QUARESIMALE (XIV)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA DECIMAQUARTA
Nella Feria quinta della Domenica seconda.
Si procura d’esporre agli occhi del peccatore, un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali e si detesta la pazzia di chi pecca, quantunque creda inferno e lo creda eterno.
Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. San Luca al cap. 16.
L’Organa, pittor bravissimo si mostrò lo Zeusi de’ suoi tempi, con dipingere, non il volto d’un’Elena ricavato da tutte le bellezze della Grecia, il ceffo di Medusa copiato al vivo dalle bruttezze d’ogni più mostruoso animale. De’ più deformi e de’ più spaventosi ne adunò in gran numero, e di ciascuno ne fece anatomia con l’occhio, distinguendo parte a parte ogni più sconcia mostruosità, poscia con la mano trasportò su la tela quei vivi terrori, acciocché da tante sparse bruttezze, raccolte in uno, una ne riuscisse fior di bruttezza la faccia di Medusa. Che l’opera felicemente riuscisse, testimoni ne furono gli occhi degli amici, poiché al rimuoversi improvvisamente il velo, quasi che si scoprisse, non la dipinta nel quadro, ma la vera Medusa nel celebre Scudo, presi da un freddo orrore, rimasero come di pietra. Piacesse al Cielo, che a me fosse concessa una simile arte con cui potessi mettervi in vista al vivo l’orribil volto dell’inferno! Spererei, con l’aiuto divino, strane sì, ma sante mutazioni. M’ingegnerò dunque quanto più posso d’esporvi un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali, provati ora da chiunque in compagnia dell’odierno Epulone, sepultus est in inferno. La terribilità dell’argomento non tollera superfluità d’esordio, ma richiede straordinaria attenzione; datemela a pro delle anime vostre, e do principio. Passeggiando un dì quel gran padre de’ Monaci San Macario per le vaste solitudini d’Egitto, piantò inavvedutamente il suo bastone sopra d’un teschio di morto, da cui sentendone uscire voci di lamento, si fermò interrogando s’era anima salva, o pur dannata. Son di un’anima dannata, rispose il teschio. Se così è, soggiunse il Santo, dammi qualche notizia del tuo inferno. Non altra ti posso dare, replicò il teschio che questa: l’anima sopporta l’inferno, ma non sa comprendere cosa sia inferno. Che farò dunque R. A. se dovendo parlare d’inferno, non può questo comprendersi! – Grande Iddio, che avete in vostra mano quella chiave che apre e serra la porta eternale, concedetemela, vi supplico, voglio spalancare quell’orrenda prigione di dannati: né vi crediate che io pretenda di restituire ad alcuno di loro la libertà, né recare acqua al loro fuoco, balsamo alle loro piaghe; o questo no, stiano pure ivi i miseri a pagar giustamente gli oltraggi a voi fatti: non son degni, né di soccorso, né di pietà! S’arrabbino pure, si disperino … loro danno. Quel che io pretendo altro non è se non questo far vedere a’ miei UU. quell’orribile luogo, acciocché niuno di loro a me sì cari cada colaggiù à popolarlo. Ecco, ecco, è già calata la gran chiave, o che strepito di catene! o che, strascinamento di catenacci! Già stride la gran porta si apre o che fumo, o che caligini, o che puzza, o che strilla, o che confusione! convien stare alla larga; e se nostro pensiero fu di vedere, contentarci d’udire. O là ascoltatemi voi, anime tormentate, e datemi qualche certezza del vostro inferno. Ditemi, vi contentereste voi, che il vostro inferno fosse quel toro di Bronzo, dove Falar Tiranno d’Agrigento racchiuso il paziente col fuoco acceso sotto il ventre del toro, godeva sentirlo muggire, mentre il misero nell’interno della bestia infocata si abbruciava? Vi contentereste della fierezza de’ Sciti? Questi spaccando per mezzo cavalli, seppellivano nelle loro viscere uomini vivi, sostentandoli con cibo, acciocché quivi da’ vermi che nascevano dalle carni putrefatte del cavallo morto, a poco a poco fossero vivi mangiati? Vi contentereste della bestialità del tiranno Mezenzio, che congiunti a’ corpi vivi corpi morti, così li lasciava, affinché dal fetore del cadavere ne venisse ucciso il vivo? Che rispondete? Vi contentereste di queste atrocità de’ carnefici tiranni più crudeli? Taci, sento che mi dice il Crisostomo; taci, perché questi son tormenti da burla, rispetto a quelli dell’inferno. Dunque rispetto all’inferno sarà una burla quella crudele invenzione praticata nell’Inghilterra, ove s’applica sul nudo ventre del misero condannato un esercito di rospi, vipere ed altri simili animali, sopra i quali, coperti con una gran conca di rame, si accende fuoco sì cocente, che quelle bestie inferocite tracciano il corpo del reo per fuggire dal fuoco; e tutto questo sarà una burla, se si paragoni con l’inferno? hæc ludrica sunt, et risus ad illa supplicia. Sarà una burla quel supplizio dato in Francia all’uccisore d’Enrico quarto, supplizio tanto inaudito; poiché il reo fu posto sopra d’un palco nella gran piazza, ed ivi lentamente con forbici roventi attanagliato nelle gambe, cosce, braccia e petto: indi nelle piaghe fatte dalle tenaglie si fuse olio, piombo, e zolfo bollentissimo; la mano poi infame, tenendo il coltello proditorio sopra un fuoco sulfureo, fu fatta lambiccare fino a rimanerne le ossa sole ignude; il corpo poi da quattro cavalli squarciato fu consumato nelle fiamme: e questo pure sarà una burla o Crisostomo? Si una burla se con l’inferno si paragoni: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Burla dunque altresì sarà quel macello che nell’Olanda fu fatto di chi ferì con archibugiata Guglielmo Principe d’Oranges? Vedeasi sospeso il reo da’ nodi de’ pollici delle mani con cento libre di piombo appese a’ pollici de’ piedi, e con orrore rimiravasi da’ manigoldi spietatamente flagellato piover sangue. Indi deposto dal doloso eculeo, sottentrò ad esser martirizzato con acute cannette sotto le unghie; legato poi ad un palo dié la mano tra due lamine di ferro infocate ad arrostire con le ossa medesime, sicché il fetore ammorbava tutta la piazza, e per ultimo squarciatasi a pezzetti la carne con tenaglie acute, apertogli con un coltello il petto, cavate col cuore le viscere, fu quell’avanzo di cadavere in quattro parti spaccato. Burla sì, mi risponde il Boccadoro, se si ponga a confronto con i tormenti d’inferno: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Ma che devo io aggiungere per fare un vero ritratto delle pene infernali? Forse gli strazi più stravaganti de’ Santi Martiri? tutto quello che vuoi, replica il Santo, perché tutto non è neppure un’ombra d’inferno: pone ferrum, ignem, et bestias, et si quid his difficilius, attamen nec umbra quidem sunt ad illa tormenta. Poi insomma, quanto vide Roma ed il mondo tutto di barbaro, sotto i Neroni, Diocleziani, e Valeriani, da’ quali la barbarie stessa fu superata; e se ti fai sognare altre più orrende invenzioni di Martiri tormentati, e sappi che neppur sarai un’ombra de’ tormenti d’inferno. E la ragione è manifesta; perché, se Iddio in questa vita ha permesso tormenti sì fieri, di Martirii spietati a gente santa e degna di premio, certo che non devono trattarli del pari nelle pene i cattivi ed i buoni; e perciò avrà nell’inferno apparecchiati assai più atroci tormenti per la canaglia degli schiavi suoi ribelli, e degni d’ogni più estremo castigo. O inferno, inferno, quanto mai sei terribile! Deh tu, o buon soldato Drittelmo, che, secondo la narrazione di Beda, avesti fortuna di dare un’occhiata all’inferno, allorché in Inghilterra, essendo tu morto, dopo un giorno risuscitasti, ed a guisa di sbalordito ti rintanasti per sempre in un romitaggio a scarnificarti con orrende penitenze; rispondendo a chi si stupiva di sì aspro trattamento: acerbiora vidi: ho veduto, ed ho sfuggito tormenti molto maggiori. Spiegaci di grazia ciò che volevi esprimere con quel continuo replicare, acerbiora vidi. Dimmi, volevi tu significare che tra quelle tenebre d’abisso, nelle quali dimorano acciecati da perpetue notti i dannati, altro non ne ritraggono che fumo, che orrore; che colaggiù si vedono i diavoli in forma sì spaventosa, che Caterina da Siena, avendone veduto un solo, e sol di passaggio; asserì che più tosto di vederlo un’altra volta si sarebbe eletta di camminare a piedi nudi sopra le braci ardenti fino al dì del Giudizio. Dimmi dunque, o Drittelmo, volevi tu significare questa pena, quando dicesti, acerbiora vidi? Sì, ma non basta: ho veduto di peggio. Vedesti forse quei miseri dannati, che colaggiù se ne stanno l’uno sull’altro ammassati, e l’uno l’altro premendo, come uve nel torchio. Sicché con la bocca applicata al cadavere marcio, che avranno sotto, saran costretti a sorbire quello stomacoso umore: essendo ben dovere che si faccia di feccia, chi beve, come acqua l’iniquità. Miei UU. gran pene sono queste, vedute da Drittelmo. Se vi basta l’animo tollerarle, quasi dissi, peccate; ma se no, desistete dalle offese di Dio, e date mente ad Agostino: vel mortem time, sinon times peccatum. Non times peccatum? time quo perducit peccatum. Acerbiora vidi; Drittelmo non si quieta; e dice aver veduto di peggio. Ma che vedeste mai di peggio? Forse quei storcimenti de’ dannati per le puzze intollerabili, o de’ corpi fetentissima scaturigine de’ vermi, o della carcere. Cloaca delle più stomacose sporcizie; pena sì grande, che San Martino all’intollerabile puzza lasciata nella sua camera da un demonio comparsogli, poco meno che tramortito, disse: o inferno, che fetore sarà il tuo con tanti e tanti milioni di dannati e di demoni; se un diavolo solo col fuo fetore ha cangiata la mia camera in un inferno? Dimmi, o Drittelmo, è questo quel supplizio più duro che vedesti nell’inferno? Sì, questo ancora io vidi; ma non basta: ho veduto di peggio. Ben t’intendo; hai veduto che i miseri dannati sono di continuo maltrattati, lacerati e sbranati da quei demoni, nei quali non è punto di compassione. Acerbiora vidi; ma se vedesti ancor di peggio, tu non vuoi intendere d’altro, che del fuoco chiamato da Curzio l’ultimo de’ supplizi, ignis suppliciorum ultimus est; e vuoi dire che hai veduti i dannati avviluppati tra fiamme sì furiose che questo fuoco nostrale al parere di Sant’Anselmo è come fuoco dipinto: sic istum naturalem ignem vincit, ut iste pictum ignem; non lo credete? Ditemi. Ricordano le Storie, che Giorgio Castriotta avendo mandato a Maometto Secondo, signore de’ Turchi, quella celebre spada, con cui tagliava di netto il collo ad un bue, all’udir poi, che niuno di quanti si erano a ciò provati avevano mai potuto conseguire gloria sì bella, saviamente rispose: punto non meravigliarsi di ciò avendo egli mandata la spada, ma non il braccio. Tanto io pure dirò a voi: se mai per forte vi paresse incredibile la forza del fuoco infernale, misurandolo alla vista del nostro. Il fuoco in mano della natura è come una spada in mano d’una donna, ma il fuoco dell’inferno è come una spada in mano di Dio: e perciò non è meraviglia, se maneggiata colaggiù dalla Onnipotenza, faccia prove tanto eccedenti il nostro intendere. Per questo Iddio non fu contento di dire, si acuero ut fulgur gladium meum, ma v’aggiunse, et arripuerit Judicium manus mea, perché si sappia che questa spada di fuoco non tanto opera per la propria virtù, quanto perché è guidata dalla mano divina. – Si trovano oggi de’ fuochi artificiali, i quali arrivano ad ardere fino nelle acque; ed i Chimici fanno accendere nell’Antimonio un fuoco sì poderoso, si penetrante, che in paragone d’esso le fiamme delle fucine più ardenti paion fiamme di paglia. Quanto farà dunque furioso il fuoco infernale, fuoco artificiato bensì, ma dalla mano Divina? E per farvi intendere, esser questo fuoco d’inferno tanto spietato, riflettete, che il nostro fuoco fu creato da Dio per beneficio nostro; per scaldarci, per ricrearci; ma il fuoco infernale è creato, non per servo, ma per carnefice; è acceso in uno zolfo formato a posta per tormentare i peccatori e però se tanto tormenta i rei quella vampa, ch’è un dono della Divina beneficenza e liberalità; quanto più dovrà tormentare quello che è uno sfogo della Divina Giustizia? Io mi do a credere che se in questo fuoco vi cadesse una montagna di macigni e marmi durissimi, vi si disfarebbe tutta come cera, a facie tua registrò Isaia, montes defluerent. Certo è che un fuoco tanto minore, quanto è quello del Vesuvio e Mongibello liquefà i sassi, e riduce in cenere i macigni più duri spargendoli su’ Campi a guisa di nembi; acciocché gli uomini abbiano avanti gli occhi on leggiero abbozzo di quel fuoco molto maggiore che la fede ci addita a distruggimento degli scellerati. Son sì terribili quelle fiamme, R. A. che solo un infelice scolaro dall’Inferno comparso al suo maestro vivente, giusta la promessa gli stilò una goccia di sudore di quel gran fuoco sopra la mano ed in un istante da parte a parte lo traforò con spasimo da morirne. Or se il sudore cagionato da quelle fiamme che bruciano i dannati è più cocente ed ha forza tanto maggiore del nostro fuoco, chi negherà che il nostro fuoco non debba chiamarsi dipinto a paragone di quello dell’inferno? Avari, per voi sono preparate quelle fornaci, per voi ardono quelle fiamme, o irriverenti alle Chiese; per voi, o mormoratori; per voi bestemmiatori, per voi, o donne se foste vane con detrimento della vostra e dell’altrui onestà, per voi o padri, se male educaste i figli, se non soddisfaceste a’ legati pii, se non pagaste le mercedi, se v’ingrassaste con la roba altrui. Per voi o peccatori è preparato quest’inferno sì tormentoso di fuoco sì terribile. E pure ecco là colui, ecco là colei che, come se non gli bastasse per portarsi all’inferno quella sfrenata lascivia in cui vivono, hanno preso per cavalli di rilasso a covare in cuore un odio diabolico ed una cieca avarizia. – Il leone (Dio immortale) atterrito dalla vista del fuoco; ferma la zampa ed abbassa l’orgoglio, e tu peccatore e tu peccatrice alla vista dell’inferno non saprai fermare il passo al corso delle tue tante scelleraggini? Segui pure ed aspettati di peggio; poiché Drittelmo continua ad esclamare: acerbiora vidi. Dunque v’è nell’inferno tormento più fiero del fuoco? Sì! Pensieri miei disperati, e che cosa posso immaginarmi di più crudele? Finiscila una volta, Drittelmo, e palesa espressamente ciò che vedeste di più spietato. Non lo posso dire, pare risponda con Geremia, perché anche esso avendo veduto in spirito l’infernal macello esclamò secretum meum mihi; cioè, come spiega San Girolamo, non possum narrare. Non è possibile l’accennare, non che esprimere ciò che attonito vidi di terribile nell’inferno. E pure io vorrei fare apprendere qualche poco l’atrocità delle infernali pene, a chi mi ascolta. Ecco, che fò tutto lo sforzo per abbozzarvele UU. prendendo le parole di Dio nel Deuteronomio al ventesimoterzo. Udite: è Dio che parla, Congregabo super eos mala, rovescerò, dice Egli, sopra de’ dannati nell’inferno quanti castighi saprò mai inventare; non voglio che manchi loro neppure un tormento. Li voglio afflitti, flagellati, scarnificati, come appunto afferma l’Angelico: Nihil erit in damnatis, quod non fit eis materia, causa tristitiæ. Non consentono i medici che il corpo umano possa in un tempo stesso venire afflitto da tutti i mali di cui per altro è capace, perché essendo molti di questi l’uno all’altro contrari di qualità, non sono compatibili ad un tempo stesso in uno stesso soggetto; ma tale opinione, dice Drittelmo non corre colaggiù, nell’inferno, dove le pene, benché diverse, non saranno tra sé contrarie, ma si daranno la mano e due veleni non comporranno un antidoto, ma un tossico più mortale. In somma si verificheranno le parole divine: congregabo super eos mala. Tutti, ma tutti i mali piomberanno ad un tempo sopra de’ dannati. Or sì, che penso e Drittelmo d’aver trovato l’ultimo de’ supplizi, mentre di tutti i supplizi ne ho composto un supplicio solo: congregabo super eos mala: appunto quasi sdegnato mi risponde soggiungendo acerbiora vidit. Si si, taci, t’intendo. Ascoltatemi, o peccatori; e, se questo ultimo tormento de’ dannati non vi mette in capo l’orrore all’iniquità, sicché lasciate gli odi, abbandoniate le amicizie indegne, restituiate l’altrui, io per me, quasi dissi, dispero della vostra salute. Drittelmo si fa intendere, e dice che l’ultimo de’ supplizi tra’ dannati, è che colaggiù in quell’abisso sempre si morirà senza mai morire; sarà la morte immortale, e non avrà il bene del fine di tutti i mali: et dixi pertit finis meus. O eternità, eternità! voi miseri dannati, cercherete la morte per ristoro a’ vostri mali e mai la troverete: quærent mortem, et non invenient. Lo scorpione cinto d’ogni intorno da carboni accesi, disperato, si morde al fine tanto da sé medesimo e si uccide; ma quei meschini, non solo circondati, ma penetrati interiormente dal fuoco, non avranno tanta forza da terminare in simile modo i loro guai; bisognerà che sempre vivano in un continuo e disperato morire; domanderanno, come quel miserabile chiedeva a Tiberio imperatore la morte, a fine di terminare le molestie della prigione; e ne avranno per rispota quella che diede a questo infelice il monarca: nondum mecum in gratiam rediisit. La morte sarebbe un sogno d’essere ritornati in grazia, perché li leverebbe da quel continuo ed acerbissimo morire. – Santo Profeta Reale, che parlavi dell’eternità de’ dannati allorché dicesti: erit tempus eorum in sæcula, che volevi mai esprimere con quella parola in sæcula? Volevi forse dire, che quei miseri peneranno fino a tanto, che un piccolo cardellino tornato a bere una sola goccia per Anno, potesse giungere a seccar tutti i mari? Più … in sæcula. Volevi forse dire, che peneranno fino a tanto che un minuto vermetto tornato a dare un sol morso per anno, potesse giungere a divorar tutti i boschi? Più … , in sæcula. Volete dire, che peneranno fino a tanto che una leggera formica tornata a muovere un sol passo per anno, potesse giungere a girar tutta la terra? più … in sæcula. Velete voi dire, che se tutto il Mondo fosse pieno di minutissima arena, ed ogni secolo ne fosse tolto un sol grano, allora lasceranno i dannati di penare, quando tutto l’universo sarà vuotato? Più … in sæcula. Ma che volete voi dire? Forse volete dire che se questo mondo fosse tutto fatto di bronzo, e ad ogni secolo gli fosse dato un colpo allor lasceranno di penare quei miseri, quando l’universo sia tutto infranto? Più, più, in sæcula. Ma, Dio immortale! Io non intendo; facciamo dunque così per capire in qualche modo questa eternità. Fingiamo che un dannato, dopo ogni milione di secoli sparga due lacrime sole. Or ditemi Santo David, resterà egli di penare, quando abbia pianto tanto che le sue lacrime fossero bastanti a formare un Diluvio maggior di quello nel quale naufragò un mondo intero? Appunto, appunto, risponde il santo Profeta: tacete, che queste son similitudini da fanciullo: in sæcula, in sæcula, che è quanto dire secoli senza numero, senza termine, senza tassa. O eternità! O eternità! Rupi, grotte, spelonche, ove siete, perché venga attonito a rintanarmi dentro di voi, finché io giunga a capire… inferno, ed inferno eterno! – Ben capì questa verità la famosa peccatrice, quantunque idolatra, Eudocia colà nella città di Eliopoli in Fenicia. Era Eudocia dotata d’una bellezza sì rara, e d’una grazia sì manierosa, che non aveva pari. Nel più bel fiore della sua età si arrende ad un impudico amante; e perché nel convito de’ piaceri un sol cibo non sazia ma stuzzica l’appetito d’un altro, passò tant’oltre, che vende’ il suo corpo a chiunque lo voleva pagar ben caro. Onde non solo persone private, ma eziandio principi, rapiti dalla di lei beltà, andavano a trovarla, sicché in breve tempo ammassò un tesoro di ricchezze, ed una suppellettile da regina; albergava in un gran palazzo vicino alla porta della città, forse per esser più pronta a ricevere i forestieri che anche di lontano venivano attratti da lei calamita d’inferno. Iddio però, che la voleva à sé, usò un tratto della sua Providenza per guadagnarla. Dispose pertanto, che Germano santissimo monaco, ritornando dal pellegrinaggio di Palestina, passasse per Eliopoli, e da un buon Cristiano fosse alloggiato in una casa vicino al palazzo della rea femmina. Dopo una breve refezione fu condotto Germano in una camera a riposare contiguo al gabinetto ove stava l’infame letto d’Eudocia. Il monaco, secondo il suo costume, sulla mezza notte cominciò con alta voce a cantare i Salmi: indi preso in mano un sacro libro, che sempre portava seco, si diede a leggere con voce parimente sonora, quello, che lo Spirito Santo gli presentò innanzi ed era appunto delle pene eterne de’ peccatori nell’inferno. Or la divina Provvidenza, che voleva la conversione d’Eudocia, dispose ch’ella non solo fosse sola in quella notte, ma tutto udisse e tutta commossa si sentisse agitare da pensieri spaventosi; per tanto giunto il giorno chiama a sé un paggio, l’invia a ricercare di chi quella notte vicino a lei avesse salmeggiato, e lo pregasse portarsi da lei. Venne subito Germano, così inspirato da Dio, e sentendosi interrogare chi fosse, e d’onde venisse, a tutto rispose: e con tale occasione si mise a darle contezza delle verità evangeliche e particolarmente de’ castighi preparati per i lascivi, superbi ed avari. Adunque per me, replicò ella, che sono un’impudica, vana e superba, sono preparate pene sì grandi? Certo che sì, replicò il monaco, ma non vi sarebbe rimedio per liberarmene? Sì, soggiunse Germano, perché rinunciati i piaceri del senso, distribuiate le ricchezze mal acquistate a’ poveri e riceviate il santo Battesimo. Accettò la contrita donna il consiglio e, risoluta di prepararsi con penitenza al Sacramento, chiamata a sé la cameriera, ordinolle, che non introducesse a sé persona alcuna, e che a tutti dicesse, esser la signora fuori di casa. Se ne stava dunque ritirata la penitente Eudocia, quando apparitole un Angelo dal Cielo, le mostrò le pene dell’inferno alle quali era destinata se non si ravvedeva, e l’animò alla penitenza. Allora Eudocia vestita di ruvida tonaca si portò da Teodoro, Vescovo di Eliopoli ed a lui consegnò le ampie sue ricchezze che servirono per sostentamento de’ poveri, e per fondar monasteri. Indi ritiratasi in un claustro di sacre donne, cominciò vita santa e con tal lustro che di lì a poco fu fatta superiora di quella religiosa adunanza. Il diavolo che non poteva sopportar tanta perdita, sollecitò un certo Filostrato, che era uno de’ più cari amanti d’Eudocia, il quale adoprata ogn’arte per giungere a parlare ad Eudocia per distoglierla, giunse a fingersi monaco. Gli riuscì, ed a solo a solo in parlatorio così le disse: Eudocia, io vi vedo pallida e macilenta e con intorno una ruvida tunica, perché quel velo di canape in capo? Perché quella corda attorno al collo? Povera Eudocia quanto siete cambiata da quella che eravate! I vostri amanti v’aspettano; se temete l’inferno, vi sarà tempo da far penitenza. Su, risolvete, tornate, lasciate, Eudocia, allorché più voleva dire, con gli occhi bassi e voce adirata chiamò Dio che lo punisse; fu castigato, perché cadde mezzo morto, fu ravvivato per le preghiere di Eudocia, e per le medesime si convertì. Or io dico: mirate quanto poté in una idolatra il pensiero dell’inferno; la mutò del tutto, né solo questo pensiero convertì lei, ma la fece convertitrice degli altri. E voi Cristiani al pensiero di quelle pene non risorgerete da’ vizi? Su, su, dite ancor voi: inferno o penitenza!
LIMOSINA
S. Giovanni Crisostomo dice, che quello infelice ricco, non è sepolto nell’inferno perché fosse ricco, ma perché non fece elemosina a Lazaro mendico … non enim quoniam dives erat puniebatur, sed quia misericordiam non exibuit. Le ricchezze non mandano a casa del diavolo, ma bensì la crudeltà verso de’ poveri. E Sant’Agostino dice che ante fores gehennæ stat misericordia, avanti le porte dell’inferno vi sta la misericordia divina, ma voi piuttosto direte che vi sta la giustizia, perché nell’inferno, dove nulla est redemptio, non vi ha da fare la misericordia. V’ingannate, replica Sant’Agostino; v’ha da fare assai ed eccone la ragione, ante fores gehennæ stat misericordia, ut nullum misericordem in illum mitti carcerem permittat … la misericordia sta sulla porta dell’inferno, per non lasciare che laggiù v’entri alcuna persona misericordiosa; siate dunque liberali verso de’ poveri.
SECONDA PARTE.
Passeggiando un dì per una Galleria, Margherita d’Austria moglie di Filippo Terzo, teneva fisso lo sguardo in certa parte, e sospirando piangeva. Interrogata da una dama della cagione del suo pianto, additolle una pittura in cui vedevasi un capo di due strade, una delle quali conduceva ad un monte rappresentante il Paradiso; l’altra ad una caverna simbolo dell’inferno, e ponendo il dito sul principio del bivio, disse in hoc bivio adhuc sum, et non vis, ut plorem? Ah, che per verità chi ha un poco di stima dell’anima e senno in capo, dovrebbe disfarsi in lacrime per il solo pericolo di potersi dannare. Se fu Spirito di Dio quello che mosse la lingua del Crisostomo allorché predicando agli Antiocheni, disse: Quot esse putatis in hac Civitate, qui salus fiant e soggiunse: non possunt in tot millibus inveniri centum, qui salventur; quin et de illis dubito; e pure Antiochia era città grandissima, dove fioriva la fede, e trionfava la pietà. Se il Santo lo disse mosso da Spirito Divino: Città mia cara, a rivederci. Se di soli cento si prometteva, anzi neppur di tanti si assicurava della salute il Boccadoro, in una Antiochia; quanti dunque de’ tuoi cittadini, anche di questi che ora mi odono, ne andranno all’inferno? Che Iddio non lo voglia: neppur d’uno! Ditemi, UU. Questa sola paura non vi fa battere il cuore? Ma che orrore sarebbe il vostro, se sapeste di certo che alcuni di questi qui presenti si dovessero dannare? Ahime! Con che compassione li mirereste! E pare, se ora, prima d’uscir di Chiesa non vi risolvete a mutar vita, io quasi dissi, dispero della vostra salute. – Porilio Ambasciatore Romano disegnò, come sapete, un cerchio attorno ad Antioco, e gli predisse il tempo della ritirata dicendogli: hic stans delibera: non uscir di qui prima d’aver deliberato ciò che vuoi fare. Altrettanto io voglio praticar con voi. Fratelli miei, peccatori: io disegno intorno a voi la voragine d’inferno col circolo dell’eternità, e vi dico hic stans delibera, quì non vi è strada di mezzo: o inferno o lasciare la mala pratica: o inferno o restituire e la fama e la roba; o inferno o pacificarsi col prossimo: o inferno, o mutazione di costumi, peccatori miei cari. Risolvete una volta da vero di abbandonare il peccato e di non ingannar più, tradire voi stessi, perché i piaceri sono brevi, il penare è eterno. Lutero, quell’iniquo, quell’indegno che con lacrime di sangue fa tuttavia piangere alla Chiesa la perdita del settentrione, scordato della coscienza, della legge di Dio, pur qualche volta andava seco stesso dicendo: Luter nunc bene quid autem postea? Lutero, le cose ora vanno bene, spassi non mancano, crapule abbondano; piaceri di senso quanti ne vuoi, nunc bene, quid autem postea?… ma morto, che sarà di te, che sarà? Così vorrei io, che alcuni seguaci di Lutero, in quanto al vizio di senso, e crapula a se stesso dicessero, nunc bene, quid autem postea? Ah, che, se io vivo così licenziosamente: se non so staccarmi da quella pratica, se seguiterò a vivere in questi vizi: le cose andranno bene finché si vive: ma dopo all’inferno, alle pene a’ tormenti, all’eternità de mali … – Dio immortale! io esco fuori di me, mentre rifletto che quantunque si sappiano queste verità, ad ogni modo si elegge di compiacere a’ sensi in vita; né si cura l’inferno. Così in fatti non mostrò curarsene quell’infelice cavaliere, di cui per degni rispetti taccio e nome e patria. Gran caso: uditemi. Aveva questi amicizia da lungo tempo con una dama quanto nobile per il sangue, altrettanto indegna per la professione. Accortisi i parenti della vergognosa tresca, risolsero toglier la macchia al parentado col sangue dell’adultero. Fingesi pertanto, che la Signora mandi a chiamare secondo il solito in ora stabilita l’amante, egli si allestisce all’andare; e già s’incammina, quando un buono amico accostatoglisi all’orecchio gli dice: avvertite, non andate … e perché? Rispose il cavaliere. Perché, replicò l’altro, son preparate insidie alla vostra vita; e invece di diletti incontrerete la morte; appunto ripigliò il cavaliere innamorato, chi mi chiama macchinerebbe la morte a chi m’insidiasse alla vita. No, so di certo, soggiunse l’amico esservi gente che sta per farvela: e se morirete andrete all’inferno. Dio eterno inorridite AA. a ciò, che segue. Nell’udir che fece il cavaliere: morirete ed andrete all’inferno, rispose con bocca esecranda, accecato dal disordinato affetto: per donna Maria si può andare all’inferno! Così disse e così seguì. Andò al posto, e restò sul tiro. Anima miserabile, anima dannata, vien qua, e dimmi ora, se tu sia del medesimo parere; già che ora provi ciò, che sia inferno, adesso che tu peni, cruci ed ardi nell’eternità delle pene, che dici? Si può andare per donna Maria all’inferno? – Ahime! Eccolo, eccolo; oh come brutto, come fetente, come va buttando fiamme dagli occhi, dalla bocca, dalle narici, ed orecchie! oh come è d’ogn’intorno circondato, anzi imbevuto tutto di fuoco, più che il ferro nella fornace! Piange, si contorce, smania, si dispera … Su o disgraziato: ebbene per una dama tale si può andare all’Inferno? Ti trovi contento dell’elezione? Ah me sfortunato, ah bestiale che to fui! Maledetta quella femmina scellerata, e quel pazzo mio capriccio. No, no, che non si può per una carogna in breve tempo goduta, venire in questi tormenti per tutta una eternità. O se potessi tornar fuori dell’inferno! Ma che faresti? vivrei, risponde, da buon Cristiano, e farei acerbissima penitenza de’ peccati commessi. Taci, taci, non vi è più tempo: conveniva pensarvi prima. Voi sì, cari UU. siete a tempo. Che risolvete pertanto? O inferno, o penitenza, o penitenza, o inferno eterno. Intendetela, e considerate, che è pazzia da chi non crede né Paradiso, né Dio, voler per breve piacere perdere il Cielo, ed acquistare l’inferno.