DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE 2023

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: “Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi ed il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra, entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovrann orendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — o una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci soleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano, in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello Spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando veniate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO

C’era un uomo ricco che aveva un fattore. Ma alcuni invidiosi vedevano di mal occhio quel fattore e lo calunniarono presso il padrone. Il padrone lo fece chiamare e gli disse: « Belle cose che so di te! Ed io dormivo tranquillo, e avevo un ladro in casa. È tempo di finirla: tu sei licenziato ». Il fattore rimase fulminato; non tentò nemmeno di scusarsi. Che cosa dovere fare adesso che il padrone lo metteva alla porta? Mestieri non ne sapeva, d’elemosinare non ne aveva il coraggio. « Bene, farò così », decise in fine. E chiamò privatamente i debitori del suo padrone. E disse al primo: « Tu quanto devi pagare? — Cento misure d’olio. « Siedi in fretta; ecco la tua fattura. Facciamo le cose come fossimo in famiglia. Al posto di cento scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: « E tu quanto devi pagare? ». — Cento pesi di frumento. « Prendi la fattura e scrivi ottanta ». « Ecco della gente, pensava poi contento in cuore, che tra poco mi aprirà volentieri le porte di casa sua ». Chi sa come, il padrone venne a sapere, e quantunque indispettito per la frode non poté non lodare l’astuzia con cui il fattore aveva agito. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. È per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2. I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. – Due principi Romani andarono a far visita al beato Egidio che viveva in una grotta, pregando e macerando il suo corpo. Rimasti alcun poco in colloquio, i due mondani lo salutarono, dicendo: « O Padre! pregate per noi ». – « Che dite mai? — rispose frate Egidio. — Io pregare per voi?! Voi piuttosto pregate per me; voi che non tremate al cospetto di Dio, voi che non sudate per salvare l’anima, voi che fate tanto a fidanza con Dio!… Io?! non vedete come tremo di perdermi, e vado meditando lunghe giornate per sapere il modo di piacere a Dio, mentre voi non trovate difficoltà se non per le cose del corpo? ». I due principi abbassarono la testa, e se ne andarono senza più voltarsi indietro. Se le parole del beato Egidio bruciano anche sulla nostra coscienza, abbassiamo noi pure la testa davanti a Dio, e ritorniamo alle nostre case, oggi, con un fermo proposito. –LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: « Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi: oggi nel Vangelo ch’io vi presento. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ».1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento, beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero Pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – « Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). –  V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Quaprópter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA