QUARESIMALE (XI)

QUARESIMALE (XI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA UNDECIMA
Nella Feria feconda della Domenica seconda.

Della Penitenza. Si scopre l’inganno e si mostra il pericolo
di perdersi eternamente a chi differisce la conversione.

Quæretis me, et in peccato vestro moriemini
San Giov. Al cap. 8


Confesso il vero, che io deploro la cecità di coloro, i quali differiscono di giorno in giorno la loro conversione col dire, che in ogni età può ridurli il peccatore a penitenza, giacché in ogni età, in ogni tempo sta Iddio con le braccia aperte per stringerlo al seno, purché pentito; deploro dico la vostra cecità se qui siete con tali sentimenti in cuore; e siate risoluti di non turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, onde vogliate dare, se non gl’ultimi momenti della vostra vita, almeno quelli della vostra vecchiaia al pentirvi. Or sappiate, che se così opererete, sarà tanto certa la vostra dannazione, quanto è certa la vostra presunzione, mentre pretendete la Misericordia Divina legata a’ vostri capricci! Tacete e assicuratevi, che questo vostro pensiero andrà deluso, e ridotti al capezzale proverete avverate le parole di Critto: Quæretis me, in peccato vestro moriemini; e son da capo. La penitenza non v’ha dubbio esser frutto d’ogni stagione. Ella si nell’età più fiorita, come negl’anni più freddi matura al caldo della carità misericordiosa di Dio; se vi piovano le nevi sul capo, se vi scorre per le vene gelo di morte, finché siete in questa vita, siete nell’autunno di penitenza, che a Dio riserva, Omnia poma nova, et vetera; per arida e secca che sia la vecchiaia può, come la verga d’Aron, germogliare in una fiorita e fruttuosa correzione. Qual pianta più sterile della croce d’un ladro, e pure bagnata con sangue del Redentore, gli porse un frutto da trapiantare in Paradiso. Qual ramoscello più piccolo che l’ultimo momento di vita? E pure l’anima, con questo in bocca, divenutole olivo di pace, può, come colomba, da un diluvio d’acque volare all’arca d’eterna salute. Se così è (sento taluno, che mi dice) a che dunque turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, se goduto il presente può assicurarsi in un momento il futuro? Diasi dunque con ottimo partimento il godere alla vita presente, il pentirsi alla morte; (così costei con voce da Circe). Ma chi non vede esser ciò una tanto certa perdizione, quanto è una vera presunzione; quasi che la Misericordia divina debba esser legata a’ nostri capricci. Tacete , tacete , ed assicuratevi che questo vostro pensiero andrà deluso, se voi, procrastinando la vostra conversione, non vi darete a sollecita penitenza. Date mente alle prove. Quando io parlo che non indugiate a pentirvi alla morte non intendo già di parlare con quelli che sono risoluti di pentirsi veramente alla morte, e non prima, poiché questi già stanno con un piede nell’inferno, per non dire con tutti e due, e per questo sol atto di volontà sono sempre in peccato mortale; intendo di predicare a coloro che indugiando di giorno in giorno, di solennità in solennità, procrastinano la conversione, finché arrivano all’ultima malattia, e quivi invece di convertirsi si dannano. Contro costoro dunque me la prendo, e dico loro, poveri infelici, è possibile, che non conosciate il gran male che voi fate procrastinando la vostra conversione? È vero, sento rispondermi, siamo peccatori, e ben conosciamo che questo nostro differire la conversione conducendoci all’ultima malattia ci conduce sull’orlo della dannazione, ma non per questo diffidiamo di salvarci, merceché la Santa Chiesa ci ha provveduti, in quel tempo di cose pie, come di Benedizioni del Santissimo Rosario, del Cordone del Carmine, della Cintura; tutto è vero, ma contentatevi però che io di voi mi rida mentre in quell’estremo confidate nell’aiuto di queste, per altro sante cose, e frattanto viviate da bestie. Sentite tra gl’insetti v’è un’animale, che chiamasi mille piedi, e pure con mille piedi appena si muove, la ragione si è, perché essendo privo di sangue non ha calore per servirsi di quelli strumenti datigli dalla natura a far moto; anche voi peccatori avrete, allorché sarete moribondi sopra del vostro letto, molte reliquie, brevi e benedizioni, ma perché  non avrete nel cuore una scintilla di carità non vi saranno nulla affatto, giacché viveste male e non avrete in quel punto calor celeste, e così non potrete attuarlo a quei mezzi, acciò vi giovino; avverrà a voi in quell’estremo, come avveniva a David che, nell’ultima sua vecchiaia non arrivava a potersi riscaldare, sicché carico di panni gelava; ma se queste devozioni non bastassero? Voi mi replicate, procureremo d’avere una buona corona di religiosi i quali c’aiutino, ci suggeriscano quanto è necessario per salvarsi. Voi dite bene, che la perizia d’un buon confessore in quell’estremo val molto, e però chiunque brama salute, dovrebbe eleggersi per assiduo regolatore dell’anima sua un uomo; ma tale appunto quale lo vorrebbe assistente al suo morire; val molto in quel tempo, è vero, un buon confessore, ma sappiate che il suo aiuto, quantunque buono, non per questo sarà tale, che possa da sé solo liberarvi dall’inferno, e mandarvi in Cielo. Fu sfidato a duello un certo nobile, non men privo di spirito, che d’esperienza nell’uso della spada. Accettò questi l’invito sulla speranza di chiamare per secondo un suo caro e buon maestro di scherma. Compiva egregiamente le sue parti il maestro, poiché nell’atto stesso di battersi col suo contrario non levava mai gli occhi dal cavaliere, riparate, diceva, quel colpo di sotto, ponetevi in guardia, avanzatevi, ritiratevi, ferite; ma il nobile, quanto ignorante, altrettanto impaurito non eseguiva i documenti del direttore, perché appena ne intendeva la voce. Ferito pertanto a morte, lasciò la vita sul campo con tutta l’affettuosa e valevole assistenza d’un tanto padrino. Voi vi dovete trovare nel fine di vostra vita a fiero duello col nemico comune; ottima sarà l’assistenza d’un santo confessore, v’insinuerà egli atti di fede, di contrizione, di confidenza nel sangue di Gesù; ma voi abbattuti dal male, agitati dalla coscienza, intimoriti dalle tentazioni, appena intenderete i termini di tali atti, mentre mai aveste in costume d’esercitarli, e quel che è peggio, assaliti da diaboliche suggestioni vi lascerete superar dall’inimico che resterà vincitore e padrone dell’anima vostra per tutta l’eternità. Ma Padre, quantunque voi ci poniate nell’inferno, noi però speriamo di non balzarvi, quantunque questa nostra mala vita ci conducesse al capezzale. Il Santissimo Sacramento della Confessione v’è sempre, ci confesseremo prima di morire, ed eccoci salvi. Tutto bene; ma i conti non riusciranno, perché non li fate con Dio, che sdegnato per la vostra mala vita, non vi permetterà questo necessario aiuto. Permetterà Iddio, che voi moribondi siate assistiti da un Sacerdote che, non sapendo la formula dell’assoluzione, vada per il Rituale, e voi frattanto moriate. Così avvenne ad un infelice, che dalle piume saltò alle fiamme; permetterà che il Sacerdote si scordi di darvi l’assoluzione, così occorse in Firenze ad un cavaliere da me conosciuto e non di buona vita. Che tramortifica prima d’assolvervi, così avvenne nella città di Perugia ad un Ecclesiastico. Permetterà che il Sacerdote si dimentichi affatto delle parole necessarie: Ego te absolvo, così avvenne in Torino. Che un’ignorante di prima classe creda non potervi assolvere, così accadde ad un scellerato in Firenze; permetterà, che il Sacerdote venuto alla vostra casa non possa per qualche accidente entrare in camera, così appunto successe ad una donna in Ascoli, e morì senza Confessione. Questi e simili casi permetterà Iddio, che intervengano nella persona di chi vuole indugiare la sua conversione. – Olà, peccatori miei dilettissimi, non vorrei che faceste come il leone, che per non atterrirsi, non vuol guardare all’armi de’ cacciatori; guardate, e guardate bene in quanti modi vi può colpire la Giustizia Divina. Ma su via, voglio che abbiate la sorte di confessarvi, e per questo, che speranza avrete della vostra salute, mentre questa vostra confessione non sarà dissimile a tante altre, nelle quali non avevate dolore vero de’ vostri peccati, sarà simile a quella d’un infelice scolaro narrata da Fra Bernardino da Busti; dice egli, come un infelice scolaro, che più che le scienze, studiava vizi, venne a morte, e tra lacrime e sospiri passò con gli ultimi Sacramenti, lasciando a tutti una speranza assai viva di sua salute, ma perché  non è tutt’oro quel che riluce, poco dopo gl’apparve miseramente dannato, e disse: morii con segni sensibilissimi di pentimento, ma non furono, poiché io non piansi i peccati commessi, ma i gusti, che dovevo perdere, e sappiate che troppo male l’intendono quelli i quali pongono le loro speranze nelle ultime confessioni, essendomi io dannato per non aver avuto dolore, né proposito. Che dite? che fate? che risolvete? Si badi lasciare ancor la mala vita, mentre toccate con mano che se giungerete in tal stato al capezzale, neppur potrà, quali dissi, giovarvi la Confessione. – Padre, Padre, voi mi dite, se non riuscisse far la confessione prima di spirare, si può fare un atto di contrizione, che supplisce a tutto, e basta sia fatto un momento prima di spirare. Un atto di contrizione? E che vi par di dire, o peccatori, quando dite un atto di contrizione? Bisogna che voi v’immaginiate che tanto sia fare un atto di contrizione quanto leggerlo in una cartina stampato. Fare un atto di contrizione, vuol dire dolersi con un dolore il maggiore di tutti i dolori, non dico sensibili, ma apprezzativi de’ vostri peccati. E voi vi tenete in pugno questo dolore, quando in vostra vita sol vi siete doluto di non aver potuto far più peccati? Far un atto di contrizione? Vuol dire avere un proposito di voler patire mille morti, prima che tornare a peccare. E voi vi tenete in pugno questo proposito, mentre in vostra vita non avete fatto altri propositi, che di sfogar le vostre passioni? Fare un atto di contrizione, vuol dire pentirsi d’aver offeso Iddio, non già per timor dell’inferno, non per perdita di Paradiso, non per bruttezza di peccato, ma solo per aver offeso Lui Sommo Bene, e che merita d’esser infinitamente amato. E voi vi tenete in pugno questo pentimento, per puro amor di Dio, mentre in vostra vita non avete fatto che voltar le spalle a Dio, per interesse, per odii, per amori? Voi un atto di contrizione in morte, che mai l’avete fatto in vita? Fare un atto di contrizione vuol dire amare Iddio sopra ogni cosa, e voi ve lo tenete in pugno, mentre in vita avete amato più le ricchezze, che Dio, più gli onori che Dio, più colei che Dio, più colui che Dio! Eh mi meraviglio di voi. –  Se io vi dicessi, allorché sarete moribondi: figlio, per salvarti, bisogna fare un atto di contrizione in lingua greca, voi mi rispondereste, non è possibile, perché mai ho imparato questo linguaggio e voi vorrete far un atto d’amor di Dio in morte, quando mai l’amaste in vita? Ohime, vi piango perduti! E voi sento mi rispondete: non ci vogliamo disperare, perché se non potremo fare questo atto di contrizione, e non avremo lingua da confessarci; sappiamo che alla morte bastano i cenni, basta un chinar di testa, un calar di palpebra, uno stringer di mano, un battersi il petto, questo è d’avanzo, perché in quel punto ci sia data l’assoluzione di qualsivoglia
scelleraggine. Certo, da qualsivoglia Sacerdote; certo! E dove è l’Imperatore Ottone Terzo di questo nome, il quale per rimanere assolto d’una privata ingiustizia accettò da San Romualdo di pellegrinare a piedi nudi al Monte Gargano, ed ivi per un’intera Quaresima vestir sacco, digiunar con rigore, dormire in terra? Dove è quel gran Pacomio, che caduto in disonestà, vuole con suo sommo rossore palesarlo in uno de’ Concili più nobili di Toledo? Dove è quella Fabiola gran Principessa Romana, la quale violata una ordinazione Ecclesiastica, volle con sommo rossore accusarsene sulle porte del Laterano? Se voi foste presenti, vorrei dirvi che potevate aspettare agli ultimi fiati di vostra vita, ed allora ottenere con un sol cenno, quello che tanto vi costò. Olà, olà mi muovo a compassione di non pochi che ignoranti di questa bella dottrina, che bastano i cenni, intraprendano grandi fatiche, aspre penitenze; Fermatevi voi pellegrini che con croci in spalla vi portate al riverito santuario di Loreto; fermatevi o voi che volete con tanto disagio passare a San Giacomo di Galizia, e con tanti pericoli a’ luoghi di Terra Santa; basta che chiniate la testa prima di morire, che stringiate le mani al Sacerdote per ottenere intiera l’assoluzione delle vostre colpe; bastano i cenni, sì, ma non basta, perché questa si confermi da Dio, vi vogliono l’interne disposizioni di dolore e di proposito. E come è possibile che chi ha bevuto l’iniquità come l’acqua, e che chi si pente sol perché non può vivere, l’abbia? Mutate parere, perché questi vostri disegni alla morte non vi riusciranno. Uditemi. Tre sorte di morte si danno e non più: in due è certissima la vostra dannazione, nell’altra è quasi indubitata se a quel tempo riducete la vostra conversione. Se la morte vi viene all’improvviso da un accidente, da un catarro, da una percossa, da una caduta, è finita, siete dannato, perché siete in peccato mortale. Se poi la vostra morte viene con un mal furioso, o di sconvolgimenti di stomaco, o di dolori di viscere, o di spasimi di testa, o simili, voi ben vedete che non potrete applicare ad un negozio di tanta importanza e fuori di voi, senza Confessione vi perderete. –  Che se poi la morte venisse con principii di male assai tenue, sicché vi lasciasse libera la testa, per pensare alle vostre colpe, sciolta la lingua da confessarle, e spiritoso il cuore a dolervene; voi siete in peggiore stato di convertirvi, per che mai vi darete ad intendere, né vorrete credere, che una tale infermità debba portarvi all’altra vita, e per ciò mai vi ci preparerete; farete a guisa d’un pigro viandante, il quale non potendo passare un torrente gonfio di molte acque, ne’ suoi principii va sempre irresoluto, tra se dicendo, le passerò più giù, le passerò più giù, e finalmente deluso, quando delibera di passarlo, non ne trova più il varco. Oltre che, credete voi forse che il demonio, il quale fino a quel tempo avrà goduto il possesso dell’anima vostra felicissimamente per i tanti vostri e gravi e continuati peccati, ha poi per lasciarvi nel più bello, e che gli scappiate dalle granfie? Appunto egli farà con voi ciò che suol farsi nelle ultime giornate campali allorché si viene a guerra finita, non si lascia veruno a quartiere, tutti a combattere, e perché? Perché quella è l’ultima giornata in cui se si perde non vi è più speranza di vincere, e se si vince non vi è più paura di perdere; e però allor si fanno le ultime prove. Così appunto interviene alla nostra morte; sa l’inferno che da quel punto dipende tutto, e però, che non farà allora lucifero? Sapete: ve lo dice il Signore nell’Apocalisse. Descendit ad vos diabolus babens iram magnam, sciens quia modicum tempus habet … vi verrà al letto con una furia e rabbia incredibile, perché sa che ha poco tempo, e se vi perde, è finita. Chiamerà dunque allora tutte le furie d’inferno perché v’assaliscano, v’assalirà con tentazioni di fede, v’assalirà con tentazioni di vendetta, di disonestà, saprà ben’egli rappresentarvi quei balli, quelle veglie, quegli affetti, colui, colei, e vi farà cadere in uno di quei pensieri laidi ai quali avete per l’addietro sempre dato libero l’adito nella mente, certo l’assenso nel cuore. Che rispondete a queste verità? Ecco la risposta troppo confidenziale, se non abbandonate il peccato. In quel punto il Signore mi aiuterà … no! Perché troppo spesso vi siete a Lui ribellati, dopo confessati, dopo avervi di nuovo data la sua grazia; no! Perché son mesi, son anni, che amorosamente vi chiama, che ritorniate alla sua obbedienza, e voi restii non l’ubbidiste; onde Egli farà con voi come si suole con le città ribelli, che non arrendendosi alle chiamate, si manda tutto a ferro e fuoco. No, che non v’aiuterà, perché vedrà che voi ricorrete a Lui non per amore, ma per forza, e vi risponderà, come il gran capitano Jefte rispose agli Ismaeliti: Nonne vos estis, qui odistis me, et dejecistis, nunc venistis, necessitate compulsi; voi (dirà Iddio) m’avete finora odiato, m’avete scacciato con amori con odii, con bestemmie, ed or mi chiamate; non voglio venire, siete forzati, non lo fate di cuore; no, che non vi aiuterà, anzi sentite ed inorridite: vi abbandonerà, di tanto si dichiara per il Profeta reale, mentre, se non vi risolvete a penitenza; udite le parole: Convertentur ad vesperas, famem patientur ut canes; Costoro che tante volte furono da me chiamati a penitenza, e mai si risolsero a farla bene, ora che la vorrebbero fare al capezzale, famem patientur ut canes faranno trattati da cani. Come si trattano i Cani? gli si danno gli avanzi, il peggio; voi avete voluto dare il meglio della vostra vita agli spassi, alle bettole, ai giuochi, alle usure, alle lascivie, e trattar me da cane, dandomi gl’avanzi della vostra vita, ed Io voglio trattar da cani voi, vi metterò una catena alle mani ed ai piedi e vi legherò eternamente nell’inferno: Ligatis manibus pedibus projicite cum in tenebras exteriores. Tanto provò quell’infelice cortigiano, di cui ne porta il funesto successo l’Eminentissimo Baronio ne’ suoi Annali. – Un predicatore apostolico della minima mia Compagnia, predicando la Quaresima in Digiure Città di Borgogna, atterrì tutta l’udienza con un caso formidabile, a cui accrebbe gran credito il Padre guardiano de’ Cappuccini, che nello scendere il predicatore dal pulpito, gli presentò il padre suo compagno, dicendo: eccovi o Padre un testimonio di veduta, e che fu spettatore dell’orribile tragedia. Uditela anche voi, miei uditori, con eguale spavento, ed utile. In un villaggio di Borgogna, un cavaliere, che da gran tempo era abituato nel vizio, resisté sempre alle divine ispirazioni, persuadendosi che prima di morire si sarebbe convertito. Iddio, che lungamente l’aveva tollerato, lo buttò finalmente nel letto con gagliarda febbre, ma neppure allora s’induceva a volersi confessare, benché esortato vivamente dal parroco che l’assisteva; quando rivolgendo l’ammalato gl’occhi, vide scritto a caratteri maiuscoli nel cortinaggio quella sentenza d’Isaia: Quærite Dominum dum inveniri potest, cercate il Signore, mentre si può ritrovare. A tal vista, doveva compungersi, eppure maggiormente s’ostinò immaginandosi che fosse invenzione del curato per condurlo alla Confessione; onde è che minacciando, comandò che si levasse via quel cartello, altrimenti avrebbe messo in pezzi e coltri e tendine, e questo v’era. I domestici, ancorché non vedessero niuna scrittura, per quietare il di lui furore, mutarono quelle in altre cortine, nelle quali con maggior prodigio mirò di nuovo l’infermo espresse quest’altre parole del Salvatore: Quæretis me, non invenietis, mi cercherete senza trovarmi; voi vi crederete che a questo spettacolo si ravvedesse il misero? Appunto non fu così; vie più inviperito gridando e bussando e minacciando si protestò, che a loro dispetto non si sarebbe confessato, non essendo egli ragazzo da temere di spauracchi; furono costretti i parenti a cambiar nuovamente la cortina, ma questa mutazione fu un esporgli avanti gl’occhi la terribile sentenza della sua condannazione, imperocché sulla terza cortina comparve figurata a neri caratteri la minaccia di Cristo Giudice: In peccato vestro moriemini, morirete nel vostro peccato. A questa terza veduta arrabbiatosi più che mai, si contorse con impeto e dopo violenti agitazioni spirò l’anima sciagurata, e nello spirare tutta la casa s’agito con orribil terremoto, come se rovinasse da fondamenti; né solo l’anima se ne andò, ma anche il corpo scomparve, portato via, non si seppe da chi, né dove, ma ognuno se lo poté purtroppo immaginare. A sì formidabile spettacolo rimasero gli astanti pieni d’orrore, e molto più quando, per divina rivelazione si seppe la verità di questi monitorii. La moglie restata vedova, ed una figlia che aveva, uscirono da quella funestissima casa, e corsero alle Carmelitane scalze a prendere vita religiosa; il figlio rimasto erede, rinunziate le sue facoltà, vestì l’abito Cappuccino e fu appunto quegli che, terminata la sopradetta predica, testificò il deplorabile avvenimento affinchè: exemplum effet omnium pœna unius. Imparate a non indugiare la penitenza, se non volete esempii, se non così visibili, certo egualmente spaventoli…

LIMOSINA
Voi sapete che gl’indovini per dar la buona o rea ventura, si fanno dar la mano bene stesa ed aperta, e s’ella è ben formata, ed ha le linee della palma lungamente dritte e stese ne sogliono fare augurio di lunga vita; a me, senza dubbio, darebbe l’animo di saper dire certamente, se la vostra vita sarà eternamente lunga, se vi salverete, si o no, e se starete bene anche in questa vita: vitæ quæ nunc est, et future, e non dubitate che io non colga sul segno; perché parlo con lo Spirito Santo, basta che si osservi, se la vostra mano è ben aperta per sovvenir a’ poveri; se così è, voi siete salvi: eleemosina liberat a morte.

SECONDA PARTE

Ho parlato finora contro di quelli che, indugiando la loro conversione di tempo in tempo, finalmente si riducono in pessimo stato alla morte con una quasi certezza di dannazione, ma perché questi sono la minor parte, voglio aprire gl’occhi con un fatto della Sacra Scrittura a quei che procrastinano di tempo in tempo, e vivono tra peccati, dicono: siccome sono uscito dal peccato altre volte, così ne uscirò questa ancora, e con questa debole speranza indugiano a confessarsi. Voi dunque dite così, allorché siete in peccato, e dalla coscienza, e da’ buoni amici siete esortato a confessarvi. Dio m’assisterà con la sua santissima grazia, come ha fatto altre volte, dandomi forza d’uscire dal peccato; piano, piano, perché questo è un paralogismo: ve l’ha data altre volte … dunque ve la darà sempre? Nego, nego, la conseguenza non tiene, e se non lo credete, udite. Voi ben sapete che Sansone s’era buttato nelle braccia di Dalila meretrice, la quale subornata da’ Filistei, procurò di sapere l’origine della gran robustezza di Sansone per potergliela togliere, e così darlo nelle mani nemiche. Ecco che un giorno, tutta alla domestica, domanda Dalila a Sansone: dimmi, se m’ami, d’onde mai in te tanta robustezza, sicché niuno possa abbatterti? È facile, rispose Sansone, basterebbe legarmi con sette nervi umidi, ed eccomi debole al par degl’altri; non cercò più la rea femmina; procura da’ Filistei questi lacci, e fintasi tutt’amore verso Sansone, gli riesce legarlo, e legatolo grida: a te Sansone, ecco i Filistei Philistin super te Sanson; Sansone scuote le braccia e a guisa di sottil filo di canapa, spezza quelle funi di nervo; Dalila vedendosi svergognata nell’impresa, si lamenta con Sansone, Ecce illusisti mihi, non posso credere che m’ami, se non mi confidi i tuoi segreti; dimmi dunque, e d’onde a te deriva tanta robustezza? questa mi si toglie, risponde Sansone, allorché io sia legato con funi del tutto nuove; e Dalila lo stringe con corde nuove, ed ella stessa grida: Philistiin super te Sanson, e Sansone con un solo divincolamento di persona, ruppe quelle corde come se fossero stati tenuissimi spaghi; Dalila di nuovo fa l’adirata, e poi di nuovo lo prega a compiacerla, che gli dica, dove veramente consista il fondo della di lui forza; Sansone le dice: per dirtela, se vuoi togliermi ogni forza, conviene inchiodarmi per i capelli nel pavimento; Dalila l’inchioda, e poi alza le voci: Philistiin super te Sanson, e Sansone, con un’alzata sola di capo, cava quel gran chiodo dal pavimento come altri farebbe un piccolo fuscelletto dall’arena. Or qua miei uditori, già v’ho narrato il fatto, nel quale voi m’avete a dire, se ravvisate più l’amore, o la pazzia di Sansone, voi mi rispondete: che l’amore è cieco, e perciò aveva condotto ad una sì gran pazzia Sansone, il quale quantunque vedesse apertamente il tradimento, ad ogni modo non sapeva abbandonare quella rea femmina, che lo voleva morto. Né qui si ferma l’infame amore ma nuovamente con lusinghe interrogato, gli scopre la verità e gli dice: tutta la mia forza consiste nella mia capigliatura; Dalila subito richiama i Filistei, lusinga l’amante, fa  che gli si addormenti nelle ginocchia, prende le forbici, taglia i capelli, lo scuote, lo gitta da sé, lo butta nelle mani de’ nemici, e poi grida: Philistiin super te Sanson … Sansone si desta, e stimando di riscuotersi come prima da quelle insidie, dice nel suo cuore: Egrediar sicut antea feci, gli scapperò dalle mani, ma non fu così, perché recesserat ab eo Dominus, onde legato, accecato e strascinato vi perde la vita. Or, cari miei Uditori, come si portò tanta ruina a Sansone, non per altro se non perché era scappato altre volte, perché s’era liberato altre volte: Egrediar sicut antea feci. – Questo paralogismo lo tradì, e questo tradisce la maggior parte degl’uomini. Intendete: la verrà giorno in cui Iddio v’abbandonerà, Dominus recedet … vedete quanto diversamente io discorra da voi; voi dite, che perché Iddio v’ha fatta la grazia altre volte, ve la farà anche adesso; ed io vi dico, che quanto più ve l’ha fatta, tanto più è difficile che l’abbiate un’altra volta. Giovane, uomo, tu hai scampata la morte e del corpo e dell’anima trovato da’ rivali in quella casa; non dire, l’ho scampata una volta, la scamperò la seconda! Donna t’è riuscito una volta mancar di fede senza pericolo, non ti riuscirà; ti sei confessata bene, non tornare, perché Dominus recedet

QUARESIMALE (XII)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.