(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I.
Torino, 1920)
DISCORSO XXIII.
Il Sacro Cuore di Gesù e la Penitenza.
Uno fra i più belli, fra i più grandi, fra i più salutari costumi della Chiesa, nostra Madre e maestra, è quello di farci leggere ogni giorno nella Santa Messa un tratto del Vangelo e nella Officiatura il relativo commento che ne fecero i Santi Padri. E ciò ella fa non a caso, ma scegliendo sapientemente quei tratti di Vangelo e quei commenti che più sono conformi ai Santi che secondo la varietà del tempo essa onora od ai misteri che essa ricorda. Quale sarà pertanto il tratto di Vangelo che ella ci fa leggere, siccome il più adatto, nella festa del Sacro Cuore di Gesù? Quello ove si racconta il ferimento del costato di Gesù Cristo e la conseguente apertura del suo Cuore istesso. Eccolo: « In quel tempo, i Giudei, poiché era giorno di venerdì, perché i corpi dei giustiziati, vale a dire di Gesù Cristo e dei due ladroni con lui crocifissi, non rimanessero sulla croce al sabbato (perciocché quel sabbato era il giorno della Pasqua), pregarono Pilato che ai medesimi si rompessero le gambe (secondo il costume) e fossero tolti via. Andarono pertanto i soldati, e ruppero le gambe all’uno e all’altro di quei due che erano stati con Gesù crocifissi. Arrivati poi a Gesù, vedendolo che era già morto, non gli ruppero le gambe, ma uno dei soldati aprì il fianco di lui con una lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua. E chi vide (cioè S. Giovanni il discepolo prediletto) lo ha attestato, ed è vera la sua testimonianza. » (Io. XIX, 31-35) Questo è adunque il Vangelo scelto dalla Chiesa per la festa del Sacro Cuore di Gesù. E quale è il commento che ne fa leggere nella sua Officiatura? II commento che ne fanno tre grandi dottori della Chiesa: S. Agostino, S. Giovanni Grisostomo e S. Bonaventura. Ed anzi tutto quello di S. Agostino, che così spiega il ferimento del costato di Gesù Cristo e l’apertura del suo Sacratissimo Cuore: « Di una parola assai espressiva ha fatto uso l’Evangelista; giacché non disse già che il soldato percosse o ferì, o fece altro, ma sebbene che il soldato aperse con la lancia il fianco del Signore, affinché si intendesse che ivi si è aperta in tal modo la porta della vita, poiché dall’apertura del Cuore di Gesù Cristo ne sono usciti i Sacramenti, senza dei quali non si può entrare a quella vita che è sola vera vita, la vita eterna. » Così il grande Vescovo d’Ippona. Ora che cosa vi ha di più chiaro, pur tacendo di altri commenti fatti nello stesso senso da S. Cipriano, da S. Ambrogio, da S. Giovanni Crisostomo, e da altri ancora, per farci riconoscere che i Sacramenti della Chiesa sono il più vero, il più grande, il più vantaggioso effetto dell’amore del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo per noi? Ma notiamo però che se nel Sangue e nell’acqua che uscirono dalla ferita del Divin Cuore sono raffigurati in genere tutti i Sacramenti, e cioè nell’acqua i Sacramenti così detti dei morti, che ci lavano e mondano dai peccati, e nel Sangue i Sacramenti dei vivi, che accrescono in noi la grazia e i meriti per salvarci, secondo le spiegazioni istesse dei Sacri Dottori sono raffigurati in modo specialissimo i Sacramenti che ci rimettono i peccati, il Battesimo cioè e la Penitenza, e il Sacramento che nutre e disseta l’anima nostra, la SS. Eucaristia. Di questi adunque è particolarmente simbolo la ferita del Sacratissimo Cuore; e di questi a preferenza dobbiamo occupare la nostra mente nel riandare le prove d’amore di Gesù Cristo per noi. E lasciando di trattare del Battesimo perché grazie a Dio già l’abbiamo tutti noi ricevuto, né più ci occorre di riceverlo altra volta, passiamo tosto a trattare della Penitenza ed a riconoscerne il grande benefizio.
I. Sebbene misticamente, cioè in modo occulto, ma pur vero, il Sacramento della Penitenza, come tutti gli altri Sacramenti sia uscito dalla ferita del Cuore di Gesù, tuttavia questo Sacramento in modo manifesto non fu istituito da Gesù Cristo che dopo la sua Risurrezione. Allora apparendo Egli agli Apostoli, che stavano nel cenacolo disse loro in tono solenne di autorità: Come il Padre mandò me, così Io mando voi, vale a dire con quello stesso potere sopra il peccato con cui mandò me il mio Padre celeste, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo; ricevetelo cioè per ben esercitare il grande potere che io vi affido. I peccati saranno rimessi a coloro ai quali li rimetterete e saranno ritenuti a coloro ai «quali li riterrete. E cioè coloro che dopo aver manifestati a voi i loro peccati riconoscerete degni di perdono li perdonerete, coloro che riconoscerete indegni, non li perdonerete: quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis retenta sunt. (Io. xx, 22, 25) Con queste parole pertanto Gesù Cristo istituiva il Sacramento della Penitenza, ne designava il ministro, indicava implicitamente il modo con cui questo Sacramento dovevasi amministrare e ne denotava l’ammirabile effetto. Ed oh quale bontà, quale misericordia dimostrava per tal guisa verso di noi Gesù Cristo. Ed in vero G. Cristo avrebbe potuto lasciare del tutto di istituire questo Sacramento, istituendo solo per la remissione del peccato originale, col quale nasciamo, il Sacramento del Battesimo, stabilendo poi che qualora dopo di aver ricevuto questo Sacramento da bambini, giunti all’uso di ragione noi l’avessimo personalmente offesi, andassimo irreparabilmente perduti! E stabilendo le cose per tal guisa Egli non sarebbe ancor venuto meno alla sua bontà e misericordia, perché in tal guisa ci avrebbe pur sempre dato il gran mezzo di diventare Cristiani, figliuoli di Dio ed eredi del paradiso. Ma se Gesù Cristo avesse così stabilito, quanti e quanti Cristiani sarebbero tuttavia andati perduti! Forse, chi sa? nessuno tra di noi stessi che ora stiamo qui a considerar la misericordia infinita del Divin Cuore, nessuno tra di noi potrebbe più sperare di salvarsi, imperocché non sono veramente rare, rarissime, quelle anime che conservano per tutta la vita l’innocenza battesimale? .Ma Gesù ha veduto questo grande, questo immenso rischio, a cui la più parte degli stessi Cristiani sarebbe andata incontro, epperò con una bontà, con una misericordia infinita non solo ha istituito il Battesimo per toglier dall’anima nostra il peccato originale, ma ancora la Penitenza per togliere dall’anima nostra tutti o sempre i nostri peccati attuali. E qui avvertite che ho detto nient’altro che la verità nell’asserire clic il Sacramento della Penitenza è per togliere tutti e sempre i nostri peccati attuali. Perciocché per quanto siano numerosi i nostri peccati, fossero pure numerosi come le stelle del cielo e le arene del mare; per quanto fossero gravi, fossero pur gravi tutti come il delitto di Caino, il tradimento di Giuda, le nefandità di Nerone, i peccati nostri per virtù di questo Sacramento, sempre che noi vi portiamo le disposizioni richieste, possono sempre essere tolti del tutto dall’anima nostra e perdonati da Dio. E non una volta sola in tutta la vita, non due, non tre, non dieci, non cento, ma quante e quante volte noi con cuore veramente pentito ci presentiamo al ministro di Dio a confessarli. Ah questa bontà, questa misericordia di Gesù Cristo si può chiamare davvero bontà eccessiva, perciocché pur troppo ci saranno peccatori e peccatrici, che ne abuseranno indegnamente; ma Egli ebbe più caro di permettere che vi sia qualche sciagurato che ne abusi, anziché non dare tutto l’agio, tutta la possibilità alle anime pentite dei loro peccati e delle loro ricadute di sollevarsi dalle loro pene, di liberarsi dalle loro angustie. Ed ecco un’altra ragione per cui nel Sacramento della Penitenza risplende vivissima la bontà e la misericordia del Cuore di Gesù. È un fatto innegabile che l’uomo commettendo il peccato perde sullo stesso punto la pace interiore dell’anima, e per conseguenza la vera felicità, che come dice giustamente S. Agostino, consiste nella calma di tutti i suoi desideri e movimenti. Chi resiste a Dio e può aver pace? si domanda il santo Giobbe. Quis resistit ei, et pacem habuit? (Iob. IX) Non appena la legge di Dio è stata violata e la colpa fu commessa, sorge in fondo all’anima dell’uomo uno straziante rimorso che prende dì e notte ad accusarlo ad agitarlo e a tormentarlo co’ suoi terribili rimproveri. Indarno per tentare di non sentirlo ei fa di tutto per soffocare l’istinto che lo porta a riconoscere il male; indarno ci si appiglia ai rumori del mondo, alle agitazioni della vita, all’ebbrezza di altri peccaminosi piaceri, per dimenticare che è colpevole; indarno sospira, ricerca, invoca di bel nuovo la pace: essa più non si dà a lui fino a che è nello stato di peccatore; l’amarezza e l’infelicità soltanto egli incontrerà ovunque sul suo cammino, ad ogni tratto a ripetergli: « Sciagurato! potevi operare il bene, ed invece hai commesso il male! potevi vivere sicuro del tuo eterno destino, ed ora invece hai da tremare che Dio ti punisca e ti mandi eternamente perduto! » Ora in questo stato così orribile, a riacquistare la pace perduta, non vi ha nulla per l’uomo di più naturale quanto il sentire il bisogno di manifestare ad altri il segreto che lo strazia, in quella guisa che l’ammalato oppresso dalla copia dei cattivi umori sente la necessità di rigettarli per esserne alleviato. E questo bisogno è così imperioso che l’uomo colpevole, non potendo altrimenti manifestarsi, e pur sentendosi costretto da una forza arcana a farlo, si inoltra talora nell’oscurità di una caverna, o si addentra nel folto di un bosco, o si spinge nell’alto del mare e con i flutti, o con le piante, o con i sassi sfoga l’ambascia dell’anima sua. Spesse volte anzi, rifiutando l’impunità che gli promette il silenzio si presenta da se stesso ai giudici, preferendo la punizione della colpa allo strazio morale che questa gli reca al cuore. Or ecco perché lo stesso Socrate presso Platone, benché filosofo pagano diceva: « che avendo commessa un’ingiustizia, che è il maggiore dei mali, il mezzo sovrano per esserne sciolti e riacquistare la pace, si è l’andare prontamente a farne la manifestazione al proprio giudice e subirne la punizione. » (PLAT. Giorgias, XXXVI) Ecco perché la manifestazione delle proprie colpe, fin dalla prima di esse che si commise, si trova presso tutti i popoli, anche i più selvaggi, sanzionata dalle pubbliche leggi e dai riti di Religione. Ecco perché massime tra il popolo giudaico questa manifestazione era prescritta e regolata per tal guisa, da sembrare una vera confessione; tanto è vero che gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, anche prima della venuta di Gesù Cristo, hanno creduto, come disse lo stesso Cicerone, essere la manifestazione delle proprie colpe il miglior rimedio alla malattia del colpevole. – Se tale adunque è la tendenza dell’umana natura, che cosa ha fatto Gesù Cristo istituendo la confessione? Scrutando a fondo l’umana natura, affine di appagarla nelle sue esigenze, Egli ha fatto quanto era per lei confacente, giacché la confessione non è altro che la manifestazione delle malattie nascoste in fondo all’anima al medico che le può guarire, non è altro che la rivelazione delle colpe che agitano il cuore umano a quel Giudice che assolvendolo dalle medesime, gli può ridonare la pace e la felicità. Ma notate bene, o miei cari, quale medico e quale giudice, ci ha dato qui Gesù Cristo; il più omogeneo, il più illuminato, il più discreto, il più indulgente, il più rassicurante, il più conforme insomma alle condizioni della nostra stessa natura. Ed anzi tutto il più adatto, perciocché nella confessione non è Iddio colui che viene a ricevere visibilmente la manifestazione delle nostre colpe. Gesù Cristo conosceva troppo bene come al cospetto della maestà influita di Dio non solo non avremmo osato articolare una sola parola, ma saremmo agghiacciati di spavento. Non è neppure un Angelo, perché troppo eccellente per la sua natura, troppo splendido per la sua purezza, non avrebbe ancora ispirato in noi la necessaria confidenza, né ci sarebbe ancora bastato il coraggio di rivelargli le nostre iniquità. Ma egli è un uomo, bensì ministro di Dio, ma pure della nostra identica natura, fragile come noi, come noi nella condizione di peccatore, epperciò non solo il più atto ad ingenerare in noi la confidenza, ma ancora il più facile ad usare verso di noi quella misericordia che abbisogna per se stesso; un uomo che ad ogni modo deve prendere in sé le viscere della misericordia di Dio e trattarci con la carità più affettuosa e più ardente, e addolorandosi pure in cuor suo dei nostri peccati perché offesa di Dio, non sdegnarsi punto contro di noi, anzi compatirci e compassionarci. Ah! se certi peccati li manifestassimo al nostro padre, noi dovremmo temere che egli avesse da pronunciare contro di noi una maledizione; se alla nostra madre, che ella avesse a morire di angoscia, e se al nostro amico che, tutto pieno di sdegno, ci avesse ad abbandonare all’istante. Ma invece manifestandoli al ministro di Dio con umiltà e sincerità, non dobbiamo aspettarci altro che di essere trattati colla massima benignità e compassione. E intanto con qual sicurezza egli, conosciuto le cause dei nostri mali appresta il rimedio ed indica i mezzi per espiarli! Con quale sincerità lacera il velo, dietro al quale il nostro amor proprio nasconde le sue passioni favorite e ne mostra tutta l’enormità! Con quale precisione ci illumina sulla natura e sull’estensione di certi obblighi tanto indispensabili, quanto difficili e complicati! Con quale esperienza ci guida per la via del dovere, della virtù della perfezione e della santità! Perciocché Gesù Cristo ha voluto che le labbra di questo suo ministro custodissero la scienza. Che dire poi della sua prudenza, della sua discrezione, della sua segretezza? E qual è il medico, qual è il giudice, da cui non abbiamo a temere la pubblica rivelazione delle nostre malattie e delle nostre colpo? Qual è anzi il tribunale in cui non si facciano per regola di pubblica ragione i delitti dei condannati ? E non è questo il tormento maggiore di un colpevole l’essere pubblicamente infamato? E Gesù Cristo lo sapeva benissimo, epperò questo non accade nel Sacramento della Confessione. Noi andiamo a gettarci ai piedi del ministro di Dio, gli apriamo il nostro cuore colpevole, lo abbandoniamo anzi nelle sue mani sacerdotali. Ed egli se ve n’ha bisogno, lo scruta minutamente, non già per inasprirne crudelmente le piaghe, ma solo per medicarle con l’unzione della sua carità e della grazia di Dio. E dopo che egli tutto ha conosciuto anche i più reconditi pensieri e desideri del cuor nostro, le sue labbra si chiudono ad un silenzio, che non sarà violato mai, neppure in vista del martirio, sia in forza della legge formidabile che lo impone, sia più ancora per la grazia di Gesù Cristo, che da diciannove secoli custodisce la bocca dei suoi Sacerdoti. Che anzi non solo il ministro di Dio non rivelerà mai con alcun pregiudizio della nostra fama le colpe che gli abbiamo manifestate, ma terminata la confessione, avendo pur anche a trattare con noi, egli si diporterà con noi come se nulla mai avesse inteso dalla nostra confessione, quando pure in essa gli avessimo manifestati i più enormi delitti. E da ultimo questo ministro così omogeneo, così illuminato, così discreto, sarà ancora per noi il più indulgente e il più rassicurante. È bensì vero che egli potrebbe non perdonare, perché egli ha pure questa, facoltà. Ma questa facoltà egli non può esercitarla a suo capriccio; e sol che egli veda in noi le necessarie disposizioni, Gesù Cristo gli ha imposto di perdonarci senz’altro. Quando tu hai confessato al mondo la tua colpa, te ne sei pentito al suo cospetto, l’hai ben anche espiata, il mondo forse ti dirà allora d’averti perdonato. Ma lo credi tu davvero? Ah! ben puoi temere del contrario. Quel marchio di disonore con cui ha bollato un giorno la tua fronte, ben di rado te lo cancella, anzi per regola più ordinaria lo imprime ancora sulla tua tomba e sulla tua memoria. Ed ecco perché non ostante che, dominato dall’istinto, tu ti sia forse anche spontaneamente manifestato, tu sei costretto a pentirti di quella manifestazione e ad adirarti teco stesso perché non hai celato con ogni mezzo possibile la tua colpa. Ma nel Sacramento della penitenza invece tu dovresti adirarti quando non ti fossi manifestato del tutto, perché è allora appunto che non saresti stato perdonato; ma quando tu hai rivelato con pentimento tutto che di grave pesava sull’anima tua ed hai inteso a dirti: « Va in pace, i tuoi peccati ti sono stati rimessi; » allora tu sei stato perdonato davvero, il peccato è stato tolto e per sempre dall’anima tua. E tu lo puoi ritenere con certezza, ne puoi essere sicuro: perciocché Gesù Cristo ben riconoscendo come la nostra natura sensibile avrebbe anche in questo caso, come in molti altri, avuto bisogno di una prova esterna e sensibile della certezza del perdono, non ha voluto che la confessione consista soltanto nella manifestazione delle nostre colpe fatta a Dio direttamente nell’interno del nostro cuore, perché Iddio che non si vede e che non si manifesta, come ci avrebbe assicurati del perdono! come ci avrebbe accertati che i gemiti e le lacrime delle nostre contrizioni sono state da lui bene accolte! ed in questa formidabile incertezza, quale angoscia non avrebbe continuato a tormentare l’anima nostra? Ma Gesù Cristo volle invece che la confessione si facesse esternamente al sacerdote, perché egli pronunziando sopra di noi in modo esteriore ed efficace la sentenza del perdono; per l’immenso potere conferitogli, noi ci intendessimo come a dire da Dio in modo sensibile: « Ora non aver più alcun timore; come il mio Sacerdote ti ha perdonato, così ti ho perdonato Io; la mia giustizia non richiede più nulla al di là delle condizioni e delle soddisfazioni che egli giustamente ha creduto di importi; le mie braccia sono aperte, vieni pure che io ti stringa al mio cuore e ti stampi in fronte il bacio del perdono. » Ah! ricevere il perdono da Dio delle nostre colpe ed esserne moralmente sicuri, ecco ciò che nella confessione ci ridona la pace e la felicità. Ed è allora che sebbene ci rimanga in fondo al cuore un dispiacere tranquillo d’aver offeso Iddio, ci alziamo tuttavia dal tribunale di penitenza liberi e leggeri come se avessimo deposto il più pesante fardello, e raggianti della contentezza e della gioia viva. O anime penitenti, che qui siete ad ascoltarmi, ditemi in verità, quando un dì, tocche dalla grazia di Dio, conosciuta la deformità orribile della vostra vita disordinata e piena di afflizioni, pentite sinceramente delle vostre colpe, andaste a deporlo in un seno sacerdotale e sentiste, mercé l’assoluzione, grondare su di voi il Sangue di Gesù Cristo a lavarvi e perdonarvi, avete voi mai trovato dei momenti più deliziosi, avete voi mai gustata una felicità così grande? È bensì vero adunque che come nel prendere la medicina non si può non sentire qualche po’ di disgusto, e nel manifestare altrui anche spontaneamente la propria reità non si può non provare una qualche ripugnanza, così nel valersi della confessione sacramentale non è possibile non sottostare a una certa qual pena. Ma come le nausee che prova il inalato sotto l’azione del farmaco si mutano presto in calma ed in gioia, e come la manifestazione della propria colpevolezza non lascia di recare qualche sollievo, così non appena nella Confessione l’uomo peccatore si sbarazza dei peccati che terribilmente lo travagliano, la pace, quel dono così prezioso e così stimabile, che supera tutti i godimenti materiali e senza della quale i godimenti materiali valgono nulla, entra come fiume impetuoso e benefico a rallegrare il cuor dell’uomo e a ridonargli quella felicità che nella sicurezza del perdono e del possesso della grazia di Dio produce una beatitudine, che è saggio ed anticipazione della beatitudine celeste. Or bene, o miei cari, da tutto ciò non è manifesto quanto fu grande la bontà di Gesù Cristo nel metter fuori dalla ferita del suo Cuor Divino il Sacramento della penitenza, Sacramento sì conformo all’umana natura?II. — Ma questa bontà risplende ancora per ben altri lati. Tutti gli uomini che vengono al mondo, senza eccezione di sorta, sono tutti destinati al cielo, e a raggiungere questa sublime destinazione non si frappone che un ostacolo, il peccato. Quaggiù la povertà, l’infermità, la deformità della persona, la bassezza dei natali, la miseria ed altre cause ancora possono proibirci l’entrata in molti luoghi ed in molti convegni, ma tutto ciò non c’impedirà di entrare in cielo, ci potrà anzi servire di raccomandazione per entrarvi; solo la colpa, nient’altro che la colpa ci può escludere e per sempre da quel beato regno. Che gran ventura adunque è per noi, quando avendo sgraziatamente commesso la colpa potremo convenientemente espiarla, ed espiandola cancellarla dall’anima nostra, e cancellandola renderci degni di bel nuovo della nostra eterna destinazione! Or ecco qui, dove per un altro lato risplende la bontà e l’amore del Cuore di Gesù Cristo per noi nell’avere dato la Confessione, poiché per essa ci diede il mezzo più acconcio ad espiare degnamente le colpe nostre. – Ed in vero, il principio di ogni peccato, come dice la Sacra Scrittura, è la superbia: initium onmis peccati superbia. (Eccl, x, 14) Non vi ha peccato alcuno nel quale l’uomo, che lo commette, non si levi orgoglioso contro di Dio, suo Creatore, suo sovrano e suo padre per dirgli: Non serviam; non ti voglio servire. Inoltre ogni peccato che comincia dalla superbia va a finire nel godimento materiale di qualche miserabile e fuggevole soddisfazione dei sensi. Questo è lo spaventevole mistero del peccato. Se adunque il peccato è orgoglio e soddisfazione dei sensi, con quali mezzi potrà e dovrà essere espiato? Non altrimenti che dai suoi contrari, vale a dire dall’umiliazione dello spirito e dal castigo dei sensi. Non altrimenti, no, perché la divina giustizia, che non può venir meno neppure per la divina misericordia, a perdonare il peccatore non può non esigere che egli si umilii e si castighi. Vi ha bisogno adunque che l’azione orgogliosa e piacevole ai sensi, quale fu il peccato, sia degnamente riparata da un’azione umiliante ed affliggente. E quale sarà quest’azione? Un rande filosofo cristiano ha scritto che « la coscienza universale riconosce nella confessione spontanea una forza espiatrice ed un merito di grazia, e che su questo punto non v’è che un sentimento, dalla madre, che interroga il suo fanciullo sopra un vaso rotto o sopra qualche ghiottoneria mangiata contro il divieto, al giudice, che interroga il ladro e l’assassino. » (DE MAISTRE. Del Papa, lib. III, c. 4) Sì, tutti riconoscono che il perdono non si ha da concedere se non a chi essendo pentito del male commesso, incomincia dal confessarlo e dal credersi degno di essere punito. La confessione adunque, la manifestazione spontanea delle nostre colpe, la disposizione ad espiarla con la debita penitenza, ecco l‘azione umiliante ed affliggente cui dobbiamo sottostare per essere perdonati da Dio. Ma perché questa manifestazione sia umiliante davvero a chi dovremo farla noi? Sì, io lo so, non mancano certi spiriti ignoranti e superbi che vanno dicendo: « Non potrebbe forse Iddio contentarsi che noi manifestassimo a Lui le nostre colpe, e che con Lui solo, senza bisogno di ricorrere ad altri, regolassimo le nostre partite? » Ma ciò, o miei cari, non sarebbe abbastanza conforme alla divina maestà oltraggiata, perché non vi sarebbe in noi un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato. Ed in vero che cosa ci costerebbe pentirci in segreto ed in segreto confessarci a Dio solo? Nulla, menoche nulla. E Dio, che odia il peccato di un odio essenziale, Dio che rifulge per la sua santità e per la sua giustizia, avrebbe a contentarsi di questa umiliazione da nulla perdarci il suo perdono? Ed in questa umiliazione che è già nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio soltanto potrebbe ben parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza intestare e fuggire per l’avvenire. Occorre adunque che questa manifestazione, benché non in pubblico, per non violentare soverchiamente la nostra natura, sia fatta tuttavia apertamente ad un uomo, rappresentante di Dio e suo ministro, affinché noi che in nessun’altra guisa maggiormente ci umiliamo che facendo palese ad un altro uomo la nostra miseria, quella miseria che più d’ogni altra ci degrada e ci avvilisce, in questa umiliazione così profonda veniamo meglio a conoscere e riparare l’orgoglio che vi fu nel peccato e l’oltraggio che per esso facemmo al nostro Dio, e maggiormente lo detestiamo; ed in questa umiliazione che ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte dinnanzi ad un altro uomo e sottostare alle penitenze che egli crede di imporci, veniamo meglio a punire ed espiare la soddisfazione colpevole che si presero i nostri sensi peccando. La confessione adunque, la manifestazione delle nostre colpe al sacerdote sia pur umiliante, come si deve concedere, è pur tuttavia il mezzo più semplice, più proprio, più naturale di togliere da noi il peccato, di riconciliarci con Dio e di riguadagnare i diritti alla nostra eterna destinazione; e lo è appunto perché tanto ci umilia. Sì, perché tanto costa all’uomo scoprire tutta la malizia e la bruttura del suo cuore ad un altro uomo che la ignora, tanto più che satana, come dice S. Giovanni Crisostomo, ingrandisce fuor di misura la ripugnanza per la confessione, rendendoci tanto timidi e vergognosi a manifestare le colpe quanto ci aveva fatti arditi e sfacciati a commetterle, e persino a vantarcene all’altrui presenza, perché noi sacrifichiamo in tal guisa il nostro orgoglio, perciò noi siamo da Dio perdonati. Questa confusione che noi subiamo, questa vergogna, alla quale noi volontariamente ci sottomettiamo, è una vergogna ed una confusione salutare, che ci apporta la grazia di Dio e ci rende atti alla gloria del cielo: Est confusio adducens gloriavi et gratiam. (Eccl. IV) Certamente, o miei cari, non è questa nostra umiliazione per sé sola che adegui la malizia della colpa e ce ne ottenga il perdono. Quando tutti gli uomini si riducessero in polvere, non si umilierebbero abbastanza dinanzi a Dio, né gli darebbero il compenso degna di una sola colpa grave. Ciò che propriamente adegua gravezza infinita dei nostri peccati è l’umiliazione infinita cui volle assoggettarsi per noi Gesù Cristo coi misteri ineffabili della sua Incarnazione, Passione e Morte. Ed è propriamente solo per i meriti infiniti acquistati da Gesù Cristo che noi dobbiamo confidare di essere perdonati da Dio delle nostre colpe. Ma è pur sempre vero che alle umiliazioni ed ai patimenti di Gesù Cristo bisogna aggiungere le umiliazioni ed i patimenti nostri, essendo questo l’unico mezzo di renderci partecipi de’ suoi meriti infiniti. Ed è vero perciò ci la confusione e la vergogna nostra nella confessione, impregnata della umiliazione infinita di Gesù Cristo, è quella che ci placa la collera divina, appaga la divina giustizia, ci riamica con Dio e ci riapre le porte del cielo. Ecco adunque come 1° confessione, che per questo lato non sembra altro che la conseguenza della divina giustizia, è ad un tempo l’espressione più viva della divina misericordia, perciocché mentre per essa paghiamo alla divina giustizia in modo acconcio il nostro debito, conseguiamo altresì più prestamente, più sicuramente, più efficacemente la divina misericordia. Ecco come Gesù Cristo, cavando fuori dalla ferita del Cuor suo Sacratissimo la Confessione, dandoci in essa il miglior mezzo per riparare il peccato, ci ha dato altresì una delle prove più belle, più grandi e più vere della sua bontà e del suo amore per noi. Egli ha fatto qui come il padre che, amando sinceramente il figlio, lo umilia e lo percuote per i suoi mancamenti, non già per la gioia crudele di vederlo umiliato e percosso, ma perché, subendo il figlio il meritato castigo, ei possa avere di nuovo la consolazione di stringerlo al suo cuore paterno e reintegrarlo in tutti i diritti della sua eredita.
III. — Finalmente, o miei cari, la bontà infinita del Cuore di Gesù nell’averci dato la Confessione si rivela ancora perciò che in essa ci ha dato il gran mezzo per rinnovare e perfezionare l’individuo e con l’individuo la società. La legge cristiana è per eccellenza legge di perfezione: essa si ritrova e si compendia in quella gran parola di Gesù: Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste: Estote per/ecti, sicut perfectus est Pater vester, qui in cœlis est. Ma questa legge, che Gesù Cristo ha emanato con tanta chiarezza non è altro in fondo in fondo che la legge di natura che Egli ha stampato sopra di ogni essere. Noi adunque siamo tenuti alla perfezione, e non solo alla perfezione materiale ed intellettuale, ma molto più alla perfezione spirituale, in quanto che signore e sovrano di tutto il nostro essere è lo spirito. E questo spirito non altrimenti si perfeziona che adornandolo di quelle virtù le quali consistono nell’abitudine di evitare il male e di fare il bene, anzi il maggior bene possibile. Ma a compiere quest’opera di morale perfezionamento, basterà egli l’uomo da sé? No, senza dubbio: Egli abbisogna dell’aiuto della grazia di Dio, aiuto però che Iddio all’uomo non lascia mancar mai. E questo aiuto, di cui tuttavia per regola ordinaria Iddio vuol essere richiesto, o che non concede se non in premio di qualche merito, è quello pure che dà all’uomo in modo sovrabbondante nella confessione, essendo la confessione ancor essa una di quelle fonti salutari, di cui parlava il Profeta quando ci assicurava che con gaudio avremmo attinto le acque della grazia alle fonti del Salvatore: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Ed in vero non è propriamente la confessione quella che anzi tutto rinnova l’uomo colpevole? Ecco lì un povero peccatore gravato di ogni iniquità: la sua anima dinnanzi agli occhi di Dio, a cagione della sua bruttezza è divenuta oggetto di nausea e di schifo; essa ha perduto il bell’ornamento della grazia e con esso tutti i meriti delle opere buone già compiute; è scaduta dal diritto del cielo ed è precipitata nel potere di satana. Ma questo povero peccatore, tocco della grazia di Dio, va a gettarsi ai piedi del suo ministro, col pentimento sincero delle sue colpe gliene fa l’umile confessione, il sacerdote, fremendo in spirito di sua indegnità, alza la mano grondante il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo e pronuncia le parole dell’assoluzione. Ed ecco l’anima di quel Cristiano tutto ad un tratto ripigliare la sua bellezza ed il suo splendore, essere riadorna della grazia di Dio e riacquistare tutti i meriti perduti, rompere le catene della schiavitù infernale per rientrare nella libertà dei figliuoli di Dio, diventare di nuovo amica di Dio, degli Angeli e dei Santi, e riavere tutti i diritti alla beatitudine del cielo. Ah dite, si può immaginare una rinnovazione più bella, più grande, più ammirabile di questa? – Tuttavia non è questa rinnovazione soltanto che avviene nel Sacramento della penitenza, perciocché in questo Sacramento non vi è soltanto il pentimento e la manifestazione delle colpe per parte del penitente, e l’assoluzione per parte del Confessore, ma vi ha ancora l’ammaestramento individuale del legge cristiana, delle virtù e dei doveri propri ad ogni stato particolare. Sì, è vero, noi possiamo bene essere ammaestrati intorno agli obblighi della nostra fede da queste cattedre pubbliche di verità, dove i Sacerdoti parlano pur sempre a noi di Dio, ma per regola ordinaria da queste cattedre pubbliche non siamo ammaestrati che in modo generale e sopra i doveri comuni a tutti i fedeli. Lì invece nel Sacramento della penitenza, il Sacerdote, dopo che il impenitente gli ha manifesta le sue colpe e dopo che egli stesso, se l’ha creduto necessario si è fatto a scrutarne le cause e le occasioni, che fa egli ancora? Si fa ad illuminarlo con la luce delle sue acconce riflessioni, delle sue giuste ammonizioni, dei suoi santi consigli. E così a ciascuno in particolare addita la via da tenere, i pericoli da fuggire, le speciali virtù da praticare e i mezzi da adoperare. E così ancora il sacerdote, questo amico che ama sinceramente il bene di ogni anima, questo amico che non tollera ma compisce, che non adula ma incoraggia, che non scusa ma corregge, che non nasconde insomma la verità, ma la dice con un amore divino, intende non solo a rinnovare, ma ad abbellire e perfezionare le anime di coloro che si confessano. E difatti dopo gli ammaestramenti di questo amico così affezionato così sincero, quali meraviglie non si vedono? Senza dubbio, non tutti quelli che si confessano, sia perché non tutti si confessano come dovrebbero, e sia anche perché la confessione non rende impeccabili, vanno realmente operando in se stessi la loro perfezione, ma egli è certo tuttavia che se vi hanno dei giorni che si mantengono casti in mezzo ai più sfrenati eccitamenti di corruzione, delle fanciulle che resistono innocenti alle seduzioni del mondo, delle donne che compiono con nobiltà i loro doveri di spose e di madri cristiane, degli uomini che sono onesti nel vero senso della parola, che sono umili, pazienti, caritatevoli, generosi; se vi hanno anzi di coloro che nell’uno e nell’altro sesso avendo rinunciato alla propria volontà, ai propri averi, alle proprie famiglie, se ne vivono appartati dal mondo attendendo unicamente a rendersi veramente perfetti secondo il consiglio di Gesù Cristo, no, non li troverete altrimenti se non tra coloro che si confessano. Quelli che non usano della confessione o per essere acattolici o per essere Cristiani indifferenti e cattivi potranno bene farvisi innanzi ammantati della virtù, ma voi non penerete a riconoscere che la loro virtù vana ed apparente, è una virtù superba e sterile, o tutt’al più una virtù puramente umana, che non varrà mai a sollevarli una linea al di sopra di loro stessi e meno ancora ad inspirare in essi l’energia per rinnegare se stessi ed immolarsi a prò degli altri. – Ma nel mentre la confessione rinnova e perfeziona l’individuo che ne usa, tende altresì a rinnovare e perfezionare la società istessa. Perciocché la società non è essa forse l’aggregato di individui? Se per ragione adunque della confessione la società ha nel suo seno degli individui che operano il bene e vivono virtuosamente, non ne risentirà ancor essa il benefico influsso? Se» anzi vi fosse una società, i cui individui tutti si confessassero frequentemente e bene, non si potrebbe credere di vedere in essa una società perfetta? Sì, senza alcun dubbio; e in tale società per il rispetto all’autorità ed alla proprietà, per la carità vicendevole, che vi regnerebbe, tornerebbero inutili i gendarmi e si potrebbero diroccare le prigioni. Certamente i poteri umani con le leggi che emanano e con le punizioni che infliggono ai loro trasgressori, riescono fino a un certo punto a impedire e menomare i delitti. Bla niuno è che non vegga quanto numerosi e quanto gravi altresì siano i delitti che o per una o per altra ragione riescono a sfuggire all’azione delle leggi e delle punizioni. E così quella società che, pure arma ed impiega una metà di se stessa a governare l’altra metà, non riesce ancora a tener lontane da sé le invasioni della colpa e del disordine. Ma a ciò, cui non varrebbe neppure la società intera armata e spiegata contro di un solo individuo, perché questo solo individuo potrebbe se non altro covare in cuore mille iniqui pensieri contro la società, senza che essa li conoscesse, a ciò basterebbe la confessione, quella confessione in cui si raccomanda all’individuo di essere buono e virtuoso non solo per sé, ma ancora per la famiglia e per la società, quella confessione in cui si ingiungono non solo le virtù private, ma anche le virtù sociali e pubbliche, vale ai dire il rispetto ad ogni autorità costituita, il riguardo all’altrui proprietà, la restituzione del mal tolto, il perdono delle offese, il soffocamento dell’odio, la distruzione dell’egoismo, l’esercizio della carità, l’orrore per il vizio e la conseguente abolizione del libertinaggio. Tale sarebbe il benefizio che alla società renderebbe la confessione se fosse universalmente usata; tale è il benefizio che essa rende secondo la misura con cui è praticata; tale e mille volte più grande, perciocché quei sacerdoti, quei frati e quelle suore, che il mondo ingrato disprezza e tollera in pace perché non riesce a distruggerli, ma che pure lavorano indefessamente a bene della società, curandone tutte le piaghe, confortandola ne’ suoi bisogni e nelle sue infermità, accorrendo a soccorrerla nelle sue calamità e sempre istruendone i figli ignoranti, assistendo negli ospedali i suoi infermi, accogliendo negli ospizi i suoi orfani e i suoi vecchi, usando verso di essi le cure più affettuose e materne, questi uomini religiosi, dico, sono uomini tutti sostenuti, incoraggiati, rafforzati nella loro vita di sacrifizio per una società, benanco sconoscente, dalla voce di Dio che per il tramite del sacerdote ascoltano nella confessione. O vantaggi! o benefizi di questa divina istituzione! E chi mai riflettendovi alquanto non vede risplendere in essa tutta la bontà, tutto l’amore del Cuore di Gesù Cristo per gli uomini, e non vorrà corrispondere ad amore così grande col valersi sempre e bene di un tanto Sacramento? E come mai si potranno ancora comprendere coloro (e il loro numero è grande), che credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Gesù Cristo per risuscitarci, quando siamo morti alla vita eterna, amano meglio rimanere e sprofondarsi nelle tenebre, anziché ricorrere a questo rimedio infallibile, che hanno tra mano? Che dire di coloro che pur accostandosi a questo rimedio, lo convertono in fatale veleno col non portarvi la umiliazione dovuta, il dolor vero dell’animo, il proposito fermo di non cader più in peccato, col tacere volontariamente dei gravi peccati, la cui manifestazione è assolutamente indispensabile? Che dire soprattutto di quegl’insensati, i quali, invece di cadere in ginocchio davanti a questo capolavoro della divina clemenza, innanzi a questo frutto sempre duraturo della Passione di Gesù Cristo, si sollevano per esso a deridere, a bestemmiare, a calunniare la Chiesa, ad insultare, a vilipendere, ad odiare il sacerdozio? Ah! certamente non sarà così almeno di alcuno di noi, devoti del Sacro Cuore di Gesù! Sì, o Gesù clementissimo, noi apprezzeremo, esalteremo, benediremo mai sempre una prova sì grande del vostro amore. Sì, noi verremo ogni qual volta ne saremo in bisogno a questa fonte di misericordia e di salute che avete fatto zampillare dal vostro Cuore ferito. Noi ci verremo con la dovuta umiltà, con la dovuta sincerità, col dovuto pentimento delle nostre colpe. E voi, o pietosissimo Samaritano, degnatevi per mezzo di questo Sacramento di versare sempre copioso il balsamo della vostra grazia sopra le piaghe dell’anima nostra, di medicarle, di guarirle perché sani di mente e di cuore possiamo darci interamente al vostro servizio ed al vostro amore.