamo di non perderli, come può accadere di leggieri. Non avendoli, speriamo di conseguirli. Talvolta poi, massimamente nella primavera della vita, la speranza di alcun bene ci diletta quasi più del possedimento suo; sia perché l’immaginazione e il desiderio ce lo abbelliscono e coloriscono, sia perché nei beni finiti il diletto loro, quasi sempre, scema col possesso. La speranza infine è soprattutto cibo, conforto e pace nostra, quando un qualsiasi dolore ci punga l’anima o il corpo. Allora, per moto naturale dell’animo, speriamo che il nostro soffrire sia passeggero; e cotesto sperare riesce quasi balsamo, che raddolcisce in parte le nostre amarezze, e talvolta ce le fa anche soavi. – Nondimeno la speranza umana è sempre un po’ turbata da una voce mesta di timore, che ci dice all’orecchio: tu speri forse invano. E veramente o la malvagità degli uomini o la mutabilità delle cose o taluni fatti né preveduti né previdibili fanno spesso cadere a vuoto, le più care e solide nostre speranze. D’altra parte il naturale inchinamento dei nostri animi allo sperare quasi sempre attutisce il timore, che vorrebbe annientar le nostre speranze, e prendere il disopra su di esse. Lo sperar sempre e molto è tanto secondo natura, che, anche, quando alcune speranze falliscono, tosto ne pullulano altre, o quelle stesse antiche rinverdiscono. Dalle quali cose segue che la disperazione è innaturale all’uomo, e nasce quasi sempre o da eccesso di orgoglio e di egoismo, o da fiacchezza di animo; spesso poi è più apparente che reale. La infinita vanità del tutto, tanto predicata da un grandissimo e infelice poeta, ove non sia un santo sospiro dell’anima, che si eleva dai beni finiti all’Infinito, è la formola più espressiva o dell’egoismo umano, a cui non basta nulla di nulla (né i beni creati da Dio né Dio stesso), o dell’orgoglio, che si appaga del far credere agli altri che nulla basta alla propria grandezza. – Ora, se noi fedeli Cristiani, mossi dal soffio interiore della grazia, volgiamo le nostre speranze dai beni particolari al Bene sommo, in cui son tutt’i beni, cioè a Dio infinitamente buono e misericordiosissimo, allora in noi vive e splende la virtù teologale della speranza. Il dì, che avemmo da bambini, nel santo lavacro del Battesimo, il dono celestiale della fede; in quel dì medesimo, insieme con essa, ci fu dato il dono della speranza, due tesori, per divino ordinamento dapprima nascosti, nel profondo delle anime nostre bambine e semplicette, sin che le membra del corpicciuolo erano ancora tenerelle e nel loro primo sviluppo: due doni, che poi si manifestarono in noi, con l’uso della ragione, e, se corrispondemmo alla divina grazia, grado grado furono messi a traffico, e ci procurarono nuove ricchezze soprannaturali. – Di questa dolcissima e consolantissima virtù della speranza Dante Alighieri parla lungamente e nobilissimamente nel venticinquesimo del Paradiso; e sarà bene che alcune cose intorno a questa virtù le impariamo da quel grande, che scrisse l’altissimo poema, ed è impareggiabile nell’arte di dire le verità più profonde della fede cristiana con rigore teologico, e con una leggiadria poetica che innamora (anche se per altri versi era un ghibellino eretico e contrario all’autorità papale, ed in diversi punti, uno gnostico “velato”, oltre che partigiano dei “fraticelli” eretici pauperisti, ed un sospetto peccatore contro natura, in fuga da una città all’altra, ma questa è un’altra storia! – ndr. -).. L’Alighieri dunque, stando per fantastica visione in Paradiso, vede san Pietro e san Jacopo, i quali gli si affissano davanti con sì infocato splendore, che a lui è forza di abbassare le pupille. Allora Beatrice, immagine parlante della Sapienza cristiana, si volge con un celeste sorriso a san Jacopo, che essa tiene per Apostolo della speranza, e lo prega che faccia risonare colà il caro nome della speranza; un nome, che non si sente mai in quelle celesti regioni, dove ogni speranza è già soddisfatta. Con questo parlare l’alto intelletto di Beatrice bellamente c’insegna una dottrina cattolica, cioè che né la speranza né la fede, quantunque virtù nobilissime, hanno luogo in Paradiso. Infatti, a che servirebbe più la fede nel regno dell’eterno vero, se Iddio, e i suoi altissimi e impenetrabili misteri in Cielo l’uomo li vede faccia a faccia in Dio stesso, secondo queste parole di sant’Agostino: “Qual cosa mai non vedremo noi, vedendo colui che vede tutte le cose?” A che mai gioverebbe poi la speranza nel superno regno, dove tutt’i beni sperati e sperabili l’uomo li possiede senza timore di perderli, in quel Dio, che contiene ogni bene e infinitamente tutti li vince? In cielo, quando vivremo di Dio, resterà soltanto la carità, come insegnò san Paolo scrivendo: “Tre cose durano nella presente vita, la fede, la speranza e la carità; ma la carità è maggiore di tutte: ed essa non vien meno giammai.” (I Cor. XIII. 13), – Intanto, poiché noi siamo tuttora. qui in terra; il cibo della fede e della speranza ci sono al tutto necessari. Anzi la stessa carità, che in cielo vivrà senza delle altre due sorelle, nella vita presente senza di esse non si può neanche concepire.  – Ritornando dunque a Dante, e agl’insegnamenti, che si riferiscono alla speranza, e ce la fanno cara; san Jacopo, volto a Dante che stava ancora col capo dimesso, gli dice che lo alzi pure in alto, e pensi che, essendo salito dalla terra al cielo, deve adusarsi a sostenere i celesti splendori. E poi, quasi volendo esaminarlo intorno alla virtù della speranza, soggiunge: poiché il Signore vuole confermare in te e negli altri, per mezzo della visione, la verace speranza dei mortali, cioè quella che gli innamora dei beni celesti, parlami dunque tu della speranza; e “Di’ quel che ell’è, e come se ne infiora La mente tua, e di’ onde a te venne.” Queste parole contengono tre domande, e però molte cose in sé utili a sapere e consolatrici. Ma ecco che prima di tutto Beatrice, che stava a lato di Dante, per illuminarlo della sua chiarezza e sapienza, previene la risposta di Dante alla seconda delle tre domande, cioè come la mente dell’Alighieri s’infiori di speranza; e dice non esservi uomo in terra, il quale abbia più virtù di speranza di quella che è in Dante, il quale perciò ha meritato di venire, prima di morte, dalla schiavitù del mondo a questa visione del Paradiso. Alle altre due domande risponde Dante; e, quanto alla prima, cioè ché è la speme, ei risponde, poetizzando la definizione del Maestro delle Sentenze, Pietro Lombardo, e scrivendo “ Speme, diss’io, è un attender certo della gloria futura; il qual produce Grazia divina e precedente merto, (Petr.: Lombardo. Sentent. L.III. distict. 26.). – La speranza dunque, considerata come virtù teologale, mira tutta al sommo Bene che è la gloria futura; il quale bene poiché non si consegue, senza i mezzi Spes est certa exspellatio futura beatitudinis veniens ex Dei gratia et meritis præcedentibus, necessari, abbraccia anche questi, secondo che è detto nei nostri catechismi, ed è insegnato da san Tommaso. Ed ora leggete qui le parole di san Tommaso, così bene adatte a chiarire la definizione di Dante e del Maestro delle Sentenze. “L’oggetto ei dice della speranza, per un rispetto è la beatitudine eterna, e per un altro rispetto è il divino ajuto, onde essa si consegue. L’una e l’altra cosa a noi le propone la fede, per la quale conosciamo che abbiamo possibilità di giungere alla vita eterna, e che a ciò ci è apparecchiato il divino ajuto, secondo le parole di san Paolo agli Ebrei (XI, 6), « Chi a Dio si accosta fa mestieri che creda, che Dio è, e ch’Ei rimunera coloro i quali lo cercano.” – Chiarita questa prima parte, Dante risponde all’altra domanda: onde gli venne la speranza, e afferma che gli venne dai varj santi scrittori della Bibbia, e particolarmente dal Profeta David, e da san Jacopo. Infatti san Jacopo nella sua Epistola canonica ha diversi luoghi, che accennano alla consolatrice virtù della speranza; ma David soprattutto è il Profeta, e vorrei anche dire il poeta delle speranze nobili e sante delle anime cristiane. Il Salterio Davidico è tutto indubbiamente un cantico sublime e celestiale di fede, di speranza e di amore; ma la speranza vi primeggia, e lo illumina: Objectum autem spei est uno modo beatitudo eterna, et alio modo divinum auxilium. Et utrumque eorum proponitur nobis per fidem, per quam nobis innotescit quod ad vitam eternam possumus pervenire, et quod ad hoc paratum est nobis divinum auxilium, secundum illud Hebr. XI, 6. Accedentem ad Deum oportet credere quia est, et inquirentibus se remunerator sit. — Sum. Theol. P. 11. 2° quæst. XVII. art. 7), siffattamente, che l’anima di chi prega, o canta i Salmi, pare che voli sempre al sommo Bene sperato, e in Lui si riposi. Ma ora lasciamo Dante, il quale, dopo di avere ancora parlato della speranza, ode, tra i circoli dei beati danzanti, le soavi parole che i Santi dal Paradiso dicono dei viatori: Sperino in Dio. Sperent in te; e volgiamoci ad altre considerazioni che c’istruiscano, alimentando in noi la dolcissima virtù della speranza. – Come mi venne detto avanti, nel parlare della speranza umana, che spesso la vela un’ombra di timore; così avviene parimenti della speranza divina. Non pertanto il timore in questa non può né deve derivar mai da dubbio, che si abbia intorno alla bontà divina, promettitrice del sommo Bene e dei mezzi per conseguirlo, ma solo dalla nostra fragilità. La quale tanto è grande, che può di leggieri allontanarci dal sommo Bene, tarpando così le ali della nostra speranza. Se non che è da por mente che nella speranza cristiana la fiducia di molto deve sopravvanzare il timore; il quale solo è salutare in quella parte, che deriva da umiltà. Onde esso timore, che è quasi uno col timore di Dio, non intiepidisce la speranza nostra, ma la fa santa e modesta. Noi dunque a buon dritto, quanto più siamo ferventi e pii, tanto più speriamo di gran cuore. Perciocchè, essendo ferventi e pii, sappiamo e comprendiamo meglio che dove abbondano la miseria e la fragilità umana, ivi sovrabbonda la grazia e la carità divina. Così avviene che l’uomo, per quanto sia o si reputi miserabile e peccatore, trova sempre un rifugio sicuro, abbandonandosi fiduciosamente nelle grandi braccia della divina misericordia, e facendo suoi, gl’infiniti meriti di Gesù Cristo. A ragione dunque nella santa Scrittura è condannata ogni titubanza e pusillanimità nostra nello sperare; onde san Jacopo, maestro della virtù della speranza, parlando dell’orazione cui il Cristiano volge a Dio, ha queste consolanti parole: “Chieda egli con fede, senza esitare; perciocché chi esita è simile al flutto del mare eccitato dal vento.” (Jac. I. 6. e 7) – Ben io so che sono assai poche le anime cristiane, che non abbiano talvolta sentito dentro di sé queste fluttuazioni interiori, per le quali esse si volgono ora in una e ora in un’altra parte contraria; ora guardano Dio, e si fanno cuore e sperano; ora guardano a sé stesse, e diventano pusillanimi e titubanti. È questa una delle molte battaglie, che l’anima combatte in sé medesima, e che le servono di prova. Ma la virtù della speranza, la quale Iddio, come aura soave e olezzante, spira di continuo nelle anime ferventi, o vince al tutto questa fluttuazione, o ne lascia soltanto quella piccola parte, che riesce in alimento della nostra umiltà, e ci avvezza a poco a poco a sperare sempre più, astraendoci da noi stessi e dalle nostre opere, e profondamente confidando in quell’abisso di misericordia, di carità e di grazia, che è l’Iddio nostro. – L’Apostolo san Paolo nella sua Lettera agli Ebrei insegna che noi abbiamo una consolazione fortissima nella speranza, la quale teniamo come àncora sicura e stabile dell’anima. (Hebr. VI. 18, 19). E la speranza è sì veramente un’àncora, che rende l’anima nostra serenamente fissa e immobile, tra i venti e le ondate violenti della vita mortale. Certo, i flutti e i marosi delle passioni umane tentano di agitarci o di sommergerci, come talvolta si agita nel mare o si sommerge la nave lasciata a sé stessa; ma ecco che la dolce speranza della vita futura, penetrando addentro nel fondo del mare dell’anima nostra, la tiene, quasi àncora, ferma e stabile, e la fa galleggiare sicura tra le tempeste del mondo. Però, secondo che nota l’Angelico san Tommaso, tra l’àncora delle navi, e l’àncora della speranza cristiana v’ha questa differenza, che l’àncora della nave si conficca in basso (cioè nel profondo del mare) e l’àncora della speranza nostra si fissa in luogo altissimo cioè in Dio. E ciò ben a ragione; perocché nella presente vita non vi ha cosa che sia stabile, e nella quale l’anima possa fermarsi e riposarsi sicuramente (In exposit ejusdem cap. VI, ad Hebr. Lect. 6). Così l’Angelico. Ma, riflettendo nel testo di san Paolo, si potrebbe forse anche pensare che quel mare, il quale per le sue fluttuazioni e le sue tempeste raffigura così bene la nostra vita presente, esso stesso per la immensità, per la profondità, per i tesori che nasconde, e per la bellezza e sublimità sua, effigii pure il Signore Iddio, nel quale l’àncora della nostra speranza sta ferma assai più fortemente, che l’àncora più solida e perfetta di una nave non si attacchi nelle profondità misteriose del mare.

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

LO SCUDO DELLA FEDE (189)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUARTO

I SACRAMENTI

VI. — L’Estrema Unzione.

D. Che cosa è l’Estrema Unzione?

R. È il sacramento dei malati in pericolo di morte.

D. Qual pensiero vi presiede?

R. Essa è l’intervento supremo, in favore di un partente, del gruppo unito in Cristo e in Dio che noi chiamiamo Chiesa.

D. Pascal disse: « Sì muore da solo ».

R. Egli pensava agli attori o ai complici di una vita dissoluta. Di fatto, quando la morte ci sovrasta, costoro diventano lontani come se appartenessero a un altro mondo. Ma la solidarietà cristiana è immortale come Cristo e come Dio; la morte non la raggiunge.

D. L’Estrema Unzione è dunque un atto di solidarietà?

R. È un atto di solidarietà da parte dei membri della Chiesa che vi prendono parte, e un atto di maternità da parte della Chiesa stessa. Avendo generato questo figlio e avendolo guidato nella vita, essa dev’essere lì all’ora estrema. Il morente, ormai insolvibile e impotente, si abbandona a lei, ed essa si piega sopra di lui teneramente.

D. È forse per significargli la partenza?

R. No affatto, e hanno assai torto coloro che si rappresentano « l’uomo nero » come un uccello lugubre.

D. Che cosa si propone essa dunque?

R. Il sollievo spirituale e corporale del malato.

D. Di qual sollievo spirituale sì tratta?

R. Si tratta di aiutare il fedele a compiere in extremis l’opera di penitenza, a distruggere le «reliquie del peccato », affinché la morte che minaccia sia definitivamente spogliata del suo potere di nuocere, e lo Spirito di pace e di gioia stabilito nell’anima allontani gli spaventi.

D. Hai tu la pretesa di togliere alla morte è suoi terrori?

R. La morte per il Cristiano, è un avvenimento come un altro; ma la debolezza ha gran bisogno che si ridesti il suo spirito di fede.

D. Un tal desiderio suppone già la fede.

R. Difatti, colui che ha la fede deve desiderare assai vivamente questa salvaguardia, nel momento in cui si conclude il pericoloso passaggio da questo mondo. Ma un principio di fede, aiutato dal sacramento e dalla preghiera comune, genera una fede più grande. E se, per grazia la fede venisse a sbocciare da questo fatto stesso, il fortunato malato potrebbe dire con Giacomo Rivière: « Adesso, io sono miracolosamente salvo ».

D. Ma se si è vissuto bene?

R. Chi è vissuto bene ha il diritto di essere fiducioso; ma di fronte al mistero, sapendo che alla porta dell’altro mondo siede la giustizia accanto all’amore, egli sarebbe assai incosciente se non provasse un salutare timore.

D. Perché salutare?

R. Perché esso invita ad accrescere le proprie garanzie e a valersi del suo soccorso.

D. Si dà l’Estrema Unzione ai condannati a morte?

R. No, e neppure ai soldati in estremo pericolo, né in generale a chiunque affronta la morte fuori della malattia e della sofferenza.

D. Perché questa parzialità?

R. L’uomo in possesso delle sue forze ha dei soccorsi ai quali egli può cooperare, o che si procura da se stesso; il malato attende, e la sua attesa fraterna vede venire a sè una fraternità larga come la nostra Chiesa universale, tenera come l’anima di Cristo e potente come Dio.

D. Hai anche parlato d’un sollievo corporale.

R. Riguardo al corpo, la preghiera sacramentale domanda la guarigione, ed essa l’attenderebbe con una fiducia totale, se non sapesse che questo effetto, come tutto quello che riguarda il temporale, rimane sottomesso alla Provvidenza.

D. La Provvidenza non ha essa pietà?

R. « La pietà dei mortali non è quella de’ cieli ». (VICTOR Hugo). Qui ti devi richiamare al pensiero quello che abbiamo detto della condotta di Dio in questo mondo.

D. È tutto quello che aspetti?

R. Noi speriamo ancora, nel malato, una felice calma dello spirito.

D. Quale ne sarà la ragione?

R. « Queste sante cerimonie, queste preghiere apostoliche, per una specie d’incanto divino, sospendono i dolori più violenti, e, come spesso ho veduto, fanno dimenticare la morte a chi le ascolta con fede » (BOSSUET).

D. Qual è il rito dell’Estrema Unzione?

R. La materia del sacramento è l’olio, conforto per l’atleta dell’estremo combattimento, rimedio per l’anima dolente e mai liberata dal peccato, sorgente di calore e di luce per l’anima intirizzita e brancolante sull’orlo dell’abisso semiaperto.

D. In che modo usi questa materia?

R. Si praticano delle unzioni sulle parti del corpo che possono passare per il principio delle nostre miserie morali: gli occhi, le orecchie, le narici, la bocca, le mani, i piedi, i reni, e si accompagnano con una preghiera.

D. Perché una preghiera in vece della forma affermativa degli altri sacramenti?

R. Perché ci si rivolge a colui che è senza forza e non si può aiutare da se stesso; perché il morente è già come partito, rimesso nelle mani di Dio, che solo la preghiera può raggiungere.

D. Questo sacramento dell’ora estrema dev’essere l’ultimo dei sacramenti?

R. È l’ultimo dei sacramenti individuali; ma resta da provvedere, mediante l’Ordine e il Matrimonio, all’arrolamento della gerarchia religiosa e al popolamento dei nostri gruppi d’immortali.

VII. — L’Ordine.

D. Quale idea s’introduce sotto questo termine un po’ speciale: l’Ordine?

R. $i tratta dell’ordine delle comunicazioni spirituali nella città di Dio.

D. Quali comunicazioni?

R. La gerarchia ordinata deve comunicare i benefizi della redenzione ai fedeli, nel nome di Cristo che essa rappresenta e di cui essa continua l’azione sopra la terra.

D. Che nome dài a questa comunicazione stessa?

R. È il sacerdozio.

D. Quali sono le sue attribuzioni?

R. Esso è incaricato di preparare e di distribuire a tutti il nutrimento spirituale: nutrimento delle intelligenze mediante la predicazione dottrinale; nutrimento dei cuori mediante le esortazioni e mediante il ricordo delle divine speranze; nutrimento sovrumano dell’Eucaristia, che comprende tutti i doni della vita dandoci il loro Autore.

D. Quest’ultimo compito è certamente a’ tuoi occhi è principale?

R. È l’opera propria del sacrifizio; tutto il resto vi si riferisce come una preparazione, un accompagnamento o una continuazione.

Onde il sacerdote è il centro e il fine di tutta la gerarchia. Tutti gli uffizi che si esercitano sotto di esso: diaconato, suddiaconato, ordini minori, non sono che servitori. Tutti i poteri superiori: episcopato, prelature di ogni classe, papato, servono in un’altra maniera, incaricati di procurare dei sacerdoti, poi di sorvegliare l’esercizio del loro potere, non in quanto al principale, che è l’azione consacratrice, ma per l’uso che se ne fa e le condizioni esterne che essa suppone.

D. Chi stabilisce i sacerdoti?

R. Il Vescovo « principe dei sacerdoti », secondo il linguaggio dell’antica legge, e di cui si dice che possieda la pienezza del sacerdozio, per significare che la sua funzione, oltre che essere completa, è indipendente, e la comunica mediante l’ordinazione.

D. Non è il Papa «il principe dei sacerdoti »?

R. Sotto l’aspetto propriamente sacerdotale, il Papa è un Vescovo come gli altri; ma egli ha inoltre una giurisdizione universale, vale a dire un potere di governo.

D. Tu dici che questo potere è supremo, e non è forse un principato?

R. Il potere del Papa è supremo nel campo dov’esso si esercita; ma gravita attorno al sacerdozio, per la ragione che tutto gravita attorno all’Eucaristia, e ciò stesso si spiega perché Cristo, che arreca l’Eucaristia è il tutto della nostra vita in Dio: mezzo universale, sorgente unica di luce, di arricchimento vitale, di gioia. Che tutto funzioni secondo la legge della sua istituzione, e si vedrà la gerarchia, dall’alto in basso, da destra a sinistra, in tutte le sue ramificazioni e in tutti i suoi gradi, impiegata in una sola opera: la santificazione per mezzo di Cristo, con l’Eucaristia, opera del sacerdozio, che ci dà sostanzialmente Cristo come centro d’influsso.

D. Il sacerdozio è dunque per noi una grandissima cosa?

R. È la cosa unica, superiore e ogni cosa umana, e che di superiore non ha che il divino.

D. Ma la Chiesa?

R. La Chiesa stessa non è che un sacerdote collettivo, corpo spirituale di Cristo sacerdote, il cuore del quale, ciborio vivente, ci offre la Divinità.

D. Eppure la Chiesa è un’amministrazione, una politica.

R. La sua essenza è in fondo mistica. La politica, l’amministrazione non vi si uniscono se non per le necessità del suo funzionamento umano. La Chiesa ci vuole divinizzare; essa dispone per questo di un mezzo vivente, che è Cristo. Là dov’è Cristo, ivi è dunque l’essenziale del suo compito, la ragione del suo organamento, il nodo vitale in cui tutti i suoi movimenti si coordinano.

D. I riti del sacramento dell’Ordine saranno dunque relativi all’Eucaristia?

R. Sì, ed essi consistono in questo che il consacratore segna il potere che egli intende di concedere mediante la consegna degli oggetti religiosi che servono a ciò: il calice con il vino, la patena con il pane, l’evangeliario, oppure il calice vuoto, ecc., secondo gli ordini. Vi si aggiungono parole che esprimono all’imperativo l’uso di queste cose. Ed è una consacrazione, analoga alla consacrazione dei re, in cui un segno sensibile accompagna l’attribuzione di un reale potere.

D. La consacrazione sacerdotale conferisce una grazia?

R. Conferisce insieme una grazia e un potere. Il potere corrisponde a quello che noi chiamiamo carattere sacerdotale, per sempre inseparabile da chi l’ha ricevuto. In quanto alla grazia sacramentale annessa all’ordinazione sacerdotale e a tutte quelle che ne dipendono, essa segna la volontà di Cristo di dare al suo servo, quando Egli lo consacra, i mezzi di compiere non materialmente, ma degnamente il suo ufficio.

D. La funzione dipende forse dall’uomo?

R. No certo; l’ufficio del sacerdote è indipendente dal suo valore personale, e, per il fedele, quello che importa, è questo ufficio e non questo valore. Tuttavia, che il dispensatore dei beni di Dio non possieda egli stesso i beni di Dio, è un disordine. L’istituzione religiosa, che mira al perfetto, cerca di procurare l’armonia del vaso e del profumo, del canale e del liquore che scorre, del sacerdote e della santa vita che deve promuovere.

D. I capi religiosi dovrebbero dunque essere dei santi?

R. Quanto più sono essi elevati in potere, tanto più si desidera che siano elevati in grazia, a fine di essere elevati in abbassamento di umiltà davanti a Dio e in abbassamento di servizio verso i loro fratelli. Per questo l’episcopato, sacerdozio completo, è chiamato dalla teologia « uno stato di perfezione », poiché la pienezza del sacro potere, anziché dispensarlo da qualche cosa, lo obbliga. Sancta sancte! santamente, l’amministrazione delle cose sante; più santamente, l’amministrazione delle cose più sante!

D. E se questo non si effettua, quale è secondo te il rimedio?

R. Da un lato la riforma o la santificazione sempre maggiore del clero; dall’altro, lo spirito di fede dei fedeli.

D. In che consiste questo spirito di fede?

R. Nel vedere il sacerdote così grande, che quando egli è meno degno personalmente, la santità del suo compito risplende anche di più, perché questo compito lo schiaccia.

D. Il sacerdote è in una condizione privilegiata riguardo alla salute?

R. È in una condizione a un tempo privilegiata e più pericolosa; la sua sorte dipende dell’uso che fa dei suoi doni. A ogni modo, il suo sacerdozio per se stesso non lo salva, ma egli deve guadagnarsi il cielo come tutti gli altri.

VII. — Il Matrimonio.

D. Qual è l’oggetto del sacramento del matrimonio?

R. Esso ha rapporto alla propagazione della specie e si propone di ciò fare nelle condizioni dell’uomo religioso, degne dell’umanità religiosa.

D. La propagazione della specie riguarda la religione?

R. Tutto riguarda la religione, è specialmente quei riti della natura che reclutano la Chiesa sopra la terra a fine di popolare il cielo.

D. La Chiesa sì farà dunque legislatrice dell’amore?

R. Essa intende di assegnargli il suo posto, quanto di glorificarlo nell’opera sua, e d’impedirgli di diventare, come tende continuamente, uno spaventoso flagello.

D. È questo il compito di un sacramento?

R. Il compito di un sacramento è di rendere possibile, per l’intervento di Cristo nel contratto che lega due esseri, quello che vuole la dottrina in favore del bene umano e del bene divino.

D. Il matrimonio tuttavia non ha di mira che un’opera di

natura.

R. La natura non è senza Dio; essa è compresa nel piano religioso del mondo, e l’uomo, nel cammino del suo reale destino che è soprannaturale, deve impegnare tutto quello che concorre a spingerlo avanti e che, mal condotto o trascurato, potrebbe tirarlo indietro.

D. In che modo si può di certe cose fare un oggetto religioso?

R. Vi è qui un pregiudizio apparentemente rispettoso, ma che, in realtà, offende la gravità della Chiesa. La natura è figlia di Dio; Cristo l’ha adottata tutta; dove le deviazioni sarebbero più formidabili, ivi soprattutto è necessaria l’azione dello Spirito santificatore. Ma là dove questo Spirito s’introduce, fa del matrimonio, di tutto il matrimonio, una funzione religiosa; perché in Lui, la funzione naturale e la funzione sociale fanno parte dell’organizzazione di cui Cristo è il capo, di cui Lui stesso è il principio. Onde la nostra Chiesa, senza falso pudore e senza timidità infantile, ma con la maestà di un’avola dallo sguardo pieno di eternità, osa benedire il letto nuziale, dopo avere benedetto le anime.

D. Qual è la materia di questo sacramento?

R. Gli sposi stessi, nel dono scambievole che si fanno,

D. Qual rito lo costituisce?

R. Lo scambio dei consensi.

D. E il ministro è il sacerdote?

R. No, il sacerdote è testimonio necessario, ma non operante riguardo al sacramento. Qui i ministri sono gli sposi, ministri officianti del rito che li unisce.

D. E questo sacramento conferisce una grazia?

R. Ogni sacramento conferisce una grazia. Del rimanente, la propagazione del genere umano non ha valore religioso e senso religioso se non in ragione della vita della grazia. Si vuole espandere la grazia, nello stesso tempo che alzarla in ogni essere; il matrimonio come sacramento ne è il mezzo: è dunque naturale che ne sia prima impregnato esso stesso, per essere all’altezza del suo doppio compito.

D. Il matrimonio ha per te una gran dignità?

R. « È un gran Sacramento! » dice S. Paolo.

D. Perché dunque perori in favore della verginità?

R. La grandezza del matrimonio, che pianta l’albero della vita, non impedisce un valore più grande. L’umanità ha bisogno non solo di frutti, ma le occorrono anche dei fiori.

D. I frutti non sono superiori ai fiori?

R. Per il corpo; ma non per l’anima. Lasciamo che alcuni chiamati conducano la vita dell’anima, e abbandonino i frutti della terra per i fiori del cielo.

D. Queste persone non sono, socialmente, degli inutili?

R. Sono utili allo stesso matrimonio, che esse tendono a purificare e a ingrandire; farebbero meno a pro di esso, aggravate dalle sue catene. Del resto la loro rinunzia le libera in favore di più alti impieghi.

D. Intendi parlare dei tuoi preti?

R. Intendo parlare del sacerdote e anche di altri; ma in quanto al sacerdote, oltre una folla di considerazioni tutte pressanti, una speciale convenienza viene dall’Eucaristia. – Ogni cuore delicato capisce che il contatto di un Dio impone qualche riserva, e che la verginità conviene al sacerdote come convenne a Maria.

D. Finalmente egli rinunzia alla famiglia.

R. « Di’ piuttosto che all’uomo estende egli la sua famiglia » (LAMARTINE).

D. Ma la sua azione sul mondo non esige dal sacerdote che egli sia mescolato al mondo e cosciente dei suoi bisogni?

R. Il sacerdote si stabilisce sopra il mondo distaccandosene; lo smarrirvisi non gli darebbe una migliore esperienza, e nel suo disinteressamento, nella sua abnegazione egli trova la sua forza.

D. Quale simbolismo adotti per il sacramento del matrimonio?

R. S. Paolo paragona l’unione degli sposi a quella di Cristo e della Chiesa: ecco il simbolismo del sacramento e il punto di partenza delle sue leggi.

D. L’idea pare strana.

R. Essa invece è di una filosofia profonda. L’integrazione religiosa del mondo esige l’unione dell’uomo e della donna per formare l’uomo completo, poi l’unione dell’uomo completo a Cristo, nella Chiesa, per formare l’uomo completo religiosamente, cioè divinizzato dalla grazia. Così il parallelismo indicato da S. Paolo si rivela: ciò che Cristo è per la Chiesa universale per formare l’umanità religiosa, lo sposo lo è per la sposa per costituire un elemento di questa umanità, e il sacramento che simboleggia sotto questa forma il fatto religioso universale, tende da parte sua a realizzarlo, unendo gli sposi secondo leggi concordanti con l’unione dell’uomo a Cristo, nella Chiesa, e con ciò all’unione dell’uomo a Dio nell’incarnazione.

D. Cristo viene così per terzo nell’intimità del matrimonio?

R. Non sarà un terzo ingombrante, e neppure il sacerdote, suo rappresentante, come certuni paventano. Ospite dei cuori, Cristo sarà nello stesso tempo il loro legame, come la loro consolazione nei cattivi giorni e la loro forza nell’arduo compito che assumono. Dio non separa, ma lega; è il vincolo universale degli esseri. Forse ci separa il luogo dove ci troviamo? Dio è il luogo degli spiriti. Forse li separa la legge di azione e la vita intima dei membri? Dio è la nostra legge di azione più profonda e la vita della nostra vita: essere in Lui, è essere meglio in noi stessi e in ciò che non forma più che una sola cosa con noi.

D. Questa mistica del sacramento ha delle conseguenze pratiche?

R. Noi ne ricaviamo i due caratteri essenziali del matrimonio, che sono l’unità e la perpetuità.

D. Come ciò?

R. Se il matrimonio deve fornire un punto fermo di partenza per la costituzione religiosa del mondo sotto l’aspetto della sua estensione, senza dimenticare il suo valore, deve anche essere saldo, e deve stabilirsi in condizioni che permettano al focolare lo sviluppo di individualità virtuose, pacifiche e utili.

D. L’unità è indispensabile per questo?

R. Sì, perché senza parlare di poliandria, che la stessa fisiologia condanna, la poligamia indebolisce, corrompe e disorganizza il focolare domestico dividendolo; invita l’uomo all’egoismo e all’autocrazia, alla sensualità e al capriccio; spinge la donna a costumi di schiava; fa regnare le gelosie, gl’intrighi, le disillusioni, i rancori, divide i figli e della prole non fa che una tribù di vincoli deboli, non una famiglia nel pieno senso della parola.

D. Eppure vi sono delle civiltà poligame.

R. Sì, ma inferiori e stagnanti. Non si fa una casa solida con argilla impastata, e l’edificio non potrebbe salire in alto se pecca alla base.

D. Ma che cosa esige l’indissolubilità?

R. Delle ragioni affatto simili. L’unione di Cristo all’umanità religiosa è perpetua; è una vita che non deve finire. Il matrimonio alimenta questa vita, esercita l’ufficio di formare i suoi elementi nuovi: i figli, e di formare anche l’uno per l’altro, in una mutua tolleranza, degli sposi che siano una vita, nell’interno della vita collettiva. Sarebbe sorprendente che l’instabilità fosse per questo una buona condizione, essendo un così cattivo simbolo.

D. Non sai che nel corso della storia, l’indissolubilità del matrimonio fu sempre o inesistente o minacciata?

R. So che questa condizione del matrimonio non è riconosciuta praticamente e integralmente, non è difesa con fermezza se non dal Cattolicismo, e so che certi preferirebbero dire: ciò accusa il Cattolicismo, come se solo esso rifiutasse di riconoscere le condizioni reali della vita. Ma quando odo d’altra parte i più autorevoli sociologi dirmi che, a dispetto delle leggi che lo ammettono, il divorzio è condannato dall’opinione pratica di tutte le collettività coscienti, antiche e moderne (leggi solamente Proudhon!), io mi do a pensare che il Cattolicismo, ben lontano dal disconoscere le condizioni reali della vita, le considera da più alto, le difende contro le deviazioni individuali abbastanza numerose da pesare sulle leggi, ma che sono nondimeno delle deviazioni, sotto l’aspetto dell’interesse largamente preso del genere umano.

D. Quali sono le ragioni?

R. Esse concernono l’interesse morale degli sposi, che il principio del divorzio compromette gravemente, favorendo matrimoni male studiati, anticipatamente disuniti, e che il minimo incidente viene a sconvolgere o a corrompere. Concernono specialmente la donna, così impari all’uomo nel contratto, in ragione della sua fragilità e della precarietà dei beni che ella vi reca. Ma concernono soprattutto la prole, vale a dire l’umanità futura, temporale ed eterna, a cui si deve il cuore cristiano.

D. Perché la prole vuole l’indissolubilità?

R. Perché la sua educazione è lunga, e perché, quando termina, ha ancora bisogno del focolare domestico. La prole è legione; le tappe della sua vita, della sua educazione e de’ suoi impieghi si succedono per lunghi anni, durante i quali la famiglia deve irradiare sopra di essa calore e luce, mantenere, tra i nuovi gruppi che compone, une felice coesione che è una gran parte dell’ordine sociale. Dov’è il focolare, se l’unione si sgretola? Cerca bene: non vi è un momento assegnabile — generalmente parlando, come bisogna quando si tratta di istituzioni — in cui il vincolo matrimoniale si possa rompere senza grave danno umano.

D. Esso viene rotto dalla morte.

R. Grazie tante! O che vorresti assumerti l’ufficio della morte e di rendere orfani i bambini?

D. E se non si hanno bambini?

R. Restano gli altri motivi, e, inoltre, non si può legiferare per l’eccezione deplorevole; non si può dare un privilegio all’infecondità.

D. Non si potrebbero almeno sciogliere i cattivi matrimoni? Essi non giovano a nessuno, ma nuocciono e fanno soffrire.

R. È vero, e la religione lo riconosce permettendo allora la separazione, scrutando, se vi è ragione, le origini del matrimonio, per vedere se qualche fessura non permettesse di spezzare, senza danno per l’istituzione stessa, questo contratto disgraziato. Ma quando si parla di divorzio, io sono colpito dalla leggerezza dell’obiicente che crede di dirci così delle cose inconfutabili. Si cerca una legge che rispetti i buoni matrimoni e che permetta di distruggere i cattivi, ciò sembra semplicissimo, ed è una pura assurdità.

D. E perché?

R. Ciò non sarebbe possibile se non a condizione che tu potessi nascondere la tua legge nei codici, e non metterla fuori se non per il caso in cui giudicassi prudente e necessario. Una volta pubblicata la tua legge agirà di per sé, e agirà dovunque; agirà nello spirito dei fidanzati, nello spirito dei parenti, nello spirito degli sposi, nello spirito dei figli. Dovunque essa introdurrà il dubbio, l’instabilità, la tentazione, l’irresponsabilità. Tu avrai stabilito la vita in un corridoio, e l’esistenza comune non avrà più saldo assetto.

D. Le leggi del divorzio prendono delle precauzioni.

R. E la passione le elude. Si arriva sempre alla legge del beneplacito, fosse pure quello d’uno solo dei due coniugi. La breccia si allarga per il passaggio delle moltitudini, e l’unione libera, anarchia al preteso servizio della sociabilità, si prospetta in un non lontano avvenire.

D. Stimi dunque che il divorzio sia contrario alla società come alla Religione?

R. Esso non è contrario alla Religione se non perché è contrario alla società, all’individuo morale, uomo e donna, in una parola alla vita umana. Cristo sposò l’umanità tal quale essa è, e la natura, la società, la fede, qui non hanno che un solo e identico interesse.

D. Donde viene allora che il Cattolicismo forma una schiera a parte ed esige più degli altri?

R. Perché vede più chiaro degli altri e sa di essere divino. Essendo divino, deve vegliare sopra l’ordine del mondo, luogo di lavoro del suo Dio. Essendo divino, si prende l’incarico della natura, della moralità, della sociabilità, del culto, come di un unico oggetto che lo riguarda, quando altri gruppi gli sono estranei. Essendo divino, esso ardisce, quando gli altri tergiversano e piegano. Essendo divino, ha delle divine promesse per quei che esso sacrifica momentaneamente, e delle divine consolazioni per quei che esso invita ai sacrifizi.

D. Così parlando, tu non tieni più conto dell’incredulo.

R. Io lascio che l’incredulo risponda secondo il suo cuore. A lui spetta di sapere se, in difetto dei divini compensi che gli mancano, voglia salvare il suo proprio caso decretando rovine, e se, legislatore, egli intenda soddisfare i suoi casi commoventi, tragici se si vuole, ma relativamente rari, e aprire il varco alla corrente di rilassatezza e di sensualità che trascina gli uomini.

D. E se egli dicesse di sì?

R. Sarebbe una ragione di ricordarsi fino a qual punto la Religione è necessaria alla natura stessa, e quanto la qualità di sacramento conferisce al matrimonio in favore dell’umanità.

LE VIRTÙ CRISTIANE (2)

LE VIRTÙ CRISTIANE (2)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C.; Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO I.

LA VIRTÙ DELLA FEDE

Tre soavi e nobilissimi sentimenti dell’animo, la fede, la speranza e l’amore; l’uomo intelligente e libero li può volgere a Dio; e, quando li volge a Lui, si sente migliore, più consolato, più nobile e più grande. Or in noi Cattolici questi tre sentimenti, elevati a Dio per i meriti di Gesù Redentore, e per movimento della grazia dello Spirito Santo, diventano tre virtù soprannaturali. Per esse crediamo in Dio e nella divina rivelazione insegnataci dalla Chiesa, speriamo in Lui, e lo amiamo con carità ineffabile, amando altresì in Dio le creature sue. A quel modo poi che il discorso dottrinale intorno a Dio è grecamente detto Teologia; così questi tre moti dell’anima, o piuttosto queste tre virtù, fede, speranza e carità, le quali elevano le ali del nostro spirito a Dio, le diciamo virtù teologali. – E ora qui sul principio, il discorso nostro sarà della fede che è il fondamento di tutto l’edifizio delle cristiane virtù; il quale tanto più si eleva maestosamente in alto, quanto maggiore e più salda è la fede nostra. Però 1’Apostolo S. Paolo, che insegnò ogni giusto vivere di fede, parla di essa mirabilmente nella Lettera agli Ebrei, dove dice. “ La fede essere sustanza delle cose che si Sperano, e prova delle cose che non si vedono.”  A intendere cotesto insegnamento, che non manca di sottigliezza, è da notare che la fede qui profondamente è detta sustanza, non come si direbbe dell’anima, che è sustanza spirituale, o del corpo che è sustanza materiale; ma in quanto che la fede fa sussistere nell’ intelletto umano le cose sperate con tanta certezza, come se fossero già realmente esistenti in noi. È poi la fede argomento delle cose non apparenti, in quanto che essa ci persuade a fermamente credere ciò che, secondo natura, non apparisce. Or di questa fede fa un elogio assai caloroso sant’Agostino dicendo: « Nessuna ricchezza, sia pure grandissima, nessun tesoro, nessun onore, niuna cosa del mondo s’ha da stimare più della fede cattolica. La quale salva i peccatori, illumina i ciechi, cura gl’infermi, battezza i catecumeni, giustifica i fedeli, perdona i penitenti, accresce il merito dei giusti, corona i martiri, conserva le vergini, le vedove e i maritati in casto pudore, ordina i chierici, consacra i sacerdoti, e fa arrivare i giusti con gli Angeli santi nell’eterno regno.” Or bene studiamo un po’ addentro cotesta fede, luce per i figliuoli di Dio, e tenebre per i figliuoli del mondo, tanto amata dagli uni, e tanto odiata dagli altri, da parecchi anche invano desiderata; cotesta fede che consola e turba, che è oggetto di tanta pace, e pure di tanta guerra tra gli uomini. Incominciamo dal definirla il più chiaramente che sia possibile. Fede è, secondo l’insegnamento cattolico, un atto soprannaturale, col quale l’uomo fermamente e pienamente assentisce a quelle cose, che La Chiesa propone come rivelate, e vi assentisce per effetto dell’autorità sommamente verace di Dio rivelante. — Tale è la fede teoricamente considerata. Ma noi Cattolici, che avemmo da Dio il dono della fede da bambini, insieme col latte materno, e ci sforzammo di custodirlo come tesoro prezioso, ne abbiamo altresì una conoscenza pratica nell’animo nostro. La sentiamo dolcemente nella nostra coscienza; e però ci torna gradito il considerarla un tratto, dentro di noi, dove è luce adombrata di mistero, ed è pur sentimento pieno d’allegrezza. Invero cotesta fede benedetta, mentre che noi la sentiamo come un soave acchetamento e appagamento dell’anima, ci riesce una risposta determinata e certa ai problemi più ardui e più travagliosi, che sin dai primi anni si affacciarono avanti agli occhi della nostra mente. Chi non ha inteso e non sente dentro di sé una voce misteriosa, ora più viva e ora meno, che gli susurra all’orecchio, dicendo: perché tanta guerra interiore dell’intelletto, del cuore, della fantasia, della coscienza, dell’anima, dei sensi in me? Donde siamo noi dunque? E perché siamo? Che è mai la vita? E a qual fine viviamo? Perché tanta grandezza e tanta miseria nello stesso uomo? Perché le malattie, la morte? Perché l’amore con le sue dolcezze, i suoi disinganni e le sue titubanze? Perché la speranza e il desiderio di viver sempre? A tutte queste e a molte altre somiglianti interrogazioni, che la mente, il cuore, la fantasia, la memoria fanno a sé stesse: la fede cattolica in prima dà risposte sicure e immutabili, perciocché noi crediamo fermissimamente che ci sieno date, non dall’uomo, ma da Dio, infinita Sapienza ed eterno Amore. E le risposte sono altresì tanto nobili e consolatrici, che anche gli uomini retti; a cui non risplende il lume della fede, spesso pensano che il credere in esse li renderebbe o meno infelici o forse anche felici. Pensando a queste cose, la mente umana scorge facilmente quanto sia falsa e menzognera l’illusione di coloro, che vogliono con la scienza supplire alla fede. La scienza a queste interrogazioni né risponde né potrà risponder mai, e ogniqualvolta lo tenta, s’impiglia in una tela inestricabile. La fede dunque, anche guardata umanamente, resterà salda, come torre ferma, che non crolla. – Giammai la cima per soffiar dei venti, insino a che non si trovino (ed è impossibile) altre risposte migliori, più consolatrici, e soprattutto più autorevoli alle interrogazioni, che l’uomo ha fatto e farà sempre a sé stesso. Intanto l’acchetamento e 1’appagamento della fede non ci addormentano, con un riposo inerte e agghiacciato della mente e del cuore, nella verità che tanto ci sublima; ma invece la stessa fede, che ci acqueta e ci dà le dolcezze del riposare nel vero, riesce a noi altresì un principio possente di moto, di calore e di operosità della mente, del cuore e della vita. Le verità della fede, ripensandole, amandole, studiandole, paragonandole con i principj razionali, con i nobili inchinamenti del cuore, e mettendole in armonia con tutte le cose create, eccitano in noi una così larga vena di pensieri, di affetti, di raziocinj, di analogie, che noi, per la fede, viviamo in una quiete operosissima e piena di vita, di calore e di moto. Nondimeno è impossibile che a coloro, i quali vivono nel nostro tempo, non arrivi spesso il suono molesto di parecchi, che muovono difficoltà d’ogni sorta, per toglierci dall’animo il nobile tesoro della fede. Gli avoli nostri questo suono poco o punto lo udivano, ché intorno a loro spirava da ogni parte un’aura di fede, la quale ora gli agghiacciati venti nemici hanno dispersa. Ma qual forza mai potrebbe impedire a noi di sentir questo suono, se esso ci percuote le orecchie tra le pareti domestiche, nelle vie, negli allegri convegni, nelle scuole, nelle università e dappertutto? – Ora la prima difficoltà, che si muove contro i dommi della fede, è che essi non derivano dalla ragione: sono dunque fantasmi o bei sogni di menti calde, o almeno non sono certi. Laonde l’uomo, particolarmente se colto e d’ingegno acuto, non deve accettarli. Ma in verità questa obiezione, che disgraziatamente ritrae parecchi uomini ciechi o passionati dal credere in Gesù Cristo e nella sua dottrina, procede solo da una certa nebbia intellettuale, che intorbidando le nostre idee, le confonde, e c’impiglia in una stretta rete di ambiguità e di errori. – In vero non è punto necessario per accettare ragionevolmente una verità, di vederne l’evidenza in sé stessa,o di dedurla per mezzo di raziocinj e di argomenti intrinseci. Vi ha ancora un altro modo da conoscere il vero, non meno sicuro e comune del primo; e chi lo nega questo modo, a parole, lo conferma con la propria vita ad ogni passo. – Certezza per noi non è altro, che convenienza sicura tra soggetto e attributo, e questa convenienza la si conosce per varj modi, i quali, a voler parlare esattamente, si riducono a due. L’uno è quando la nostra mente o vede tosto, o trae dall’idea del soggetto e dall’attributo argomenti evidenti, che dimostrino la loro convenienza: l’altro, quando la mente non trova convenienza o ripugnanza di sorta tra soggetto e attributo, ma cerca argomenti estrinseci per vederla, o meno. Il primo modo produce l’evidenza: e, quando poi, per via di raziocinj, dalla verità evidente, se ne deducono altre, si ha o la cognizione di altre verità certe o la scienza, Il secondo modo, allorché gli argomenti estrinseci sieno poderosi e certi, produce la fede umana. La quale, col raziocinio e con la dialettica, si sorregge e si estende, e da ciò deriva che anche nella fede umana entri la ragione, ma per un altro modo. Nel primo caso il giudizio nostro nasce da cognizione diretta o ragionata, che si ha della convenienza o ripugnanza di due cose: nell’altro da una cognizione indiretta ed estrinseca. Dell’uno e dell’altro modo noi si fa uso quotidianamente nel vivere; e, certo, più spesso del secondo, che del primo. Quasi sempre poi i due modi del conoscere, per il misterioso ed intimo connubio che è in noi, si armonizzano insieme: e la certezza della scienza s’illumina pure di qualche raggio di fede umana negl’intelletti, che la professano; come la certezza della fede umana si avvalora e si abbellisce d’una certa luce nel vedere le misteriose analogie tra la fede e la scienza. Né è giusto dire in alcun modo che l’una certezza sia maggiore dell’altra, sia perché nel certo non si trova il più o il meno, sia perché i due modi sono due raggi del medesimo eterno e infinito Sole di verità che è Dio. – Oltre a ciò è bene considerare e tener sempre a mente che i due modi del conoscere appartengono a due ordini diversi di cose da noi conosciute. E questa è bella manifestazione della divina sapienza, la quale ci ha dati, secondo le differenti nature delle cose, differenti modi di conoscerle. Se, poniamo, io affermo che il tutto è maggiore di ciascuna sua parte, e poi affermo altresì un teorema di matematica, il quale chiaramente si deduce da questo principio; in tali casi si ha una certezza che dicesi razionale e scientifica. Se invece, per virtù di testimonj, io affermo qualche verità di fatto, come per esempio, che ci fu una battaglia delle Termopili, o che esistette Giulio Cesare, o anche che oggigiorno, al settentrione delle Indie, sorgono altissimi i monti dell’Himalaya, da me non mai veduti; queste diverse affermazioni, benché certe, derivano in noi, non dai primi principj, o da raziocinio scientifico, ma dalla fede umana. Senza dubbio, una fede umana è questa, la quale è tanto secondo ragione, che chi volesse negare le verità delle cose dette, sol perché non sono intrinsecamente evidenti, o dedotte da argomenti scienziali, lo si giudicherebbe poco meno che folle. Accade ancora, e spesso, che le stesse verità scientifiche noi le conosciamo e le accettiamo per fede umana. Tutti, quanti siamo non affatto digiuni di una certa cultura, affermiamo che la terra, benché apparentemente immobile, giri intorno al sole. (Il Cardinale, evidentemente non credeva al dogma all’inerranza biblica che dichiara la terra stabile e ferma ed il sole che gira sopra la terra, potendosi addirittura fermare e retrocedere! – ndr -). E nondimeno, salvo un piccol numero di astronomi e pochi altri, i più non sono punto arrivati al conoscimento di siffatta verità per deduzioni scientifiche del proprio intelletto, ma perché cotesta verità o l’hanno udita dire o l’han letta in qualche libro autorevole. Anche dunque le verità scientifiche spessissimo noi le crediamo per la fede umana, che abbiam messa nei maestri i quali ce le insegnano. – Ora il passaggio dalla fede umana alla fede divina è di per sé al tutto logico e agevole. Ponete, invece del maestro umano, al quale credete nel dire che la terra gira intorno al sole, un Maestro divino, Gesù Cristo; invece della testimonianza umana, che vi accerta dei fatti storici o della esistenza di terre, di mari, di monti, che non avete veduti, la testimonianza infinitamente autorevolissima di Dio; e voi avrete facilmente compreso e dichiarato quel che avviene umanamente nel Cattolico, quando ci crede nelle cose insegnategli dalla Chiesa. Nella fede umana io credo alla scienza di uomini colti, se l’argomento è scientifico, ovvero credo alla asserzione autorevole di uomini probi, se si tratti di fatto storico o di cosa soggetta ai sensi. E nella fede divina io credo all’infinita sapienza e scienza dello stesso Iddio, Autore supremo dell’essere, della scienza, della sapienza e di me stesso. E poiché la parola di Dio, testimonio infallibile di verità, non mi può arrivare all’orecchio, come quella degli uomini; io la cerco e la trovo dove è veramente, e dove l’hanno cercata e trovata gli uomini di ogni tempo, come mi accadrà di dire poco più avanti. In che mai dunque questo procedere dell’intelletto o s’oppone alla ragione o non è anzi supremamente ragionevole? La sola domanda, pare a me, che un uomo di mente sana può muovere a sé stesso, è questa: Le verità e i fatti di religione, affermati dalla Chiesa cattolica, li ha veramente insegnati Iddio, sicchè sieno corroborati dalla sua autorità? Ci ha molti e molti milioni di uomini, i quali hanno risposto, e tuttora rispondono a questa interrogazione che è la più importante fatta mai al mondo: SÌ. L’affermazione loro dura da poco meno di due mila anni; resiste alle innumerevoli contraddizioni della scienza orgogliosa, e al torbido torrente delle umane passioni. È un affermazione non solo del popoli più o meno colti, civili e viventi sotto diverso cielo, ma ancora di molti principi dell’umano pensiero, di molti intelletti vigorosi e possenti, in paragone dei quali i nostri  altezzosi miscredenti sono poco più che pigmei; è un’affermazione, che ha avuta e ha altresì un’efficacia grandissima nella vita intellettuale e civile della società; è un’affermazione infine, che ha arrecati, essa sola, tanti benefizj all’uomo, che i maggiori non si son veduti mai. Sarebbe dunque giusto, che l’uomo, senza ombra di studj e di riflessioni, rigettasse cotesta affermazione, quasi assurda, fantastica e assolutamente contro ragione? No, mille volte no. – L’esaminare profondamente se questa affermazione o piuttosto questa fede abbia prove, e quali, appartiene piuttosto all’apologetica o alla teologia dommatica. Nondimeno per chiarire alquanto il tema, è da por mente che, come i diversi rami e fiori e frutti d’un grande albero e annoso vivono e vegetano, prendono nutrimento e crescono nel ceppo loro, sicché in esso si riducono a unità; così avviene della religione cristiana. – Il Cristianesimo è tutto nel solo Gesù Cristo, Dio-Uomo, vivente tuttora nella sua Chiesa, e insegnante e governante per mezzo di essa. Le verità, onde il Cristianesimo si compone, sono, indubbiamente, molte, come son molti i rami, i fiori, i frutti di un bell’albero e vigoroso, ma il ceppo loro è sempre un solo: Gesù Cristo vivo e parlante nella Chiesa Cattolica, Sposa amatissima di lui, Sposa, come insegna la Bibbia, senza grinze e immacolata. Ora quali sono mai le prove, onde risulta vero questo fatto centrale di tutta la fede Gesù Cristo essere Dio-Uomo e vivente e parlante nella Chiesa Cattolica? O, che è il medesimo, quali sono le prove del Cristianesimo, secondo che è professato dalla Chiesa benedetta Madre nostra, che ci ha ripartoriti alla vita nuova dell’eterna salute? Sono moltissime e di una indiscutibile gravità. Chi le volesse indicare ampiamente, ed ei dovrebbe scrivere chi sa quanti libri, i quali per verità non mancano: anzi ce ne furono e ce ne ha molti e di vario genere, in tutti i secoli della Chiesa. Al mio proposito basta però di farne un cenno fugace sì per meglio dichiarare che il nostro ossequio alla fede è ragionevole, sì per riposarci sempre più soavemente nelle ineffabili consolazioni che essa ci dona. E in prima qual è mai il genere di prove possibili quando si tratta del Cristianesimo? Forse le prove dirette, intrinseche e dedotte, come si hanno in un certo ordine di cognizioni scientifiche, quali sarebbero per esempio, quelle delle matematiche e della metafisica? Assolutamente no. Il Cristianesimo è un fatto storico; onde scaturiscono verità misteriose e insieme illuminatrici, che trascendono i nostri criterj, la nostra luce intellettuale e la nostra capacità; ma è sempre innanzi tutto un fatto storico. Come mai la prova di esso potrebbe scaturire da argomenti intrinseci? Forse che i fatti si provano così? E ancora, forse che le verità, le quali: superano il nostro intelletto e la nostra ragione, si potrebbero mai dedurre dal nostro intelletto e dalla nostra ragione? Chi pretenderebbe mai da un fanciullo ch’ei comprendesse gli ardui problemi dell’algebra e della trigonometria? E noi uomini, anche se ricchissimi di luce intellettuale, che altro siamo se non fanciulli, anzi bambini poppanti, al cospetto dell’infinito intelletto e dell’infinita Ragione di Dio? – Tutto il Cristianesimo, come è detto, si assomma in Gesù Cristo Dio e Uomo, vissuto prima trentatré anni nella Palestina a modo degli altri uomini, e vivente ora nella Chiesa trionfante e nella militante, come capo, e maestro, e vita, e anima, e amore ineffabile dell’uno e dell’altro regno. Ben provato questo fatto, tutte le verità dommatiche e morali, o che è il medesimo tutta la nostra fede resta provata con quel genere di prove indirette ed estrinseche, onde qualsiasi fede è capace. È le prove estrinseche e indirette di questa, dolcissima fede, che tanto ci sublima, sono moltissime. Ma soprattutto si ha da por mente che la maggiore loro efficacia si desume non tanto da ciascuna di esse, presa di per sé, quanto dall’armonia e dall’unione di tutte. Avviene delle prove estrinseche della fede quel medesimo, che accade di molti strumenti musicali, i quali suonino insieme. Il suono di ciascuno strumento, preso di per sé, diletta soavemente le orecchie ed è gradito; ma nessuno può dire quanta dolcezza invade l’anima allorchè suonino tutti insieme, con armonie e melodie trovate da un geniale e valente musicista. – Tra le principali prove esterne della fede va avanti a tutte la storia ammirabile del popolo di Israele sino a Cristo; la quale, illuminata dalle due luci dell’Unità di Dio e dell’aspettazione del Messia, abbellita da molti personaggi di santità e sapienza rara, guidata da un Libro, che per tanti rispetti si rivela divino, riesce essa stessa un proemio e una prova ammirabile del Cristianesimo. Seguono poi, come prove dateci dal Signore di secolo in secolo, le profezie, che anticipatamente palesarono Cristo e la sua mirabile vita; tutte pienamente verificate. Viene di seguito la chiara affermazione, che Cristo fece della propria divinità, efficacemente dimostrata da molti miracoli d’ una evidenza, d’una semplicità, d’una bellezza morale inarrivabile: Ancora, le varie prove sono accresciute ed arricchite, come un tempio da una cupola d’ oro, sì dalla storia stupenda della età apostolica, anche essa abbellita da molti portenti, sì dalla prodigiosa diffusione del Cristianesimo. La quale diffusione, come notò sottilmente l’Alighieri con sant’Agostino, o avvenne per effetto di molti miracoli, e dunque fu divina; o avvenne senza miracoli di sorta, e allora essa stessa fu un miracolo maggiore di tutti.

Se il mondo si rivolse al Cristianesmo.

Diss’io, senza miracoli, quest’uno

È tal, che gli altri non sono il centesmo!

Oltre a ciò anche bella e convincente prova del Cristianesimo sono i milioni di martiri che lo testimoniarono col testimonio del sangue. Anche il martirio cristiano l’umano intelletto non vale a spiegarlo senza miracolo, particolarmente se si guardi alla cagione, per la quale i martiri morivano, ai tormenti che soffrivano, all’infamia che spesso ne derivava loro, e al numero, all’età, alle condizioni differentissime dei volontariamente e lietamente pazienti. – Del rimanente tutte le prove addotte sin qui, ben si assommano nella prova del miracolo, considerato in diverse forme. Però la miscredenza già da secoli si sforza a tutto potere di battere in breccia la prova dei miracoli, senza che abbia fatto un sol passo avanti nell’assalto. Dopo tanta luce di scienza, oggi si oppugnano i miracoli proprio come lo si faceva ai tempi di Giuliano Apostata. I miscredenti gridano tutti a più non posso contro i miracoli; e le grida loro, per quanto diverse, son sempre queste medesime. Un coro d’increduli grida, il miracolo è impossibile: un altro coro grida, no, è possibile, ma nessun miracolo è provato: l’ultimo coro infine dice, il miracolo è possibile, si può ben provare, ma non è parola di Dio e testimonio di verità. Queste furono le grida delle età passate; queste ci suonano all’orecchio nell’età presente; e queste, si può metter pegno, che saranno le grida dell’età ventura. Sono tre affermazioni, che l’una contradice all’altra; e non hanno ombra di prove gravi. Gli stessi razionalisti spregiudicati convengono di ciò. E d’altra parte il fatto costante è che il genere umano, e la coscienza di ciascun uomo retto hanno accettato e accettano sempre i miracoli, corredati da prove gravi e molteplici, come testimonio indubitabile di verità. – Intorno al valore della prova dei miracolo, la cosa è stata sottilmente e ampiamente discussa da san Tommaso e da altri; ma poiché io non scrivo un libro polemico, mi basterà di accennare quale sia, secondo il Cattolicismo, il significato del miracolo nell’ordine generale della Provvidenza. Nell’ universo sono assolutamente immutabili le leggi del pensiero e di tutte quelle verità assolute, che si hanno da considerare come un raggio della divina natura. Sono anche immutabili, ma assai diversamente, le leggi del mondo creato, le quali, poiché non son punto necessarie, ma date da Dio, dipendono dal libero volere di lui e ad esso obbediscono. Però Iddio, volendo sapientissimamente far servire il mondo fisico al mondo religioso e morale, decretò, prima e fuori d’ogni tempo, insieme con le leggi naturali, alcune sospensioni di esse, dette miracoli. Le decretò; e, poiché egli solo le può produrre, volle che fossero la parola, onde ei parla di sé, dei suoi misteri e dell’eterna salute degli uomini. Or tutti questi miracoli da Adamo a Cristo, e da Cristo all’ultimo Santo, che opererà prodigi, e Cristo stesso miracolo dei miracoli, sono il centro luminoso e fiammeggiante, che, illuminando l’ampia sfera delle verità religiose, le rende credibili e indirettamente le prova tutte. – Intanto un’altra prova ben poderosa della nostra fede cattolica, una prova che splende dirò così di luce interiore, è quella che si desume da un esame attento, profondo e meditativo delle sue dottrine e dalla loro piena armonia con quanto vi ha di grande, di nobile, di vero, di consolante nella natura umana. Chi volge una rapida occhiata a tutte le dottrine del Cristianesimo, d’un tratto ei s’avvede che esse, altre sono dommatiche e altre morali. Nella parte dommatica della nostra fede, vi ha alcuni misteri, che trascendono la nostra intelligenza, e non se ne ha cognizione, né se ne potrebbe avere, neppure dagli intelletti più alti, senza la rivelazione. Questi misteri da noi non si comprendono appieno, ma il non comprenderli non c’impedisce d’averne una notizia bastevole, per farci scoprire in essi tesori di carità, di bontà, di bellezza, di sapienza infinita. Tali sono, per esempio, i misteri profondi e pur dolcissimi dell’Incarnazione e del Sacramento e Sacrifizio eucaristico. L’uomo, quanto più li pensi e li mediti questi misteri, tanto più ci trova amore, e sempre amore, e sempre forme, sacrifizj ed entusiasmi di amore nuovo e inenarrabile. Altre verità, come la esistenza e l’unità di Dio, benché anche esse molto alte e nobili, non sono tali, che non si possano raggiungere con la ragione, come è accaduto in parte dei filosofi pagani e poi molto più dei Cristiani. Anche queste verità accertate, chiarite, determinate e raffermate dal Cristianesimo, sono di una tale nobiltà e perfezione, che la maggiore non si può neanche pensare. – Le verità dommatiche dunque della nostra fede, considerate in sé stesse e intrinsecamente; non solo negli animi retti non riescono intoppo al credere, ma anzi lo agevolano. – Che dire poi della parte morale del Cristianesimo? Essa risplende di tanta luce di bellezza, di nobiltà e di purezza, è tanto profondamente consolatrice e adatta a tutti i bisogni dell’anima umana, che la miglior prova della morale cristiana è la morale cristiana essa stessa. Come mai avviene questo? Pel modo che ora sono per dirvi. Noi sentiamo tutti nelle misteriose profondità della nostra coscienza una legge morale e imperativa; ma la sentiamo spesso tentennante, incerta, e, perché combattuta dalle passioni, non abbastanza chiara e autorevole, da mantenere la sua signoria sopra tutto l’uomo. Questa legge che ci parla nella coscienza, rassomiglia a una voce esile, la quale, quando è coperta dallo strepito delle passioni, poco o punto si sente. Ebbene la legge morale cristiana, penetrando nella nostra coscienza, a volte assonnata, a volte confusa, a volte tentennante e a volte turbata, la sveglia, la illumina, la rinvigorisce; la eccita con divina autorità, e infine la infiamma per modo, che, tra la morale venutaci di fuori per divina rivelazione, e quella scritta di dentro nella nostra coscienza, si vede e si sente un’armonia piena e bellissima. Allora la morale naturale prova la rivelata, e questa quella; di che tutte due specchiandosi l’una nell’altra, si provano, s’illuminano e si avvalorano insieme. Inchinati, come siamo, al bello, al nobile, al santo, e a tutto ciò che consola lo spirito inquieto; la bellezza, la nobiltà, la santità e l’efficacia consolatrice della morale cristiana ce la provano vera. E poiché le verità morali e le dommatiche sono nel Cristianesimo, come due corde della medesima lira, le quali, toccate da una mano esperta, rendono un medesimo e dolcissimo suono; ne segue che le verità della morale cristiana, più facili a conoscersi e a gustarsi dagli animi nobili e puri, riescano ai credenti una prova poderosa e convincentissima della verità anche della parte dommatica, e però di tutta la fede nostra. – In tutte le cose dette fin qui si assommano le prove del Cristianesimo, e però i motivi della nostra fede. Ma, in quella guisa che, da un sommario conciso e brevissimo d’un libro appena si ha un’idea incompleta del libro stesso; così si ha da dire della fede. Chi ne vuol conoscere addentro le prove, e anche le bellezze, ed egli studii e studii sempre, preghi e preghi molto, e si sentirà irradiato da una luce sempre più viva. Nondimeno alle prove, che abbiamo sin qui addotte, intorno alla fede nostra, si suole opporre che la verità, quando sia corroborata di prove sufficienti, gli uomini la accettano di pari consentimento tutti. Come mai dunque accade il contrario della nostra fede cattolica? Quanti anzi in tutte le età, conosciuta e abbracciata la fede, la ripudiarono? E oggi, più che mai, perché questo torrente del miscredere preme così fortemente anche gli animi dei battezzati? A questa obiezione vi ha una risposta data dall’altissimo e nobilissimo intelletto del Leibnitz; la quale, anche sola, basterebbe a persuadere e ad acchetare gli uomini di mente sana. Supponete, ei dice, che le verità delle matematiche avessero contro di loro tante passioni, quanto ne hanno le verità di religione e di morale; e io credo che si dubiterebbe di quelle assai più di quel che non si dubita di queste. Invero, anche che si tratti di quelle verità morali, le quali splendono di tanta luce nella coscienza dei buoni; dimmi, tu che leggi, quale uomo, per esempio, che prenda diletto dell’inebriarsi, avrà mai intelletto così sereno e lucente, da conoscere quanto grave sia l’ebrietà? Sino gli adulteri o i ladri o gli omicidi trovano ragioni apparenti per negare che questi tre gravissimi mali siano veramente mali. Io ho poi notato, durante la mia vita sacerdotale ed episcopale, che i figliuoli della Città del mondo accettano di buon grado tutte quelle parti della morale cristiana, che da essi non è violata, e non è violata il più delle volte, perché non ne hanno bisogno né desiderio. Per lo contrario, i medesimi uomini negano o rimpiccioliscono tutte quelle verità, la cui violazione torna ad essi o in diletto o in utilità. Oggidì anzi evvi pure una scuola di superbi sofisti, la quale vuole dimostrare, a suo modo, che le idee del bene e del male sieno affatto soggettive. Grandissimo accecamento dell’intelletto è indubbiamente questo! Ma esso stesso riesce a provare ciò che sin qui è detto delle umane passioni, e che l’Alighieri insegna nella Monarchia, sentenziando così: “La cupidità è essa sola la corruttrice dei nostri giudizi” (Monarch. l. 13.). Or questo, che vale per la morale naturale, vale molto più nelle verità dommatiche e morali della nostra fede. Contro al domma sorge battagliero l’accecamento dell’orgoglio: contro la morale quello dell’orgoglio, dell’egoismo e di tutte le altre turpitudini, che essa combatte. A ciò si aggiunga che, mentre le prove di molte verità naturali ci cadono sott’occhio di per sé, o con una grandissima facilità; quelle della fede cattolica è mestieri che la mente nostra le cerchi, le studi più o meno profondamente, le mediti con animo sereno e riposato. È poi nessun’altra verità al mondo è stata sin dai primordj, e soprattutto ai nostri giorni, combattuta quanto la fede cristiana. Di qui segue che i credenti siamo come viaggiatori, messi in una via, nella quale ad ogni passo noi si incontra un intoppo, uno sterpo,  un precipizio, e talvolta un torrente, che o ci rallenta, o c’impedisce il cammino. Il quale cammino, del rimanente, riesce anche difficile, perché agli impedimenti esteriori, che ci vengono dai cattivi libri spesso dotti e pieni di attraimenti, dalle scuole, dalle conversazioni, dai giornali, e oggidì dall’aria malefica che ci spira intorno, si aggiungono gl’impedimenti che nascono dentro di noi stessi. Dentro di noi, chi nol sa, anzi chi nol sente, sono due leggi, pugnanti l’una contro dell’altra, o piuttosto due uomini, l’uno carnale e che piega verso il senso, l’altro spirituale, che eleva le ali dell’intelligenza e dell’amore ai beni Spirituali, e aspira all’eterno e all’infinito. È dunque naturale che l’uomo carnale in noi oscuri la verità della fede nostra, e prenda tutte le occasioni per impicciolirla, per combatterla e per rubarcela dal cuore. –  Nonpertanto questa fede cattolica vive e resiste nelle anime di moltissimi: e ciò perché alla luce e alla forza derivanti in noi dai motivi e prove, che ce la fanno credibile, si aggiunge una luce e una forza interiore assai più vivace, penetrante e calda, che si chiama grazia. Questa luce celestiale e soavissima della grazia, che è il principio vero e sustanziale della nostra fede, si sposa dolcemente in misterioso nodo con le prove umane delle verità di religione, e produce quel convincimento certissimo e fermo, quel riposo dell’anima nella verità soprannaturale insegnataci dalla Chiesa, il quale è detto fede. Né s’ha da credere che nell’uomo semplice e indotto, poniamo nel villico, che conduce gli armenti e faticosamente coltiva la terra, e nell’operajo, tutto intento al lavoro di mano, la fede sussista solo per effetto di grazia, o per consuetudine, senza che il suo intelletto grossolano e incolto cerchi e trovi qualche motivo della sua credibilità. Una delle maggiori perfezioni del Cattolicismo è appunto questa, che esso si attagli benissimo ai più alti e nobili intelletti, come ai più semplici e piccoli. Però la fede cattolica ha una certa luce, che assai variamente e in diverso grado, sfavilla agli occhi degli uni e degli altri, sempre che gli uni e gli altri, avendo ascoltata la Buona Novella di Gesù Cristo, non servano al peccato ma a Dio, e non siano sordi alla voce di Lui, che parla al cuore con la grazia e parla a tutto l’uomo per molti altri modi ancora. Molti Cattolici ignoranti credono nella fede cattolica da essi, come da tutti, ricevuta per dono divino nel Battesimo, sia perché non essendo guasti dalle passioni, sentono dentro di sé le bellezze ineffabili delle verità morali della fede, sia per altre ragioni. Alcuni, illuminati dalla grazia, credono perché mettono fiducia nelle parole, poniamo, del proprio curato pio e buono o perché sanno che tanti uomini di cuore d’ingegno, di bontà abbracciano la fede: altri credono perché, mentre ascoltano misteriosamente dentro la voce interiore della grazia, che li invita a credere, si confermano nella fede, avendo notizia dell’eroismo e dei miracoli dei Santi e della Madonna. Insomma i motivi di credibilità li hanno ancora i semplici, i poveri, i rozzi a lor modo: e anche in essi si uniscono con la grazia divina per nutrire la loro fede. – Dalle cose dette sin qui ci sarà agevole il comprendere come e perché la fede sia una virtù soprannaturale nel Cristiano, e anzi la prima radice d’ogni virtù sua. In vero la virtù cristiana noi la dobbiamo considerare come un odoroso fiore di giardino, che spunta nella volontà umana, s’abbellisce e si perfeziona grado grado, e poi con altri fiori, che nascono dalla medesima pianta, forma ghirlanda. La grazia divina, la quale piove dall’alto, quasi rugiada celeste; è la luce che, fecondando la nostra libera volontà, e quasi ad essa disposandosi, produce ogni fiore di virtù. Or il primo e più olezzante fiore di virtù nel Cristiano è questo della fede. Né a ciò può fare impedimento il pensare, che la fede un assentimento dell’intelletto nostro alle verità di religione, intanto che ogni virtù ha da nascere e fiorire nel nostro libero volere. Perciocchè l’assentimento dell’intelletto nostro, non libero ma necessario nelle verità di per sé evidenti, è poi al tutto libero nelle verità della fede: però nasce e si matura nella volontà. Ed è libero questo assentimento nostro alle verità della fede cattolica; perché noi liberamente cerchiamo i motivi della nostra credibilità, liberamente allontaniamo tutti gli ostacoli intellettuali che ci si presentano, liberamente vinciamo le passioni che, annebbiando il giudizio, c’impediscono di accettare la fede, liberamente ci sforziamo di vincere le obiezioni che o ci nascono nell’animo o ci vengono di fuori. – Abbiamo veduto che la fede, per alcuni rispetti, ben si paragona a un fiore. Ma guardata in un’altra luce, mi apparisce come il tronco verdeggiante d’un grande albero. Potremmo anche dire che essa rappresenti l’Albero della vita, da Dio posto nel giardino dell’Eden; un albero che non è mai appassito, ma che da Gesù benedetto è stato ridonato a tutto il genere umano. Intanto è da por mente che, a quel modo, onde dal ceppo spuntano i ramoscelli, i fiori, i frutti; così dalla fede nascono tutte le virtù cristiane. Nascono invero sì per effetto di nuova rugiada di grazia celestiale, sì per effetto della nostra libera volontà. E quando la volontà nostra non coopera alla grazia, quel primo tronco della fede rimane infruttifero, a poco a poco vegeta meno, ed è come morto. Anzi, stando alla terminologia teologica, una fede siffatta, senz’altro, si dice fede morta. Per lo contrario è detta fede viva quella, che germoglia in virtù e in opere buone, come germoglia l’albero, il quale è messo presso la corrente di un fiume. Talvolta però disgraziatamente avviene che lo stato di languore nella fede, infruttifera o morta che sia, s’accresce di grado in grado tanto, che il ceppo stesso della fede non ha più vegetazione di sorta, è colpito da morte, e l’uomo ridiventa infedele, com’era prima d’aver da Dio questo ineffabile e grandissimo dono. Anzi quasi sempre la via del miscredere nei battezzati è questa: appagarsi per un certo tempo della fede morta, e poi perdere la fede stessa. Benediciamo dunque il Signore di averci dato la fede, senza alcun nostro merito, e sforziamoci di custodirla, come la gemma più bella e più ricca dell’anima nostra. Faccia Iddio, che ciascuno di noi possa ripetere alcune parole del Newman, dottissimo e piissimo uomo, il quale, dopo quarant’anni di burrasca interiore, e di ricerche erudite, afferrò il porto della fede cattolica. E le parole son queste: “Dal dì che io son cattolico, vivo in una pace e in un’allegrezza piena; perciocché non mai più l’ombra di un dubbio ha offuscata e turbata la mia mente. Da quel dì fui come un viaggiatore, il quale, dopo la tempesta, raggiunse il porto, e la gioja di quel soave riposo, passati già molti anni, mi dura tuttora. Non è già che io non senta le difficoltà, che si possono muovere e si muovono contro le verità della religione; ma diecimila difficoltà non bastano per creare in un intelletto ponderato e grave un dubbio ragionevole. In vero un uomo assennato ben può rammaricarsi di non sapere il modo, onde si risolve un problema di matematica, senza dubitare per questo che il problema abbia una propria e verissima soluzione.” (Istoria delle mie opinioni, ecc., pag. 367 e seg.) – E ora, prima che io proceda avanti a parlare delle altre virtù, o fede benedetta, che mi sei stata compagna cara e indivisibile sin dalla fanciullezza, che pietosamente mi hai condotto giovanetto nella Casa di san Filippo, e hai custodito il mio cuore sempre, e sei stata la illuminatrice della mia mente nel governare me stesso, negli studj, e in tutto ciò che scrissi: o fede dolcissima, che mi hai tante volte consolato nelle burrasche, nei dolori, nelle tentazioni e nelle angosce, e pur tante volte hai nobilitata e santificata la mia allegrezza: o fede benedetta, che mi hai fatto e mi fai tuttora vivere nella dolce conversazione della madre, del padre, dei congiunti, degli amici morti alla terra, ma, come spero, viventi al Cielo e alla gloria eterna: o fede, che sei stata sempre e sei la mia consigliera nel mio ministero pastorale, non mi abbandonare mai, insino alla estrema ora della vita. Mostrami anzi sempre più le caste e ineffabili bellezze tue, sino al giorno in cui, come spero, mercé la divina misericordia, tu, o fede, diventerai per me visione e amore perfetto di quel Signore Iddio, che a me si donò.