I PAPI DELLE CATACOMBE (5)

I Papi delle Catacombe [5]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Quinta persecuzione (anno 199).

Il regno di Commodo (dal 180 al 192) fu un periodo di tranquillità relativa per il Cristianesimo. C’è da stupirsene, quando si pensa che questo figlio di Marco Aurelio era un mostro di dissolutezza e di crudeltà. Questo imperatore romano aveva dei divertimenti singolari. Egli faceva abbigliare da giganti e da mostri mendicanti e storpi; poi li abbatteva egli stesso a colpi di bastone, e si faceva nominare l’Ercole romano. Un giorno incontrò un uomo di taglia straordinaria: lo tagliò in due per provare la sua forza e per gioire del piacere di vedere spargere le viscere della vittima. L’incesto ed i crimini più abominevoli infestavano allora il suo palazzo; ma una donna, di nome Marcia, che stimava i Cristiani, alla quale Commodo accordò onori da imperatrice, addolcì il “mostro” riguardo ai fedeli, procurando così qualche anno di tregua alla Chiesa. Numerose conversioni segnalarono questo breve periodo di pace; la più celebre è quella di un senatore di nome Apollonio, che fu denunciato da uno dei suoi schiavi. Una legge aveva proibito di accusare i Cristiani come tali e il delatore fu condannato a morte. Ma la decisione data da Traiano a Plinio era sempre in vigore; una volta denunciato, il Cristiano non poteva evitare una condanna se non apostatando. -Apollonio, per decisione dei senatori, ebbe la testa tagliata, dopo aver confessato la sua fede in pieno senato. Commodo angustiava l’impero con le sue stravaganze e le sue crudeltà. Egli aveva deciso ad esempio di far uccidere i due consoli da una schiera di gladiatori. La viglia del giorno fissato per questa cruenta follia, fu strangolato però dalla sua concubina principale e dai due prefetti del pretorio. I soldati affidarono poi l’impero ad un vecchio generale, di nome Pertinace, dal quale si staccarono in capo a tre mesi, perché era troppo severo. Allora essi offrirono la corona a chi potesse dar loro più denaro: costui fu un certo Didio Giuliano, che era così ricco da comprare l’impero; ma i soldati non lo trovarono così generoso; ben presto lo si depose e lo si portò al supplizio. Tre generali si disputarono in seguito il potere. Settimio Severo ebbe la meglio sui competitori e regnò dal 193 al 211. Egli si mostrò all’inizio molto favorevole ai Cristiani ed affidando addirittura l’educazione dei suoi figli ad uno di essi chiamato Proculo. Ma queste buone disposizioni non durarono a lungo; egli lanciò un nuovo editto di persecuzione, ed i supplizi ricominciarono particolarmente presso i Galli, in Italia, in Egitto e nell’Africa settentrionale, che i Romani chiamavano la provincia d’Africa. A Cartagine, il proconsole Saturnino aveva già fatto morire san Sperato e i suoi compagni, chiamati: “dodici martiri scillitani”, perché erano di Scillite, piccola città di provincia. Uno dei suoi successori fece dei martiri ancora più illustri, come nella persona di Santa Perpetua e santa Felicita, il cui glorioso combattimento meritò loro di avere i nomi inseriti nel Canone della Messa. Perpetua non aveva che 22 anni; aveva un bambino al seno; suo padre e sua madre vivevano ancora; suo padre era pagano, si pensa che la madre fosse cristiana. Felicita era una schiava cristiana; ella era allora incinta. Con esse venne arrestato Revocato, che era schiavo con Felicita, Saturnino, Saturo e Secondulo. Santa Perpetua scrisse ella stessa gli atti del suo martirio fino alla vigilia della sua morte. Bisogna leggere questi atti, scritti da una giovane donna, madre di famiglia, di nobile nascita, cara ai suoi, alla quale nulla mancava per essere felice nel mondo, e che si vide separata da suo padre, da sua madre, dal suo sposo, dal figlioletto, per essere divorata dalle bestie sotto gli sguardi di tutto il popolo. Ella vede il suo vecchio padre che l’ama e che l’ama con tenerezza, baciarle le mani, gettarsi ai suoi piedi per convincerla a farle dire una parola che la salvasse; ella compatisce il dolo di questo padre e lo consola, ma non dirà la parola, perché questa parola sarebbe stata una menzogna, ed ella scrive tutto ciò alla vigilia del suo supplizio, con un candore, una calma sovrumana. « No, esclama a questo proposito uno storico, questa pace che l’uomo non saprebbe dire, e neanche concepire, Dio solo la può dare. » [Rohrbacher]. La sola vera Religione, aggiungeremmo noi, può presentare tali meraviglie. Ma ascoltiamo santa Perpetua: « Noi eravamo nelle mani dei nostri persecutori, quando mio padre, spinto dalla tenerezza che aveva per me, venne a tentare nuovi sforzi per vincere la mia costanza. Poiché egli continuava, io gli dissi: “Questo vaso che vedete a terra, può cambiare nome? – No assolutamente, mi rispose. – Così, gli replicai, io non posso dirmi altra cosa che io non sia, cioè Cristiana.” A queste parole mio padre si gettò su di me come se volesse strapparmi gli occhi; ma si contentò di maltrattarmi, e si ritirò poi tutto confuso per non aver potuto vincere la mia risoluzione con tutti gli artifici che il demonio gli aveva suggerito. Essendo stata qualche giorno senza rivederlo, resi grazie a Dio e mi trovai risollevata. E fu in questo intervallo di tempo che fummo battezzati [Perpetua e Revocato non erano ancora che dei catecumeni]. Io non domandai nient’altro all’uscita dall’acqua, se non la pazienza nelle pene corporali. – « Pochi giorni dopo, mi si gettò in una prigione; ne fui affranta, perché non avevo mai visto tali tenebre. Giornata dura! Un calore soffocante a causa della folla; i soldati ci spingevano ed io morivo di inquietudine per mio figlio che non avevo con me. Allora i beati diaconi Terzio e Pomponio che ci assistevano ottennero, dietro ricompensa in denaro, che ci fosse permesso di uscire e passare qualche ora in un luogo più comodo della prigione. Profittammo di questa situazione vantaggiosa per allattare il mio bambino, lo raccomandai a mia madre; rinvigorii mio fratello; fui affranta dal dolore nel vedere le sofferenze che provocavo loro. Passai dei giorni nella più crudele delle pene; ma avendo ottenuto che mi si lasciasse mio figlio nella prigione, mi tranquillizzai completamente, e la prigione mi sembrò un gradevole soggiorno, tanto che amavo meglio essere lì che altrove … Si era così sparsa la voce che noi dovevamo essere interrogati, e mio padre venne a trovarmi, tutto affranto dalla tristezza; e mi diceva: « Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi, abbi pietà di me! Se io sono degno di essere chiamato tuo padre, se ti ho allevata fino a questa età, se ti ho preferita ai tuoi fratelli, non mi rendere l’obbrobrio degli uomini. Guarda tua madre, considera che tuo figlio che non potrà vivere dopo di te … abbandona questa ostinazione per non perderci tutti, perché nessuno di noi oserà più apparire in pubblico, se vieni condannata al supplizio. » E parlando così, mio padre mi baciava le mani e poi, gettandosi ai miei piedi, piangeva, non mi chiamava più sua figlia, ma sua “dama”. Ed io lo compiangevo, vedendo che della mia famiglia era il solo a non gioire del mio martirio. Per consolarlo gli dicevo: « Sarà quel che a Dio piacerà, perché sapete che noi non siamo in nostro potere, ma nel suo. » Egli se ne andò tutto rattristato. L’indomani, come già sapevamo, ci vennero a cercare per l’interrogatorio. La voce si sparse in tutti i quartieri vicini, ed una folla di popolo prese posto in tribunale. Gli altri subirono l’interrogatorio e confessarono generosamente Gesù-Cristo. Quando arrivò il mio turno, mio padre si avvicinò a me tenendo in braccio mio figlio dicendo: « Abbiate pietà di vostro figlio. » Il procuratore Ilariano mi disse dal suo canto: « Risparmiate la vecchiaia di vostro padre; risparmiate l’infanzia di vostro figlio. Sacrificate agli dei, per la prosperità dell’imperatore. – Io non sacrificherò risposi. – Siete dunque Cristiana? Mi disse. – Si, io sono cristiana. » E mio padre si sforzava di portarmi via dal tribunale. Ilariano diede ordine di allontanarlo, ed il littore gli diede un colpo di frusta. Io avvertii questo colpo come se fossi stata colpita io stessa, tanto soffrivo nel vedere insultare a causa mia, i capelli bianchi di mio padre. Allora Ilariano pronunciò la sentenza del nostro arresto, e ci condannò tutti ad essere dati alle belve. Noi tornammo pieni di gioia in prigione. Appena rientrata, inviai il diacono Pomponio a richiedere mio figlio a mio padre che non volle mandarmelo. Ma Dio permise che il bambino non chiedesse più di succhiare e che il mio latte non gli servisse più … – « Avvicinandosi il giorno destinato agli spettacoli (ed al martirio), mio padre ritornò a trovarmi. Era in uno stato di depressione inesprimibile: si strappava la barba, si prostrava con la faccia a terra, malediceva la sua vecchiaia, diceva cose capaci di smuovere tutte le creature. Io morivo di dolore nel vederlo in questo stato … la vigilia dello spettacolo, ebbi una visione che mi fece comprendere che io non combattevo contro le bestie, ma contro il demonio, e così mi assicuravo la vittoria. Questo è quanto ho fatto fino alla vigilia degli spettacoli; qualcun altro scriverà ciò che sta per succedere. » Così finisce la relazione di Santa Perpetua. Secondulo morì nella prigione. Felicita era incinta di otto mesi; ella si affliggeva nel timore che il suo martirio fosse differito, perché la legge proibiva di mettere a morte le donne incinte. I santi confessori si misero in preghiera, ed ottennero che fosse proposta la liberazione di Felicita. Ella mise al mondo una figlia che una donna cristiana allevò come figli propria. La vigilia del combattimento si diede ai confessori, secondo il costume, l’ultimo cibo che si chiamava appunto l’ultimo pasto e che si faceva in pubblico. I cristiani ebbero in questa occasione il permesso di entrare nella prigione il cui guardiano, chiamato Pudente, si era convertito. Quest’ultimo festino fu un’agape; i martiri profittarono del concorso che si faceva intorno ad essi per pregare ancora una volta Gesù-Cristo: “ … e che! Disse Saturo alla folla, il giorno di domani non sarà sufficiente a soddisfare la vostra curiosità? Oggi voi sembrate aver pietà di noi, e domani applaudirete alla nostra morte. Tuttavia, guardate bene i nostri volti, per riconoscerci nel terribile giorno del giudizio. » Il giorno dopo essi si recarono all’anfiteatro come se andassero al cielo. Il loro viso irradiava ina gioia ineffabile. Arrivata alla porta, si voleva far prendere agli uomini la veste dei sacerdoti di Saturno, ed alle donne la striscia che portavano le sacerdotesse di Ceres. I martiri rifiutarono questi indumenti di idolatria: « Noi non siamo qui, dissero, per conservare la nostra libertà; noi abbiamo sacrificato la nostra vita per non fare nulla di simile; e siamo convenuti quì. » A questo punto li si lasciò tranquilli. Iniziò il combattimento: si diedero Saturnino e Revocato in pasto ad un leopardo e ad un orso che li colpì ma senza ucciderli; il convittore li colpì più tardi. Saturo fu esposto ad un cinghiale che uccise il cacciatore e rispettò il martire; lo si espose poi ad un leopardo, che con un sol colpo di denti lo abbatté bagnandolo nel suo sangue. Perpetua e Felicita furono spogliate e messe in delle reti, per essere esposte ad una vacca furiosa. Il popolo stesso si rivoltò a questa raffinata crudeltà, e si rivestirono le generose donne di abiti fluttuanti. La vacca si gettò dapprima su Perpetua, la lanciò in aria e la lasciò ricadere sul dorso. Perpetua si sedette; rimise in ordine i suoi vestiti e raccolse i suoi capelli disordinati per non sembrare in lutto, e vedendo Felicita tutta accasciata per una caduta simile alla sua, le tese la mano e l’aiutò a sollevarsi. Entrambe stavano in piedi approssimandosi un nuovo combattimento; ma il popolo vinto da tanto coraggio e dolcezza non volle che le si esponessero una seconda volta. Richiamate qualche momento dopo per ricevere l’ultimo colpo, esse ritornarono con gioia. Felicita cadde per l’azione di un convittore maldestro che le fece gettare un grido di dolore; Perpetua condusse ella stessa alla sua gola la mano tramante del carnefice. L’Egitto aveva i suoi martiri come la provincia d’Africa: i Cristiani vi furono perseguitati con estremo rigore; fu allora che S. Leonida, padre di Origene, morì per Gesù-Cristo. – In Gallia, sant’Ireneo seguiva il suo maestro San Potino. Si contarono a Lione quasi ventimila martiri. Quanto a Settimo Severo, la mano di Dio si appesantì su di lui come sugli altri persecutori della Chiesa: suo figlio Caracalla aveva tentato di ucciderlo; impegnato in una guerra ai Calcedoniensi (in Scozia), egli si sottopose a tante fatiche che lo resero malato; la gotta lo tormentava, ed una sedizione venne ad aumentarne le sofferenze tanto che volle abbreviarle avvelenandosi; ma poiché gli si rifiutava del veleno, mangiò avidamente cibi indigesti tanto da morirne, nella città di York. Una delle sue ultime parole fu: « Io sono stato tutto e ora niente mi serve! » Esclamazione di disperazione che dipinge in modo vivo la vanità della potenza di questo imperatore, nemico degli uomini e di Dio.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI GNOSTICI DI TORNO: DIVINI ILLIUS MAGISTRI

“DIVINI ILLIUS MAGISTRI”

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

PIO PP. XI

SULLA EDUCAZIONE CRISTIANA

DELLA GIOVENTÙ

Questa Enciclica rappresenta un manifesto basilare del pensiero della Santa Madre Chiesa circa il tema dell’educazione cristiana dei fanciulli e della gioventù. Si tratta di un documento che nell’epoca attuale assume un carattere particolarmente illuminante, in pieno contrasto con le idee pedagogiche moderne e moderniste, di stampo ideologico natural-massonico, frutto marcio del pensiero gnostico anticristiano, che ha assunto oggi una particolare aggressività con l’ateismo panteista e naturalistico, con la luciferina ideologia gender e la precoce educazione sessuale, addirittura anticipata all’età della scuola primaria, il tutto con l’incoraggiamento più o meno manifesto, della setta dominante del satanico “novus ordo” masso-modernista, di quelli cioè  che si pretendono cattolici, ma non lo sono, perchè appartengono alla “sinagoga di satana”. Tutta la materna saggezza della Chiesa si riflette in questo documento che andrebbe “centellinato” ed applicato praticamente nei dettagli per riportare la gioventù, e quindi la società tutta del futuro, nell’alveo di una sana normalità apportatrice di benessere spirituale e di pace sociale, potendosi in tal modo perseguire con successo l’obiettivo principale della vita dell’uomo: la savezza eterna dell’anima e la sue perenne felicità. La lettura è impegnativa ma è raccomandata a tutti gli educatori, ai genitori preoccupati della vita spirituale dei loro figli, ai giovani studenti, quelli seri e motivati nello sviluppo essenziale del loro spirito, oltre che dello scibile umano da acquisire secondo verità e giustizia. DIVINI ILLIUS MAGISTRI vices in terris gerentes …

“Rappresentanti in terra di quel Divino Maestro il quale, pure abbracciando nella immensità del Suo amore gli uomini tutti, anche peccatori e indegni, mostrò tuttavia di prediligere con una tenerezza specialissima i fanciulli e si espresse in quelle parole tanto commoventi: “Lasciate che i pargoli vengano a me” (Marc. X, 14), abbiamo anche Noi in tutte le occasioni cercato di mostrare la predilezione tutta paterna che loro portiamo, particolarmente nelle cure assidue e negli insegnamenti opportuni che toccano l’educazione cristiana della gioventù. – Così, facendoCi eco del Divino Maestro, abbiamo rivolto la parola salutare, ora dell’ammonimento ora dell’esortazione ora della direzione, ai giovani e agli educatori, ai padri e alle madri di famiglia, su vari punti dell’educazione cristiana, con quella sollecitudine che si conviene al Padre comune di tutti i fedeli, e con quella insistenza opportuna ed importuna che spetta all’ufficio pastorale, inculcata dall’Apostolo: “Insisti a tempo opportuno e anche non opportuno; riprendi, esorta, sgrida, con grande pazienza e dottrina” (II Tim. IV, 2): insistenza richiesta dai tempi nostri, nei quali purtroppo si deplora una sì grande mancanza di chiari e sani principi anche circa i problemi più fondamentali. – Ma la stessa accennata condizione generale dei tempi, l’attuale vario agitarsi del problema scolastico e pedagogico nei vari paesi e il conseguente desiderio manifestatoCi con filiale confidenza da molti di voi e dei vostri fedeli, Venerabili Fratelli, e l’affetto Nostro tanto intenso, come dicemmo, verso la gioventù. Ci muovono a tornare più di proposito sull’argomento, se non per trattarlo in tutta la sua quasi inesauribile ampiezza di dottrina e di pratica, almeno per riassumerne i principi supremi, metterne in piena luce le precipue conclusioni e additarne le pratiche applicazioni. – Sia questo il ricordo, che del Nostro giubileo sacerdotale, con intenzione ed affetto tutto particolare, dedichiamo alla cara gioventù. e raccomandiamo a quanti hanno missione e dovere di occuparsi della sua educazione. – In verità, non mai come ai tempi presenti si è ragionato tanto di educazione; onde si moltiplicano i maestri di nuove teorie pedagogiche, si escogitano, si propongono e discutono metodi e mezzi, non solo a facilitare, ma a creare una educazione nuova di infallibile efficacia, la quale valga a formare le nuove generazioni per l’agognata felicità su questa terra. – Gli è che gli uomini, da Dio creati a Sua immagine e somiglianza, ed a Lui, perfezione infinita, destinati, come avvertono più che mai, nell’abbondanza del progresso materiale odierno, l’insufficienza dei beni terrestri per la vera felicità degli individui e dei popoli, così sentono più vivo in sé lo stimolo verso una perfezione più alta, inserito nella loro stessa natura ragionevole dal Creatore, e vogliono conseguirla principalmente con l’educazione. Se non che, molti di essi, quasi insistendo di soverchio nel senso etimologico della parola, pretendono estrarla dalla medesima natura umana ed attuarla con le sole sue forze. In ciò errano facilmente, giacché, invece di dirigere la mira a Dio, primo principio e ultimo fine di tutto l’universo, si ripiegano e giacciono su, se stessi, attaccandosi esclusivamente alle cose terrestri e temporanee; sicché continua ed incessante sarà la loro agitazione fino a quando non rivolgano gli occhi e l’opera all’unica meta della perfezione, Dio, secondo la profonda sentenza di Sant’Agostino: “Ci creasti, o Signore, per Te e inquieto è il cuor nostro fino a quando in Te non si riposi” (Confess. 1, 1). – E’ dunque di suprema importanza non errare nell’educazione, e non errare nella direzione verso il fine ultimo con il quale tutta l’opera dell’educazione è intimamente e necessariamente connessa. Infatti, poiché l’educazione consiste essenzialmente nella formazione dell’uomo, quale egli deve essere e come deve comportarsi in questa vita terrena per conseguire il fine sublime per il quale fu creato, è chiaro che, come non può darsi vera educazione che non sia tutta ordinata al fine ultimo, così, nell’ordine presente della Provvidenza, dopo cioè che Dio ci si è rivelato nel Figlio Suo Unigenito, che solo è “via e verità e vita”, non può darsi adeguata e perfetta educazione all’infuori dell’educazione cristiana. – Onde si manifesta l’importanza suprema dell’educazione cristiana, non soltanto per i singoli individui, ma per le famiglie e per tutta quanta la umana convivenza, giacché la perfezione di questa non può non risultare dalla perfezione degli elementi che la compongono. E similmente, dai principi accennati si fa chiara e manifesta l’eccellenza, si può ben dire insuperabile, dell’opera dell’educazione cristiana, come quella che mira in ultima analisi ad assicurare il Sommo Bene, Dio, alle anime degli educandi, ed il massimo di benessere possibile in questa terra all’umana convivenza. E ciò nel modo più efficace che sia possibile da parte dell’uomo, nel cooperare cioè con Dio al perfezionamento degli individui e della società, in quanto l’educazione imprime agli animi la prima, la più potente e la più duratura direzione nella vita, secondo la notissima sentenza del Savio: “Il giovanetto, secondo la via che ha presa, anche quando sarà invecchiato non se ne scosterà” (Prov. 1 , 6). Diceva perciò con ragione San Giovanni Crisostomo: “Che v’ha di più grande se non governare gli animi, se non formare i costumi dei giovanetti?” (Hom. 60, in c. 18 Matt.). – Ma non vi ha parola che ci riveli la grandezza, la bellezza ed eccellenza soprannaturale dell’opera dell’educazione cristiana, quanto la sublime espressione d’amore con la quale Gesù Signor nostro, identificandosi con i fanciulli, dichiara: “Chi avrà ricevuto uno di questi piccoli in nome mio, riceve me” (Mar. IX, 37). – Per non errare in quest’opera di somma importanza e per condurla nel modo migliore che sia possibile, con l’aiuto della grazia divina, è necessario avere un’idea chiara ed esatta dell’educazione cristiana nelle sue ragioni essenziali, e cioè: a chi spetta la missione di educare, quale è il soggetto dell’educazione, quali le circostanze necessarie dell’ambiente, quali il fine e la norma propria dell’educazione cristiana, secondo l’ordine stabilito da Dio nell’economia della Sua Provvidenza. – L’educazione è opera necessariamente sociale, non solitaria. Ora tre sono le società necessarie, distinte e pur armonicamente congiunte da Dio, in seno alle quali nasce l’uomo; due società di ordine naturale, quali sono la famiglia e la società civile; la terza, la Chiesa, di ordine soprannaturale. Dapprima la famiglia, istituita immediatamente da Dio al fine Suo proprio, che è la procreazione ed educazione della prole, la quale perciò ha priorità di natura, e quindi una priorità di diritti, rispetto alla società civile. Nondimeno la famiglia è società imperfetta, perché non ha in sé tutti i mezzi per il proprio perfezionamento, laddove la società civile è società perfetta, avendo in sé tutti i mezzi necessari al fine; onde, per questo rispetto, cioè in ordine al bene comune, essa ha preminenza sulla famiglia, la quale raggiunge appunto nella società civile la sua conveniente perfezione temporale. – La terza società, nella quale l’uomo nasce, mediante il Battesimo, alla vita divina della Grazia, è la Chiesa, società di ordine soprannaturale e universale, società perfetta, perché ha in sé tutti i mezzi ordinati al suo fine, che è la salvezza eterna degli uomini, e pertanto suprema nel suo ordine. – Per conseguenza l’educazione, la quale riguarda tutto l’uomo individualmente e socialmente, nell’ordine della natura e in quello della grazia, appartiene a tutte e tre queste società necessarie, in misura proporzionata, corrispondente, secondo il presente ordine di provvidenza stabilito da Dio, alla coordinazione dei loro rispettivi fini. – E dapprima, essa appartiene in modo sopraeminente alla Chiesa, per due titoli di Ordine soprannaturale da Dio stesso ad essa esclusivamente conferiti e perciò assolutamente superiori a qualsiasi altro titolo di ordine naturale. – Il primo sta nella espressa missione ed autorità suprema di magistero datale dal suo Divin Fondatore: “Ogni potere è stato dato a me in cielo e in terra. Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo; insegnando loro ad osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mat. XXVIII, 18-20). Al quale Magistero è stata da Cristo conferita l’infallibilità insieme col mandato d’insegnare la Sua dottrina; onde la Chiesa “fu costituita dal divino suo Autore colonna e fondamento della verità, affinché insegni agli uomini la fede divina, ne custodisca integro e inviolato il deposito affidatole, e diriga ed informi gli uomini e le loro consociazioni ed azioni ad onestà di costumi ed integrità di vita, a norma della dottrina rivelata” (Pio IX, Ep. Cum non sine, 14-7-1864). – Il secondo titolo è la Maternità soprannaturale onde la Chiesa, Sposa immacolata di Cristo, genera, nutre ed educa le anime nella vita divina della grazia con i suoi Sacramenti e il suo insegnamento. Perciò a buon diritto afferma Sant’Agostino: “Non avrà Dio per padre, chi avrà rifiutato di avere la Chiesa per madre” (De Symb, ad catech., XIII). – Pertanto, nell’oggetto proprio della sua missione educativa, cioè “nella fede e nella istituzione dei costumi, Dio stesso ha fatto la Chiesa partecipe del divino magistero e, per beneficio divino, immune da errore; ond’è degli uomini maestra suprema e sicurissima, e le è insito l’inviolabile diritto a libertà di magistero” (Enc. Libertas, 20 giugno 1888). Per necessaria conseguenza, la Chiesa è indipendente da qualsiasi potestà terrena, come nell’origine così nell’esercizio della sua missione educativa, non solo rispetto al suo oggetto proprio, ma anche rispetto ai mezzi necessari e convenienti per adempirla. Quindi, rispetto ad ogni altra disciplina ed insegnamento umano, che in sé considerato è patrimonio di tutti, individui e società, la Chiesa ha diritto indipendente di usare e principalmente di giudicare quanto possa esser giovevole o contrario all’educazione cristiana. E ciò, sia perché la Chiesa, come società perfetta, ha diritto indipendente sui mezzi rispondenti al suo fine, sia perché ogni insegnamento, al pari di ogni azione umana, ha necessaria relazione di dipendenza dal fine ultimo dell’uomo,- e però non può sottrarsi alle norme della legge divina, di cui la Chiesa è custode, interprete e maestra infallibile. – Il che, con perspicua sentenza, dichiara Pio X di santa memoria: “Qualunque cosa faccia il cristiano, anche nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali, ché anzi deve secondo gli insegnamenti della cristiana sapienza dirigere tutte quante le cose al bene supremo come ad ultimo fine; tutte le sue azioni inoltre, in quanto sono buone o cattive in ordine ai costumi, ossia in quanto convengono o meno con il diritto naturale e divino, sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa” (Enc. Singulari quadam, 24 settembre 1912). – Ed è degno di nota come abbia saputo bene intendere ed esprimere questa dottrina cattolica fondamentale un laico, mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore: “La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei, ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale, ha anzi riprovata quest’opinione più d’una volta, perché è comparsa in più d’una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che per l’istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inammissibilmente l’intera verità morale (omnem veritatem) nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese, tanto quelle che l’uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa” (A. Manzoni, Osservazioni sulla Morale Cattolica, c. III). – Adunque, di pieno diritto la Chiesa promuove le lettere, le scienze e le arti, in quanto necessarie o giovevoli all’educazione cristiana, oltre che a tutta la sua opera per la salvezza delle anime, anche fondando e mantenendo scuole ed istituzioni proprie in ogni disciplina e in ogni grado di cultura (Codex Iuris Canonici, c. 1375). Né è da stimarsi estranea al suo magistero materno la stessa educazione fisica, come la chiamano, appunto perché anch’essa ha ragione di mezzo che può giovare o nuocere all’educazione cristiana. – E quest’opera della Chiesa in ogni genere di cultura, come è d’immenso giovamento alle famiglie e alle nazioni che senza Cristo si perdono – come giustamente riflette Sant’Ilario: “Cosa v’ha di più pericoloso per il mondo che non accogliere Cristo?” (Commentar. in Matth., cap. 18) – così non reca il minimo inconveniente agli ordinamenti civili, perché la Chiesa, nella sua prudenza materna, non si oppone a che le sue scuole ed istituzioni educative per i laici si uniformino, in ciascuna nazione, alle legittime disposizioni dell’autorità civile, ed è pronta in ogni modo ad – accordarsi con questa, e a provvedere di comune intesa, dove sorgessero difficoltà. – Inoltre, è diritto inalienabile della Chiesa, e insieme suo dovere indispensabile, vigilare tutta l’educazione dei suoi figli, i fedeli, in qualsiasi istituzione pubblica o privata, non soltanto rispetto all’insegnamento religioso ivi impartito, ma per ogni altra disciplina e per ogni ordinamento, in quanto abbiano relazione con la religione e la morale (Codex I. C. cc. 1381-1382). – Né l’esercizio di questo diritto potrà stimarsi ingerenza indebita, ma preziosa provvidenza materna della Chiesa, nel tutelare i suoi figli dai gravi pericoli di ogni veleno dottrinale e morale. Ed anche questa vigilanza della Chiesa, come non può creare nessun vero inconveniente, così non può non recare efficace giovamento all’ordine, al benessere delle famiglie e della società civile, tenendo lontano dalla gioventù quel veleno morale, che in quell’età inesperta e volubile suole avere più facile presa e più rapida estensione nella pratica, giacché senza la retta istituzione religiosa e morale – come sapientemente avverte Leone XIII – “malsana, sarà ogni coltura degli animi; i giovinetti non abituati al rispetto di Dio non potranno sopportare alcuna disciplina di onesto vivere, e usi a non negare mai niente alle loro cupidigie, facilmente saranno indotti a sconvolgere gli Stati” (Ep. Nobilissima Gallorum Gens, 8-2-1884). – Quanto all’estensione della missione educativa della Chiesa, essa si allarga su tutte le genti senza limitazioni, secondo il mandato di Cristo: “Ammaestrate tutte le genti” (Matth. XXVIII, 19); né vi ha potestà terrena che possa legittimamente contrastarla o impedirla. E dapprima si estende su tutti i fedeli, dei quali essa ha sollecita cura come tenerissima Madre. E perciò per essi ha in tutti i secoli creato e promosso una moltitudine ingente di scuole ed istituzioni in ogni ramo di sapere; poiché – come dicemmo in una recente occasione – “fino in quel lontano medioevo, nel quale erano così numerosi (qualcuno ha voluto dire fin troppo numerosi) i monasteri, i conventi, le chiese, le collegiate, ì Capitoli cattedrali e non cattedrali, presso ognuna di queste istituzioni era un focolare scolastico, un focolare di istruzione e di educazione cristiana. Ed a tutto ciò bisogna aggiungere le Università, sparse in ogni paese e sempre per iniziativa e sotto la guardia della Santa Sede e della Chiesa. Quello spettacolo magnifico che ora vediamo meglio, perché è più vicino a noi e in condizioni più grandiose, come portano le condizioni del secolo, fu lo spettacolo di tutti i tempi, e coloro che studiano e confrontano gli avvenimenti restano meravigliati di quello che la Chiesa ha saputo fare in questo ordine di cose, meravigliati del modo col quale la Chiesa ha saputo corrispondere a quella missione che Iddio le affidava, di educare le generazioni umane alla vita cristiana, e raggiungere tanti magnifici frutti e risultati. Ma se desta meraviglia che la Chiesa in ogni tempo abbia saputo raccogliere intorno a sé centinaia e migliaia e milioni di allievi della sua missione educatrice, non minore è quella che vi deve colpire, quando si riflette a quello che ha saputo fare, non solo nel campo della educazione, ma anche in quello della istruzione vera e propria. Poiché, se tanti tesori di cultura, di civiltà, di letteratura si sono potuti conservare, si debbono a quell’atteggiamento per il quale la Chiesa, anche nei più lontani e barbari tempi, ha saputo far brillare tanta luce nel campo delle lettere, della filosofia, dell’arte e particolarmente dell’architettura” (Discorso agli alunni del Collegio di Mondragone, 1929). – E tanto ha saputo fare la Chiesa, perché la sua missione educativa si estende anche ai non fedeli, essendo tutti gli uomini chiamati ad entrare nel Regno di Dio ed a conseguire l’eterna salvezza. Come ai nostri giorni, in cui le sue Missioni spargono a migliaia le scuole in tutte le regioni e paesi non ancora cristiani, dalle due rive del Gange al Fiume Giallo e alle grandi isole ed arcipelaghi dell’Oceano, dal Continente Nero alla Terra del Fuoco e alla gelida Alaska, così in tutti i tempi la Chiesa con i suoi missionari ha educato alla vita cristiana e alla civiltà le diverse genti che ora costituiscono le nazioni cristiane del mondo civile. – Laonde resta con evidenza assodato, come di diritto e ancora di fatto appartenga in modo sopraeminente alla Chiesa la missione educativa, e come ad ogni intelletto scevro da pregiudizi non sia concepibile alcun motivo ragionevole di contrastare o impedire alla Chiesa quella stessa opera, della quale ora il mondo gode i benefici frutti. – Molto più che con tale sopraeminenza della Chiesa, non solo non sono in opposizione, ma sono anzi in perfetta armonia i diritti della famiglia e dello Stato, e anche i diritti dei singoli individui rispetto alla giusta libertà della scienza, dei metodi scientifici e di ogni cultura profana in generale. Giacché, per indicare subito la ragione fondamentale di siffatta armonia, l’ordine soprannaturale, al quale appartengono i diritti della Chiesa, non solo non di strugge né menoma l’ordine naturale, al quale appartengono gli altri diritti menzionati, ma anzi lo eleva e lo perfeziona, ed ambedue gli ordini si prestano mutuo aiuto e quasi complemento rispettivamente proporzionato alla natura e dignità di ciascuno appunto perché entrambi procedono da Dio, il quale non si può contraddire: “Le opere di Dio sono perfette, tutte le sue vie son giustizia” (Deut. 32, 4). – Il che si vedrà più chiaramente, considerando, a parte e più da presso, la missione educativa della famiglia e dello Stato. – In primo luogo, con la missione educativa della Chiesa concorda mirabilmente la missione educativa della famiglia, poiché entrambe procedono da Dio, in modo assai somigliante. Infatti alla famiglia, nell’ordine naturale, Iddio comunica immediatamente la fecondità, principio di vita e quindi principio di educazione alla vita, insieme con l’autorità, principio di ordine.

Dice l’Angelico Dottore, con la sua consueta nitidezza di pensiero e precisione di stile: “Il padre carnale partecipa in modo particolare alla ragione di principio, la quale in modo universale si trova in Dio… Il padre è principio della generazione, dell’educazione, della disciplina e di tutto ciò che si riferisce al perfezionamento della vita umana” (S. Thom. II-II, Q. CII, a. 1). – La famiglia ha dunque immediatamente dal Creatore la missione e quindi il diritto di educare la prole: diritto inalienabile, perché inseparabilmente congiunto con lo stretto obbligo; diritto anteriore a qualsiasi diritto della società civile e dello Stato, e quindi inviolabile da parte di ogni potestà terrena. – Quanto alla inviolabilità di questo diritto, ne dà ragione l’Angelico: “Il figlio infatti naturalmente è qualche cosa del padre… onde è di diritto naturale che il figlio, avanti l’uso di ragione, sia sotto la cura del padre. Sarebbe pertanto andar contro la giustizia naturale, se il fanciullo avanti l’uso di ragione fosse sottratto alla cura dei genitori, o di lui in qualche modo si disponesse contro la volontà dei genitori” (S. Thom. II-II, Q, X, a. 12). E poiché l’obbligo della cura dei parenti continua sino a quando la prole sia in grado di provvedere a se stessa, perdura anche il medesimo inviolabile diritto educativo dei genitori: “Poiché la natura non intende soltanto la generazione della prole, ma anche il suo svilupparsi e progredire fino al perfetto stato dell’uomo in quanto è -uomo, cioè lo stato di virtù”, dice il medesimo Angelico Dottore (Suppl. S. Thom. 3 p., Q. XLI, a. 1). – Pertanto la sapienza giuridica della Chiesa così si esprime in questo argomento, con precisione e chiarezza comprensiva, nel Codice di Diritto Canonico, al Can. 1113: “I genitori sono gravemente obbligati a curare a tutto potere l’educazione sia religiosa e morale che fisica e civile della prole, e della prole stessa provvedere anche al bene temporale”. – Su questo punto è talmente concorde il senso comune del genere umano, da mettere in aperta contraddizione con esso quanti osassero sostenere che la prole, prima che alla famiglia, appartenga allo Stato, e che lo Stato abbia sulla educazione diritto assoluto. Insussistente è poi la ragione, che costoro adducono, l’uomo nascere cittadino e perciò appartenere primariamente allo Stato, non riflettendo che, prima di essere cittadino, l’uomo deve esistere, e l’esistenza non l’ha dallo Stato, ma dai parenti; come sapientemente dichiara Leone XIII: “I figli sono qualche cosa del padre, e della persona paterna come un’estensione; e se vogliamo parlare con esattezza, non essi per se medesimi, ma attraverso la comunità domestica nella quale sono stati generati entrano a far parte della civile società” (Enc. Rerum Novarum, 15-5-1891). Pertanto: “La patria potestà è di tale natura che non può essere né soppressa né assorbita dallo Stato, perché ha il medesimo comune principio con la vita stessa dell’umanità”, dice nella medesima Enciclica Leone XIII. Dal che però non segue che il diritto educativo dei genitori sia assoluto e dispotico, poiché è inseparabilmente subordinato al fine ultimo e alla legge naturale e divina, come dichiara lo stesso Leone XIII, nell’altra sua memorabile Enciclica “Dei principali doveri dei cittadini cristiani”, dove così espone in compendio la somma dei diritti e doveri dei parenti: “Da natura i genitori hanno il diritto della formazione dei figli, con questo dovere in più, che e l’educazione e l’istruzione del fanciullo s’accordino col fine, in grazia del quale, per beneficio di Dio, hanno avuto la prole… Debbono per tanto i genitori sforzarsi ed energicamente insistere per impedire in questa materia ogni attentato, e in modo assoluto assicurare che a loro rimanga il potere di educare come si deve cristianamente i figli, e massimamente di negarli a quelle scuole nelle quali v’è pericolo che bevano il tristo veleno dell’empietà” (Enc. Sapientiae Christianae, 10-1-1890). – Si ponga poi mente che l’obbligo educativo della famiglia comprende non soltanto l’educazione religiosa e morale, ma altresì la fisica e la civile (Cod. D. C. c. 1113), principalmente in quanto hanno relazione con la religione e la morale. – Tale diritto incontrastabile della famiglia è stato varie volte riconosciuto giuridicamente presso nazioni nelle quali si ha cura di rispettare il diritto naturale negli ordinamenti civili. Così, per citare un esempio tra i più recenti, la Corte Suprema della Repubblica Federale degli Stati Uniti dell’America settentrionale, nella decisione di una importantissima controversia, dichiarò: “Non compete allo Stato nessuna potestà generale di stabilire un tipo uniforme di educazione per la gioventù, costringendola a ricevere l’istruzione soltanto dalle scuole pubbliche “, soggiungendone la ragione di diritto naturale, ” Il fanciullo non è una mera creatura dello Stato: quelli che lo allevano e lo dirigono hanno il diritto, congiunto con l’altro dovere, di educarlo e prepararlo all’adempimento dei suoi doveri” (U. S. Supreme Court Decision in the Oregon School Cases, jeune, 1, 1925). – La storia è testimone come, segnatamente nei tempi moderni, sì sia data e si dia da parte dello Stato violazione dei diritti conferiti dal Creatore alla famiglia, laddove essa dimostra splendidamente come la Chiesa li ha sempre tutelati e difesi; e la miglior prova di fatto sta nella fiducia speciale delle famiglie verso le scuole della Chiesa, come scrivemmo nella recente Nostra lettera al Cardinale Segretario di Stato: “La famiglia si è subito accorta che è così, e dai primi giorni del Cristianesimo fino ai giorni nostri, padri e madri, anche se poco o nulla credenti, mandano e portano i loro figli agli istituti educativi fondati e diretti dalla Chiesa” (Lettera al Cardinale Segretario di Stato, 30-5-1929). – Gli è che l’istinto paterno, che viene da Dio, si orienta con fiducia verso la Chiesa, sicuro di trovarvi la tutela dei diritti della famiglia: insomma quella concordia che Dio ha posto nell’ordine delle cose. La Chiesa infatti, quantunque, conscia com’è della sua divina missione universale e dell’obbligo che tutti gli uomini hanno dì seguire l’unica vera religione, non si stanchi di rivendicare a sé il diritto di ricordare ai genitori il dovere di far battezzare ed educare cristianamente i figli di parenti cattolici, è però tanto gelosa della inviolabilità del diritto naturale educativo della famiglia, che non consente, se non sotto determinate condizioni e cautele, di battezzare i figli degli infedeli, o comunque disporre della loro educazione contro la volontà dei genitori sino a quando i figli si possano determinare da sé abbracciando liberamente la fede (Cod. D. C., e. 750, par. 2; S. Thom. II-II, Q. X, a. 12). – Abbiamo pertanto, come rilevammo nel citato Nostro discorso, due fatti di altissima importanza: “la Chiesa che mette a disposizione delle famiglie il suo ufficio di maestra e di educatrice; le famiglie che corrono a profittarne e danno alla Chiesa a centinaia, a migliaia i loro figli. E questi due fatti richiamano e proclamano una grande verità, importantissima nell’ordine morale e sociale. Essi dicono che la missione dell’educazione spetta innanzi tutto, soprattutto, in primo luogo alla Chiesa e alla Famiglia, spetta a loro per diritto naturale e divino, e perciò in modo inderogabile, ineluttabile, insurrogabile” (Discorso agli alunni del Collegio di Mondragone, 14-5-1929). – Da tale primato della missione educativa della Chiesa e della famiglia siccome grandissimi vantaggi, come abbiamo veduto, provengono a tutta la società, così nessun danno può venire ai veri e propri diritti dello Stato rispetto all’educazione dei cittadini secondo l’ordine da Dio stabilito. – Questi diritti sono partecipati alla società civile dall’Autore stesso della natura, non per titolo di paternità, come alla Chiesa e alla famiglia, ma bensì per l’autorità che ad essa compete per il promovimento del bene comune temporale, che è appunto il fine suo proprio. Per conseguenza l’educazione non può appartenere alla società civile nel medesimo modo in cui appartiene alla Chiesa e alla famiglia, ma in modo diverso, corrispondente al suo fine proprio. – Ora questo fine, il bene comune di ordine temporale, consiste nella pace e sicurezza, onde le famiglie e i singoli cittadini godono nell’esercizio dei loro diritti, e insieme nel maggior benessere spirituale e materiale che sia possibile nella vita presente, mediante l’unione e il coordinamento dell’opera di tutti. Duplice è dunque la funzione dell’autorità civile, che risiede nello Stato: proteggere e promuovere, non già assorbire, la famiglia e l’individuo, o sostituirsi ad essi. – Pertanto, in ordine all’educazione, è diritto, o per dir meglio, dovere dello Stato proteggere nelle sue leggi il diritto anteriore – che abbiamo sopra descritto – della famiglia sull’educazione cristiana della prole; e, per conseguenza, rispettare il diritto soprannaturale della Chiesa su tale educazione cristiana. – Similmente spetta allo Stato proteggere il medesimo diritto della prole, quando venisse a mancare fisicamente o moralmente l’opera dei genitori, per difetto, incapacità o indegnità, giacché il loro diritto educativo, come sopra dichiarammo, non è assoluto o dispotico, ma dipendente dalla legge naturale e divina, e perciò sottoposto all’autorità e giudizio della Chiesa, ed altresì alla vigilanza e tutela giuridica dello Stato in ordine al bene comune; inoltre la famiglia non è una società perfetta che abbia in sé tutti i mezzi necessari al suo perfezionamento. Nel quale caso, eccezionale del resto, lo Stato non si sostituisce già alla famiglia, ma supplisce al difetto e provvede, con mezzi acconci, sempre in conformità con i diritti naturali della prole e i diritti soprannaturali della Chiesa. – In generale poi, è diritto e dovere dello Stato proteggere, secondo le norme della retta ragione e della Fede, l’educazione morale e religiosa della gioventù, rimovendone le cause pubbliche ad essa contrarie. – Principalmente appartiene allo Stato, in ordine al bene comune, promuovere in molti modi la stessa educazione ed istruzione della gioventù. – Dapprima e per sé, favorendo ed aiutando l’iniziativa e l’opera della Chiesa e delle famiglie, la quale quanto sia efficace, vien dimostrato dalla storia e dall’esperienza. Di poi, completando questa opera, dove essa non arriva o non basta, anche per mezzo di scuole ed istituzioni proprie, perché lo Stato più di chiunque altro è provveduto dei mezzi, che sono messi a sua disposizione per la necessità di tutti, ed è giusto che li adoperi a vantaggio di quelli stessi dai quali essi vengono (Discorso agli alunni del Collegio di Mondragone, 14 maggio 1929). – Inoltre lo Stato può esigere e quindi procurare che tutti ì cittadini abbiano la necessaria conoscenza dei loro doveri civili e nazionali, e un certo grado di cultura intellettuale, morale e fisica, che, attese le condizioni dei nostri tempi, sia veramente richiesto dal bene comune. – Tuttavia, è chiaro che in tutti questi modi di promuovere l’educazione e l’istruzione pubblica e privata lo Stato deve rispettare i diritti nativi della Chiesa e della famiglia sull’educazione cristiana, oltre che osservare la giustizia distributiva. Pertanto, è ingiusto ed illecito ogni monopolio educativo o scolastico che costringa fisicamente e moralmente le famiglie a frequentare le scuole dello Stato contro gli obblighi della coscienza cristiana o anche contro le loro legittime preferenze. – Ciò però non toglie che per la retta amministrazione della cosa pubblica e per la difesa interna ed esterna della pace, cose tanto necessarie al bene comune e che richiedono speciali attitudini e speciale preparazione, lo Stato si riservi l’istituzione e la direzione di scuole preparatorie ad alcuni suoi dicasteri e segnatamente alla milizia, purché abbia cura di non ledere i diritti della Chiesa e della famiglia in quello che loro spetta. Non è inutile ripetere qui in particolare questa avvertenza, perché ai tempi nostri (in cui va diffondendosi un nazionalismo quanto esagerato e falso, altrettanto nemico di vera pace e prosperità) si sogliono eccedere i giusti limiti nell’ordinare militarmente l’educazione così detta fisica e dei giovani (e talora anche delle giovinette, contro la natura stessa delle cose umane), spesso ancora invadendo oltre misura, nel giorno del Signore, il tempo che deve restare dedicato ai doveri religiosi, e al santuario della vita familiare. Non vogliamo del resto biasimare quello che vi può essere di buono nello spirito di disciplina e di legittimo ardimento in siffatti metodi, ma soltanto ogni eccesso, quale, per esempio, lo spirito di violenza, che non è da scambiare con lo spirito di fortezza né con il nobile sentimento del valore militare in difesa della patria e dell’ordine pubblico; quale ancora l’esaltazione dell’atletismo, che della vera educazione fisica, anche per l’età classica pagana, segnò la degenerazione e la decadenza. In generale poi, non solo per la gioventù ma per tutte le età e condizioni, appartiene alla società civile, allo Stato, l’educazione che può chiamarsi civica, la quale consiste nell’arte di presentare pubblicamente agli individui associati tali oggetti di cognizione ragionevole, d’immaginazione, di sensazione, che invitino le volontà all’onesto e ve lo inducano per una morale necessità; sia nella parte positiva che presenta tali obietti, sia nella negativa che impedisce i contrari (P. L. Taparelli, Saggio teoretico di Diritto Naturale, n. 922: opera non mai abbastanza lodata e raccomandata allo studio dei giovani universitari; cfr. discorso Nostro del 18-12-1927). La quale educazione civica, talmente ampia e molteplice da comprendere quasi tutta l’opera dello Stato per il bene comune, come deve essere informata alle norme della rettitudine, così non può contraddire alla dottrina della Chiesa, che di queste norme è Maestra divinamente costituita. – Tutto ciò che abbiamo detto finora intorno all’opera dello Stato in ordine all’educazione, riposa sul fondamento saldissimo ed immutabile della dottrina cattolica de Civitatum constitutione christiana, così egregiamente esposta dal Nostro Predecessore Leone XIII, segnatamente nelle Encicliche Immortale Dei e Sapientiæ christianæ, e cioè: “Dio ha diviso fra due potestà il governo del genere umano, l’ecclesiastica cioè e la civile, preposta l’una alle cose divine, l’altra alle umane. Ambedue supreme, ciascuna nel suo ordine; l’una e l’altra hanno confini determinati che la contengono, segnati dalla natura propria e dal fine prossimo di ciascuna; di modo che viene a descriversi come una sfera dentro la quale svolgersi con esclusivo diritto l’azione di ciascuna. Ma poiché all’una ed all’altra potestà sottostanno gli stessi sudditi, potendo accadere che la stessa materia, per quanto sotto aspetti diversi, spetti alla competenza e al giudizio di ciascuna d’esse, deve Dio Provvidentissimo, da cui ambedue promanano, aver segnato con retto ordine a ciascuna le sue. Le potestà che sono, sono da Dio ordinate” (Enc. Immortale Dei). – Ora l’educazione della gioventù è appunto una di tali cose, che appartengono alla Chiesa e allo Stato “benché in modo diverso”, come abbiamo sopra esposto. “Deve dunque – prosegue Leone XIII – fra le due potestà regnare una ordinata armonia, la quale coordinazione non a torto viene paragonata a quella per cui l’anima e il corpo nell’uomo sì associano. Quale e quanta essa sia, non si può altrimenti giudicare se non riflettendo, come dicemmo, alla natura di ciascuna d’esse con riguardo alla eccellenza e nobiltà del fine; essendo all’una prossimamente e propriamente demandato di curare l’utile delle cose mortali, all’altra invece di procurare i beni Celesti e sempiterni. Tutto ciò pertanto che v’ha nelle cose umane di, in qualche modo, sacro, tutto ciò che si riferisce alla salute delle anime e al culto di Dio, sia esso tale per sua natura o tale si consideri in ragione del fine cui tende, tutto ciò sottostà al potere e alle disposizioni della Chiesa; il resto, che rimane nell’ordine civile e politico, è giusto che dipenda dalla civile autorità, avendo Gesù Cristo comandato di dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” (Enc. Immortale Dei). – Chiunque ricusasse di ammettere questi principi e quindi di applicarli alla educazione, verrebbe necessariamente a negare che Cristo ha fondato la sua Chiesa per la salvezza eterna degli uomini, e a sostenere che la società civile e lo Stato non siano soggetti a Dio e alla sua legge naturale e divina. Il che è evidentemente empio, contrario alla sana ragione e segnatamente, in materia di educazione, estremamente pernicioso alla retta formazione della gioventù e sicuramente rovinoso per la stessa società civile e il vero benessere dell’umana convivenza. Ed al contrario dall’applicazione di questi principi non può non provenire massimo giovamento alla retta formazione dei cittadini. Il che è abbondantemente dimostrato dai fatti in tutte le età; onde come Tertulliano per i primi tempi del Cristianesimo, nel suo Apologetico, così Sant’Agostino per i suoi poteva sfidare tutti gli avversari della Chiesa Cattolica – e Noi, ai Nostri tempi, possiamo ripetere con lui: – “Ebbene, coloro che dicono essere la dottrina di Cristo nemica dello Stato, ci diano un esercito tale come la dottrina di Cristo insegna dover essere i soldati; ci diano tali sudditi, tali mariti, tali coniugi, tali genitori, tali figli, tali padroni, tali servi, tali re, tali giudici, infine tali contribuenti ed esattori del fisco quali comanda di essere la dottrina cristiana, ed osino poi dirla nociva allo Stato: o piuttosto non dubitino un istante di proclamarla, ove la si osservi, la grande salvezza dello Stato” (Ep. 138).

E, trattandosi di educazione, cade qui a proposito far notare come abbia bene espressa questa verità cattolica, confermata dai fatti, per i tempi più recenti nel periodo della Rinascenza, uno scrittore ecclesiastico grandemente benemerito della educazione cristiana, il piissimo e dotto Cardinale Silvio Antoniano discepolo dell’ammirabile educatore che fu San Filippo Neri, maestro e segretario delle lettere latine di San Carlo Borromeo, ad istanza e sotto l’ispirazione del quale scrisse l’aureo trattato Dell’educazione cristiana dei figliuoli, dove egli così ragiona: “Quanto maggiormente il governo temporale coordina se medesimo allo spirituale, e più lo favorisce e lo promuove, tanto più concorre alla conservazione della repubblica. Perciocché mentre il rettore ecclesiastico procura di formare un buon cristiano, con l’autorità e i mezzi spirituali, secondo il fine suo procura insieme per conseguenza necessaria di fare un buon cittadino, quale deve essere sotto il governo politico. Il che avviene, perché nella Santa Chiesa Cattolica Romana, città di Dio, una istessa cosa è assolutamente il buon cittadino e l’uomo dabbene. Laonde grave è l’errore di coloro che disgiungono cose tanto congiunte, e che pensano poter avere buoni cittadini con altre regole, e per altre vie da quelle che contribuiscono a formare il buon cristiano. E dica pure, e discorra la prudenza umana quanto le piace, che non è possibile che produca vera pace, né vera tranquillità temporale, tutto quello che ripugna e che si diparte dalla pace e dall’eterna felicità” (Dell’educazione cristiana, lib. I, c. 43). – Come lo Stato così anche la scienza, il metodo scientifico, la ricerca scientifica, non hanno niente da temere dal pieno e perfetto mandato educativo della Chiesa. Gli istituti cattolici, a qualunque grado appartengano dell’insegnamento e della scienza, non hanno bisogno di apologie. Il favore che godono, le lodi che raccolgono, le produzioni scientifiche che promuovono e moltiplicano, e più che tutto i soggetti pienamente e squisitamente preparati che danno alla magistratura, alle professioni, all’insegnamento, alla vita in tutte le sue esplicazioni, depongono più che sufficientemente in loro favore (Lettera al Card. Segretario di Stato, 30-5-1929). – I quali fatti, del resto, non sono che una splendida conferma della dottrina cattolica, definita dal Concilio Vaticano: “La fede e la ragione non solo non possono mai contraddirsi, ma si prestano reciproco aiuto, perché la retta ragione dimostra le basi della fede e della sua luce illuminata, coltiva la scienza delle cose divine, mentre la fede libera e protegge dagli errori la ragione e l’arricchisce di svariate cognizioni. Onde è così lontana la Chiesa dall’opporsi alla coltura delle arti e delle umane discipline, che in molte maniere l’aiuta e la promuove. Poiché né ignora, né disprezza i vantaggi che da esse provengono alla vita dell’umanità; ripete anzi che esse, come vengono da Dio Signore delle scienze così, se rettamente trattate, a Dio, con la sua grazia, conducono. E per nulla essa vieta che coteste discipline, ciascuna nel suo ambito, usino e di principi propri e di proprio metodo; ma, riconosciuta questa giusta libertà, solertemente provvede a che opponendosi per avventura alla dottrina divina, non cadano in errori, ovvero oltrepassando i propri limiti occupino e sconvolgano il campo della fede” (Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 4). – La quale norma della giusta libertà scientifica è insieme norma inviolabile della giusta libertà didattica o libertà di insegnamento rettamente intesa; e deve essere osservata in qualsiasi comunicazione dottrinale ad altri e, con obbligo assai più grave di giustizia, nell’insegnamento alla gioventù, sia perché su di essa ogni maestro, pubblico o privato, non ha diritto educativo assoluto, ma partecipato, sia perché ogni fanciullo o adolescente cristiano ha stretto diritto all’insegnamento conforme alla dottrina della Chiesa, colonna e fondamento della verità, e gli recherebbe grave torto chiunque turbasse la sua fede, abusando della fiducia dei giovani verso i maestri e della loro naturale inesperienza e disordinata inclinazione a una libertà assoluta, illusoria, falsa. – Non si deve mai perdere di vista che il soggetto dell’educazione cristiana è l’uomo tutto quanto, spirito congiunto al corpo in unità di natura in tutte le sue facoltà, naturali e soprannaturali, quale ce lo fanno conoscere la retta ragione e la Rivelazione: pertanto, l’uomo decaduto dallo stato originario, ma redento da Cristo e reintegrato nella condizione soprannaturale di figlio adottivo di Dio, benché non nei privilegi preternaturali della immortalità del corpo e della integrità o equilibrio delle sue inclinazioni. Restano quindi nella natura umana gli effetti del peccato originale, particolarmente l’indebolimento della volontà e le tendenze disordinate. – “La stoltezza è legata al cuore del fanciullo e la verga della disciplina la scoterà di dosso” (Prov. XXII, 15). Sono dunque da correggere le inclinazioni disordinate, da promuovere e ordinare le buone, fin dalla più tenera infanzia, e soprattutto si deve illuminare l’intelletto e fortificare la volontà con le verità soprannaturali, e i mezzi della grazia, senza i quali non si può né dominare le perverse inclinazioni, né raggiungere la debita perfezione educativa della Chiesa, perfettamente e compiutamente dotata da Cristo della dottrina divina e dei Sacramenti, mezzi efficaci della grazia. – Falso è perciò ogni naturalismo pedagogico, che in qualsiasi modo escluda o menomi la formazione soprannaturale cristiana nell’educazione della gioventù; ed è erroneo ogni metodo di educazione che si fondi, in tutto o in parte, sulla negazione o dimenticanza del peccato originale e della Grazia e quindi sulle sole forze dell’umana natura. Tali sono generalmente quei sistemi odierni di vario nome, che si appellano ad una pretesa autonomia e libertà sconfinata del fanciullo e che sminuiscono o anche sopprimono l’autorità e l’opera dell’educatore, attribuendo al fanciullo un primato esclusivo d’iniziativa ed una attività indipendente da qualsiasi legge superiore naturale e divina, nell’opera della sua educazione. – Se con alcuni di quei termini si volesse indicare, pur impropriamente, la necessità della cooperazione attiva, a grado a grado sempre più consapevole dell’alunno alla sua educazione; se si intendesse rimuovere da questa il dispotismo e la violenza (quale non è, del resto, la giusta correzione), si direbbe il vero, ma nulla affatto di nuovo, che non abbia insegnato la Chiesa ed attuato nella pratica l’educazione cristiana tradizionale, a somiglianza del modo tenuto da Dio stesso rispetto alle creature, ch’Egli chiama alla cooperazione attiva, secondo la natura propria di ciascuna, giacché la Sua Sapienza “si estende con potenza da una estremità all’altra, e tutto governa con bontà” (Sap. VIII, 1). – Ma, purtroppo, col significato ovvio dei termini e col fatto stesso, si intende da non pochi sottrarre l’educazione da ogni dipendenza dalla legge divina. Onde ai nostri giorni sì dà il caso, in verità assai strano, di educatori e filosofi che si affannano alla ricerca di un codice morale universale dell’educazione, quasi non esistesse né il Decalogo, né la legge evangelica, e neanche la legge di natura, scolpita da Dio nel cuore dell’uomo, promulgata dalla retta ragione, codificata, con rivelazione positiva, da Dio stesso nel Decalogo. E similmente, da tali novatori si suole denominare, come per disprezzo, “eterònoma”, “passiva”, “superata”, l’educazione cristiana perché si fonda sull’autorità divina e sulla sua santa legge. – Costoro miseramente si illudono nella pretensione di liberare, come essi dicono, il fanciullo, mentre lo rendono piuttosto schiavo del suo cieco orgoglio e delle sue disordinate passioni, poiché queste, per logica conseguenza di quei falsi sistemi, vengono ad essere giustificate quali legittime esigenze della natura sedicente autonoma. – Ma vi ha ancor peggio, nella pretensione falsa, irriverente e pericolosa, oltre che vana, di voler sottoporre a ricerche, esperimenti e giudizi di ordine naturale e profano, i fatti di ordine soprannaturale concernenti l’educazione, come, ad esempio, la vocazione sacerdotale o religiosa ed in generale le arcane operazioni della Grazia, la quale, pur elevando le forze naturali, le eccede nondimeno infinitamente e non può in nessun modo sottostare alle leggi fisiche, poiché “lo Spirito soffia dove vuole” (Giov. III, 8). – Massimamente pericoloso è poi quel naturalismo, che ai nostri tempi invade il campo dell’educazione in argomento delicatissimo come è quello dell’onestà dei costumi. Assai diffuso è l’errore di coloro che, con pericolosa pretensione e con brutta parola, promuovono una così detta educazione sessuale, falsamente stimando di poter premunire i giovani contro i pericoli del senso con mezzi puramente naturali, quale una temeraria iniziazione ed istruzione preventiva per tutti indistintamente, e anche pubblicamente, e peggio ancora, con l’esporli per tempo alle occasioni, per assuefarli, come essi dicono, e quasi indurirne l’animo contro quei pericoli. – Costoro errano gravemente, non volendo riconoscere la nativa fragilità della natura umana e la legge, di cui parla l’Apostolo, repugnante alla legge della mente (Rom. VII, 23) e misconoscendo anche l’esperienza stessa dei fatti, onde consta che, segnatamente nei giovani, le colpe contro i buoni costumi non sono tanto effetto dell’ignoranza intellettuale quanto principalmente dell’inferma volontà, esposta alle occasioni e non sostenuta dai mezzi della Grazia. – In questo delicatissimo argomento, se, considerate tutte le circostanze, qualche istruzione individuale si rende necessaria, a tempo opportuno, da parte di chi ha da Dio la missione educativa e la grazia di stato, sono da osservare tutte le cautele notissime all’educazione cristiana tradizionale, sufficientemente descritte dal citato Antoniano, là dove dice: “Tale e tanta è la miseria nostra, e l’inclinazione al peccato, che spesse volte dalle medesime cose che si dicono per rimedio dei peccati si prende occasione ed incitamento allo stesso peccato. Pertanto importa sommamente che il buon padre, mentre ragiona col figliuolo di materia così lubrica, stia bene avvertito, e non discenda ai particolari ed ai vari modi, con i quali quest’idra infernale avvelena tanta parte del mondo, acciò non avvenga che invece di estinguere questo fuoco, lo desti e lo accenda imprudentemente nel petto semplice e tenero del fanciullo. Generalmente parlando, mentre ancora continua la fanciullezza, basterà usare quei rimedi che con l’effetto istesso introducono la virtù e chiudono l’ingresso al vizio” (Silvio Antoniano, Dell’educazione cristiana dei figliuoli, lib. Il, c. 88). – Similmente erroneo e pernicioso per l’educazione cristiana è il così detto metodo della “coeducazione” fondato anch’esso, per molti, sul naturalismo negatore del peccato originale, oltre che, per tutti i sostenitori di questo metodo, su una deplorevole confusione di idee che scambia la legittima convivenza umana con la promiscuità ed eguaglianza livellatrice. Il Creatore ha ordinato e disposto la convivenza perfetta dei due sessi soltanto nell’unità del matrimonio, e a grado a grado distinta nella famiglia e nella società. Inoltre, non vi ha nella natura stessa, che li fa diversi nell’organismo, nelle inclinazioni e nelle attitudini, nessun argomento che vi possa o debba essere promiscuità e molto meno eguaglianza di formazione dei due sessi. Questi, conforme agli ammirevoli disegni del Creatore, sono destinati a completarsi reciprocamente nella famiglia e nella società, appunto per la loro diversità, la quale perciò deve essere mantenuta e favorita nella formazione educativa, con la necessaria distinzione e corrispondente separazione, proporzionata alle varie età e circostanze. I quali principi vanno applicati a tempo e a luogo, secondo le norme della prudenza cristiana, a tutte le scuole, segnatamente nel periodo più delicato e decisivo della formazione, qual è quello dell’adolescenza: e nelle esercitazioni ginnastiche e di diporto, con particolare riguardo alla modestia cristiana della gioventù femminile alla quale gravemente disdice ogni esibizione e pubblicità.

Ricordando le tremende parole del Divino Maestro: “Guai al mondo per causa degli scandali!” (Matth. XVIII, 7), stimoliamo vivamente la vostra sollecitudine e vigilanza, Venerabili Fratelli, su questi perniciosissimi errori, che troppo largamente vanno diffondendosi tra il popolo cristiano con immenso danno della gioventù.

Per ottenere un’educazione perfetta è di somma importanza vigilare a che le condizioni di tutto ciò che circonda l’educando, durante il periodo della sua formazione, cioè quel complesso di tutte le circostanze che suole denominarsi “ambiente”, corrisponda bene al fine inteso. . – Primo ambiente naturale e necessario dell’educazione è la famiglia, a ciò appunto destinata dal Creatore. Onde, di regola, l’educazione più efficace e duratura è quella che si riceve in una bene ordinata e disciplinata famiglia cristiana: tanto più efficace quanto più chiaro e costante vi splende il buon esempio dei genitori, sopra tutti, e degli altri domestici. – Non è Nostra intenzione qui trattare di proposito, anche toccando i soli punti principali, dell’educazione domestica, tanto ampia è la materia, sulla quale, del resto, non mancano speciali trattazioni, antiche e moderne, di autori di sana dottrina cattolica, tra cui appare degno di speciale menzione il già ricordato aureo trattato dell’Antoniano: Dell’educazione cristiana dei figliuoli, che San Carlo Borromeo, faceva leggere pubblicamente ai genitori insieme adunati nelle chiese. – Vogliamo però richiamare in modo speciale la vostra attenzione, Venerabili Fratelli e figli diletti, sul lacrimevole scadimento odierno dell’educazione familiare. Agli uffici e alle professioni della vita temporale e terrena, certo di minore importanza, si premettono lunghi studi ed accurata preparazione, laddove all’ufficio e dovere fondamentale dell’educazione dei figli sono oggi poco o punto preparati molti genitori, troppo immersi nelle cure temporali. Ad indebolire l’influenza dell’ambiente familiare si aggiunge oggi il fatto che, quasi dappertutto, si tende ad allontanare sempre più dalla famiglia la fanciullezza sin dai più teneri anni, sotto vari pretesti, siano economici, attinenti all’industria o al commercio, siano politici; e vi è un paese dove si strappano i fanciulli dal seno della famiglia, per formarli (o, per più veramente dire, per deformarli e depravarli), in associazioni e scuole senza Dio, all’irreligiosità e all’odio, secondo le estreme teorie socialiste, rinnovandosi una vera e più orrenda strage degli innocenti. – Scongiuriamo pertanto, nelle viscere di Gesù Cristo, i Pastori delle anime di adoperare ogni mezzo nelle istruzioni e nei catechismi, con la voce e con gli scritti divulgati largamente, per ammonire i genitori cristiani sui loro gravissimi obblighi, e non tanto teoricamente e genericamente, quanto praticamente, sui loro singoli doveri rispetto all’educazione religiosa, morale e civile dei figli e sui metodi più acconci ad attuarla efficacemente, oltre l’esempio della loro vita. A siffatte istruzioni pratiche non disdegnò di scendere l’Apostolo delle genti nelle sue epistole, particolarmente in quella agli Efesi, dove, tra le altre cose, ammonisce: “Padri, non provocate ad ira i vostri figli” (Eph. VI, 4): il che non è tanto effetto dell’eccessiva severità, quanto principalmente dell’impazienza, dell’ignoranza dei modi più acconci alla fruttuosa correzione e anche della ormai troppo comune rilassatezza della disciplina familiare, onde crescono negli adolescenti passioni indomite. Attendano perciò i genitori, e tutti gli educatori con essi, ad usare rettamente dell’autorità loro data da Dio, di cui sono in vero senso vicari non per il proprio comodo, ma per la retta istruzione dei figli nel santo e filiale “timore di Dio principio della sapienza”, sul quale soltanto si fonda solidamente il rispetto all’autorità, senza di cui non può sussistere né ordine, né tranquillità, né benessere alcuno nella famiglia e nella società. – Alla debolezza delle forze dell’umana natura decaduta, la Divina Bontà ha provveduto con gli abbondanti aiuti della Sua Grazia e dei mezzi molteplici, onde è ricca la Chiesa, la grande famiglia di Cristo, la quale è perciò l’ambiente educativo più strettamente ed armoniosamente congiunto con quello della famiglia cristiana. – Il quale ambiente educativo della Chiesa non comprende soltanto i suoi Sacramenti, mezzi divinamente efficaci della Grazia, e i suoi riti, tutti in modo meraviglioso educativi, né solo il recinto materiale del tempio cristiano, pur esso mirabilmente educativo nel linguaggio della liturgia e dell’arte; ma anche la grande copia e varietà di scuole, associazioni ed ogni genere di istituzioni intese a formare la gioventù alla pietà religiosa insieme con lo studio delle lettere e delle scienze, e con la stessa ricreazione e cultura fisica. Ed in questa inesauribile fecondità di opere educative, com’è mirabile la provvidenza materna della Chiesa, altrettanto mirabile è l’armonia sopra accennata, che essa sa mantenere con la famiglia cristiana, tanto da potersi dire con verità che la Chiesa e la famiglia costituiscono un solo tempio dell’educazione cristiana. – E poiché è necessario che le novelle generazioni vengano istruite nelle arti e discipline onde si avvantaggia e prospera la civile convivenza, ed a questa opera è per sé sola insufficiente la famiglia, così nacque l’istituzione sociale della scuola, dapprima, si ponga ben mente, per iniziativa della famiglia e della Chiesa molto tempo innanzi che per opera dello Stato. Laonde la scuola, considerata anche nelle sue origini storiche, è, di sua natura, istituzione sussidiaria e complementare della famiglia e della Chiesa; e pertanto, per logica necessaria morale, deve non soltanto non contraddire, ma positivamente accordarsi con gli altri due ambienti, nell’unità morale più perfetta che sia possibile, tanto da poter costituire, insieme con la famiglia e la Chiesa, un solo santuario, sacro all’educazione cristiana, sotto pena di fallire al suo scopo e di cambiarsi, invece, in opera di distruzione. – E ciò è stato manifestamente riconosciuto anche da un laico, tanto celebrato per i suoi scritti pedagogici (non del tutto encomiabili perché infetti di liberalismo), il quale sentenziò: “La scuola, se non è tempio, è tana”; e inoltre; “Quando l’educazione letteraria, sociale, domestica, religiosa, non s’accordano insieme, l’uomo è infelice, impotente” (Nicolò Tommaseo, Pensieri sull’educazione, Parte 1, 3, 6). – Da ciò appunto consegue, essere contraria ai principi fondamentali dell’educazione la scuola così detta neutra o laica, dalla quale viene esclusa la religione. Una tale scuola, del resto, non è praticamente possibile, giacché nel fatto essa diviene irreligiosa. Non occorre ripetere quanto su questo argomento hanno dichiarato i Nostri Predecessori, segnatamente Pio IX e Leone XIII, nei tempi dei quali particolarmente il laicismo cominciò ad infierire nella scuola pubblica. Noi rinnoviamo e confermiamo le loro dichiarazioni (Pio IX, Ep. Cum non sine, 14-7-1864; Syllabus, Prop. 48; Leone XIII, allocuzione Summi Pontificatus, 24 agosto 1880, Enc. Nobilissima, 8 febbraio 1884, Ep. Quod multum, 22 agosto 1886, Ep. Officio sanctissimo, 22-12-1887, Ep. Enc. Caritatis, 19 marzo 1894, ecc.; vedi Cod. I. C. cum Fontium Annot. can. 1374) ed insieme le prescrizioni dei Sacri Canoni, onde la frequenza delle scuole acattoliche, o neutrali, o miste, quelle cioè aperte indifferentemente ai cattolici e agli acattolici, senza distinzione, è vietata ai fanciulli cattolici, e può essere solo tollerata, unicamente a giudizio dell’Ordinario, in determinate circostanze di luogo e di tempo e sotto speciali cautele (Cod. I C. c. 1374). E non può neanche ammettersi per i cattolici quella scuola mista (peggio, se unica a tutti obbligatoria), dove, pur provvedendosi loro a parte l’istruzione religiosa, essi ricevono il restante insegnamento da maestri non cattolici in comune con gli alunni acattolici. – Giacché non per il solo fatto che vi si impartisce l’istruzione religiosa (spesso con troppa parsimonia) una scuola diventa conforme ai diritti della Chiesa e della famiglia cristiana e degna di essere frequentata dagli alunni cattolici. A questo effetto è necessario che tutto l’insegnamento e tutto l’ordinamento della scuola: insegnanti, programmi e libri, in ogni disciplina, siano governati dallo spirito cristiano sotto la direzione e vigilanza materna della Chiesa, per modo che la religione sia veramente fondamento e coronamento di tutta l’istruzione, in tutti i gradi, non solo elementare, ma anche media e superiore. “E’ necessario – per adoperare. le parole di Leone XIII – che non soltanto in determinate ore si insegni ai giovani la religione, ma che tutta la restante formazione olezzi di cristiana pietà. Se ciò manca, se questo alito sacro non pervade e non riscalda gli animi dei maestri e dei discepoli, ben poca utilità potrà aversi da qualsiasi dottrina: spesso anzi ne verranno danni non lievi ” (Ep. Militantis Ecclesiae, del 1-8-1897). – Né si dica essere impossibile allo Stato, in una nazione divisa in varie credenze, provvedere alla pubblica istruzione altrimenti che con la scuola neutra o con la scuola mista, dovendo lo Stato più ragionevolmente e, potendo, anche più facilmente provvedere con il lasciar libera e favorire con giusti sussidi l’iniziativa e l’opera della Chiesa e delle famiglie. E che ciò sia attuabile, con soddisfazione delle famiglie e con giovamento dell’istruzione e della pace e tranquillità pubblica, lo dimostra il fatto di nazioni divise in varie confessioni religiose, dove l’ordinamento scolastico corrisponde al diritto educativo delle famiglie, non solo quanto a tutto l’insegnamento – particolarmente con la scuola interamente cattolica e per i cattolici – ma anche quanto alla giustizia distributiva, con l’aiuto finanziario, da parte dello Stato, alle singole scuole volute dalle famiglie. – In altri paesi di religione mista accade altrimenti, con non lieve carico dei cattolici, i quali, auspice e guida l’Episcopato e con l’opera indefessa del Clero secolare e regolare, sostengono a tutta loro spesa la scuola cattolica per i loro figli, quale è richiesta dal loro gravissimo obbligo di coscienza, e con generosità e costanza encomiabile perseverando nel proposito di assicurare interamente, come essi a maniera di tessera proclamano, ” l’educazione cattolica, per tutta la gioventù cattolica, in scuole cattoliche “. Il che se non viene aiutato dal pubblico erario, come per sé richiede la giustizia distributiva, non può essere impedito dalla potestà civile che abbia coscienza dei diritti della famiglia, e delle condizioni indispensabili della legittima libertà. – Dove poi anche questa libertà elementare viene impedita e in vari modi ostacolata, i cattolici non si adopereranno mai abbastanza, anche a prezzo di grandi sacrifizi, nel sostenere e difendere le loro scuole e nel procurare che si sanciscano leggi scolastiche giuste. – Tutto quanto si fa dai fedeli per promuovere e difendere la scuola cattolica per i loro figli è opera genuinamente religiosa, e perciò compito principalissimo dell’Azione Cattolica; onde sono particolarmente care al Nostro cuore paterno e degne di alta lode tutte quelle associazioni speciali che in varie nazioni attendono con tanto zelo ad opera così necessaria.

Col procurare la scuola cattolica per i loro figli – sia proclamato altamente, e sia bene inteso e riconosciuto da tutti – i cattolici di qualsiasi nazione al mondo non fanno opera politica di partito, ma opera religiosa indispensabile alla loro coscienza; e non intendono già di separare i loro figli dal corpo e dallo spirito nazionale, ma anzi di educarveli nel modo più perfetto e meglio ordinato alla prosperità della nazione, poiché il buon cittadino cattolico, appunto in virtù della dottrina cattolica, è perciò stesso il miglior cittadino, amante della sua patria e lealmente sottomesso all’autorità civile e costituita, in qualsiasi legittima forma di governo. – In questa scuola, in armonia con la Chiesa e con la famiglia cristiana, non avverrà che nei vari insegnamenti si contraddica, con evidente danno dell’educazione, a quello che gli alunni apprendono nell’istruzione religiosa; e se sarà necessario far loro conoscere, per scrupolosa coscienza di magistero, le opere erronee da confutare, ciò verrà fatto con tale preparazione e con tale antidoto di sana dottrina, che non nocumento, ma giovamento ne abbia la formazione cristiana della gioventù. – In questa scuola, similmente, lo studio della patria lingua e delle classiche lettere non sarà mai a scapito della santità dei costumi; giacché il maestro cristiano seguirà l’esempio delle api, le quali prendono la parte più pura dei fiori e lasciano il resto, come insegna San Basilio nel suo discorso agli adolescenti sulla lettura dei classici (R G., t. 31-570). Questa necessaria cautela, suggerita anche dal pagano Quintiliano (Inst. Or. 1, 8), non impedisce per nulla che il maestro cristiano accolga e metta a profitto quanto di veramente buono, nelle discipline e nei metodi, portano i tempi nostri, memore di quel che dice l’Apostolo: “Provate tutto, tenete ciò che è buono” (I Thess. V, 21). E perciò, nell’accogliere il nuovo, egli si guarderà dall’abbandonare corrivamente l’antico, comprovato buono ed efficace dall’esperienza di più secoli, segnatamente nello studio della latinità, che vediamo sempre più decadere ai nostri giorni, appunto per l’ingiustificato abbandono dei metodi così fruttuosamente usati dal sano umanesimo, venuto in gran fiore particolarmente nelle scuole della Chiesa. Queste nobili tradizioni richiedono che la gioventù affidata alle scuole cattoliche venga bensì istruita nelle lettere e nelle scienze pienamente secondo le esigenze dei nostri tempi, ma insieme e solidamente e profondamente, in ispecie nella sana filosofia, lungi alla farraginosa superficialità di coloro, che “forse avrebbero trovato il necessario se non avessero cercato il superfluo” (Seneca, Epist. 45). Ogni maestro cristiano deve tener presente quanto dice Leone XIII in compendiosa sentenza: “Con maggiore alacrità bisogna sforzarsi a che non soltanto si applichi un metodo d’insegnamento adatto e solido, ma più ancora a che l’insegnamento stesso e nelle lettere e nelle scienze sia in tutto conforme alla fede cattolica, massime poi nella filosofia, dalla quale in gran parte dipende il retto indirizzo delle altre scienze” (Leone XIII, Enc. Inscrutabili, 21-4-1878). – Le buone scuole sono frutto, non tanto dei buoni ordinamenti, quanto principalmente dei buoni maestri, i quali, egregiamente preparati ed istruiti, ciascuno nella disciplina che deve insegnare, e adorni delle qualità intellettuali e morali richieste dal loro importantissimo ufficio, ardano di amore puro e divino per i giovani loro affidati, appunto perché amano Gesù Cristo e la Sua Chiesa, di cui quelli sono figli prediletti e per ciò stesso hanno sinceramente a cuore il vero bene delle famiglie e della loro patria. E però, Ci riempie l’animo di consolazione e di gratitudine verso la Bontà Divina, il vedere come insieme con i religiosi e le religiose insegnanti, così grande numero di tali buoni maestri e maestre – anche uniti in congregazioni di associazioni speciali per meglio coltivare il loro spirito, le quali perciò sono da lodare e promuovere come nobilissime e potenti ausiliarie dell’Azione Cattolica – lavorano con disinteresse, zelo e costanza in quella che San Gregorio Nazianzeno chiama “arte delle arti e scienza delle scienze” (Oratio II P. G., t. 35, 426) del reggere e formare la gioventù. E nondimeno anche per essi vale il detto del Divino Maestro: “La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi” (Matt. IX, 37). Supplichiamo pertanto il Signore della messe che mandi ancora molti di tali operai dell’educazione cristiana, la cui formazione deve essere sommamente a cuore dei Pastori delle anime e dei supremi moderatori degli Ordini religiosi. – E’ altresì necessario dirigere e vigilare l’educazione dell’adolescente, “molle come cera a piegarsi al vizio” (Horat., Ars poet., v. 163) in qualsiasi altro ambiente egli venga a trovarsi, rimovendo le cattive occasioni e procurandogli l’opportunità delle buone nelle ricreazioni e nelle compagnie giacché “i discorsi cattivi corrompono i buoni costumi” (I Cor. V, 33). – Se non che, ai nostri tempi, si fa necessaria più estesa ed accurata vigilanza, quanto più sono accresciute le occasioni di naufragio morale e religioso per la gioventù inesperta, segnatamente nei libri empi o licenziosi, molti dei quali diabolicamente diffusi a vil prezzo, negli spettacoli del cinematografo, ed ora anche nelle audizioni radiofoniche, le quali moltiplicano e facilitano per così dire ogni sorta di letture, come il cinematografo ogni sorta di spettacoli. Questi potentissimi mezzi di divulgazione, che possono riuscire, se ben governati dai sani principi, di grande utilità all’istruzione ed educazione, vengono purtroppo spesso subordinati all’incentivo delle male passioni ed all’avidità del guadagno. Sant’Agostino gemeva della passione ond’erano trascinati anche dei cristiani del suo tempo agli spettacoli del circo, e racconta con vivezza drammatica il pervertimento, per buona ventura temporaneo, del suo alunno e amico Alipio (Conf. VI, 8). Quanti traviamenti giovanili, a causa degli spettacoli odierni, oltre che delle malvagie letture, non debbono ora piangere i genitori e gli educatori! – Sono perciò da lodare e da promuovere tutte quelle opere educative le quali con spirito sinceramente cristiano di zelo per le anime dei giovani, attendono, con appositi libri e pubblicazioni periodiche, a far noti, segnatamente ai genitori ed agli educatori, i pericoli morali e religiosi spesso subdolamente insinuati nei libri e negli spettacoli, e si adoperano a diffondere le buone letture e a promuovere spettacoli veramente educativi, creando anche con grandi sacrifici teatri e cinematografi, nei quali la virtù non solo non abbia nulla da perdere, ma bensì molto da guadagnare. – Da questa necessaria vigilanza non segue tuttavia che la gioventù debba essere segregata dalla società, nella quale pur deve vivere e salvare l’anima; ma oggi più che mai deve essere premunita e fortificata cristianamente contro le seduzioni e gli errori del mondo, il quale, come ammonisce una parola divina, è tutto “concupiscenza degli occhi e superbia della vita” (I Ioan. 11, 16); per maniera che, come diceva Tertulliano dei primi cristiani, siano quali debbono essere i veri cristiani di tutti i tempi “compossessori del mondo, non dell’errore” (De Idolatria, 14). – Con questa sentenza di Tertulliano siamo già venuti a toccare quello che Ci siamo proposti di trattare in ultimo luogo, ma di massima importanza, e cioè la vera sostanza dell’educazione cristiana, quale si raccoglie dal suo fine proprio e nella cui considerazione si fa sempre più chiara, con meridiana luce, la sovraeminente missione educativa della Chiesa. – Fine proprio e immediato dell’educazione cristiana è cooperare con la Grazia divina nel formare il vero e perfetto cristiano: cioè Cristo stesso nei rigenerati col Battesimo, secondo la viva espressione dell’Apostolo: “Figliuolini miei, che io nuovamente porto in seno fino a tanto che sia formato in voi Cristo” (Gal. IV, 19). Il vero cristiano deve vivere la vita soprannaturale in Cristo: “Cristo che è la vita vostra” (Coloss. 111, 4), e manifestarla in tutte le sue operazioni: “affinché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale” (II Cor. IV, 11). – Perciò appunto l’educazione cristiana comprende tutto l’ambito della vita umana, sensibile, spirituale, intellettuale e morale, individuale, domestica e sociale, non per menomarla in alcun modo, ma per elevarla, regolarla e perfezionarla secondo gli esempi e la dottrina di Cristo. – Il vero cristiano, frutto dell’educazione cristiana, è l’uomo soprannaturale, che pensa, giudica ed opera costantemente e coerentemente, secondo la retta ragione illuminata dalla luce soprannaturale degli esempi e della dottrina di Cristo; ovvero, per dirla con il linguaggio ora in uso, il vero e compìto uomo di carattere. Non qualsiasi coerenza e tenacia di condotta, secondo principi soggettivi, costituisce il vero carattere, ma soltanto la costanza nel seguire i principi eterni della giustizia, come riconosce anche il poeta pagano, quando loda, inseparabilmente: “l’uomo giusto e ben fermo nel suo proposito” (Horat., Od. l. III, od. 3, v. l); e, d’altra parte, non può darsi compiuta giustizia, se non nel dare a Dio quel che si deve a Dio, come fa il vero cristiano. – Siffatto scopo e termine dell’educazione cristiana sembra ai profani un’astrazione, o piuttosto sembra inattuabile senza soppressione o menomamento delle facoltà naturali e senza rinunzia alle opere della vita terrena, quindi alieno dal vivere sociale e dalla prosperità temporale, contrario ad ogni progresso nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, in ogni altra opera di civiltà. A simile obiezione, mossa dall’ignoranza e dal pregiudizio dei pagani, anche colti, d’un tempo – ripetuta purtroppo con più frequenza ed insistenza nei tempi moderni – aveva risposto Tertulliano: “Non siamo estranei alla vita. Ci ricordiamo bene di dover riconoscenza a Dio Signore Creatore; nessun frutto delle opere Sue noi ripudiamo; soltanto ci moderiamo, per non usarne smodatamente e malamente. E così non senza il foro, non senza il macello, non senza i bagni, le case, le botteghe, le stalle, i mercati vostri e tutti gli altri traffici, noi abitiamo in questo mondo. Noi pure con voi navighiamo e militiamo, coltiviamo i campi e negoziamo, e per ciò scambiamo i lavori e mettiamo a vostra disposizione le opere nostre. Come mai possiamo sembrare inutili ai vostri affari coi quali e dei quali viviamo davvero non vedo” (Apol. 42). – Pertanto il vero cristiano, nonché rinunziare alle opere della vita terrena o menomare le sue facoltà naturali, le svolge anzi e le perfeziona coordinandole alla vita soprannaturale, per modo da nobilitare la vita stessa naturale e da procurarle più efficace giovamento, non solo di ordine spirituale ed eterno, ma anche materiale e temporale. – Ciò è dimostrato da tutta la storia del Cristianesimo e delle sue istituzioni, che si identifica con la storia della vera civiltà e del genuino progresso sino ai nostri giorni; e particolarmente dai Santi, ond’è fecondissima la Chiesa, e soltanto essa, i quali hanno raggiunto, in grado perfettissimo, lo scopo dell’educazione cristiana, ed hanno nobilitato e avvantaggiato l’umana convivenza in ogni genere di beni. Infatti i Santi sono stati, sono e saranno sempre i più grandi benefattori dell’umana società, come anche i modelli più perfetti in ogni classe e professione, in ogni stato e condizione di vita: dal campagnuolo, semplice e rusticano, allo scienziato e letterato, dall’umile artigiano al condottiero di eserciti, dal privato padre di famiglia al monarca reggitore di popoli e nazioni, dalle semplici fanciulle e donne del recinto domestico alle regine e imperatrici. E che dire dell’immensa opera, anche a pro del benessere temporale, dei missionari evangelici, che insieme con la luce della Fede hanno portato e portano ai popoli barbari i beni della civiltà; degli istitutori di molteplici opere di carità e di assistenza sociale e della interminabile schiera di santi educatori e sante educatrici, che hanno perpetuato e moltiplicato la loro opera nelle loro feconde istituzioni di educazione cristiana in aiuto delle famiglie e a beneficio inestimabile delle nazioni? – Questi sono i frutti, benefici in ogni materia, dell’educazione cristiana, appunto per via e virtù soprannaturale in Cristo, che essa svolge e forma nell’uomo; giacché Cristo Signor nostro, Maestro Divino, è altresì fonte e datore di tale vita e virtù, ed insieme modello universale ed accessibile a tutte le condizioni dell’umana progenie, con il Suo esempio, particolarmente alla gioventù, nel periodo della Sua vita nascosta, laboriosa, ubbidiente, adorna di tutte le virtù individuali, domestiche e sociali, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. – E però il grande e geniale Sant’Agostino – della cui beata morte siamo per celebrare la quindicesima centenaria ricorrenza – prorompeva, pieno di santo affetto per tal Madre, in questi accenti: “O Chiesa cattolica, verissima Madre dei Cristiani, tu meritamente predichi non soltanto doversi onorare purissimamente e castissimamente Iddio stesso, conseguire il quale è giocondissima vita, ma ancora talmente fai tua la dilezione e la carità del prossimo che presso te si trova potentemente efficace ogni medicina ai molti mali per i quali, a cagione dei peccati, soffrono le anime. Tu puerilmente i fanciulli, con fortezza i giovani, con delicatezza i vecchi, a seconda dei bisogni e del corpo e dello spirito, addestri ed ammaestri. Tu per, direi quasi, libera servitù, i figli sottometti ai genitori, i genitori con dominio di pietà preponi ai figli. Tu con vincolo di religione, più forte e più stretto di quello del sangue, unisci i fratelli ai fratelli… Tu non soltanto con vincolo di società ma anche di una certa fraternità, leghi i cittadini ai cittadini, le genti alle genti, in una parola tutti gli uomini col ricordo dei primi comuni genitori. Insegni ai re a ben attendere ai popoli; ammonisci i popoli di ubbidire ai re. Con solerzia insegni a chi si debba onore, a chi affetto, a chi rispetto, a chi timore, a chi conforto, a chi ammonimento, a chi esortazione, a chi correzione, a chi il rimprovero, a chi il supplizio; mostrando in qual modo e non a tutti tutto si debba, a tutti però la carità, a nessuno l’offesa” (De morìbus Ecclesiæ catholicæ, lib. 1, c. 30, P. L. 32, 1336). – Alziamo, o Venerabili Fratelli, i cuori e le mani supplici al Cielo, “al Pastore e Vescovo delle anime nostre” (I Petr. 11, 25), al Re Divino “che dà legge ai governanti” affinché Egli con la Sua virtù onnipotente faccia sì che questi splendidi frutti dell’educazione cristiana si raccolgano “in tutto il mondo” sempre più a vantaggio degli individui e delle nazioni.

Auspice di queste grazie Celesti, con paterno affetto, a voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero e al vostro popolo impartiamo l’Apostolica Benedizione.”

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 31 dicembre 1929, anno VIII del Nostro Pontificato.

DOMENICA TRA L’ASCENSIONE (2018)

DOMENICA TRA L’ASCENSIONE (2018)

Incipit
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:8; XXVI:9

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo? [Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?].

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus. – Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre. [Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero.].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV:7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.”

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: “Omelie” – Torino 1899; vol. II, Omelia XXV]

“Siate prudenti e vegliate nelle preghiere; ma sopra tutto abbiate costante carità tra di voi; perché la carità copre una moltitudine di peccati. Osservate la scambievole ospitalità, senza mormorio, volgendo ognuno a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. Se alcuno parla, lo faccia come della parola di Dio: se alcuno ministra, sia come con potere datogli da Dio, acciocché in ogni cosa Dio sia glorificato per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I. di S. Pietro, IV, 7-11).

In questa Domenica dopo l’Ascensione la Chiesa ci fa leggere nella santa Messa le poche linee che avete udite, e che si trovano nella prima epistola di S. Pietro. L’avrete rilevato voi stessi, o cari; sono poche linee, ma in esse si racchiude un vero tesoro di dottrina morale e pratica, che è una applicazione della gran legge della carità fraterna. Vero è che queste verità più e più volte le avete udite nelle omelie che vi tengo: ma se i Libri santi spesso le ripetono egli è perché è utile il ripeterle. Avviene dello spirito ciò che avviene del corpo. Per conservare e ristorare le forze di questo noi più volte al giorno pigliamo lo stesso cibo e la stessa bevanda e non ce ne stanchiamo: per conservare e ristorare le forze dello spirito, è necessario nutrirlo collo stesso cibo e colla stessa bevanda, e cibo e bevanda dello spirito sono le verità che Gesù Cristo ci ha insegnato. Ascoltiamole dunque con animo riverente e docile, e studiamoci di porcele ben addentro nell’animo. – Il Principe degli Apostoli, dopo aver esortati i fedeli a staccarsi dai peccati, dei quali vissero schiavi da Gentili: dopo aver accennato allo stupore dei Gentili, vedendoli signori delle basse voglie del senso, tocca del giudizio divino, che si avvicina: “Omnium finis appropinquavit.” – Dobbiamo tutti prepararci a quel giorno, che infallibilmente verrà, quantunque ignoriamo quando verrà. E come prepararci? “Siate prudenti — Estote prudente», . risponde S. Pietro. La prudenza! Essa importa anzi tutto il conoscimento delle cose che dobbiamo fare o fuggire [“Prudentia est rerum appetendarum et fugiendarum scientia” – S. August., De lib. arb., lib. 1, c. 13]. Non basta: essa importa il conoscimento del fine che in ogni cosa ci proponiamo e dei mezzi, che siano più acconci per raggiungerlo più perfettamente. Ond’è che la prudenza deve tener d’occhio il tempo, il luogo, le circostanze tutte, affinché l’opera felicemente riesca ed esige ponderazione, sagacia e costanza di propositi. La prudenza è non solo virtù cardinale, ossia fondamentale riguardo alle virtù morali, ma tiene fra di esse il primo luogo, perché essa deve regolare l’intelligenza, come questa deve poi regolare la volontà, e perché non vi è virtù senza la prudenza, anzi potrebbe essere, che una virtù, anche eccellente, scompagnata dalla prudenza, tralignasse in vizio. Così la fortezza separata dalla prudenza può diventare temerità, la giustizia durezza, la pazienza pusillanimità; la generosità, prodigalità; l’umiltà bassezza e via via. E in vero quante virtù si tramutano in vizi perché non regolate dalla prudenza! Il coraggio di Pietro diventa temerità e presunzione. La prudenza pertanto deve accompagnare sempre i nostri atti, deve essere l’arme di tutte le virtù. Siate prudenti, „ grida S. Pietro, e perciò a tutte le nostre azioni vada innanzi la face della prudenza, affinché non poniamo il piede in fallo e delle parole ed opere nostre non sentiamo il tardo ed inutile pentimento. Sorella inseparabile della prudenza è la vigilanza, che ha il suo alimento ed il suo appoggio nella preghiera; il perché S. Pietro soggiunge tosto: “Vegliate nelle preghiere —Vigilate in orationibus. „ Si direbbe che qui l’Apostolo ripete ai fedeli l’ammonimento di Cristo, là nell’orto, e che doveva risonar continuamente all’orecchio: “Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem.” Egli, S. Pietro, non poteva non aver sempre innanzi agli occhi quella notte fatale, in cui egli e Giacomo e Giovanni erano là nel Getsemani in preda alla tristezza e al sonno. Doveva ricordare come Gesù per ben tre volte l’aveva riscosso dal sonno e ripetute quelle parole — Vegliate e pregate, — e come conseguenza di quella sua trascuratezza nel vegliare e pregare era stata la sua miserabile caduta. Perciò qui la ripete anche egli ai primi Cristiani. “Vegliate nell’orazione. „ Noi Cristiani siamo come soldati in campo, che ad ogni istante, di giorno, di notte, possiamo essere assaliti da nemici astuti e potenti: bisogna stare sempre in sull’avviso, con l’arme in pugno per difenderci e rigettarli, e l’arme più spedita per tutti è la preghiera, e perciò S. Pietro ha congiunto la vigilanza e l’orazione: la vigilanza ci fa scorgere il nemico, che si avanza, e scoprire le insidie, che tende; l’orazione è il grido che leviamo a Dio perché ci aiuti, che gettiamo contro il nemico per atterrirlo: “Vigilate in orationibus”. Segue un’altra raccomandazione, che sì spesso si incontra nei Libri santi: “Sopra tutto abbiate costante carità tra di voi. „ Qui si parla della carità del prossimo, che deve essere l’effetto e la prova della carità verso di Dio, e S. Pietro vuole che, tra le altre, abbia due doti, sia cioè costante e mutua o vicendevole. Generalmente parlando gli uomini si amano tra loro, giacché l’odiarsi è di poche anime volgari e schiave d’una passione che ripugna alla natura. Ma che amore è desso? E forza confessarlo: è un amore debole, interessato, che al primo urto, alla prima prova cede e forse si muta in risentimento e rancore mal dissimulato. L’amore nostro verso i fratelli deve essere costante e saldo, e lo sarà se la scintilla che l’accende, scende dall’alto, viene da Dio. Se l’amore verso del prossimo ha la sua radice o nell’interesse, o nelle sole qualità fisiche o morali, ond’esso è fornito, non potrà essere costante: cessi l’interesse, deve cessare con esso l’amore; se le qualità fisiche o morali fanno difetto nel prossimo, o possedute da esso un tempo, poi scemarono od anche interamente si dileguarono, con esse dovrà pure andarsene l’amore. Perché dunque l’amore del prossimo sia costante, conviene che sia costante il motivo che l’accende ed alimenta, conviene che si appunti in Dio, che non si muta mai. Oh! quando amiamo il prossimo in Dio e per Iddio, noi lo ameremo sempre, anche quando agli occhi nostri apparisce indegno, anche quando ci odia e ci perseguita perché Dio merita sempre che Lo amiamo! In secondo luogo l’amore del prossimo vuol essere mutuo o vicendevole, simile al sole, dice S. Basilio: il sole, dice il Santo, quanto è da sé, spande egualmente in ogni parte la sua luce e il suo calore, ancorché non tutti gli oggetti lo ricevano in egual misura; ciascuno dunque sia come il sole e spanda su tutti l’amor suo, e la terra presenterà lo spettacolo del cielo, dove l’amore regna sovrano. Dopo avere inculcata la carità costante e vicendevole, il nostro Apostolo accenna ad uno dei suoi frutti, dicendo: “La carità copre una moltitudine di peccati — Quia charitas operit multitudinem peccatorum. „ La copre dinanzi agli uomini, dissimulando e dimenticando le loro offese, e per tal modo inducendo gli offensori a riconciliarsi con Dio e con gli offesi: la copre, sedando le discordie tra i fratelli e ristabilendo tra loro la pace: la copre, correggendo gli erranti, e con la soavità dei modi riconducendoli alla verità: la copre, beneficando tutti, e con la larghezza della elemosina guadagnando i cuori: la copre dinanzi a Dio, perché, amandoLo perfettamente, come la Maddalena e Paolo, monda le anime e tosto a Dio le riconcilia: la copre, perché, quantunque non perfetta, essa dispone l’uomo a cancellare tutti i suoi peccati col Sacramento della Penitenza. La carità dunque, nel senso più largo della parola, copre, cioè cancella, distrugge i peccati e giustifica l’uomo o lo prepara alla giustificazione, onde fu paragonata al fuoco, che consuma ogni cosa. Carità dunque, o cari, carità verso Dio, che è la carità stessa, carità verso gli uomini; carità nelle parole, più nelle opere, carità che erompa dal cuore: carità verso i buoni e carità anche verso i cattivi, perché diventino buoni, o meno cattivi, perché è questa la virtù delle virtù, il compimento della legge. Di questa carità S. Pietro rammenta ai fedeli una applicazione a quei tempi e in quei luoghi importantissima, e a noi, nei nostri paesi e coi nostri usi moderni, quasi inesplicabile. Frequentemente nei libri del nuovo Testamento si inculca e si loda la ospitalità, e Cristo la pose tra le opere della misericordia: per formarci un’idea dell’importanza della ospitalità e dell’opera caritatevole ch’essa era, bisogna dimenticare tutti i comodi, tutti gli agi di vie sicure, di alberghi, che noi abbiamo oggidì e che rendono facilissimo il viaggiare; ma a quei tempi non strade, o malagevoli, infestate da ladroni ed assassini, non servigi pubblici, malsicuri, e perciò l’ospitalità era un bisogno, una necessità pubblica e in pari tempo una squisita carità, come nei paesi poco inciviliti lo è tuttora. Eccovi la ragione delle tante lodi e sì calde raccomandazioni della ospitalità, che troviamo nei nostri Libri santi. Da ciò che ho detto intorno alla ospitalità sì necessaria ai tempi degli Apostoli, ospitalità, che era una esplicazione della carità e che oggi ha sì poca importanza, si fa manifesto che anche la virtù regina, che è la carità, può mutare e muta le sue applicazioni secondo i tempi e i luoghi e gli uomini, che certe opere di carità necessarie in altri tempi, oggidì sono cessate, ed altre ignote nei tempi passati oggidì sono imposte. Non si muta la virtù nella sua radice, ma si mutano le sue applicazioni e noi, figli del Vangelo, dobbiamo essere uomini di tutti i tempi, come lo è il Vangelo, ed esercitare la carità quale è richiesta nei vari paesi e nei vari tempi. Né si vuole dimenticare una avvertenza che riguarda questa lettera. Essa è indirizzata ai Cristiani dispersi nelle provincie dell’Asia Minore, e prima tra queste da S. Pietro è nominata la provincia del Ponto: ora è a sapere che quella provincia aveva fama d’essere inospitale, come sappiamo dagli scrittori pagani (Ovidio), e forse fu questa una ragione di più che indusse l’Apostolo a ricordare a quei popoli il dovere della ospitalità, aggiungendovi una raccomandazione particolare, ed è di usarla “sine murmuratione”, senza mormorio o lamento. — Vi sono persone, che esercitano la carità, ma in mal modo, brontolando, lagnandosi: questa non è carità secondo il Vangelo. – Ciò che si dice della carità, devesi pur dire della ospitalità, che ne è una parziale applicazione: anch’essa deve essere benigna, graziosa e offerta con volto ilare, anzi S. Gregorio Magno vuole che in qualche modo sia imposta: “Peregrini ad hospitium non solum invitandi, sed etiam trahendi sunt”. Seguitiamo il nostro commento. Alla raccomandazione della scambievole ospitalità tiene dietro un’altra raccomandazione più particolareggiata e più grave. Uditela: “Ognuno volga a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. „ Qui si parla di coloro che tengono qualche officio o ministero sacro nella Chiesa, come sarebbe l’officio o ministero dell’annunciare la parola di Dio, del dispensare i Sacramenti, o del governo delle anime. S. Pietro intima a tutti costoro senza eccezione, che si considerino non come padroni, ma amministratori dei doni ricevuti, delle grazie loro largite, non a proprio vantaggio, ma a vantaggio e beneficio altrui. Noi, uomini di Chiesa, ministri e dispensatori dei misteri di Cristo, come ci chiama S. Paolo, siamo tali, non per nostra utilità, ma sì per la vostra, o figliuoli dilettissimi: “Uniquique datur manifestatio spiritus ad utilitatem” (I Cor. c. XII, vers. 7). Il nostro ministero è un potere, vero potere, che abbiamo ricevuto non da voi, ma da Cristo, ma che dobbiamo esercitare a vostro beneficio; è un servizio, non un dominio, e se il nostro Capo supremo, il Romano Pontefice si chiama ed è Servo dei servi di Dio, cioè deve servire al bene di tutti i fedeli, che sono servi di Gesù Cristo, quanto più lo saremo noi sacerdoti e parroci? Perciò è nostro dovere prestare l’opera nostra a tutte le vostre domande ragionevoli, anche con nostro disagio, con nostro sacrificio, in certi casi, ne andasse la vita. Noi siamo amministratori dei doni di Cristo, non padroni, e guai a noi se per la nostra trascuratezza, per nostra imprudenza, per nostra colpa, alcuni ne rimanessero privi: ne dovremmo rendere strettissima ragione a Dio, dal Quale li teniamo! Specificando meglio la cosa, S. Pietro dice: “Se alcuno parla, cioè se ha l’officio di istruire, lo faccia come è richiesto di farlo, e come la parola di Dio deve essere annunziata; se alcuno amministra, cioè esercita l’officio di dispensatore dei Sacramenti, lo faccia in quel modo e con quello spirito che domanda sì alto potere. Così facendo, l’opera nostra sarà profittevole a noi, a quelli ai quali la prestiamo, e ne sarà glorificato Iddio per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. „ È il fine ultimo e supremo di tutte le cose sulla terra e particolarmente della grand’opera della redenzione da Gesù Cristo stabilita in mezzo a noi: è la gloria, di Dio, che si ottiene colla santificazione delle anime!

 Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XLVI:9

V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja. [Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo. Alleluja.]

Joannes XIV:18 V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja. [Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rallegrerà. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem Joannes XV:26-27; XVI:1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”. OMELIA II

[Ut supra, Omelia XXVI (vol. II)

“Quando sarà venuto il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità, il quale procede dal Padre, quegli farà testimonianza di me, e voi lo attesterete, perché siete stati con me fin da principio. Queste cose vi ho detto, affinché non prendiate scandalo. Vi cacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà tempo, che chiunque vi uccida, pensi di fare omaggio a Dio. E faranno ciò con voi, perché non hanno conosciuto né il Padre, né me. Ma queste cose vi ho dette, affinché, quando sarà venuta l’ora, vi ricordiate, che ve le ho dette , (S. Giovanni, XV, 26, 27 ; XVI, 1-4).

Se bene considerate, vi accorgere che tutti i Vangeli, che la Chiesa ci fa leggere in queste ultime Domeniche dopo Pasqua sono tutti di S. Giovanni ed hanno costantemente un doppio fine: il primo, di confortare gli Apostoli e raffermarli nella fede, prepararli alle fiere lotte che dovevano sostenere: il secondo, di rassicurarli della prossima venuta dello Spirito Santo, che avrebbe compiuta l’opera di Gesù Cristo. E questo doppio fine è par manifesto nei pochi versetti, che vi debbo spiegare. – Facciamo risparmio del tempo, e con animo docile e riverente ascoltiamo e meditiamo le parole di Gesù Cristo agli Apostoli, come se fossero dette a noi stessi. Gesù, dopo aver ricordato ai suoi Apostoli ciò che aveva fatto per il popolo, le opere, e i miracoli compiuti in mezzo di Lui e la mala corrispondenza avutane; dopo aver detto che i beneficii da Lui largiti rendevano più inescusabili gli Ebrei, che con l’odio avevano ripagato l’amor suo; dopo avere ammoniti i suoi cari, che non si aspettassero migliore accoglienza dagli uomini, quasi per abbreviare il suo discorso, dice: “Quando verrà il Paraclito, che Io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità, il quale procede dal Padre, quegli farà testimonianza di me. „ Consideriamo partitamente queste parole. –  A che, così sembra ragionare Gesù Cristo, a che vo Io dicendovi queste cose? Verrà il Paraclito, lo Spirito Santo, che vi ho promesso, che terrà il mio luogo e continuerà la mia missione: Egli colla sua luce interna rischiarerà le vostre menti e vi farà conoscere il senso delle cose, che da me avete udite, perché Egli è lo Spirito della verità. “Io ve lo manderò dal Padre. „ Osservate bene: è Gesù che lo manderà questo Spirito di verità. Ora chi è mandato ha una certa dipendenza da colui, che lo manda: lo Spirito Santo dunque, che si dice mandato da Gesù Cristo e mandato dal seno del Padre, deve avere una certa dipendenza da Gesù Cristo. Come da Gesù Cristo? Forse da Lui come uomo? No, sarebbe cosa empia il pur sospettare che la Persona divina dello Spirito Santo dipenda dall’umanità di Gesù Cristo, che è creata e finita ed è opera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dunque lo Spirito Santo ha codesta dipendenza da Gesù Cristo come Dio. Ma il Figlio e lo Spirito Santo sono due Persone divine, eguali perfettamente, perché aventi la stessa sostanza; lo Spirito Santo dunque non può avere dipendenza dal Figlio per ragione della sostanza, che loro è comune; resta dunque che questa dipendenza dal Figlio sia dipendenza di origine, come lo è quella del Figlio stesso dal Padre, e perciò lo Spirito Santo si dica mandato da Gesù Cristo, perché da Lui ha origine, precisamente come Gesù Cristo si dice mandato dal Padre, perché dal Padre è generato. – E qui ponete mente al modo di parlare delle sante Scritture: il Padre, che non ha origine da nessun’altra Persona, non si dice mai neppure una sola volta mandato: il Figlio, che è generato dal Padre, si dice anche costantemente mandato dal solo Padre, e giammai mandato dallo Spirito Santo, perché da Esso non riceve l’origine: lo Spirito Santo poi  si dice mandato, ora dal Padre, ed ora dal Figlio, perché dall’uno e dall’altro procede egualmente. È dunque verità di fede, o cari, che lo Spirito Santo procede non dal Padre, come con noi confessano i fratelli nostri erranti, Greci e Russi, ma anche dal Figlio, come noi Cattolici professiamo, ed essi negano, male interpretando le sante Scritture. Questo Spirito di verità, che procede dal Padre, dice Gesù Cristo, e che Io manderò, e perciò procede anche da me, farà testimonianza di me, cioè vi dirà, vi farà conoscere chi Io sia, sarà testimonio irrecusabile, che le cose ch’Io vi ho dette, son vere. Egli, avendo meco comune la natura ed essendo Dio come me, conosce tutto ciò ch’Io conosco, e il suo insegnamento non può essere che il mio stesso insegnamento, e perciò in ogni parte confermerà ciò che avete da me appreso. E che ne avverrà? Udite: “E voi pure lo attesterete, perché siete con me fino a principio.„ Ciò che apprendeste da me, vi sarà confermato dallo Spirito Santo, e voi a vostra volta lo annunzierete al mondo come testimoni. Chi erano gli Apostoli? Che ufficio avevano essi, ed hanno ed avranno fino al termine dei secoli i loro successori? Gli Apostoli erano i testimoni di Cristo, dei suoi miracoli e dei suoi insegnamenti, e testimoni devono essere tutti i loro successori. Testimoni son quelli, che hanno veduto od udito ciò che affermano: essi non devono aggiungere, né levare una sillaba a ciò che hanno veduto ed udito, allorché sono chiamati a deporre la verità: essi devono sapere ciò che attestano, essi devono essere sinceri e intrepidi nel dirlo, n’andasse la vita, e ciò che è più caro della vita, l’onore. Ora gli Apostoli, cominciando dal battesimo di Gesù Cristo fino alla sua morte, alla sua Risurrezione e Ascensione al cielo erano sempre stati con Gesù Cristo. ” Voi siete con me fino a principio — Quia mecum est a principio. „ Perciò avevano udita tutta la dottrina di Gesù Cristo; avevano veduti i miracoli, con i quali aveva confermata la dottrina stessa: che dovevano essi fare, dopo la partenza di Gesù Cristo? Una sola cosa: attestare ciò che avevano udito da Gesù e veduto fare a Lui e ripeterlo fedelmente a tutte le genti. Ecco l’ufficio, il ministero degli Apostoli, l’ufficio e il ministero di testimoni. Il perché Gesù Cristo disse loro: Voi mi sarete testimoni in Gerusalemme, nella Giudea, nella Samaria e fino ai confini della terra. — San Pietro, proponendo la elezione d’un Apostolo in luogo del traditore, disse: “Conviene, che fra gli uomini, che sono stati della nostra compagnia in tutto il tempo che Gesù è andato e venuto fra noi, sia scelto uno e sia testimonio con noi della risurrezione di Gesù „ (Att. c. I , 21, 22). Gli Apostoli tutti, ripetutamente negli Atti, si dichiarano testimoni delle cose dette e fatte da Gesù Cristo. — La Chiesa che è dessa? È il testimonio perenne di ciò che udì da quelli, che per non interrotta successione risalgono agli Apostoli e a Cristo stesso, come Cristo stesso protesta d’essere testimonio di ciò che apprese nel seno del Padre: “Quod audimus testamur vobis” (Giov. III, 11). Ascoltiamo dunque con venerazione ed amore questa testimonianza incorrotta ed incorruttibile, che attraversa i secoli, che comincia con Cristo e cesserà col mondo, testimonianza, a cui è legata la verità e la salvezza nostra. – La mente di Gesù, anche in quei supremi ed angosciosi momenti, era tutta intesa a provvedere ai suoi cari, a confortarli, a prepararli alle lotte future, e non fa meraviglia udirlo ripetere le stesse cose. Egli è come un padre amoroso, che deve partire per lontano paese e lasciare per lungo tempo i suoi figliuoli, e che salutandoli e abbracciandoli, non si stanca di ripetere le cose dette e che maggiormente gli stanno a cuore. Io vedo l’avvenire, Egli diceva, e sento il bisogno di premunirvi, affinché non pigliate scandalo e vi diate vinti alla violenza delle prove, che vi attendono, e perciò nuovamente vi metto in guardia. Badate “che vi sbandiranno dalle sinagoghe, e verrà tempo, nel quale chiunque vi uccida, crederà di prestare omaggio a Dio. „ Queste parole sì terribili e che saremmo tentati di credere esagerate, si avverarono alla lettera, e per convincervene non avete che a leggere gli Atti degli Apostoli e la storia della primitiva Chiesa. – I poveri Apostoli furono tutti senza pietà perseguitati, costretti a correre le vie dell’esilio, gettati nelle carceri, lapidati, messi crudelmente a morte: fu tanta la rabbia, specialmente degli Ebrei contro di loro, che peggio non avrebbero potuto fare contro i loro più fieri nemici. Le ire, gli odi di partiti politici sono profondi, feroci, e la storia è piena di stragi che fanno ribrezzo: ma le ire e gli odi di religione sono ancora più profondi e più implacabili, perché hanno radice in ciò che l’uomo ha di più intimo, di più delicato, di più sacro, che è il sentimento religioso, e perciò le guerre di religione furono sempre le più spaventose, e i Giudei vi tengono certamente il primo posto. Per essi uccidere chi credevano ribelle a Mosè, alla legge, alle tradizioni d’Israele, era un dovere, era un atto di culto, era un omaggio reso a Dio, e S. Paolo prima della sua conversione ne fu prova manifesta. E qui cade in acconcio toccare alcune considerazioni che non mi paiono superflue. Primieramente è da ammirare la franchezza con cui Gesù Cristo annunzia cose sì tremende ai suoi cari. Egli non si studia di scemarle, di velarle, no; le annunzia con una crudezza di linguaggio, che può sembrare eccessiva, giungendo a dire: Ricordatevelo bene: non solo vi cacceranno dalle sinagoghe, ma crederanno di fare cosa grata a Dio e santa ammazzandovi. Gesù non vuole che i suoi cari si ingannino: vuole che sappiano tutto, e così non siano impreparati. – In secondo luogo è da por mente ad una cosa manifesta e poco avvertita, benché riguardi noi stessi. Le parole indirizzate da Cristo agli Apostoli non riguardavano gli Apostoli, ma quelli ancora, che avrebbero continuata l’opera loro, in altre parole guardavano la Chiesa, e la Chiesa più o meno di tutti i tempi. E invero: le parole con le quali Cristo diede ogni suo potere agli Apostoli, mentre si riferiscono agli Apostoli, non si riferiscono eziandio agli eredi del loro potere? Che se a noi pure si riferiscono le parole di Cristo riguardanti il potere e la dignità concessa agli Apostoli, come non si riferiranno a noi pure quelle altre parole indirizzate agli Apostoli, e nelle quali si annunziano le prove, i dolori e le persecuzioni? Come! Vorremmo noi forse dividere ciò che Cristo ha congiunto? Vorremmo noi essere gli eredi degli Apostoli solamente in parte? Vorremmo noi avere comuni con essi il potere divino, i diritti e gli onori, e non i patimenti, i doveri e le umiliazioni? Vorremmo noi respingere una parte della eredità santa di Cristo e degli Apostoli, e della parte più bella e più preziosa che formò la loro gloria? Gesù Cristo e gli Apostoli furono bersaglio di contraddizione, di calunnie, di persecuzioni: bagnarono di sudori, di lacrime e di sangue le vie che percorsero; la loro missione fu un martirio continuo, e noi avremmo la strana pretensione che il mondo ci debba colmare di onori, di poteri e di ricchezze? Ma come sarebbero vere le sentenze di Cristo, che diceva: “Se han perseguitato me, voi pure perseguiteranno? Se han chiamato Beelzebub il padre di famiglia, quanto più quelli della sua famiglia? „ Nessuna meraviglia pertanto, o dilettissimi, che la Chiesa, e specialmente i reggitori della Chiesa, e il suo Reggitore supremo, soffrano pressure e dolori: sarebbe meraviglia se così non fosse; verrebbe meno in essi un segno sicuro che li mostra continuatori dell’opera di Gesù Cristo e degli Apostoli. Guai a noi, uomini di Chiesa, se il mondo ci trattasse in modo diverso da quello con cui trattò il nostro Capo e gli Apostoli: sarebbe una prova che siamo uomini del mondo, come diceva Cristo, e che non apparteniamo a Lui. Quando ci tenessimo scolpite ben addentro nell’animo queste sapientissime verità, delle quali son pieni i Vangeli e le lettere degli Apostoli, non piglieremmo scandalo, vedendoci fieramente combattuti e tribolati, anzi ce ne rallegreremmo, come se ne rallegravano gli Apostoli. Ora più che mai è necessario che noi, uomini di Chiesa, ci informiamo e tempriamo le nostre anime a queste verità solenni e maschie del Vangelo di Gesù Cristo, perché i giorni che corrono, direbbe S. Paolo, sono cattivi e secondo ogni verosimiglianza diverranno peggiori. Chi non vede addensarsi d’ogni parte la procella, che tutti ci involgerà, non ha occhi in fronte, o se li ha, li chiude per non vederla. Prove amare, durissime, terribili ci attendono; ma noi confidiamo in Lui che disse: Confidate: Io ho vinto il mondo. – ” Tutto ciò faranno, proseguiva il divino Maestro, perché non hanno conosciuto né il Padre, né me. „ Il mondo si leverà contro di voi, e di voi farà il peggior governo che si possa immaginare, o Apostoli: ve l’ho detto: e volete saperne il perché? Perché non hanno conosciuto, cioè non hanno voluto conoscere il Padre, né me. Con la parola Padre Gesù Cristo indica certamente la prima Persona dell’augusta Trinità, ma senza escludere le altre due, anzi nominando il Padre implicitamente e necessariamente comprende le altre due, perché Egli ne è il Principio eterno, onde fu come se Gesù Cristo dicesse: gli uomini vi perseguiteranno e faranno scempio di voi, perché non hanno voluto conoscere Dio, né Colui che venne ad ammaestrarli e provò la sua divina missione con tanti miracoli. Ed ecco che Gesù Cristo ripete ancora una volta il motivo pel quale fa sì tristi vaticini ai suoi Apostoli: Tutto questo ve l’ho detto, perché allorquando queste cose si compiranno sopra di voi, vi rammentiate che ve le dissi, e comprendiate bene che le ho conosciute prima che avvenissero, e che come il mio occhio signoreggia il futuro, così il mio braccio potrà avvalorarvi, ancorché più non mi vediate in mezzo a voi. – Sia pur questo il nostro conforto in mezzo alle grandi lotte della vita: Gesù Cristo che con l’occhio suo le vide ed annunziò prima che fossero, le vede quando vengono, e con la sua mano onnipossente ci sostiene e ci guida alla vittoria: ciò che fece con gli Apostoli, lo fa con noi e lo farà con quanti crederanno in Lui fino al termine dei secoli. Non dimentichiamo, o cari, che come il potere e la dottrina di Cristo e degli Apostoli è, e sarà sempre, il potere e la dottrina dei Vicari di Cristo e dei successori degli Apostoli, così anche la vita di Cristo e degli Apostoli si deve ripetere nei Vicari di Cristo e nei successori degli Apostoli: credere che possa essere altrimenti, sarebbe un disconoscere il Vangelo e la natura stessa delle cose: sarebbe un credere che il mondo cessi di essere mondo e il Vangelo di Cristo cessi di essere Vangelo di Cristo: quello farà sempre guerra a questo e a chi lo predica e perciò la croce sarà sempre la bandiera della Chiesa e in tutti i secoli si dovrà ripetere la sentenza del suo divino fondatore: “Se han perseguitato me, perseguiteranno voi pure. „

Credo

Offertorium

Orémus

Ps XLVI:6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem. [Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste.]

Communio

Joannes. XVII:12-13; XVII:15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja. [Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus. [Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

 

I PAPI DELLE CATACOMBE (4)

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Quarta persecuzione (166).

Si è detto di Marco Aurelio che fu la “filosofia assisa sul trono”, giustificando le parole di Platone: “… che il popolo sarebbe stato felice quando i filosofi fossero diventati re”. Marco Aurelio fu in effetti riformatore dei costumi con lo stoicismo, sottomesso al senato per orgoglio, clemente per vanità; ma questo filosofo spinse l’empietà fino a fare di suo fratello Vero, l’uomo più crudele e dissoluto del tempo, e di Faustina, sua sposa pubblicamente adultera, una doppia e scandalosa apoteosi; egli manifestò un tale disprezzo per il pudore che accordò delle dignità ad uomini di notoria impudicizia; egli stesso viveva in pubblico concubinaggio e questo modello di filosofi, per i quali i moderni scrittori non trovano che elogi, fu uno dei più violenti persecutori dei Cristiani, cioè degli uomini più virtuosi del suo impero. Dopo un regno contrassegnato da inondazioni, carestie, pestilenze, rivolte e guerre quasi continue, egli morì, probabilmente avvelenato, lasciando il trono a suo figlio Commodo, un pazzo furioso incoronato, che fece crudelmente espiare ai Romani quel poco di tranquillità e di gloria di cui avevano goduto sotto Marco Aurelio: … è così che i popoli sono felici quando loro re sono i filosofi pagani! L’editto che rinnovò la persecuzione era così concepito: « L’imperatore Aurelio a tutti i suoi amministratori ed ufficiali. Ci hanno riferito che coloro che nei nostri giorni si chiamano Cristiani, violano le ordinanze della legge. Arrestateli; e se essi non sacrificano ai nostri dei, puniteli con supplizi diversi a tal sorta che la giustizia sia congiunta alla severità e che la punizione cessi quando cessa il crimine. » Marco Aurelio era dunque filosofo nello stesso senso dell’epicureo Gelso, che allora scriveva contro i Cristiani; allo stesso modo di Crescente il cinico che, vinto da San Giustino nella disputa, lo denunciò e lo fece mettere a morte [Rohrbacher Histoire de l’Église, liv. XXVII.,]. La persecuzione di Marco Aurelio fece illustri martiri, oltre ai santi Papi Aniceto e Sotero. Il più illustre è San Policarpo che san Giovani Evangelista aveva ordinato vescovo della Chiesa di Smirne intorno all’anno 96, governandola per settanta anni, in maniera tale da meritare questo elogio indirizzato nell’Apocalisse all’Angelo di Smirne: « Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita: Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. » [Ap. II, 8-10]. Policarpo in effetti fu fedele fino alla morte. Di concerto con sant’Ignazio combatté l’eresia con un vigore degno di un immediato successore degli Apostoli. – Egli si recò a Roma per conferire con il Papa Aniceto sulla celebrazione della Pasqua. Qui incontrò l’eretico Marcione che gli domandò se lo conoscesse: « … senza dubbio, disse il santo Vescovo, io ti conosco come il figlio primogenito di satana. » Policarpo meritò bene di essere uno delle prime vittime della persecuzione di Marco Aurelio. Il proconsole d’Asia, Stazio Quadrato, si distingueva per la sua crudeltà. Una lettera scritta dalla Chiesa di Smirne a quella di Filadelfia e a tutte le Chiese del mondo, ci ha trasmesso dei dettagli che mostrano a qual punto fosse giunto il furore dei pagani, e qual era il coraggio dei cristiani: « I martiri, si dice in questa lettera, erano frustati a tal punto che erano scoperte le loro ossa e si potevano contare le loro vene e i loro tendini. Mossi da compassione, gli assistenti non potevano frenarsi dal gemere per come essi sembrassero estranei al loro corpo, o che Gesù Cristo stesso fosse venuto a consolarli con la sua presenza. Coloro che erano stati condannati alle fiere, furono sottomessi, nella prigione, a diverse torture. I tiranni si illudevano così di costringerli a rinnegare la loro fede. Ma i loro sforzi infernali restavano inutili. Il giovane e coraggioso Germanico, segnalò la sua costanza sopra tutti gli atri. Al momento di combattere, il proconsole lo esortava ancora ad aver pietà della sua giovane età. Senza rispondere nulla, l’intrepido atleta di Gesù-Cristo si lanciò con un salto davanti alle bestie che sbranarono voracemente le sue membra sanguinanti: egli aveva voluto uscire più prontamente da questo empio mondo. Sorpreso ed irritato da questo coraggio eroico, il popolo gridò a gran voce: A morte gli atei! Che si cerchi Policarpo! » Il vegliardo, dopo aver resistito lungo tempo alle insistenze dei fedeli, si era ritirato in una casa di campagna alle porte della città. Tre giorni prima del suo martirio, Dio gli rivelò il genere di morte che egli avrebbe subito: « Io sarò bruciato vivo, » disse ai suoi discepoli. Un servo lo tradì rivelando il suo rifugio e guidò i soldati che lo cercavano. La casa fu circondata. Il santo poteva ancora scappare ma non volle, ed andando innanzi a coloro che lo cercavano, fece loro gli onori di casa e parlò loro con tanta dolcezza che più di uno si rifiutò di catturare un vegliardo così venerabile. Lo si condusse in città caricato su di un asino, come un tempo lo fu il Salvatore quando entrò in Gerusalemme. Due magistrati lo incontrarono, lo presero con loro e cercarono di convincerlo: « Che male c’è, gli dicevano a riconoscere la divinità di Cesare o a sacrificare agli dei per salvare la propria vita? » Policarpo li ascoltò dapprima senza rispondere, infine disse loro: « io non farò mai quanto mi chiedete. » A queste parole essi lo caricarono di insulti, e lo spinsero così rudemente fuori dal carroccio che lo portava, che il santo cadde e si ruppe una gamba. Il vegliardo accettò gaiamente questi cattivi trattamenti e si lasciò condurre nell’anfiteatro. Appena vi entrò, intese una voce dal cielo che diceva: « Coraggio Policarpo, tieniti saldo! » Il proconsole tentò allora di far capitolare il santo Vescovo: « Abbi pietà della tua età, gli disse, giura per la fortune di Cesare, rinnega il Cristo, ed io ti rilascerò. » Policarpo rispose: « Sono ottantasei anni che io servo il Cristo ed Egli non mi ha mai fatto del male. Come potrei rinnegare il mio Salvatore e Re? Ascoltate qual è la mia religione: io sono Cristiano; se volete conoscere la dottrina dei Cristiani, datemi un giorno ed io vi istruirò in essa. – Persuadi il popolo! … disse il proconsole. – No, rispose Policarpo. La nostra religione ci insegna a rendere ai potenti l’onore loro dovuto e che non è incompatibile con la legge di Dio; io devo dunque parlare quando voi mi interrogate; ma il popolo non è il mio giudice, ed io non devo giustificarmi ai suoi occhi. – Lo sai, gridò il console infuriato, che io posso ordinare che tu venga esposto alle bestie? – Voi potete farle venire, disse tranquillamente il vegliardo. – Io ti farò consumare dal fuoco, se disprezzi le bestie, rispose il proconsole. – Voi mi minacciate, disse il Santo, con un fuoco che brucia in un’ora e che dopo si spegne, perché voi non conoscete il fuoco del giudizio imminente e del supplizio eterno riservato agli empi. » Allora il popolo gridò: « È il dottore dell’Asia, il padre dei Cristiani, il distruttore dei nostri dei: che si lanci un leone contro Policarpo! » Gli si fece sapere che questo non era possibile, perché i combattimenti delle bestie erano finiti: « Che Policarpo sia bruciato vivo!, gridò allora il popolo ad una voce. E quando il proconsole ne ebbe ordinato l’arresto, il popolo corse in massa a prendere legna nelle case e nei pubblici bagni; si notò tra l’altro che i Giudei erano i più lesti ed accaniti a preparare il supplizio. Quando la catasta di legno fu pronta, Policarpo allentò la sua cintura e si spogliò dei suoi abiti. E quando gli aguzzini si accinsero a legarlo ad un palo in mezzo al falò, disse loro: « Lasciatemi, questa precauzione è inutile; Colui che mi da la forza di soffrire, me ne darà pure per restare fermo in mezzo alle fiamme. » Ci si contentò di legargli le mani dietro il dorso. Allora il santo vegliardo levò gli occhi al cielo e fece questa preghiera: « Signore Dio Onipotente, Dio di tutte le creature, io vi rendo grazia di ciò che mi avete procurato in questo giorno in cui devo essere ammesso nel numero dei martiri. Io prendo parte al calice del vostro Cristo, per resuscitare alla vita eterna dell’anima e del corpo nella incorruttibilità dello Spirito Santo. Che in questo giorno possa io essere ammesso alla vostra presenza come vittima di gradevole odore. Io vi benedico, vi glorifico per il Pontefice eterno Gesù-Cristo, vostro Figlio diletto, al quale sia resa gloria insieme a Voi ed allo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen. » Appena completata la preghiera si dette fuoco alla catasta e si levò una gran fiamma. Allora si compì un miracolo che riempì di consolazione i fedeli: le fiamme si dislocarono intorno alla testa del martire come una vela di nave gonfiata dal vento; il santo, dicono i suoi Actes, somigliava all’oro o all’argento provato nel crogiuolo, ed esalava un odore di incenso o di qualche prezioso profumo. I pagani, vedono che le fiamme rispettavano il corpo del santo vegliardo, comandarono ad uno di quelli che negli anfiteatri davano il colpo di grazia agli animali selvaggi, di finirlo con un colpo di spada. Il “confector”, era questo il nome di questa specie di aguzzino, eseguì l’ordine e trafisse Policarpo. Il sangue che ne uscì in abbondanza spense il fuoco. I Cristiani speravano che potessero ottenere le reliquie del loro Vescovo; ma la malizia dei giudei, levò loro questa consolazione. Costoro fecero una tal guardia intorno al falò, che i Cristiani non poterono prendere nulla, il corpo fu gettato nelle fiamme ed i fedeli non poterono conservare che le ossa del martire. Queste ossa, più preziose di gemme, come dicono gli Atti di San Policarpo, furono deposte con onore in un luogo confacente ove ci si riuniva ogni anno per celebrare il glorioso trionfo del santo. Così morivano i capi della Religione Cristiana. Si comparino questi trapassi alla morte degli imperatori! Ma il demonio, che cerca sempre di sedurre le anime, operava delle parodie. Nel primo secolo egli aveva ispirato quell’Apollonio di Tyana, del quale si è voluto fare un personaggio degno di essere paragonato a Gesù-Cristo; questa indegna parodia non aveva però arrestato il progresso del Cristianesimo. Nel secolo secondo il demonio volle avere anche un suo martire illustre, ed ispirò così il cinico Peregrinus, che era morto su un rogo l’anno precedente. Questo Peregrinus, nato vicino a Lampsaco, in Asia minore, aveva trascorso la sua gioventù nella totale dissipazione. Si rifugiò in giudea, ove si fece Cristiano; poi abbandonò la sua nuova religione per farsi filosofo e venne a Roma da dove si fece cacciare per aver declamato contro l’imperatore Marco Aurelio. Si comparava volentieri ad Epitteto, e si spacciava per martire della filosofia. Infine, vedendo che nessuno più gli prestava attenzione, rese pubblica dichiarazione che ai giochi olimpici si sarebbe gettato nel fuoco, sull’esempio di Ercole, per insegnare ai mortali a non temere la morte. In effetti si fece preparare un’immensa catasta e la notte, all’ora in cui cominciava a spuntare la luna, uscì con una truppa di filosofi cinici, che portavano tutti in mano delle torce illuminate. Là, alla presenza di una folla numerosa di popolo attirata dalla singolarità dello spettacolo, fu dato fuoco alla pila di legna di sarmenti. Peregrinus vi gettò qualche grano di incenso, poi invocò i geni di suo padre e di sua madre, e si lanciò in mezzo alla fiamme ove restò consumato, martire dell’inferno e della vanità. [Rohrbacher, Histoire de l’Église, liv. XXVII]. Lo stesso paganesimo si prese burla di questa stravaganza; i Martiri Cristiani non avevano timore del confronto. La Chiesa possedeva all’epoca un santo, decorato pure con il nome di filosofo, ma che amava veramente la saggezza, e che le rendeva testimonianza con la sua morte, come lo aveva fatto con la sua vita ed i suoi scritti: era San Giustino. Nato a Neapolis, o Napluse, l’antica Sichem della Palestina, aveva fatto solidi studi letterari e filosofici; ma né la dottrina di Pitagora, né quella di Platone soddisfavano la sua intelligenza avida di verità. La lettura della Sante Scritture e l’esame della condotta dei Cristiani lo convertirono. Egli visitò l’Egitto e venne a Roma. Da allora non pensò più che a far brillare a tutti gli occhi, la verità che aveva avuto la felicità di scoprire. Le opere che ha lasciato sono annoverate tra le migliori opere di polemisti Cristiani, soprattutto le due Apologie che egli indirizzò l’una ad Antonino Pio, e l’altra a Marco Aurelio. La prima aveva contribuito a far rallentare la persecuzione; la seconda, irritando i suoi nemici, lo condusse al martirio: « Voi ci accusate, diceva in essa, di commettere in segreto dei crimini orribili. Ma questi abomini che noi detestiamo e che voi ci rimproverate, con la calunnia più ingiusta, non temete di commetterli voi stessi in pubblico. Non potremmo noi forse, forti dei vostri esempi, sostenervi arditamente che queste sono delle azioni virtuose? Non potremmo noi rispondervi che macellando bambini, come voi ci accusate falsamente, noi celebriamo i misteri di Saturno, o che le mani dei più illustri personaggi dell’impero si arrossiscano di sangue umano? Quanto ai nostri pretesi incesti, non potremmo noi dire che seguiamo l’esempio del vostro Giove o degli dei, o che noi mettiamo in pratica la morale di Epicuro, dei vostri filosofi e dei vostri poeti? Adunque, è perché noi insegniamo che bisogna fuggire da tali massime, è perché noi cerchiamo di praticare le virtù opposte a questi vizi mostruosi, che voi ci perseguitate senza sosta e ci mandate a morte ? … Ma qualunque giudizio voi portiate su di noi, la nostra dottrina vale molto meglio di tutti gli scritti degli epicurei, di tante infami poesie, di tante opere impudiche che si rappresentano o si leggono con intera libertà. » San Giustino diceva ancora: « I Cristiani non soffrivano la morte con tanta gioia, se fossero stati capaci dei crimini di cui li si accusa. La loro vita e la loro dottrina offre loro molti vantaggi sui filosofi. Socrate ha certamente avuto discepoli, ma non ne ha trovato nessuno che sia stato martire per la sua dottrina. Io so bene, continuava, che questo scritto mi costerà la vita, e che diventerò la vittima del furore di coloro che portano un odio implacabile alla Religione che difendo. » – San Giustino, non si sbagliava: il vigore di questa apologia finì per irritare i suoi nemici contro di lui: un filosofo cinico, Crescente, con il quale aveva disputato e che aveva vinto, non si diede pace finché Giustino non fu arrestato per “crimine” di Cristianesimo, con alcuni dei suoi discepoli: Caritone, Ierace, Peone, Evelpisto e Liberiano. Rustico, prefetto di Roma, cominciò l’interrogatorio: « Obbedite agli dei e conformatevi agli ordine dell’imperatore. – Non si può, senza ingiustizia, diceva Giustino, accusare o punire coloro che obbediscono ai comandamenti d Gesù-Cristo nostro Salvatore. – Di qual genere di filosofia ti occupi? domandò a Giustino il prefetto. Io ho esaminato ogni tipo di dottrina; infine mi sono fermato a quella dei Cristiani, benché sia calunniata da coloro che non la conoscono. – Cosa! Miserabile, tu parteggi per questa dottrina? – Io me ne faccio una gloria, perché essa mi mette nel cammino della verità. – Quali sono i dogmi della religione cristiana? – Noi altri Cristiani, crediamo in un solo Dio, Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, e confessiamo Nostro Signore Gesù-Cristo, Figlio di Dio, predetto dai profeti, Fautore e predicatore di salvezza, giudice di tutti gli uomini. » Il prefetto comandò allora dove si tenessero le assemblee dei Cristiani: « I Cristiani, disse Giustino, si adunano dove vogliono e dove possono. Il nostro Dio non è chiuso in un luogo particolare; poiché Egli è invisibile e riempie il cielo e la terra, lo si adora e si glorifica dappertutto. – Io voglio sapere dove riunisci i tuoi discepoli, riprese il giudice! – Io ho abitato fin qui ai bagni di Timoteo, vicino alla casa di un certo Martin; quando sono venuto a Roma per la seconda volta, non ho frequentato altri luoghi, ed ho insegnato la dottrina della verità a coloro che venivano a trovarmi. – Tu dunque sei un Cristiano? – Si, lo sono. » I discepoli di San Giustino fecero la medesima confessione. Il prefetto disse allora a Giustino: « Ascolta, tu che passi per eloquente e che credi di aver trovato la vera dottrina, quando sarai smembrato dai colpi di frusta dal capo fino ai piedi, immagini dunque che potrai salire al cielo? – Io non lo immagino, rispose Giustino, ne sono certo, e non ho alcun dubbio su lassù. Gesù-Cristo ha promesso questa ricompensa a coloro che avranno osservato la sua legge. » Quando il prefetto vide che non ricavava nulla dal disputare con il santo confessore, ordinò a lui ed ai suoi discepoli di andare a sacrificare agli dei. Giustino rispose a nome di tutti: « Noi non desideriamo altro che soffrire per Gesù-Cristo. I tormenti affretteranno la nostra felicità, e ci ispireranno fiducia in questo tribunale davanti al quale dovranno comparire tutti gli uomini per essere giudicati. » I discepoli aggiunsero: « È inutile farci languire per più tempo; noi siamo Cristiani, non sacrificheremo agli idoli. » Allora il giudice pronunciò la sentenza in questi termini: « … Che coloro che hanno rifiutato di sacrificare agli dei e di conformarsi all’editto dell’imperatore, siano frustrati pubblicamente, poi condotti a morte, così come le leggi prescrivono. » Essi furono dunque condotti sul luogo del supplizio, e dopo aver patito la flagellazione, ebbero la testa tagliata. La morte di San Giustino, si converrà, ha tutto un altro carattere che quella di Peregrinus. Un evento miracoloso venne a dare un cero conforto ai Cristiani. Marco Aurelio faceva guerra ai Quadi, popolo insediato nell’attuale Boemia. Egli si vide chiuso tra le montagne, nel 174, ed i Romani, si trovarono nell’impossibilità di sfuggire a nemici ad essi superiori per numero, e inoltre ridotti agli stremi dalla mancanza d’acqua e dal calore soffocante. Nell’armata imperiale c’erano diversi Cristiani, soprattutto nella legione chiamata “Fulminante” che ordinariamente aveva i suoi quartieri a Melitene, in Armenia. I Cristiani si misero in ginocchio ed implorarono Dio per la salvezza dell’armata. Tutto ad un tratto apparvero grosse nubi in cielo, e cadde una pioggia abbondante. I Romani erano così assetati, che essi ricevettero dapprima l’acqua in bocca, la raccolsero dopo nei loro scudi e nei loro elmi, potendo abbeverare i cavalli, dopo avere abbondantemente soddisfatto la loro sete. I nemici vollero approfittare di questo disordine e piombarono su di essi, ma alla pioggia videro mescolarsi fulmini e grandine che si abbatterono sui barbari e risparmiarono i Romani. I Quadi furono completamente disfatti. – La riconoscenza dell’imperatore per un tale beneficio, non durò però a lungo. I sacerdoti dei falsi dei finirono per persuaderlo che egli doveva la vittoria a Giove e a Marte, e la persecuzione ricominciò in capo a tre anni. I martiri si moltiplicarono. I Cristiani di Lione e di Vienne ebbero particolarmente a soffrire. San Ireneo ha raccontato le loro lotte in un’ammirevole lettera indirizzata da lui e dai fedeli di Lione ai loro fratelli d’Asia, da dove veniva il loro Vescovo san Potino, discepolo di san Policarpo, come san Ireneo. Non sapremmo far di meglio che riprodurre i principali passaggi di questa lettera: « L’animosità dei pagani contro di noi era tale, dicevano i Cristiani di Lione e di Vienne, che venivamo cacciati dalle nostre case, dai bagni e dalle piazze pubbliche. La nostra presenza, in qualunque luogo fosse, era sufficiente ad attirare su di noi gli oltraggi della moltitudine. I santi confessori supportarono con la più generosa costanza tutto ciò che si può sopportare da una popolazione insolente: vociferazioni ingiuriose, saccheggi, insulti, sassaiole ed altri eccessi ai quali si abbandona un popolo furioso contro colo che considera suo nemico. Trascinati sulla pubblica piazza ed interrogati dai magistrati, essi confessarono altamente la loro fede e furono gettati in prigione fino all’arrivo del governatore. Dato che colui che fu incaricato di questo affare, fece arrestare i Cristiani più distinti e fermi sostenitori delle due chiese di Vienne e di Lione, il furore della moltitudine, del governatore e dei soldati si accanì particolarmente contro Santo, diacono di Vienne, contro Maturo, neofito pieno di coraggio e di zelo, contro Attalo, originario di Pergamo, uno dei principali difensori della fede, e contro Blandina, giovane schiava, delicata e debole, che trovò nella sua costanza tanta forza per lasciare che i carcerieri incaricati la torturassero a turno dalla mattina fino alla sera. Quando essi le fecero soffrire tutti i generi di supplizi, si dichiararono vinti, non comprendendo come fosse possibile che ella respirasse ancora dopo mille specie di torture, delle quali una sola sarebbe stata capace di toglierle la vita. « Il diacono Santo non si dimostrò meno irremovibile nella fede. A tutte le interrogazioni del governatore circa il suo nome, la sua origine, la sua patria, non volle rispondere che con le parole. “Io sono Cristiano”. Lame di rame si resero incandescenti sul fuoco, e si applicarono sui distretti più sensibili del suo corpo. Il santo martire vide così arrostire la sua carne, ma senza cambiare posizione, perché la fonte della vita, Gesù-Cristo, spandeva su di lui una rugiada celeste che lo rinfrescava e lo fortificava. Qualche giorno dopo, gli aguzzini lo sottomisero ad un nuovo tormento, quando l’infiammazione delle sue prime piaghe le rendeva così dolorose che egli non poteva soffrire il tocco più leggero. Il suo corpo, lacerato dal dolore, lungi dal soccombere a questa nuova prova, riprese la sua solida flessibilità, di modo tale che, per grazie di Gesù-Cristo, le ultime piaghe divennero un rimedio alle prime. Infine si condannarono alle bestie gli eroici confessori: Maturo e Santo, esposti per primi nell’anfiteatro, furono dapprima battuti con verghe; li si fecero poi sedere su uno scanno di ferro incandescente; la loro carne bruciata spandeva un odore insopportabile; ma gli spettatori non erano ancora sazi di chiedere nuovi supplizi, onde infrangere questa pazienza irriducibile. Li si abbandonò ai morsi delle bestie, e fornirono così, per un giorno intero, il crudele divertimento che diverse coppie di gladiatori davano ordinariamente al popolo. Poiché dopo tanti tormenti, essi ancora respiravano, gli aguzzini furono obbligati a sgozzarli nell’anfiteatro. « Attalo era conosciuto dal popolo come un atleta intrepido della fede. Gli spettatori chiedevano a gran voce che lo si introducesse nell’arena. Per soddisfare la loro rabbia cieca, il santo martire vi fu condotto. Gli si fece fare il giro dell’anfiteatro, con una scritta che portava in latino queste parole: “Attalo il Cristiano”. Prima di essere esposto alle bestie fu posto su di una sedia incandescente. Mentre lo si arrostiva, e l’odore de questo olocausto umano si spandesse lontano, egli diceva al popolo, rispondendo alle accuse di omicidio portate contro i Cristiani: « Siete voi che fate arrostire carne umana per mangiarne. Ma noi non mangiamo uomini, e la nostra religione ci vieta ogni crimine. » – « Blandina, ultima di questa eroica società di martiri, entrò in scena con tanta gioia, come ad un festino nunziale. Dopo ver sofferto le fruste, i morsi delle bestie, la sedia infuocata, la si chiuse in una rete, e la si presentò ad un toro, che più volte la lanciò in aria. Ma la Santa presa dalla speranza che le dava la sua fede, si intratteneva con Gesù-Cristo, e non era più sensibile ai tormenti. Infine si sgozzò questa vittima innocente, ed i pagani stessi confessarono che non avevano mai visto una donna soffrire tante orribili torture con un coraggio simile. « Anche il discepolo di san Policarpo, il vecchio san Potino, rese, con la sua morte, testimonianza alla fede. Vecchio di novant’anni, era attualmente malato e lo si dovette trasportare al tribunale. Sembrava che la sua anima non fosse che legata al suo corpo se non per servire al trionfo di Gesù-Cristo. Mentre i soldati lo trasportavano, egli era seguito da una folla di popolo vociante mille ingiurie contro di lui. Ma questi oltraggi non potettero smuovere il santo vegliardo, né impedirgli di confessare vigorosamente la sua fede. « Qual è il Dio dei Cristiani? Gli domandò il governatore. – Voi lo sapreste se ne foste degno, rispose il Vescovo. Subito, senza rispetto per la sua età, fu indegnamente maltrattato dalla popolazione infuriata. Coloro che potevano avvicinarsi a lui lo colpivano con pugni e calci; i più distanti gli lanciavano tutti i proiettili che trovavano sottomano. Essi non ritenevano essere un crimine insultare il santo vecchio, per vendicare sulla sua persona l’onore dei loro dei. Dopo aver sopportato, senza farsi sfuggire un lamento, questo orribile trattamento, Potino fu gettato in prigione e morì in capo a due giorni per le sue ferite. » La persecuzione continuò, nulla di più toccante che il martirio di San Alessandro e san Epipodio, due giovani delle più illustri famiglie di Lione, legati da una stretta amicizia, si esortavano reciprocamente a soffrire coraggiosamente per amore di Gesù-Cristo. Li si separarono, ma non si mostrarono men coraggiosi; non ci fu che la morte che impedì loro di confessare altamente Gesù-Cristo. Ad Autun, un altro giovane manifestò un coraggio simile. Si faceva una processione solenne in onore della dea Cibele: questo giovane, chiamato Sinforiano, non potette impedirsi di testimoniare il più alto disprezzo che gli ispirava questa cerimonia. I pagani lo condussero davanti l tribunale del proconsole Eraclio. « Perché non vuoi onorare Cibele, la madre degli dei? … domandò costui. – Io adoro il vero Dio, rispose Sinforiano. Per quanto riguarda l’idolo dei vostri demoni, se lo permettete, io lo frantumerò a colpi di martello sotto i vostri occhi. – Non ti basta essere sacrilego; tu vuoi pure farti punire come ribelle? » Si batté con le verghe Sinforiano. Qualche giorno dopo, Eraclio tentò di persuaderlo, promettendogli onori e piaceri. Sinforiano rigettò questi propositi con orrore e, prendendo la parola, si mise a descriverne, facendone risaltare la stravaganza e il ridicolo, le corse insensate dei coribanti in onore di Cibele, la soverchieria dei sacerdoti che rendevano oracoli in nome di Apollo, e le caccie superstiziose in onore di Diana. Egli fu condannato ad avere la testa troncata; mentre si conduceva al luogo del supplizio, fuori dalle mura della città, ecco uno spettacolo sublime e toccante: egli ritardò un momento la marcia … si vide sui bastioni una dama venerabile per l’età e le virtù; era la madre di Sinforiano, che era accorsa a vedere un’ultima volta ed incoraggiare il martire: « Sinforiano, figlio mio, gli gridò, coraggio caro figlio mio, ricordati del Dio vivente, mostra la costanza della tua fede. Non si deve temere una morte che conduce sicuramente alla vita. Tu non devi rimpiangere la terra: riguarda in alto, caro figlio mio, e disprezza i tormenti che durano tanto poco; là in alto c’è la ricompensa! Coraggio! Questi tormenti si cambieranno in una eterna felicità. » Degno figlio di tal madre, Sinforiano soffrì generosamente il martirio e fu decapitato. Si raccolsero le sue reliquie, che formarono più tardi uno dei più preziosi tesori di una basilica elevata sul luogo dove lo si era deposto.

I PAPI DELLE CATACOMBE (3) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [III]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

III

I Martiri.

Quando morì l’Apostolo San Giovanni, nello stesso anno del Papa San Clemente, il Vangelo era già stato predicato su tutta la terra, e floride comunità cristiane esistevano nelle principali città dell’Impero. Questa rapida propagazione di una Religione nemica della voluttà e della tirannia, spaventò gli imperatori: Nerone e Domiziano avrebbero voluto distruggerla, ma essi erano dei mostri di crudeltà, e si poteva credere che non fossero stati perseguitati se non perché questi fossero dei tiranni; la persecuzione di Traiano, uno de più grandi imperatori che abbia mai avuto Roma pagana, celebre per la sua giustizia e la sua dolcezza, mostrò ciò che il Cristianesimo poteva attendersi anche da principi migliori. Uno dei primi atti di Traiano infatti, fu quello di bandire il Papa San Clemente; subito dopo rimise in vigore un’antica legge romana che proibiva di riconoscere alcun dio senza l’approvazione del senato. Tutto si fece con la massima regolarità; non si ebbero editti cruenti, ci si contentò di proibire nelle provincie le associazioni e le assemblee notturne. Era una persecuzione di carattere politico, a giudizio dell’imperatore. In effetti, non si accusavano i Cristiani di alcun crimine, non si contestava la loro innocenza, ma essi adoravano un Dio non riconosciuto dalla legge, essi erano in contravvenzione con i regolamenti relativi al culto ufficiale dell’impero, dunque essi meritavano la morte. È curioso vedere come le più belle intelligenze del paganesimo e lo stesso imperatore trattano questa questione. Plinio il Giovane, uno dei migliori scrittori latini e uno dei più bei caratteri dell’antica Roma, era governatore di Bitinia, e un particolare amico di Traiano. Dopo aver interrogato i Cristiani per far loro rispettare la legge, si credette obbligato a scrivere all’imperatore per sapere come comportarsi di fronte a questa gente alla quale non aveva nulla da rimproverare: « Io ho voluto esaminare personalmente, egli dice, la condotta dei Cristiani. Essi hanno l’abitudine di riunirsi in un dato giorno, prima del levarsi del sole, e di cantare insieme degli inni in onore del Cristo, che venerano come un Dio. Essi si obbligano con giuramento ad evitare tutti i crimini, a non commettere frode alcuna, furto, né adulterio e a non mancare mai alla propria parola, a non negare un prestito. Essi poi si ritirano e si riuniscono nuovamente per consumare in comune un pasto ordinario ed innocente. Per la proscrizione che si dirige contro i Cristiani si mettono in pericolo una moltitudine di persone di ogni età, sesso e di ogni condizione, perché questa superstizione contagiosa ha raggiunto non solo le città, ma pure le borgate e le campagne. Si abbandonano i templi degli dei, i sacrifici solenni sono interrotti da molto tempo e nessuno compra più le vittime, io ho esitato non poco per sapere se occorre nei processi di questo genere, ammettere qualche differenza di età o di rango; se i più teneri fanciulli non debbano essere distinti dalle persone adulte; se occorre perdonare ai pentiti, o se è sufficiente non essere più Cristiani a chi lo è stato una volta; infine se ciò che si punisce sia il nome soltanto, senza aggiungere altri reati, o siano altri crimini legati al nome. » Non si potrebbe trovare una testimonianza così magnifica resa alla purezza dei costumi dei primi Cristiani ed alla loro innocenza. La lettera di Plinio prova nel tempo stesso quanto il Cristianesimo sia progredito. Si doveva attendere una risposta imperiale che mettesse i Cristiani fuori causa, perché la loro Religione non aveva ricevuto ancora l’approvazione del senato, Traiano avrebbe proposto senza dubbio a questa assemblea di riconoscere Gesù-Cristo come uno degli dei tollerati nell’impero. Ma si dimentica che i sacerdoti degli dei vedevano deserti i loro templi, che la Religione del Crocifisso è la nemica delle passioni, e che l’errore, tollerante verso tutti gli errori, è sempre intollerante verso la verità. Così Traiano rispose a Plinio: « Non bisogna ricercare i Cristiani, ma se essi sono denunciati e persistono nella loro fede, bisogna punirli. » Su questo Tertulliano scrive: « strano decreto questo che, proibendo di ricercare i Cristiani, riconosce implicitamente la loro innocenza ed ordina comunque di punirli come colpevoli in seguito ad una semplice denunzia! » Tertulliano aveva ragione, ma la passione non ragiona, ed il paganesimo ed il dispotismo imperiale sentivano comunque troppo bene a qual punto la nuova Religione li minacciasse per consentire di tollerarla: essa rendeva gli uomini migliori e faceva diminuire il numero di crimini e, cosa più importante, proscriveva le voluttà e gli eccessi della tirannia!

Terza persecuzione (106)

La persecuzione seguì dunque sotto Traiano con lo stesso furore che sotto Nerone e Domiziano, con degli intervalli di tregua seguiti da nuovi rigori nelle varie provincie, secondo le disposizioni particolari dei governatori romani. È allora che morirono per il nome di Gesù-Cristo, il venerabile vecchio Simeone, parente di Nostro Signore e vescovo di Gerusalemme ed i discepoli degli Apostoli, Onesimo e Timoteo, il Papa Sant’Evaristo, e altri migliaia. Ma tra tutti si distinse l’illustre vescovo di Antiochia, Sant’Ignazio, discepolo di Giovanni Evangelista, che era succeduto a Sant’Avodio, a sua volta successore di San Pietro. Traiano marciava allora contro i Parti. Arrivato ad Antiochia, pensò di riconciliarsi con i propri dei facendo ricercare i Cristiani. Ignazio comparve davanti al potente imperatore che gli dice subito. « Sei tu dunque, cattivo demonio, che osi sfidare i miei ordini e persuadere gli altri a perire miseramente? – “Nessuno, risponde San Ignazio, chiama Teoforo un cattivo demonio” (Ignazio era soprannominato teoforo che in greco significa portatore di Dio) – E chi è Teoforo? – riprese Traiano – Colui che porta Gesù-Cristo nel suo cuore. – Tu credi dunque che non abbiamo anche noi, nei nostri cuori, gli dei che ci danno la vittoria? – È un errore chiamare dei i demoni che voi adorate, riprende Ignazio; non c’è che un solo Dio che ha fatto i cieli e la terra con tutto quanto contengono, ed un solo Gesù-Cristo suo unico Figlio, nel regno del quale io desidero ardentemente essere ammesso. – Tu voi parlare senza dubbio di colui che è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato? Dice l’imperatore. – È quello stesso che con la sua morte ha crocifisso il peccato con l’autore del peccato, replicò il santo Vescovo. – Tu porti dunque Gesù Cristo in te? Disse ancora Traiano. – Si, rispose Ignazio, perché è scritto: Io abiterò e riposerò in voi. » Traiano disperando di vincere la costanza del Vescovo troncò la questione dicendo: « Noi ordiniamo che Ignazio, che dice di portare in sé il Crocifisso, venga legato e condotto a Roma per esservi divorato dalle bestie e servire da spettacolo al popolo. » Ascoltando questo ordine, Ignazio esclamò con trasporto di gioia: « Io vi rendo grazie, o Signore, di questo onore che mi fate di portare le stesse catene con cui avete onorato il grande Paolo, nostro Apostolo. » E raccomandando a Dio la sua Chiesa, si incatenò egli stesso consegnandosi ai soldati. Gli imperatori romani non erano abituati a vedere tali “crimini”. Il viaggio di Sant’Ignazio a Roma fu un lungo trionfo ed una missione fruttuosa. – I diversi Cristiani della Siria gli inviavano delegazioni; ma egli li supplicava di non ritardare la consumazione del proprio martirio. Egli temeva che i Cristiani di Roma facessero delle rimostranze in suo favore; scrisse loro questa lettera, monumento magnifico dell’amore con il quale i Cristiani di allora abbracciavano la croce e le torture, e nuova prova del primato riconosciuto alla sede di San Pietro: « Ignazio alla Chiesa favorita di Dio, illuminata dalla luce di Colui che dispone tutto secondo l’amore di Gesù-Cristo, a questa Chiesa, elevata su una sede d’onore al di sopra delle altre Chiese, ove tutto è regolato dalla prudenza, ove tutto è condotto con saggezza, ove regna la carità, ove trionfa la castità … io temo che non abbiate per me una compassione tanto tenera e, opponendovi alla mia morte, non vi opponiate alla mia felicità. Soffrite perché io sia immolato, mentre è drizzato l’altare! Unite soltanto le vostre voci e cantate, durante il sacrificio, degli inni di lode … non lasciatevi andare ad una falsa compassione per me. Lasciate che diventi pasto delle bestie. Che io sia il frumento di Dio; bisogna che io sia macinato dai denti delle bestie affinché diventi un pane degno di essere offerto a Gesù-Cristo. Oh! Accarezzate queste bestie feroci affinché divorandomi interamente divengano la mia tomba. Io sospiro le bestie che mi sono preparate: possano esse distruggermi sul campo! Io le irriterò affinché mi divorino prontamente e che non sia di me come un qualcuno che esse non hanno osato toccare. Se esse non vogliono, io le forzerò … Io vi ho scritto vivente, ma desidero morire. Il mio amore è crocifisso. Io sono insensibile sia al cibo corruttibile, sia ai piaceri di questa vita. Io desidero il pane di Dio, che è la carne di Gesù-Cristo. Io desidero per bevanda il sangue dello stesso Gesù-Cristo, che è la carità incorruttibile. » – Si trova forse nel paganesimo un tale amore di Dio, un tale disprezzo della vita, una tale aspirazione verso l’infinita Bontà e l’infinita Santità? Come aveva, il Cristianesimo, trasformato la natura umana! Qual superiorità non dava allo spirito sulla carne! È questa quella rivoluzione che il paganesimo avvertiva fremendo e di cui tentava di respingere il definitivo avvento, elargendo e moltiplicando i supplizi e le seduzioni! Il santo vescovo di Antiochia non scrisse solo ai fedeli di Roma: egli indirizzò ancora lettere alle Chiese di Efeso, da Magnesia, Tralleis, Smirne e Filadelfia, e a San Policarpo, discepolo come lui di San Giovanni Evangelista e Vescovo di Smirne; tutte queste lettere sono dei monumenti di saggezza, di fede e di carità. Egli si era dapprima fermato per un certo tempo a Smirne; le sue guardie lo condussero poi a Troade, a Neapoli, in Macedonia ed a Filippi. Egli dovette attraversare a piedi tutta la Macedonia e l’Epiro. Si imbarcò ad Epidauro in Dalmazia, passò nei pressi di Regesta, Pozzuoli, e sbarcò nei pressi di Ostia da dove si recò a Roma; i Cristiani accorsero numerosi al suo arrivo. Egli arrivò a Roma il 20 dicembre dell’anno 107: era questo l’ultimo giorno dei giuochi pubblici che allora si celebravano. Il prefetto della città lo fece subito condurre all’anfiteatro. Ignazio ascoltando i ruggiti dei leoni, riprese queste parole dalla sua lettera ai Romani: « Io sono il frumento di Dio, bisogna che sia macinato dai denti delle bestie perché divenga un pane degno di Gesù-Cristo. » Appena le ebbe pronunciate, due leoni furono lanciati su di lui e lo divorarono in un istante, non lasciando del suo corpo se non le ossa più grandi e più dure. Dio lo aveva esaudito. « A questo triste spettacolo, dicono i Cristiani che avevano accompagnato e che hanno raccontato il suo martirio, scoppiammo tutti in lacrime. Passammo la notte seguente in preghiera e nella veglia, scongiurando il Signore che ci consolasse di questa morte, dandoci qualche segno della gloria che la seguiva. Il Signore ci esaudì; essendosi alcuni tra noi addormentati, videro Ignazio in una gloria ineffabile. » Traiano fu meno malvagio di altri persecutori, si impegnò in diverse spedizioni militari che lo coprirono di gloria; ma la mano di Dio alla fine si appesantì su di lui. Egli era in Oriente, e gli si preparava a Roma e in tutta l’Italia un ritorno trionfale. Assediò una città quasi sconosciuta degli arabi agareni o saraceni, ma fu battuto e costretto a ritirarsi. Allora si ammalò; si sospettò che si fosse avvelenato. Appena tornato in Italia, morì a Selinunte, in Sicilia, nell’anno 112, dopo diciannove anni di regno, lasciando suo successore: Adriano, marito di sua nipote. Traiano non ebbe posterità; nel momento della morte poté apprendere che tutte le provincie da lui conquistate si erano rivoltate. Nella sua condotta privata si era distinto per infami dissolutezze che condivise con il suo successore, del quale era tutore. Questo uomo, che i suoi abominevoli costumi avrebbero reso ai nostri tempi oggetto di disprezzo e di disgusto universale, fu tuttavia uno dei “migliori” imperatori romani, vantato come il modello dei principi: ecco ciò che il paganesimo produceva di più perfetto! – Adriano, che regnò dal 117 al 138, si disonorò ancor più del suo predecessore per l’infamia dei costumi; tutte le abominazioni di Sodoma erano familiari a questo imperatore del secondo secolo dell’era cristiana, che gli storici considerano tuttavia il secolo d’oro dell’impero. La persecuzione continuò sotto Adriano come era stato sotto Traiano. Due Papi, sant’Alessandro e san Sisto I ne furono le vittime. Si annovera tra esse pure Dionigi l’Aeropagita, che si era convertito alla predicazione di San Paolo; egli divenne il primo Vescovo di Atene, e fu molto probabilmente il primo Vescovo di Parigi: così almeno ce lo riportano le più antiche tradizioni ed i martirologi di Roma e dei Greci, autorità che valgono bene quella dei critici che hanno voluto fare due Dionigi del discepolo di San Paolo. Non c’era forse un disegno provvidenziale nella missione data all’Aeropagita, di venire il Gallia per morirvi su questa collina di Montmartre (mons martyris = mote dei martiri) che domina la “moderna Atene” e la nuova capitale intellettuale del mondo moderno, come Atene lo era del mondo romano? Ma il martirio più celebri di questi tempi fu quello di santa Simforosa e dei suoi figli: Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stratteo ed Eugenio. Adriano aveva fatto costruire una magnifica casa di campagna a Tibur (Oggi Tivoli). Venne a sapere che colà viveva una vedova di un cristiano martire, chiamata Simforosa, che non si occupava che di pregare ed allevare piamente i suoi figli. Egli volle vederla, tanto più che i suoi sacerdoti pretendevano che gli dei si sarebbero irritati contro di lui se Simforosa ed i suoi figli continuassero ad invocare il nome di Gesù-Cristo. Adriano impiegò dapprima la dolcezza e la persuasione. Simforosa rispose a nome di tutti: « Getullio, mio marito, e mio fratello Amanzio, entrambi tribuni nelle vostre armate, hanno sofferto tormenti diversi per il nome di Gesù-Cristo, piuttosto che sacrificare agli idoli. Noi vogliamo imitarli! » – Adriano, irritato da questa risposta, prese allora un tono severo: « Se tu non sacrifichi con i tuoi figli, egli disse a Simforosa, voi sarete tutti offerti in sacrificio ai nostri dei potenti. – I vostri dei non possono ricevermi in sacrificio, replicò la santa vedova; ma se io sono bruciata per il nome di Gesù-Cristo, la mia morte aumenterà i tormenti che i vostri demoni soffrono nelle loro fiamme. – Sacrificate ai miei dei, o perirete tutti miseramente, esclamò l’imperatore. – Non crediate che la paura possa farmi cambiare idea, rispose dolcemente Sinforosa, io desidero essere riunita nel luogo di riposo con mio marito morto per il nome di Gesù-Cristo. » Non si poté cavare null’altro da questa coraggiosa cristiana. La si condusse al tempio di Ercole ove ebbe il viso tempestato da pugni. Venne sospesa poi sui cavalletti e, poiché si mostrava irriducibile, la si gettò nel fiume con una grossa pietra al collo. L’indomani Adriano fece venire i sette figli della santa. Dopo aver inutilmente utilizzato carezze e minacce per farli apostatare, fece piantare intorno al tempio di Ercole sette pali sui quali li stese con delle pulegge serrate con tale violenza che le loro ossa furono slogate. Ma lungi dal cedere alla crudeltà degli aguzzini, essi si animarono gli uni con gli altri. L’imperatore, furioso per una tale resistenza, comandò che venissero messi a morte nel posto stesso ov’erano: Crescente fu trafitto con un colpo di spada alla gola; Giuliano ebbe il petto trafitto da diverse punte di ferro ivi spinte; Nemesio ebbe il cuore trafitto da una lancia, Primitivo fu colpito allo stomaco; si ruppero le reni a Giustino e si aprì il costato a Stratteo, ed Eugenio, che era il più giovane, fu squarciato dall’alto in basso. Adriano fece scavare una fossa profonda ove vennero gettati i corpi dei martiri. I sacerdoti pagani chiamarono questo luogo i sette Biothanates, cioè i sette suppliziati. Tali erano i divertimenti del clementissimo e dolcissimo Adriano che, salendo al trono, aveva proclamato che avrebbe dimenticato tutte le sue antiche ingiurie e che si era fermato un giorno alle grida di una donna che domandava giustizia all’imperatore e dicendogli di cessare di regnare se non voleva rendere giustizia a questi soggetti. Ma a parte qualche tratto di virtù puramene umana, a parte alcuni reali miglioramenti portati all’amministrazione dell’impero, quanta crudeltà! Quante bassezze ed infamie che disonorerebbero per sempre un principe cristiano! Adriano amava l’arte e per gelosia faceva perire gli artisti la cui gloria lo offuscava; egli amava la giustizia e faceva morire i Cristiani innocenti. Quando si avvicinò alla morte, accelerò le sue vergognose scelleratezze, si mostrò più crudele e più fanatico che mai: fece perire suo cognato Serviano e il pronipote Fusco; fece morire di dolore o di veleno sua moglie Sabina, della quale fece poi una dea; fece morire suo figlio adottivo Vero, perché questi persecutori non avevano figli, e ne fece parimenti un dio. Nulla di tutto questo calmava le sue sofferenza, egli desiderava morire e non poteva; chiedeva del veleno o una spada, e nessuno gliene dava; si lamentava di non poter morire, egli che poteva ancora far morire gli altri. Infine mangiò e bevve delle cose che non convenivano al suo stato, e morì così come un animale al quale non interessa né il passato né l’avvenire; il senato fece un “dio” di questo dissoluto che aveva temuto e disprezzato quando era in vita. Tuttavia la persecuzione si era rallentata verso la fine del suo regno: le delegazioni di governatori delle provincie e gli eloquenti apologisti dei Cristiani, avevano finito per ispirare ad Adriano migliori sentimenti riguardo alla religione di Gesù-Cristo; si dice anche che pensò di inserire Gesù nel numero dei suoi dei, e che permise ai Cristiani di erigere dei templi. Ma la persecuzione, benché meno viva, faceva sempre delle vittime, sia in una provincia che in un’altra, ed il regno di Antonino Pio, successore di Adriano, non fu che un periodo di tranquillità relativa: ma non era la pace! Antonino, il più dolce degli imperatori romani, regnò dal 138 al 161; si ebbero a lodare in lui molte eccellenti qualità; ma in fondo era di carattere debole e senza energia, voleva il bene solo per essere tranquillo, e sognava soprattutto di vivere la vita gioiosamente, senza ricusare i piaceri più divertenti. In questa epoca viveva anche qualche pagano di vita più stimabile, come lo storico Plutarco ed il filosofo Epitteto. Leggendo il primo, si ama il suo carattere, ma la sua morale è ancora molto lontana da quella evangelica! Il secondo, nato schiavo, fu veramente un modello di fermezza e di pazienza: avendogli un giorno il suo maestro fratturato una gamba battendolo, egli si contentò di dirgli: « Ve lo avevo detto che me la fratturavate. » La raccolta di sentenze di Epitteto forma un bel codice morale; ma in questo codice, se si avverte la fermezza dello stoico, non si sente la tenera carità del Vangelo che egli forse già conosceva all’epoca, e le virtù che ispira non hanno quel profumo di dolcezza e di umiltà che esala da tutte le virtù cristiane. Sembra che il demonio abbia tentato di sedurre le anime più generose con l’attrazione di queste virtù naturali che egli era ben sicuro di abbattere facilmente, qualora fossero riuscite a dissuadere gli uomini dall’abbracciare il Cristianesimo. Vedendo che non poteva sedurre tutti con le attrattive grossolane della voluttà, egli tentava almeno di arrestare i pagani più virtuosi a metà del cammino lungo la strada che conduceva al Cristianesimo. Alcuni autori, ammirando la purezza e l’elevazione della morale di Epitteto, hanno pensato che fosse cristiano, e che avesse conversato in gioventù con san Paolo, poiché faceva parte della casa di Nerone quando san Paolo venne a Roma. È possibile che in effetti Epitteto abbia visto san Paolo; non si può dubitare che egli abbia conosciuto la morale del Vangelo, e che non abbia studiato una religione che faceva tanto scalpore in quei tempi; ma degli indici troppo evidenti di paganesimo, che affastellano il suo libro, non permettono di credere che egli abbia realmente aderito al Cristianesimo. Ad ogni modo e malgrado le belle massime dei filosofi, malgrado la dolcezza di Antonino Pio, la Chiesa ebbe a soffrire durante questo regno e l’imperatore stesso ebbe a prendere parte alla persecuzione. – C’era a Roma una vedova, degna emula di Simforosa, assai distinta per la sua virtù e per la nascita. Ella allevava sette figli nel timore del Signore e nella pratica di ogni virtù. I sacerdoti pagani, furiosi per i progressi di una religione che rendeva deserti i propri templi, e per l’influenza che questa vedova, di nome Felicita, esercitava intorno ad essa, chiesero all’imperatore di farla morire o di costringerla a sacrificare agli dei con i suoi figli. Antonino, che era superstizioso, non avrebbe del resto osato resistere ai sacerdoti dei suoi dei, ma non voleva turbare per questo il suo riposo; incaricò allora di quest’affare Publio, prefetto della città. – Publio fece dunque venire davanti al suo tribunale Felicita con i suoi figli. Egli la prese da parte e cercò di invogliarla all’apostasia, mettendola al corrente degli ordini dell’imperatore, raccomandandole l’esempio che ella doveva dare alla città, e la salvezza dei suoi figli che dipendeva dalla risoluzione che avrebbe preso. « Voi non mi conoscete, rispose tranquillamente Felicita, se credete di spaventarmi con le vostre minacce o sedurmi con le belle parole. Io spero che Dio mi sosterrà nel combattimento che si avvicina. – Maledizione! Esclamò Publio, se la morte ha per te tanto fascino, non impedire almeno ai tuoi figli di vivere! – I miei figli vivranno, riprese la santa vedova, se rifiutano di sacrificare agli idoli; ma se soccombono, essi dovranno attendersi dei supplizi eterni. » Il giorno seguente Publio tenne una seduta solenne davanti al tempio di Marte, e fece nuovamente condurre al suo tribunale la nobile donna ed i suoi figli; poi rivolgendosi alla madre: « Abbi pietà di questi figli nel fiore dell’età, e che possono aspirare alle più alte dignità dell’impero. – Questa pietà, rispose la santa, sarebbe un’empietà, e la compassione che voi mi prospettate è una vera crudeltà. » Allora, volgendosi verso i suoi figli: « ragazzi miei, ella disse, guardate in alto, guardate il cielo: è la che Gesù-Cristo vi attende con i suoi santi; persistete nel suo amore e combattete generosamente per le vostre anime. » Preso da furore per l’affronto, Publio disse: « Tu osi in mia presenza disprezzare gli ordini dell’imperatore? » Egli si decise allora a fare un nuovo tentativo per impaurire i giovani, affrontandoli l’uno dopo l’altro; ma si vide rinnovare la sublime scena dell’interrogatorio di Antioco ai Maccabei. Il primogenito dei sette, chiamato Gennaro, rispose: « Ciò che voi mi consigliate di fare è contrario alla ragione; io aspetto dalla bontà del Signore Gesù che Egli mi preservi da una tale empietà. » Gennaro fu battuto con la verga e messo in carcere. Il secondo fratello, Felice, fu poi portato davanti al prefetto. « Non c’è che un solo Dio, esclamò, è a Lui solo che dobbiamo sacrifici: tutti gli artifici e le finezze della crudeltà saranno vani, noi non abbandoneremo la nostra fede. » Felice venne trattato come il fratello. Venne poi il terzo, di nome Filippo: « Il nostro signore, l’imperatore Antonino, gli disse Publio, ti ordina di sacrificare agli dei onnipotenti. – Coloro ai quali tu vuoi che io sacrifichi, rispose Filippo, non sono né dei, né onnipotenti; essi sono dei vani simulacri privi di sentimenti, chiunque sacrifico fatto a loro, precipita in una infelicità eterna. » A Filippo successe Silvano, il quarto dei fratelli: « A quanto vedo, gli disse Publio, voi avete cospirato con la più malvagia delle madri per sfidare l’ordine del principe ed andare incontro alla vostra perdita? – Se noi temeremo, rispose Silvano, questa perdita passeggera, noi cadremo in una disgrazia eterna. Ma voi non conoscete quale ricompensa è riservata ai giusti e qual supplizio attende i peccatori; ecco perché noi disprezziamo senza paura la legge dell’uomo per obbedire a quella di Dio. Coloro che disprezzano gli idoli e servono Dio onnipotente, troveranno la vita eterna; coloro che adorano i demoni cadranno con essi in un eterno incendio. » Alessandro rimpiazzò Silvano: « Abbi pietà della tua giovane età, gli disse il prefetto, salva una vita che è ancora nel corso dell’infanzia, sacrifica agli dei e diverrai amico dell’imperatore. – Ma io, esclamò Alessandro, sono servo di Gesù-Cristo; i vostri dei saranno precipitati in un supplizio eterno con i loro adoratori. » Vitale, il sesto dei fratelli, si mostrò altrettanto intrepido. Infine venne Marziale, il più giovane, dolce piccolo agnello che il prefetto sperava di far piegare:« Sii più saggio dei tuoi fratelli, gli disse; essi si attirano la sventura disprezzando le leggi dell’imperatore. – Ah! gridò il bambino, se voi sapeste quali tormenti sono riservati a coloro che servono i demoni! Dio tarda ancora a far vendetta su di voi e sui vostri idoli; ma infine tutti coloro che non confessano che Gesù-Cristo è il vero Dio, saranno gettati nel fuoco eterno. » Tutti questi gloriosi martiri furono tormentati cl fuoco dopo essere stati crudelmente frustati. Publio ne fece un rapporto ad Antonino che rinviò i sette fratelli a diversi giudici, per farli morire con diversi generi di supplizi. Gennaro fu battuto fino a morirne con fruste guarnite con sfere di piombo. Felice e Filippo caddero sotto i violenti colpi di bastoni scaricati su i essi. Silvano fu gettato a testa in giù da un precipizio; Alessandro, Vitale e Marziale, furono decapitati. Felicita aveva assistito a questi supplizi: aveva nuovamente generato i suoi figli alla vita eterna sostenendoli con le sue esortazioni e le sue preghiere. Il suo martirio si prolungò ancora quattro mesi; ella fu allora decapitata ed andò così a raggiungere in cielo i suoi generosi figli. Questo accadeva nell’anno 150 dell’era cristiana. – Il pio Antonino morì per un eccesso alimentare senza lasciare posterità; ma egli aveva adottato Marco Aurelio, che gli successe e che regnò dal 161 al 180. Durante il regno di Antonino erano morti martiri tre Papi: San, Igino, San Telesforo e san Pio I.

NELLA FESTA DELL’ASCENSIONE [2018]

NELLA FESTA DELL’ASCENSIONE [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Acta 1:11.
Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in coelum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.
[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps XLVI:2
Omnes gentes, pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exsultatiónis.
[Applaudite, o genti tutte: acclamate Dio con canti e giubilo.]

Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in cœlum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.

[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio
Orémus.
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui hodiérna die Unigénitum tuum, Redemptórem nostrum, ad coelos ascendísse crédimus; ipsi quoque mente in coeléstibus habitémus. [Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che noi, che crediamo che oggi è salito al cielo il tuo Unigenito, nostro Redentore, abitiamo anche noi col nostro spirito in cielo].

Lectio
Léctio Actuum Apostólorum.
Act 1:1-11
Primum quidem sermónem feci de ómnibus, o Theóphile, quæ coepit Iesus facere et docére usque in diem, qua, præcípiens Apóstolis per Spíritum Sanctum, quos elégit, assúmptus est: quibus et praebuit seípsum vivum post passiónem suam in multas arguméntis, per dies quadragínta appárens eis et loquens de regno Dei. Et convéscens, præcépit eis, ab Ierosólymis ne discéderent, sed exspectárent promissiónem Patris, quam audístis -inquit – per os meum: quia Ioánnes quidem baptizávit aqua, vos autem baptizabímini Spíritu Sancto non post multos hos dies. Igitur qui convénerant, interrogábant eum, dicéntes: Dómine, si in témpore hoc restítues regnum Israël? Dixit autem eis: Non est vestrum nosse témpora vel moménta, quæ Pater pósuit in sua potestáte: sed accipiétis virtútem superveniéntis Spíritus Sancti in vos, et éritis mihi testes in Ierúsalem et in omni Iudaea et Samaría et usque ad últimum terræ. Et cum hæc dixísset, vidéntibus illis, elevátus est, et nubes suscépit eum ab óculis eórum. Cumque intuerétur in coelum eúntem illum, ecce, duo viri astitérunt iuxta illos in véstibus albis, qui et dixérunt: Viri Galilaei, quid statis aspiciéntes in coelum? Hic Iesus, qui assúmptus est a vobis in coelum, sic véniet, quemádmodum vidístis eum eúntem in coelum.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, Queriniana Brescia, 1896 vol. II, impr.]

Io primieramente ho trattato, o Teofìlo, delle cose che Gesù prese a fare e ad insegnare in fino al dì, ch’Egli fu accolto in alto, dopo aver dato i suoi comandi per lo Spirito Santo agli Apostoli ch’Egli aveva eletti. Ai quali ancora, dopo aver sofferto, si presentò vivente, con molte e sicure prove, essendo da loro veduto per lo spazio di quaranta giorni e ragionando con essi delle cose del regno di Dio. E trovandosi con essi, comandò loro che non si partissero da Gerusalemme, ma aspettassero la promessa del Padre, che, diss’Egli, avete da me udita. Perocché Giovanni battezzò con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni. Essi adunque, stando con Lui, lo domandarono, dicendo: Signore, sarà egli in questo tempo, che tu restituirai il regno ad Israele? Ma Egli disse loro: Non spetta a voi conoscere i tempi e le stagioni, che il Padre serba in poter suo. Ma voi riceverete la virtù dello Spirito Santo, che verrà sopra di voi e mi sarete testimoni e in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e fino alle estremità della terra. E dette queste cose, levossi a vista loro: e una nuvola lo ricevette e lo tolse agli occhi loro. E com’essi tenevano ancora fissi gli occhi in cielo, mentre se ne andava, ecco due uomini si presentarono loro in candide vesti e dissero loro: Uomini Galilei, perché state riguardando verso il cielo? Questo Gesù che è stato accolto in cielo d’appresso voi, verrà nella stessa maniera che l’avete veduto andarsene in cielo -. (Atti Apostolici, 1. I, 11). – In questi primi undici versetti, che leggiamo nel principio del libro degli Atti Apostolici, che la Chiesa oggi fa recitare al sacerdote celebrante la Santa Messa e che ora vi ho riportato parola per parola nella nostra favella, S. Luca ci narra l’Ascensione di Gesù Cristo al Cielo. È il fatto strepitoso, è il mistero che la Chiesa festeggia in questo giorno, col quale si chiude la vita di Gesù Cristo quaggiù sulla terra. Mio compito è quello di ragionarvi di questo fatto: e qual miglior modo di sdebitarmene che quello di commentare la lezione sacra, che udiste? Eccovi il soggetto di questa, anziché Ragionamento, modesta Omelia, a cui vi piaccia porgere benigno l’orecchio. – S. Luca, nato nel gentilesimo, fornito di coltura greca più che comune, fu medico di professione. Abbandonò il paganesimo e abbracciò il Vangelo di Gesù Cristo per opera di S. Paolo, che seguì fedelmente ne’ suoi viaggi di terra e di mare fino a Roma, dove si trovava allorché l’Apostolo scrisse la sua seconda lettera a Timoteo, poco prima della morte. (II Tim. V. 11). S, Paolo si loda di lui e lo chiama carissimo. (Ai Coloss. IV, 12). Egli scrisse il suo Vangelo come l’aveva udito da S. Paolo e lo scrisse in lingua greca, allora abbastanza conosciuta in tutto l’Oriente e a Roma e lo scrisse per uso di quei Cristiani, che prima erano stati gentili. Dopo aver scritto il Vangelo pose mano a scrivere il libro, che porta il titolo Atti o Gesta degli Apostoli, particolarmente di S. Paolo, giacché la seconda metà del libro si restringe esclusivamente a narrare le opere di lui: cosa affatto naturale, essendo egli stato suo discepolo e compagno e testimonio di ciò che narra. Cominciando questo libro, lo lega col Vangelo, che prima aveva scritto e che racchiude per sommi capi la storia di circa trent’anni. Questo libro fa seguito al Vangelo e ci descrive l’origine della Chiesa e, come voleva la natura delle cose, si apre col racconto della Ascensione di Gesù Cristo, accennata appena nell’ultimo capo del Vangelo. Uditene il prologo: Primieramente, o Teofilo, ho ragionato di tutte le cose, che Gesù prese a fare e ad insegnare fino al giorno, nel quale, dati per lo Spirito Santo i suoi comandi agli Apostoli, da Lui eletti, levossi al cielo. S. Luca rivolge la parola a Teofilo. Chi è desso codesto Teofilo, al quale S. Luca si indirizza eziandio a principio nel suo Vangelo? Sembra fuori di dubbio che fosse un personaggio distinto, che aveva dato il suo nome a Gesù Cristo e la cui vita doveva rispondere al nome che portava, e che in nostra lingua significa Amatore di Dio. Gli ricorda il libro del Vangelo, che gli aveva mandato e nel quale aveva compendiato le opere e la dottrina di Gesù Cristo. – Quæ cœpit Jesus facere et docere. Ecco che cosa è il Vangelo: il compendio delle cose fatte e insegnate da Gesù Cristo; dal che è facile inferire che nel Vangelo le opere e la dottrina di Gesù Cristo non sono riferite tutte, ma le principali e per sommi capi. A ragione poi gli interpreti fanno osservare che S. Luca, compendiando la vita di Gesù Cristo nel Vangelo, alle parole di Lui manda innanzi le opere: – Cœpit facere et docere -. Prima fece e poi insegnò! E in vero: le opere sono assai più eloquenti delle parole e gli uomini apprendono più assai da quelle, che da queste: le parole non costano gran sacrificio, ma lo impongono spesso assai grave le opere. E poi, a che valgono le parole se non sono accompagnate dalle opere? Ciò che valgono le frondi senza i frutti; ed è per questo che di Gesù si dice che cominciò a fare e dopo ad insegnare. Imitiamolo, affinché gli uomini vedano le opere nostre e vedendole sollevino la mente a Dio e gli rendano lode. – Io, scrive S. Luca, vi ho narrata nel mio Vangelo la vita di Gesù dal suo miracoloso concepimento fino alla sua dipartita dalla terra, fino a quel dì nel quale, andandosene al Cielo, lasciò i suoi comandi agli Apostoli e li costituì esecutori dei suoi voleri. Quali siano questi comandi e quali i voleri di Gesù Cristo si fa manifesto dal Vangelo istesso, dove sono determinati. E badate bene, soggiunge S. Luca, che questi comandi sono dati da Lui, che come fu concepito per virtù dello Spirito Santo, cosi tutto fa e dice per virtù dello stesso Spirito Santo, di cui possiede la pienezza. I quali comandi e voleri manifestò a quegli Apostoli che elesse Egli medesimo e ammaestrò di sua bocca. Non è senza ragione e profonda che S. Luca, nominati gli Apostoli, volle tosto soggiungere quelle due parole: – Quos elegit – I quali egli elesse -. Scopo del libro è di far conoscere le opere compiute dagli Apostoli e singolarmente da San Paolo e quindi di mettere in rilievo l’organismo della Chiesa primitiva. Importava adunque che si facesse conoscere in chi risiedeva il potere di reggere quella Chiesa e da chi era dato; e S. Luca ce lo mostra negli Apostoli e qui ci dice ch’essi l’ebbero da Cristo, che li elesse. È questa, o cari, una verità che vuolsi spesso ricordare e inculcare in questi tempi, nei quali si tende a collocare la radice del potere nella moltitudine. Checché sia del potere civile, di cui non parlo, il potere della Chiesa viene dall’alto, deriva di Cristo e da Lui passa negli Apostoli e dagli Apostoli nei suoi successori fino al termine dei tempi, perché Egli li elesse ed eleggendoli li investì di quel potere, che non riceve da chicchessia,, ma trae da se medesimo. – Fino al giorno nel quale fu assunto in Cielo – E da chi fu assunto Egli, Gesù Cristo? Non da altri fuorché dalla sua stessa onnipotenza, perché Egli era Dio eguale in ogni cosa al Padre; il perché la frase – Egli fu assunto in Cielo – vuolsi riferire alla natura umana, che aveva assunto, non alla sua divina Persona, che essendo immensa e onnipotente non può né salire, né discendere e per agire non ha bisogno di qualsiasi forza a sé estranea. Il sacro scrittore prosegue e in un versetto solo riassume la vita di Gesù Cristo, dalla sua Risurrezione alla sua Ascensione così: – Ai quali Apostoli, dopo la Passione, si era eziandio mostrato redivivo per lo spazio di quaranta giorni in molte maniere, parlando loro del regno di Dio -. Il punto capitale della vita di Gesù Cristo e la prova massima della sua divina missione, era senza dubbio il fatto della sua Risurrezione e questa, dice S. Luca, non poteva essere più certa e più splendida. Per il periodo di quaranta giorni si mostrò redivivo ai suoi Apostoli e nei modi più svariati per dileguare ogni ombra di dubbio. Si mostrò alle donne, a Pietro, a Giacomo separatamente, a due discepoli lungo la via di Emmaus, a sette sulle rive del lago di Tiberiade, a dieci e poi ad undici insieme raccolti nel Cenacolo di Gerusalemme; poi finalmente allorché salì al Cielo fu visto da circa cento e venti persone [S. Luca, narrata la Ascensione di Gesù Cristo, dice che gli Apostoli (e dà il nome di tutti undici) insieme con Maria e le donne si raccolsero nel Cenacolo in Gerusalemme, e tra parentesi aggiunge: – Che erano circa 120 -. Dal contesto sembra chiaro che questi 120 furono sul colle degli Olivi spettatori della Ascensione di Cristo. Si noti poi che gli Ebrei, allorché danno il numero delle persone, non comprendono mai le donne.], ed altra volta, che San Paolo afferma in modo solenne senza specificare il luogo e il modo, mostrossi insieme a cinquecento fratelli (I. Cor. XV. 6). Con loro parlò, con loro mangiò; volle che gli toccassero le mani e il costato perché si accertassero essere ben Egli il loro Maestro risuscitato, non ombra o spirito. La sua Risurrezione, considerata la lunghezza del tempo, la varietà delle apparizioni e delle prove e tenuto conto del numero dei testimoni, poteva ella essere più manifesta e più accertata? Mi appello a voi. – In tutte codeste apparizioni Gesù Cristo più o meno lungamente si trattenne e naturalmente parlò con gli Apostoli e con quanti erano presenti. E di quali cose parlò Egli con essi? Se noi scorriamo i quattro Evangeli e questo primo capo degli Atti Apostolici, troviamo alcuni cenni intorno alle cose che Gesù disse loro; ma ogni ragione vuole ch’Egli parlasse loro e ampiamente di tutto ciò che loro importava conoscere nell’esercizio dell’altissima missione loro affidata. S. Luca, con due sole parole, accenna il soggetto di queste istruzioni, che Gesù dava agli Apostoli e che dovevano essere la regola della loro condotta privata e specialmente pubblica, dicendo: – Loquens de regno Dei – Parlando del regno di Dio -. Qual regno di Dio? Certamente il regno di Dio sulla terra, cioè la Chiesa, che è la preparazione e il mezzo necessario per entrare nel regno di Dio, il Cielo e la vita beata. Ma se lo Scrittor sacro con estremo laconismo indicò l’argomento dei discorsi di Cristo con gli Apostoli in genere, non li significò in particolare, rimettendosi in questo alla tradizione orale. E qui riceve nuova e gagliarda prova la Dottrina Cattolica, che professa la Scrittura santa non contenere tutto l’insegnamento di Gesù Cristo, ma questo aversi pieno e perfetto nella tradizione orale. Dicano i fratelli nostri protestanti quante e quali furono le cose dette da Gesù Cristo agli Apostoli e comprese in quelle tre parole – Loquens de regno Dei? – E dovevano essere cose d’alto momento e perché venivano da tanto Maestro e perché riguardavano l’opera di Lui per eccellenza, la Chiesa, e perché  erano gli ultimi ricordi che loro lasciava. L’insegnamento orale adunque degli Apostoli e della Chiesa devesi considerare come il complemento non solo utile, ma necessario di. quello che abbiamo nei Libri Santi. – S. Luca nel versetto che segue ci fa sapere qual fu uno degli argomenti di queste conversazioni od istruzioni di Gesù Cristo, scrivendo: – Stando insieme a mensa, comandò loro non si dipartissero da Gerusalemme, ma vi aspettassero la promessa del Padre, che voi avete udito (disse) dalla mia bocca -. Dovevano fermarsi in Gerusalemme finché fosse adempiuta la promessa che Egli stesso aveva fatta a nome suo e del Padre – di mandare loro lo Spirito Santo. E perché  fermarsi in Gerusalemme? Perché là e non altrove, Gesù Cristo vuole che ricevano lo Spirito Santo? Perché là dove Gesù Cristo patì e morì, là se ne vedesse il primo frutto: perché là dove sul vertice della sua croce fu posta per ischerno la scritta: – Questi è il Re dei Giudei -, là cominciasse il suo regno, regno di tutti i secoli. Perché là dove Gesù Cristo lasciava i suoi Apostoli, là ricevessero lo Spirito consolatore, che doveva tenerne il luogo e continuarne l’opera. Perché là dove Gesù Cristo con la sua morte aveva posto fine alla legge mosaica, lo Spirito Santo proclamasse la nuova legge e dal centro della Sinagoga uscisse la Chiesa, che ne era la meta ed il termine. Accennata la promessa dello Spirito Santo che sarebbe disceso sugli Apostoli, Gesù ne tocca gli effetti, chiamando quella comunicazione miracolosa: Battesimo e altrove Battesimo di fuoco – Giovanni battezzò con l’acqua, dice Cristo, e voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni -. – Giovanni, così il divin Salvatore, battezzava il popolo sulle rive del Giordano, e voi ed Io con voi vi andammo. Che Battesimo era quello? Battesimo con acqua: esso, per sé, non mondava l’anima, ma solo il corpo. Per esso voi vi riconoscevate peccatori, bisognevoli di purificazione: esso non infondeva grazia alcuna nelle anime vostre; vi eccitava soltanto a desiderarla, destandovi la fede in Lui, che Giovanni annunziava e che ora vi parla. Voi ora siete mondi in virtù della mia parola: nell’anima vostra alberga la mia grazia e con essa il germe della vita divina. Ma la missione, che siete per cominciare domanda una forza più gagliarda, una vita più potente, un novello Battesimo, non di acqua, ma di fuoco e l’avrete tra pochi giorni -. È chiaro che Gesù Cristo in questo luogo col nome di Battesimo nello Spirito Santo designa la venuta dello Spirito Santo e la trasformazione operata negli Apostoli il giorno delle Pentecoste e la designa con questo nome perché vi è una certa somiglianza col Battesimo di acqua. Questo si riceve una sola volta e una sola volta in modo sensibile lo Spirito Santo discese sugli Apostoli: questo depose nell’anima una vita nuova, che si svolse nella vita cristiana, stampando in essi un segno incancellabile: e lo Spiritò Santo depose in essi una nuova energia, che si svolse nelle opere tutte dell’Apostolato. – Ma ritorniamo alla narrazione di S. Luca, il quale riporta una domanda degli Apostoli a Gesù, la quale se da una parte dimostra la semplicità e, diciamolo pure, la ignoranza degli Apostoli, dall’altra mette in piena luce la divinità del divino Maestro verso di loro e prova insieme l’ammirabile sincerità del sacro scrittore. Uditela: – Intanto i convenuti colà lo interrogarono dicendo: Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – Per comprendere questa domanda, che sembra a noi molto strana, conviene conoscere le idee che allora fermentavano nel popolo giudaico non meno che nei suoi capi, alle quali naturalmente gli Apostoli non potevano essere estranei. E tanto più conviene conoscere queste idee, delle quali gli Apostoli si fanno interpreti presso del Maestro in quanto che esse ci danno la chiave per spiegare la terribile apostasia della nazione e la catastrofe che ne seguì. Scorrete i libri dell’antico Testamento e particolarmente i Salmi ed i Profeti: in moltissimi luoghi si promette il Messia e sotto le più svariate forme lo si presenta e si descrive. Si predicano, è vero, le sue umiliazioni, i suoi dolori, la sua morte in modo che sembrano una storia piuttostoché una profezia; ma lo si dipinge pure come un re potentissimo, un gran duce vincitore, un conquistatore glorioso, che strapperà il suo popolo dalle mani dei nemici, che lo rivendicherà a libertà e stenderà il suo scettro pacifico su tutta la terra. Che ne avvenne? Ciò che doveva avvenire in un popolo sì fiero della propria indipendenza, orgoglioso, tenacissimo e che dopo le terribili prove, da cui era uscito contro i Babilonesi e contro i re Siri, al tempo dei Maccabei, fremevano sotto il giogo romano. Come gli individui e più degli individui i popoli hanno il loro amor proprio, il loro egoismo nazionale, che può toccare i gradi estremi. Gli Ebrei tenevano salda la speranza del futuro Liberatore, del quale parlavano i profeti, i riti ed i simboli in tante forme rappresentavano; l’aspettavano, lo desideravano ardentemente. Ma la loro natura grossolana, il desiderio ardentissimo di scuotersi dal collo l’abbominata signoria straniera e l’orgoglio nazionale fecero sì che nel Messia promesso, nel Liberatore annunziato dai Patriarchi e dai Profeti, più che il Liberatore delle anime vedessero il liberatore dei corpi, più che il Redentore del mondo aspettassero il vindice della nazione, un Davide glorioso, un Maccabeo restauratore di Israele. Foggiatasi questa idea bizzarra e falsissima del Messia, che accarezzava il loro orgoglio e rispondeva alle condizioni politiche sì dolorose ed umilianti della nazione, è facile immaginare come i Giudei dovessero accogliere Gesù Cristo, che annunziava un regno spirituale, che voleva si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare e che mandava in fumo le speranze di libertà e grandezza temporale, che si aspettavano. È questa la causa precipua della cecità de’ Giudei e del ripudio di Cristo e che trasse in rovina la nazione intera. Terribile lezione. che troviamo ripetuta sventuratamente anche in alcuni popoli cristiani! Perché l’Oriente ai tempi di Fozio e poi di Michele Cerulario si separò da Roma e cadde nello scisma e nella eresia, in cui giace ancora? La causa principale fu l’orgoglio nazionale dei Greci, ai quali pareva una umiliazione ubbidire al Pontefice di Roma e sottostare ai Latini. Perché la maggior parte della Germania consumò la sua separazione dal centro dell’unità cattolica, che risiede in Roma? Vuolsi ascriverne la causa principale alla gelosia nazionale: ai fieri Germani mal sapeva ricevere la legge da Roma, a loro, figli di Arminio. Perché l’Inghilterra ruppe i vincoli, che da secoli la tenevano unita a Roma? Perché le parve a torto minacciata la sua indipendenza nazionale. Se bene si guarda quasi tutti gli scismi e quasi tutte le grandi eresie, che desolarono la Chiesa, ebbero la loro funesta radice nel sentimento esagerato e male inteso della dignità e grandezza nazionale. È una prova tremenda per un popolo il sospetto, il solo timore, che gli interessi religiosi possano offendere il sentimento patriottico: nella lotta vera o immaginaria che sia v’è un grande pericolo, che il popolo agli interessi del Cielo anteponga i terreni e respinga una Chiesa od una Religione che gli sembra domandare il sacrificio della patria e tanto più grande è il pericolo quanto più ardente è l’amore della patria stessa. Ma guai a quel popolo che si lascia accecare! L’esempio d’Israele è là sotto gli occhi del mondo intero. Torniamo al sacro testo. – Gli Apostoli, benché poveri figli del popolo, rozzi pescatori, nati e cresciuti sugli estremi confini della nazione, ai piedi del Libano e lontani dal centro d’Israele, Gerusalemme, dove batteva il cuore della nazione e ardeva il focolare del patriottismo, non erano estranei alle speranze comuni, né insensibili al fremito del popolo. L’uomo nasce e vive patriota e tutto ciò che suona onore, libertà e grandezza della patria, trova sempre aperta la via del suo cuore e se vi è uomo, in cui l’amore della patria non trova eco, dite pure che è un miserabile, un essere degradato. Era dunque naturale che gli Apostoli, anime rette, forti e generose, ancorché prive d’ogni coltura, sentissero vivo l’amore della patria e partecipassero al sentimento comune, spingendolo fino al pregiudizio fatale di assegnare al Messia, e per conseguenza a Gesù Cristo, la missione di liberatore dal giogo straniero. E che gli Apostoli tutti fossero vittima di questo pregiudizio comune, figlio d’un patriottismo male inteso, e ciò fino alla Ascensione di Gesù Cristo al Cielo, apparisce in modo indubitato dalla domanda che ingenuamente e non senza qualche peritanza, gli mossero: – Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – La domanda è fatta in modo, che sembra deliberata in comune, riserbata in sull’ultimo come cosa gravissima, nella speranza che il Maestro ne parlasse anche non richiesto e concepita in termini che esprimono l’angustia e l’incertezza dell’animo loro. Qual fu la risposta di Gesù? È semplicissima e l’avete udita. Egli, il divino Maestro, li lascia dire e li ascolta. Non una parola di stupore, non un accento solo di rimprovero per tanta ignoranza, dopo sì lungo tempo di scuola avuta da Lui, e tanta ignoranza sopra un punto capitale, che riguardava il fine della divina sua missione. Quanta benignità! Quanta carità con questi suoi cari Apostoli! Egli, vedendo le loro menti ingombre di sì gravi pregiudizi, tace e dissimula e non si prova nemmeno a dissiparli, perché non l’avrebbero compreso. Aspetta che il tempo e la luce che tra breve getterà nelle loro menti lo Spirito Santo, li rischiarino e mettano fine ai loro dubbi. Grande e sublime lezione per tutti e particolarmente per quanti hanno l’ufficio di ammaestrare il popolo! Quante volte accade di trovare persone piene di errori, che non si arrendono alle dimostrazioni più evidenti, che non sanno spogliarsi di certi pregiudizi succhiati col latte, che chiudono gli occhi della mente a verità chiarissime! Che fare? Talvolta sono vittime della educazione, dell’ambiente, come si dice, delle correnti popolari, di passioni per sé non sempre spregevoli. Combatterle risolutamente a viso aperto sarebbe forse cosa vana e talora anche nociva, perché ecciterebbe più vive le passioni facendosi l’amor proprio offeso loro patrocinatore. In molti casi giova tacere, dissimulare, attendere che le passioni sbolliscano, che il tempo ammaestri, e non è raro il caso che le menti si aprano da se stesse alla luce di quelle verità che prima si erano fieramente rigettate. L’esempio di Cristo lo prova. Egli lasciò cadere la domanda; non negò, né affermò; ma, riconducendo la mente dei suoi diletti Apostoli a ciò che maggiormente importava e dalle cose temporali richiamandoli, come sempre soleva fare, alle celesti, rispose: – Non spetta a voi conoscere i tempi e le congiunture, che il Padre ha serbato in sua balìa. – Che fu un dire: a che fermate il vostro pensiero sulle sorti future del regno d’Israele? Voi non potete mutarle; esse sono nelle mani di Dio, che solo le conosce e le regola nella sua sapienza. Ad altra impresa e troppo più alta e importante voi siete chiamati: di questa vi occupate, che è vostra, e quell’altra rimettete al divino volere. – Del resto qual era la sorte riserbata alla nazione giudaica e nominatamente alla sua capitale, Gerusalemme, cinquanta giorni innanzi l’aveva detto e descritto coi colori più vivi e la memoria doveva essere ancor fresca negli Apostoli. Non aveva lor detto, pochi giorni prima della sua passione, che sarebbe scoppiata una guerra sterminatrice con rivolte e tumulti? Non aveva chiaramente annunziato un assedio terribile, la presa della città, la distruzione del tempio, sì che non ne sarebbe rimasta pietra sopra pietra e ammonitili che fuggissero ai monti per non essere involti nella catastrofe? In quella profezia sì chiara e particolareggiata, che non potevano aver dimenticata, perché recentissima, si conteneva la risposta alla domanda: – È questo il tempo, nel quale restituirai il regno ad Israele? – Ma non è inutile il ripeterlo, quando un pregiudizio è profondamente abbarbicato nell’animo non valgono le ragioni più evidenti a svellerlo, ed è saggezza aspettare il beneficio del tempo e della esperienza, come fece Cristo, il quale, messo da banda questo argomento affatto umano e che allora non interessava, continuò, dicendo: – Piuttosto voi riceverete la potenza dello Spirito Santo, il quale verrà sopra di voi -. Ben altro regno che quello temporale d’Israele, del quale mi fate domanda, si deve fondare e tosto e per opera vostra. E come e quando? Appena avrete ricevuto lo Spirito Santo, che vi riempirà della sua forza divina tra pochi giorni e trasformandovi in altri uomini, vi renderà strumenti atti all’ardua impresa; e allora, da Lui supernamente illustrati, comprenderete qual sia il regno, ch’Io sono venuto a stabilire, regno della verità, regno dell’anime, che comincerà qui in Gerusalemme, si allargherà in tutta la Giudea e nella Samaria, che sono i confini del regno d’Israele, di cui parlate, e poi si distenderà fino agli estremi della terra. In tal modo Gesù Cristo accenna alla differenza immensa, che corre tra l’angusto e temporal regno sognato dagli Apostoli e quello senza confini e spirituale, ch’Egli per opera loro avrebbe fondato e implicitamente risponde alla domanda, che gli avevano fatta: – In questo tempo restituirai tu il regno ad Israele? – E qui cade in acconcio toccare alcune verità, che non sono senza importanza. E primieramente osservate tracciato agli Apostoli l’ordine della loro predicazione: essi dovevano cominciare la loro missione in Gerusalemme, poi spandersi nella Giudea, poi portarla in Samaria, che è quanto dire annunziare prima la buona novella ai figli di Abramo disseminati sul territorio delle dodici tribù, pigliando le mosse dalle due rimaste fedeli. Compiuta questa missione presso i figli d’Israele, il muro, che fino allora aveva separato il popolo eletto da tutti gli altri doveva cadere e aprirsi a tutti indistintamente la porta del novello regno, regno universale e duraturo fino al termine dei tempi. Disegno più audace di questo e umanamente di questo più impossibile non s’era mai visto, né mai era caduto in mente d’uomo e direttamente feriva l’orgoglio del popolo ebraico, sì tenace e sì geloso del suo più assoluto isolamento. Il carattere della più vasta universalità per ragione dello spazio e del tempo, che Cristo in questo luogo imprime al suo regno, siffattamente ripugna alle idee del mondo pagano e più ancora del mondo ebraico, che anche solo basta d’avvantaggio a mostrarli in Chi lo concepì e sì chiaramente l’annunzi la coscienza della propria forza al tutto sovra umana e divina. Osservate in secondo luogo che Cristo costituisce gli Apostoli testimoni – Eritis mihi testes – Testimoni di che? Dei fatti e dei miracoli (e per conseguenza della dottrina dai fatti e dai miracoli provata), che avevano veduto coi loro occhi. Ufficio adunque degli Apostoli e dei loro successori è quello di attestare e affermare costantemente e dovunque l’insegnamento di Cristo, la cui certezza poggia sui miracoli da Lui operati. Essi non sono che testimoni e perciò loro ufficio è quello di conservare pura e intatta la Dottrina di Cristo, quale uscì dalle sue labbra, senza aggiungere o levare ad essa pure un’apice. Perciò il ponetevelo bene nell’animo, o dilettissimi, la Chiesa, continuatrice dell’opera degli Apostoli non crea una sola verità nuova, non altera, né dimentica, né omette una sola delle verità caduta dalle labbra di Cristo e degli Apostoli: tutte le conserva e le trasmette fedelmente, come un cristallo tersissimo trasmette i raggi del sole, benché le svolga più largamente e di nuove e più ampie prove secondo i tempi e i luoghi le avvalori. Finalmente non dimenticate mai, o dilettissimi, che questo doppio ufficio di propagatrice e conservatrice infallibile della Dottrina di Cristo la Chiesa lo adempì e adempirà sempre, non per virtù propria, ma sì unicamente per virtù di quello Spirito Santo, che Cristo promise agli Apostoli e che rimarrà nella Chiesa fino all’ultimo giorno de’ secoli, secondo la sua promessa solenne. È bene a credere che Cristo, trattenendosi con gli Apostoli a lungo e più volte per lo spazio di quaranta giorni, altre cose disse loro, che non sono registrate da S. Luca, ma che si conservarono religiosamente nell’insegnamento orale degli Apostoli stessi e della Chiesa. S. Luca, compendiate queste cose, narra che Gesù condusse gli Apostoli fuori, in Betania, il castello di Marta, Maria e Lazzaro, presso Gerusalemme (S. Luca, XXIV, 51) e benedicendoli amorosamente – sotto i loro occhi levossi in alto – Videntibus illis, elevatus est –  Cristo levossi da terra per virtù della sua divina persona e sembra che ciò facesse a poco a poco, volti sempre gli sguardi sorridenti e stese le braccia verso i suoi cari Apostoli e discepoli e sopra tutto verso la Madre sua, che indubitatamente era colà, come si rileva dal versetto quattordicesimo di questo primo capo degli Atti Apostolici. Levossi in alto – Elevatus est – cioè levossi al Cielo. Che vi sia un luogo dove Iddio si manifesta svelatamente nella sua gloria a quelli, che hanno meritato di vederlo e bearsi in Lui e che si dice cielo, non vi può essere dubbio alcuno e la natura stessa degli Angeli e particolarmente degli uomini, che vi sono chiamati, lo esige. Ma dove sia questo luogo e questo Cielo a noi è perfettamente ignoto. Finché gli uomini, giudicando secondo i sensi e perciò seguendo le idee astronomiche di Tolcredevano la terra immobile, centro universale del creato e gli astri e le stelle poste in alto e d’altra natura incomparabilmente più nobile della terra, si comprende come potessero e dovessero collocare il Cielo, questo luogo di delizie, questa dimora gloriosa lassù in alto, negli astri, nelle stelle, nel Cielo immobile, che a tutte le cose sovrasta. L’idea cristiana del Cielo, elevandosi ai sublimi concetti di Dio, della sua immensità, degli spiriti, delle anime e dei corpi gloriosi, conserva pur sempre l’idea d’un luogo particolare, dove Dio mostra la sua presenza e la sua gloria, ma non determinò mai precisamente in qual regione sia posto questo luogo, se sopra o sotto di noi, se ad Oriente od Occidente, a tramontana o mezzogiorno. I Libri Santi tacciono, la tradizione è muta e la Chiesa, che n’è l’interprete, insegna che il Cielo de’ beati, il paradiso vi è, ma dove sia nol disse mai. E perché non potrebb’essere sulla terra istessa? Là dove è Dio svelato alle anime, là può essere il Cielo; e non potrebbe Iddio mostrarsi loro qual è qui sulla terra, campo dei loro combattimenti e delle loro vittorie e perciò anche luogo del loro trionfo? Che importa che noi non vediamo nulla? Chi può vedere Iddio, i puri spiriti, i corpi gloriosi? Cristo non vive sulla terra nel Sacramento dell’altare invisibile? E certo dove è Cristo ivi è altresì il Cielo, di cui è il Re. Disse profondamente il poeta teologo che ogni dove è paradiso ed è questo il vero concetto del Cielo secondo la ragione e secondo la fede e questo teniamo. Ma voi direte: E pur sempre vero che il testo sacro, narrando l’ascensione di Cristo, ce lo descrisse in atto di salire in alto – Elevatus est -; e noi stessi, allorché accenniamo il Cielo, leviamo in alto le mani quasi fosse lassù sopra dei nostri capi. È vero: Cristo, salendo in Cielo, montò in alto, non perché il Cielo sia piuttosto in alto che in basso ma per mostrare che la sua presenza visibile cessava sulla terra e cominciava un’altra maniera differentissima di vita; e poiché le cose più nobili e più eccellenti per noi si dicono metaforicamente alte e ce le rappresentiamo, non in basso, ma in alto; così Cristo per farci conoscere il suo nuovo modo di esistere in Cielo, salì in alto. Per la stessa ragione, allorché noi parliamo del Cielo, leviamo in alto le mani e gli occhi come se il Cielo fosse sopra de’ nostri capi Poiché Gesù fu levato in alto, una nube, dice il sacro scrittore, lo tolse ai loro occhi. Qual nube? Porse fu vera nube, o come inclino a credere e mi sembra più conforme al fatto e alla maestà di Cristo, quella fu uno splendore di luce meravigliosa, che a guisa di nube lo circonfuse e lo rese invisibile agli occhi degli Apostoli, che lo seguivano con ansia amorosa, con gioia ineffabile e dolore vivissimo, come potete immaginare. – Allorché gli Apostoli stavano pur con gli occhi fissi in alto cercando di vedere il Maestro, che si era dileguato in mezzo a quei fulgori celesti, ecco ad un tratto due personaggi bianco vestiti stettero presso di loro, quasi inosservati, perché gli occhi loro erano fermi lassù in alto. S. Luca non dice che fossero Angeli, ma non è a dubitarne dal contesto. Li chiama personaggi (viri), non Angeli, perché apparvero con forme umane e certo non è questo il primo luogo, in cui gli Angeli si chiamano uomini. Essi, riscossi gli Apostoli da quella loro estasi, volsero loro la parola, dicendo: – 0 Galilei, che state a riguardare in Cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi fu assunto in Cielo, verrà al modo istesso, onde lo vedeste andarsene -. Quegli Angeli rammentarono agli Apostoli una verità, che più volte avevano udita dalla bocca di Cristo, cioè la sua venuta gloriosa al termine dei tempi. Vedete somiglianza tra i due fatti della salita di Cristo al Cielo e della futura sua venuta, toccata dal sacro Autore. E sempre sopra una nube, che Gesù si mostra, sia che parta dalla terra, sia che vi ritorni, per indicare la sua maestà e la piena signoria ch’Egli ha sopra ogni cosa. Nella stessa trasfigurazione la voce celeste si fa udire dal seno d’una nube e attraverso ad una nube Mosè intravvede Dio. Con la mente e col cuore abbiamo seguito Cristo, che sale al Cielo: prepariamoci con la mente e col cuore ad accoglierlo nella finale sua venuta per essergli compagni nel suo rientrare nella gloria celeste e vivere beati con Lui per tutti i secoli dei secoli.

Alleluia
Allelúia, allelúia.
Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ. Allelúia.
[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Ps LXVII:18-19.
V. Dóminus in Sina in sancto, ascéndens in altum, captívam duxit captivitátem. Allelúia.  [Il Signore dal Sinai viene nel santuario, salendo in alto, trascina schiava la schiavitú. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc XVI:14-20
In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit incredulitátem eórum et durítiam cordis: quia iis, qui víderant eum resurrexísse, non credidérunt. Et dixit eis: Eúntes in mundum univérsum, prædicáte Evangélium omni creatúræ.
Qui credíderit et baptizátus fúerit, salvus erit: qui vero non credíderit, condemnábitur. Signa autem eos, qui credíderint, hæc sequéntur: In nómine meo dæmónia eiícient: linguis loquantur novis: serpentes tollent: et si mortíferum quid bíberint, non eis nocébit: super ægros manus impónent, et bene habébunt. Et Dóminus quidem Iesus, postquam locútus est eis, assúmptus est in cœlum, et sedet a dextris Dei. Illi autem profécti, prædicavérunt ubíque, Dómino cooperánte et sermónem confirmánte, sequéntibus signis.

OMELIA II

[Ut supra, Commento del Vangelo]

– Mentre (gli undici Apostoli) stavano a mensa, Gesù apparve loro e rampognò la loro incredulità e durezza di cuore, perché a quelli, lo avevano veduto risorto, non avevano creduto, e disse loro: Andando per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvo; ma chi non avrà creduto, sarà condannato. I segni poi che accompagneranno quelli, che avranno creduto, sono questi: Nel mio nome scacceranno demoni, parleranno nuovi linguaggi, torranno via serpenti e se alcun che di mortifero avranno bevuto, non ne avranno nocumento: porranno le mani sopra gli infermi e guariranno. E poiché il Signore ebbe parlato loro, fu accolto in Cielo e siede alla destra di Dio. Gli Apostoli intanto usciti, predicarono per tutto, cooperando il Signore e confermando la parola coi segni che seguitavano (S. Marco, XVI, 14, 20) -.

Ogni mistero, che la Chiesa ricorda e festeggia, si rispecchia naturalmente nella sua liturgia e segnatamente nella epistola e nel tratto evangelico, che fa leggere ai suoi sacerdoti nella Santa Messa. Così è del mistero o fatto della Ascensione di nostro Signore, che celebriamo in quest’oggi. Esso è narrato nella Epistola, che è tolta dal capo primo degli Atti Apostolici, che abbiamo spiegato nel Ragionamento antecedente e si narra pure in modo meno particolareggiato negli ultimi versetti di S. Marco, che testé si cantavano. Mi parrebbe cosa meno conveniente se dopo avervi commentato il fatto registrato negli Atti Apostolici, non lo commentassi eziandio quale è riferito succintamente da S. Marco. E tanto più mi induco a farlo in quantoché nei due testi vi sono parecchie differenze e si toccano cose e verità distinte tanto che non sarò costretto a ripetizioni, che riescono di peso anche quando sono utili. Non occorre il dirlo: il mio non è propriamente un Ragionamento, come vuole il titolo, ma un’Omelia, giacché è una chiosa del testo evangelico. Ma, Ragionamento od Omelia che sia, ciò che sono per dirvi merita tutta la vostra benevola attenzione. Le manifestazioni di Cristo alle pie donne e agli Apostoli dopo la sua Risurrezione, in Gerusalemme e poi nella Galilea e poi di nuovo in Gerusalemme, sono parecchie (se ne contano nove nei Vangeli): ma si narrano in modo sì succinto e con particolari sì scarsi e talora diversi, che non è agevol cosa ordinarle tutte e collocarle ciascuna al suo posto. Onde non è meraviglia che dopo tanti e sì pazienti studi degli interpreti si trovino ancora alcuni punti oscuri quanto al modo, al luogo, al tempo ed alle circostanze, in cui queste apparizioni avvennero; la qual cosa lungi dal gettar ombra di dubbio sulla certezza del fatto della Risurrezione lo conferma maggiormente, perché le differenze della narrazione sono affatto accidentali e mostrano che tra gli Evangelisti non v’ebbe accordo precedente, ma ciascuno narrò i fatti come li vide od udì, non curandosi d’altro!). S. Marco in special maniera è brevissimo e, accennate appena le due apparizioni di Gesù a Maria Maddalena e ai due discepoli nel castello di Emmaus, chiude con la terza ed ultima apparizione fatta agli undici Apostoli nel Cenacolo di Gerusalemme. E qui comincia il Vangelo di questo giorno: – Da ultimo Gesù, stando gli undici (Apostoli) a mensa, apparve loro -. S. Giovanni, testimonio di veduta, quanto alle apparizioni di Cristo è senza dubbio il più copioso. Egli, descritta la apparizione a Maria Maddalena, avvenuta al mattino della Domenica di Pasqua, narra subito quella avvenuta la sera stessa, a porte chiuse, in Gerusalemme, a dieci Apostoli, non trovandosi con loro Tommaso, come nota accuratamente (Cap. XX, 24). – Tommaso rifiutò ostinatamente di credere ciò che gli narrarono i dieci compagni. Otto giorni appresso, scrive Giovanni, gli Apostoli erano ancora raccolti insieme, a porte chiuse, nello stesso luogo secondo ogni verosimiglianza, e Tommaso era con essi (v. 26). Allorché adunque il nostro Evangelista S. Marco ci dice che: – Da ultimo Gesù apparve agli undici (Apostoli) mentre stavano a mensa -, chiaramente si riferisce alla seconda apparizione descritta da Giovanni, quando gli Apostoli erano, non dieci, ma undici. Così armonizzano i due Evangelisti. Nota in questo luogo il Vangelista che Gesù apparve agli undici mentre erano a mensa; e questa sembra l’apparizione descritta da S. Luca (XXIV, 41, 42), nella quale Gesù per mostrare la verità della Risurrezione, disse agli Apostoli: Avete qui alcun che da mangiare? E mangiò un po’ di pesce e di miele. Ma, lasciando da parte tutte queste cose, che interessano l’ordine dei fatti evangelici più che le verità insegnate da Cristo, poniamo mente a queste parole: – Gesù, dice S. Marco, rampognò la loro incredulità e durezza di cuore -. Nel periodo dei quaranta giorni che Cristo visse sulla terra tra la Risurrezione e la Ascensione, si devono distinguere due parti: la prima parte abbraccia i primi dieci o dodici giorni e nominatamente la prima settimana. In questo periodo di tempo i dubbi, i timori, le incertezze degli Apostoli furono molte; anzi in alcuni, come in Tommaso, apparve una ostinazione inescusabile in rifiutare la verità della Risurrezione: nel secondo periodo fino alla Ascensione cessarono dubbi e le incertezze e gli Apostoli credettero fermamente. – I rimproveri pertanto riguardano la incredulità e la durezza degli Apostoli nel primo periodo, non nel secondo, e più particolarmente riguardano Tommaso. S. Marco determina il perché di questi rimproveri, soggiungendo: – Perché a quelli, che l’avevano veduto risorto, non avevano creduto -. Questa osservazione ci fa comprendere come il rimprovero della incredulità e durezza di cuore era rivolto, non a tatti, ma soltanto ad alcuni, a quelli cioè che avevano appreso la sua Risurrezione per mezzo d’altri. E non erano essi colpevoli? Gesù Cristo tante volte e con tanta chiarezza aveva annunziata la sua morte e promessa la sua Risurrezione, determinandone anche il tempo. Allorché dunque quelli che l’avevano veduto redivivo lo annunziavano ai compagni avevano diritto d’essere creduti e il non credere a loro era un’ingiuria, che loro si faceva, reputandoli o ingannati od ingannatori, ed era una ingiuria a Cristo stesso quasi ché fosse stato un profeta bugiardo, impotente a mantenere la promessa fatta di risorgere. Gesù Cristo adunque voleva che si prestasse fede e fede pienissima a quelli che affermavano d’averlo veduto e ch’Egli mandava ad annunziare la sua Risurrezione. È dunque dovere, o carissimi, di aggiustar fede a quelli che sono mandati da Lui e tengono l’ufficio di suoi ministri. Ora chi sono dessi i ministri della Chiesa, i Sacerdoti, se non mandati di Cristo, aventi l’ufficio di ripetere fedelmente il suo insegnamento? Credete adunque alla loro parola se non volete incorrere il biasimo di quelli che allora non credettero alle affermazioni di coloro che l’avevano veduto. – Qui S. Marco, omessa ogni altra cosa, riporta il comando di Cristo fatto agli Apostoli di annunziare il suo Vangelo: – Andando per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura -. Non occorre avvertire che quella parola – Ogni creatura – vuolsi riferire ad ogni creatura ragionevole, ossia a tutto l’uman genere. È un fatto sul quale giova sempre fermare la nostra attenzione, perché unico nei fasti della storia umana e perché mette in rilievo il carattere di Cristo e della sua dottrina. Cristo, nato nell’ebraismo e per conseguenza nell’ambiente religioso più esclusivo che si possa immaginare; cresciuto in mezzo ad un popolo per il quale era un delitto, un sacrilegio allargare le promesse fatte ad Abramo ai gentili e comunicare con essi; Cristo impone a’ suoi discepoli (e quali discepoli!) di predicare la sua dottrina a tutti gli uomini, senza eccezione di sorta,  senza limite di tempo e di spazio e lo impone allorché Egli stesso sta per cessare la sua missione e separarsi da loro; e l’impone in modo che non lascia ombra di dubbio sull’esito finale dell’impresa; e l’unico mezzo, che mette nelle loro mani per un’impresa sì audace, anzi impossibile, è la parola: – Predicate -. Chiunque consideri con animo posato e scevro di pregiudizi il disegno di Cristo, il suo comando e il linguaggio che tiene, deve conchiudere: O Cristo è pazzo, o è l’arbitro assoluto delle menti e dei cuori, è Dio. L’esito, che ci sta sotto degli occhi e che ogni dì più grandeggia, ha confermato la sua parola: Egli è Dio, quel Dio stesso, che da un solo trasse l’uman genere (Atti Apost. XVII. 26) e lo riduce ancora all’unità massima, l’unità della verità, fatta comune a tutti. – Qual fatto, o carissimi, che dopo diciannove secoli va compiendosi sotto de’ nostri occhi con una forza tranquilla e irresistibile! Voi, dice Cristo agli Apostoli, voi predicherete la mia dottrina a tutti così com’Io l’ho predicata: nessuna forza materiale: la sola parola, la sola persuasione vi deve dare la vittoria. – Chi avrà creduto e sarà stato battezzato, sarà salvo: ma chi non avrà creduto, sarà condannato -. Voi, o Apostoli, con la parola portate la verità nella mente degli uomini: è questo il vostro ufficio; a loro accoglierla mercé della grazia, che in modo invisibile Io infonderò nei loro cuori. Se docili presteranno l’orecchio alla vostra parola e riceveranno con essa la verità che annunziate; se faranno anche ciò che la verità impone e riceveranno il Battesimo, il suggello della fede, con questo rito santifìcatore essi diventeranno figli della nuova famiglia, membri del nuovo regno e saranno salvi. Ma come, o Signore? Per essere salvi basta dunque credere ed essere battezzati? E le opere non sono esse necessarie come la fede e il Battesimo? – Carissimi! È d’uopo mettere insieme tutte le parole di Cristo; guai a chi fissa l’occhio sopra alcune soltanto e dimentica le altre! Tiene una parte, non tutta la dottrina di Cristo. Qui Cristo afferma necessaria la fede e necessario il Battesimo a salute: altrove dice che se vogliamo salvarci bisogna osservare la legge, mettere in pratica la fede, adempiere le opere della carità verso del prossimo; che colui il quale non nutre l’affamato, non disseta l’assetato, non veste l’ignudo, e non esercita le opere della carità, sarà da Lui condannato inesorabilmente nel dì del giudizio. Mettete insieme tutte queste parole di Cristo e troverete che se la fede e il Battesimo sono necessari a salvezza, non lo sono meno le opere, che sono il frutto della fede e del Battesimo. Che se in questo luogo Cristo non parlò delle opere, ma solo della fede e del Battesimo, egli è perché, affermando la necessità della fede, implicitamente affermava altresì la necessità delle opere, perché è la fede stessa che proclama la necessità delle opere. Allorché noi diciamo che chi respira l’aria vive, intendiamo forse di dire che l’aria sola sia bastevole per vivere? Neghiamo noi forse allora che sia necessario il cibo? Certo che no. Né meglio ragionano altri, che, appoggiati ai queste parole di Cristo, pensano non potersi dare il Battesimo ai bambini e a tutti quelli che non hanno l’uso della ragione, perché Cristo esige la fede prima del Battesimo – Chi avrà creduto sarà battezzato – e certamente i bambini e quelli privi di ragione non sono capaci della fede. È manifesto che Cristo in questo luogo parlava degli adulti, che non possono ricevere il Battesimo se prima non professano di credere. Del resto anche i bambini e quelli privi di ragione in qualche modo credono, non per sé, ma per mezzo dei genitori o di quelli che li rappresentano, per mezzo della Chiesa e, come senza loro volontà contrassero la colpa di origine, così senza loro volontà pel Battesimo la cancellano.E quelli, o Signore, ai quali non giungerà la parola dei vostri Apostoli e perciò non potranno nè credere, ne ricevere il Battesimo, li condannerete Voi? Condannare all’eterna perdizione quelli che non hanno la vostra fede e non ricevono il vostro Battesimo solo perché ignorano quella e questo senza colpa, sarebbe somma e orribile ingiustizia e Voi, o Signore, non la potrete mai fare. E Dio non la fa, né la farà mai, o cari. Tutti quelli che non credono al Vangelo, né ricevono il Battesimo senza loro colpa, non commettono peccato qualsiasi e non subiranno condanna alcuna, che non è giusto punire chi ha violata una legge che ignorava senza sua colpa [Convien distinguere tra la condanna positiva all’inferno, e la semplice esclusione dalla soprannaturale visione beatifica di Dio, ossia dal paradiso. Questa si può incorrere anche senza colpa, almeno propria e personale, non così quella. Chiunque, sia pure incolpevolmente, non ha fede soprannaturale e Battesimo (almeno in voto), è escluso dal paradiso; ma all’inferno non va, che chi si è fatto reo di peccato mortale. Quale sarà adunque lo stato di chi muore senza fede e senza Battesimo, ma incolpevolmente? S. Tommaso parlando dei bambini (ai quali si possono equiparare quegli adulti che si trovassero nello stesso caso, se pure è possibile) dice, che avranno una felicità naturale]. Dopo avere imposto la predicazione del Vangelo per tutto il mondo e annunziata chiaramente la mercede dovuta ai credenti e la pena riserbata agli ostinati non credenti, sorgeva naturale la domanda negli Apostoli: Ma come otterremo noi fede alla nostra predicazione? Se ci chiederanno le prove della dottrina, che annunziamo, che risponderemo noi, o Maestro? Dovranno essi gli uomini credere ciecamente, sulla nostra parola, a verità che superano la ragione, che impongono ardui sacrifici? Quali prove daremo noi della nostra missione? A questa domanda, che gli Apostoli tacitamente dovevano fare, Gesù risponde nei due versetti che seguono. Eccoli: – Torranno via serpenti e se alcun che di mortifero berranno, non ne riceveranno nocumento alcuno; porranno le mani sopra gli infermi e guariranno -. Con queste parole Gesù Cristo diede ai suoi Apostoli il potere di far miracoli e ciascuno comprende, che il potere è amplissimo e che il testo evangelico ne accenna alcuni soltanto per brevità. Non farò osservare che il potere di operare miracoli dato agli Apostoli non si vuole intendere dato per modo che essi li potessero fare a talento, come e quanto e quando loro piacesse come il potere di annunziare la Dottrina di Cristo e amministrare i Sacramenti e via dicendo. Era un potere affatto straordinario e ne usavano solo dove, quando, come e quanto piaceva a Dio e il più delle volte, credo io, senza che lo sapessero o volessero, secondoché Dio li ispirava e muoveva. – La storia della Chiesa dai tempi degli Apostoli fino a noi è piena, possiamo dire, di miracoli e il negarli, più che una empietà, sarebbe una stoltezza. Non io dirò che tutti e ciascuno (eccettuati, s’intende, quelli narrati nei Libri Santi) siano egualmente accertati; ma il negarli tutti od anche solo metterli in dubbio, sarebbe un vero oltraggio alla ragione e al senso comune. Certo nei primi tempi della Chiesa furono più frequenti, perché maggiore ne era il bisogno e S. Agostino ne dà la ragione (De vera religione, cap. 25); ma essi in varia misura si ebbero in tutti i secoli e non mancano eziandio ai nostri tempi. So bene che la parola miracolo fa spuntare sulle labbra di certi dotti il sorriso di compatimento: so bene ch’essi, stringendosi nelle spalle, vanno dicendo: – Sono leggende! Pie frodi! Superstizioni! Ignoranza delle leggi della natura! Creazioni della fantasia popolare, che ha bisogno del meraviglioso! Il miracolo, dicono essi in aria di trionfo, è impossibile: la scienza non lo ammette e fosse anche possibile, non fu, né sarà mai accertato -. È il linguaggio del razionalismo, e poiché qui cade in acconcio parlarne, dacché Cristo in forma solenne ne conferì il potere agli Apostoli, non vi sia grave, che ne dica quel tanto, che è necessario per mettere in sodo la verità cattolica e fornirvi l’armi per ribattere le accuse e le difficoltà. – Che è desso il miracolo, o carissimi ? È un fatto che cade sotto dei sensi, indubitato, che è impossibile attribuire alle forze della natura, perché ad esse superiore o contrario e che per conseguenza si deve attribuire alla causa delle cause: Dio. Il miracolo è possibile? E perché sarebbe impossibile? Chi ha create tutte le cose e fissate le loro leggi non potrebbe mutar quelle e sospendere queste ? Il legislatore è forse soggetto alle leggi per lui stabilite? – Ma se le sospende e le muta, muta la sua volontà, muta se stesso? — No, per fermo. Se così fosse non avrebbe potuto creare, né potrebbe provvedere al governo dell’universo. E poi quel mutamento che il miracolo introduce nelle leggi di natura fu previsto e voluto da Dio ab æterno e il miracolo non è che la attuazione del suo volere eterno: si muta dunque la legge, ma non si muta il legislatore. E voi, uomini, non sospendete e non mutate tante volte le leggi naturali coi mezzi naturali? Voi deviate il corso dei fiumi e delle folgori: voi vi sollevate in alto cogli areostati; voi dominate la forza stessa di attrazione, usando delle forze naturali, che sono in vostra mano. Perché non lo potrebbe far Dio? Ciò che possono fare le creature può farlo senza dubbio il Creatore, che precontiene in sé tutte le forze della natura. Chi oserebbe negarlo? Un miracolo inteso in questo modo non importa che si mutino o si sospendano le leggi di natura: esse stanno, ed è Dio stesso che fa ogni cosa. Curiosi questi dotti, che vorrebbero sottoporre Dio alle sue leggi e negare a Lui di mondare in un istante un lebbroso, di raddrizzare uno zoppo, di ridonare la vista ad un cieco, la favella a un sordo-muto e di ricongiungere al suo corpo l’anima che se n’è partita, a Dio che ha create tutte le forze, che ha creato l’uomo e tutto ciò che l’uomo possiede! Un medico con la sua scienza e co’ suoi farmaci, nel tempo conveniente, può guarire un infermo; e Dio non lo potrà in un istante con la sua sola volontà onnipotente? – Ma come potremo noi distinguere il miracolo dal fenomeno naturale, noi che non conosciamo che imperfettissimamente le leggi e le forze della natura? È troppo facile che la nostra ignoranza veda l’opera di Dio, il miracolo là dove non è che un fenomeno d’una forza occulta di natura? -. Se il vostro sospetto, che sia l’opera della natura quello che sembra miracolo, è ragionevole, tenete pur dubbio il miracolo. Quel fenomeno che si può spiegare naturalmente non è miracolo. È vero: noi non conosciamo tutte le forze della natura, ma non ne segue che possiamo dubitare del miracolo: basta osservare il fatto come avviene ed è facile distinguere ciò che è effetto di leggi naturali da ciò che è opera di Dio. Le leggi e le forze naturali operano in modi determinati, gradatamente, con l’applicazione di mezzi necessari: Dio opera senza questi mezzi, o con mezzi affatto impari e istantaneamente. Posso trasmettervi i miei pensieri col telegrafo o col telefono; ma sono obbligato a servirmi costantemente di quei mezzi che sono necessari: il medico può guarire un infermo che lotta con la morte, ma deve usare dei rimedi e domanda il tempo conveniente: nulla di simile nel miracolo. Non vi sono o se vi sono, tra loro e l’effetto non esiste proporzione alcuna. Chi giudica che l’effetto sia naturale o sopranaturale è e deve essere sempre la vostra ragione, la vostra scienza: il miracolo non si crede, ma si dimostra e il giudizio supremo e decisivo della sua esistenza spetta a voi, o dotti: a voi, rappresentanti della scienza [Parlo, com’è naturale, del miracolo in quanto è argomento di credibilità, e dei dotti in quanto non rinnegano il buon senso]. Un corpo da quattro dì giace nel sepolcro; il fetore che mena vi dice che la putrefazione è cominciata. Un uomo alla presenza d’una turba, in cui con gli amici sono confusi i nemici, lo chiama fuori della tomba: a quella voce il cadavere infradiciato si scuote, si leva e pieno di vita balza dal sepolcro. Un uomo risorge dopo tre dì dalla morte: dopo aver conversato per quaranta giorni co’ suoi discepoli, alla presenza di centinaia di persone, in pieno giorno, lascia la terra e si innalza al Cielo con un solo atto della sua volontà: Uomini della scienza, rispondete: questi fatti certissimi, innegabili, avvenuti sugli occhi di tanti testimoni, che non potevano ingannarsi, che non avevano interesse ad ingannare, che anzi avevano interesse a negarli o tacerli, potete voi attribuirli a forze occulte della natura operanti in quell’istante, proprio in quell’istante? Se è così, mostratelo; come uomini della scienza avete obbligo di mettere in luce queste nuove e misteriose forze; non vi è concesso di ripararvi dietro all’ignoto, all’ombra del mistero e dire: Possono essere forze ignote della natura quelle che operano -. Un “può essere”, a voi, che proclamate altamente i diritti sovrani della ragione, che questa sola riconoscete giudice inappellabile, disdice. I fatti son lì indubitati: nessuna forza naturale li può produrre; dunque vi è un’altra forza sovrannaturale, che li produce, la sola che li può produrre, è Dio -. Questo ci sembra buon senso, questo è il giudizio della ragione, che erompe spontaneo da ogni uomo, scevro da pregiudizi. I vostri dubbi , i vostri forse non fanno onore alla vostra ragione, che sembra cercare le tenebre là dove tutto è luce. – Ma quanti miracoli furono creati dalla superstizione, dall’inganno, dall’interesse, dall’ignoranza e dalla febbre del meraviglioso, onde le moltitudini troppo spesso sono invase! Tutte le Religioni della terra ne sono piene! Tutti i popoli narrano e magnificano i propri miracoli, che crescono in ragione della loro ignoranza e scemano in ragione della loro coltura e del loro progresso intellettuale. Ond’è ragionevole il credere che allorquando la ragione umana avrà compiute tutte le sue conquiste e sarà pervenuta al termine del suo cammino, del suo progresso, allora scomparirà dalla terra il miracolo, come le tenebre si dileguano dinnanzi al sole -. Molti miracoli furono creati dalla superstizione, dall’inganno, dall’interesse, dalla ignoranza, e dalla febbre del meraviglioso, onde le moltitudini sono invase: lo confessiamo. Ma tutti i miracoli hanno questa origine, anche quelli della Religione cristiana? Potete voi in buona fede mettere in un fascio i miracoli del paganesimo e del maomettismo con quelli di Mosè, di Cristo e degli Apostoli? Hanno tutti lo stesso carattere storico e morale? Perché con le monete vere si spacciano le false, direte voi che tutte son false? Perché coi rimedi efficaci della scienza medica han voga quelli dei ciarlatani, li proscriverete tutti insieme? Perché nei libri e nei monumenti della storia, le leggende e le menzogne più o meno intrecciate vanno talora mescolate coi fatti più certi e sicuri, avrete voi i diritto di rigettare ogni cosa? Avete solo il diritto e il dovere di sceverare il vero dal falso, il buono dal reo, questo serbando, quello rigettando. Il somigliante fate quanto ai miracoli: esaminateli, scrutateli senza prevenzioni, senza sistematici concetti, mossi dal solo amore del vero e troverete che i miracoli del Vangelo reggono alla critica più severa e che il negarli o anche solo il dubitarne è un fare violenza e oltraggio a quella ragione, di cui siete sì alteri. Troverete che se il progredire delle scienze e della ragione umana fa sparire i falsi miracoli e rende difficile e impossibile l’inventarne e spacciarne di nuovi, conferma e mette in maggior luce i veri, quelli su cui poggia la missione di Cristo e l’origine della Chiesa. La ragione umana e la scienza progredita faranno dileguare dalla terra il miracolo, si dice. Sì? Lo faranno dileguare quando avranno scacciato dalla terra e dal cielo, dalla mente e dal cuore degli uomini l’idea di Dio. Finche l’idea di Dio rimarrà nella mente e nel cuore degli uomini rimarrà pure l’idea del miracolo, che ne è inseparabile, come la luce e il calore è inseparabile dal sole. Perdonate questa digressione troppo lunga, ma non inutile e chiudiamo il commento del nostro Vangelo . E poiché il Signore Gesù ebbe parlato loro, fu accolto nel Cielo e siede alla destra di Dio -. L’Evangelista con questo versetto ricorda il fatto della Ascensione, su cui non richiamo la vostra attenzione, perché nel Ragionamento antecedente! fu più ampiamente esposto e me ne passo. – Chiude S. Marco il suo Vangelo con queste parole: – Quelli (cioè gli Apostoli) intanto, predicarono per tutto, cooperando il Signore e confermando la parola coi miracoli, che seguitavano -. È questo un richiamo alla promessa fatta da Cristo agli Apostoli, or ora accennata, con cui die’ loro il potere dei miracoli. La promessa, dice S. Marco, fu adempiuta e noi vedemmo Dio confermare coi miracoli l’insegnamento degli Apostoli e per tal guisa farsi loro cooperatore. I miracoli adunque sono la conferma della Dottrina, il suggello di Dio stesso. La Dottrina di Cristo per la massima parte trascende le forze della ragione umana: come potremmo noi dunque coglierla e tenerla con la maggiore fermezza, ci sia possibile? Sono due le vie, per le quali noi perveniamo al possesso d’una Dottrina qualunque: l’una è la ragione, il conoscimento della Dottrina stessa in sé; così conosciamo la matematica e tante altre cose naturali; l’altra è l’autorità e questa è umana, se è appoggiata a motivi umani; per essa conosciamo innumerevoli cose, per esempio tutti i fatti della storia. Può  essere divina, se è appoggiata a fatti divini, quali sono i miracoli operati in conferma d’una Dottrina e tale è appunto l’autorità degli Apostoli e della Chiesa. Uomini ragionevoli non siamo accogliere e tenere una dottrina qualunque senza prove ragionevoli proporzionate. Prove umane e naturali, dirette e decisive delle della fede non le abbiamo, né possiamo averle, perché a tanta altezza la ragion nostra non può assorgere. Come dunque potremo accoglierle e tenerle con ogni fermezza? Agli Apostoli e alla Chiesa che le annunziano noi diciamo: perché dobbiamo credere ciò che non intendiamo, né possiamo intendere? – Perché noi veniamo a nome di Dio -. Sta bene: e come ci provate ci venite a nome di Dio? – Ecco le nostre prove: i miracoli; esaminateli: sono la lettera credenziale dataci da Lui stesso -. I miracoli sono l’opera esclusiva di Dio, sono la sua parola e alla parola di Dio chi oserebbe rifiutar fede? E così, o cari, che la nostra fede a verità incomprensibili è ragionevole. Gli nomini della terra ricevono ed eseguiscono gli ordini del loro re quando ne vedono la firma e il suggello, benché non li comprendano; noi riceviamo ed eseguiamo gli ordini, le leggi, la dottrina di Cristo, ancorché non le comprendiamo, allorché la Chiesa, la sua ambasciatrice fedele, ci mostra la firma e il suggello di Lui: e la sua firma e il suo suggello sono i miracoli operati in suo nome.

Credo

Offertorium
Orémus
Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúia.
[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Secreta
Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro Fílii tui gloriósa censióne deférimus: et concéde propítius; ut a præséntibus perículis liberémur, et ad vitam per veniámus ætérnam. [Accetta, o Signore, i doni che Ti offriamo in onore della gloriosa Ascensione del tuo Figlio: e concedi propizio che, liberi dai pericoli presenti, giungiamo alla vita eterna.]

Communio
Ps 67:33-34
Psállite Dómino, qui ascéndit super coelos coelórum ad Oriéntem, allelúia.

[Salmodiate al Signore che ascende al di sopra di tutti i cieli a Oriente, allelúia.]

Postcommunio
Orémus.
Præsta nobis, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut, quæ visibílibus mystériis suménda percépimus, invisíbili consequámur efféctu.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente e misericordioso, che di quanto abbiamo ricevuto mediante i visibili misteri, ne conseguiamo l’invisibile effetto].

I PAPI DELLE CATACOMBE (2) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [2]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

II.

Le Catacombe.

Prima di assistere a queste lotte e a questi trionfi, bisogna penetrare un momento in queste dimore sotterranee ove i primi Cristiani di Roma pregavano Dio e traevano la forza per combattere fino alla morte; ove i loro fratelli raccoglievano piamente i loro resti mutilati, divenuti il Tesoro più prezioso della città dei Cesari, miniere inesauribili da cui la Cristianità intera trae ogni giorno i ricchi gioielli dei suoi templi, vaste cave le cui pietre sono le ossa dei martiri, di cui gli echi rievocano i combattimenti più gloriosi che si siano mai svolti sulla terra. Tali sono le catacombe di Roma, dei veri palazzi di martiri, ove questi eroi della fede pregarono durante la loro vita e riposarono dopo la loro morte. Ci si figuri allora un labirinto di gallerie sotterranee, di piccoli corridoi oscuri, alcuni dritti, altri tortuosi che si tagliano e si intrecciano, per così dire, gli uni con gli altri, vari aperti e praticabili, ma un gran numero così stretti da non poter passare, o perché ricolmati da frane; altri lasciano scorgere a destra e a sinistra degli anfratti inaccessibili, ove il visitatore non ha coraggio di avventurarsi; ci si figuri questo labirinto, queste gallerie, questi corridoi, con migliaia e migliaia di sepolture, come un grande ossario, vero palazzo della morte, e si avrà una idea generale delle catacombe. – Nelle pareti dei corridoi sono state praticate, per deporvi i cadaveri, delle specie di nicchie oblunghe, poste orizzontalmente le une sulle altre, come i raggi di una biblioteca ove la morte avrà deposto le sue opere. [Mgr Gerbet, Esquisse de Rome chrétienne. — Tullio Dandolo, Roma ed i Papi] Quando un corpo era stato deposto nella nicchia, se ne chiudeva l’apertura con delle pietre e della calce; i becchini poi chiudevano abitualmente l’accesso di un corridoio quando ne aprivano un altro; è così che intere gallerie furono intasate, altre non lo furono che più tardi, quando se ne asportarono le sacre reliquie. Il visitatore che accompagna nel loro lavoro gli esploratori delle catacombe, non può non provare un sentimento di venerazione passando su quel suolo che i martiri hanno calpestato, penetrando in queste grotte nuovamente aperte, ove nessun piede umano era penetrato dal tempo in cui i Cristiani erano stati li per seppellire qualcuno dei loro fratelli caduti sotto i colpi di Diocleziano. Là si contemplano tutte le devastazioni che la morte abbia potuto operare in diciassette secoli, ma queste devastazioni non inspirano spavento, perché si è certi che un giorno questi resti di ossa, questa polvere umana brillerà in tutto lo splendore di una gloriosa resurrezione. I Cristiani dei tempi apostolici erano già ricorsi alle vaste cripte del Vaticano e dei giardini di Lucino, sulla strada di Ostia, per nascondervi i preziosi resti di San Pietro e di San Paolo. Ma ben presto fu necessario ricorrere a spazi più vasti per i morti e, soprattutto, per i vivi; li si trovarono nelle Arenaria o cave di sabbia di Roma. Queste cave erano le antiche carriere dalle quali veniva estratta la pozzolana, roccia sabbiosa che Roma aveva adoperato come cemento dei suoi edifici. Lo spazio non mancava ma, essendo queste arene ancora impiegate, esse non davano molta sicurezza ai Cristiani. È allora che questi scavarono dei pozzi e si misero ad aprire segretamente, anche sotto le stesse arene, nuovi più sicuri rifugi. La natura del terreno si prestava perfettamente a questo lavoro. Gallerie che permettevano a mala pena il passaggio di una persona, furono aperte in tutte le direzioni, e questo lavoro, continuato per quasi due secoli, rese le catacombe un labirinto che ai nostri giorni si esplora con più cura che mai. I lavoratori osservavano comunque una strabiliante regolarità nei loro lavori: quattro o cinque vie principali incrociate a forma di croce greca formano il piano generale di questa città sotterranea; e su queste quattro o cinque grandi linee, si incrociano e si collegano, l’una all’altra, dalle cinquanta alle sessanta vie secondarie che comunicano tutte insieme, e che occupano la superficie di diverse miglia. La parte più considerevole delle catacombe si trova fuori dalle mura, sulla riva sinistra del Tevere, e si estende fino ai piedi delle colline di Albano e di Tivoli; era come una grande linea di circonvallazione sotterranea, in mezzo alla quale il Cristianesimo teneva in assedio la capitale dell’idolatria [Dandolo]; era nel contempo il cimitero ed il campo zeppo di guerrieri pronti a rovesciare la fortezza del paganesimo. Così, la tomba di San Pietro fronteggiava il circo di Nerone; il cimitero di San Pancrazio minacciava il campo dei Marzi; la cripta di San Paolo corrispondeva alla colonna di Cestius; la tomba di Santa Priscilla al tempio dell’Onore; le grandi catacombe si dirigevano verso il palazzo degli imperatori e verso il Campidoglio: gli assedianti e gli assediati erano in lotta continua: quanto più gli assediati facevano irruzione nelle catacombe per devastarle, tanto più gli assedianti si lanciavano sulle piazze pubbliche di Roma per morirvi, cioè per guadagnare le vittorie, perché più il numero dei martiri aumentava, più il paganesimo si sentiva distruggere. Ed è infatti dopo la più violenta delle persecuzioni, che esso cadde spirando, nel momento in cui si credeva aver distrutto la Religione di Gesù-Cristo. Due grandi linee di catacombe partono dal Vaticano e girano intorno alla città per riunirsi sotto la via Appia. Su questa via, la più magnifica dell’impero, si ergeva il mausoleo di Metello, di Marcello, degli Scipioni, gli uomini più grandi della repubblica romana; è li infatti che il Cristianesimo stabilisce come il quartiere generale delle sue tombe con il cimitero di San Callisto. Questo cimitero ha ricevuto il nome dal Papa che lo ha sensibilmente ingrandito all’inizio del III secolo. Si pensa che questo cimitero sotterraneo non abbia ricevuto meno di settantaquattromila corpi di martiri. Vi si contano trecento corridoi esplorati, ai quali corrispondono e si collegano altri innumerevoli corridoi non ancora scavati e che saranno per lungo tempo inaccessibili. Si trattava veramente di un Vaticano sotterraneo; là regnavano i Papi, là si preparava, a forza di santità, di virtù e di coraggio, il trionfo pubblico della loro sovranità spirituale. – La situazione del cimitero di San Callisto [questo cimitero si chiama anche: catacomba di San Sebastiano], presso la via Appia, permetteva ai fedeli che lo frequentavano di sfuggire più facilmente alle ricerche delle spie. Essi facevano ogni loro sforzo per impedire la scoperta del luogo in cui si rifugiavano i Sovrani Pontefici: delle sentinelle vegliavano all’intorno, vestiti con abiti da mendicanti, muniti di una parola d’ordine per riconoscersi tra di loro e per riconoscere i fratelli; era ad essi che bisognava rivolgersi per essere condotti davanti al Papa. Così quando santa Cecilia inviò il neofita Valeriano, suo sposo, al Papa Urbano che era nascosto nelle catacombe, gli disse: « quando sarete giunto all’ottava pietra miliare, vi troverete qualche mendicante; essi mi conoscono; avvicinateli con affabilità e dite loro che è Cecilia che vi manda per essere condotto dal santo vegliardo Urbano, per il quale vi è stato affidato un messaggio. » Santa Cecilia fu più tardi seppellita in questa stessa catacomba. Si vede tuttora la camera che si considera essere stata abitata dai Papi. Nella chiesa situata all’entrata della catacomba, si legge questa iscrizione: « È qui il cimitero del celebre Papa Callisto, martire. Chiunque lo visiterà con contrizione e dopo essersi confessato, otterrà la remissione totale dei suoi peccati, per i gloriosi meriti di centosettantaquattromila Santi Martiri che sono stati sepolti là: quarantasei Vescovi illustri, passati tutti attraverso grandi tribolazioni, e che per diventare eredi del regno del Signore, hanno sofferto il supplizio e la morte per il Nome di Gesù-Cristo. » Qualche autore presume che quarantasei Papi siano stati sotterrati in questa catacomba; si può essere certi per San Antero, San Fabiano, San Lucio, Santo Stefano, San Sisto II, San Dionisio, San Eutichiano, San Caio, San Marcello, San Eusebio e San Melchiade, tutti morti martiri, e di San Silvestro, che morì sotto il regno di Costantino. Gli altri Papi dei tre primi secoli, furono sotterrati nelle catacombe del Vaticano, della via Appia e della via Aurelia. Sono tutti i Papi delle catacombe, perché è là che essi vivevano, là che le loro ossa sacre furono deposte. Tutti i corpi deposti nelle catacombe non erano tutti corpi di martiri: i Cristiani desideravano infatti essere sotterrati vicino alle tombe di coloro che avevano dato la loro vita per Gesù-Cristo, ed è così che le catacombe si riempivano. Ma è facile distinguere le loro, dalle altre le tombe che racchiudono le reliquie dei martiri. Spesso lo indica un’iscrizione, che dà nel tempo stesso il nome del glorioso confessore della fede; sempre una fiala contenente sangue coagulato o disseccato testimonia che il defunto ha conquistato la corona celeste con l’effusione del suo sangue. I Cristiani raccoglievano con la maggior cura possibile il sangue dei martiri, malgrado i pericoli ai quali si esponevano facendolo; a volte lo raccoglievano con una spugna o un pezzo di tessuto, ed è per questo che delle fiale contengono delle spugne o dei pezzi di tessuti imbevuti di sangue. Anche la congregazione delle indulgenze e delle reliquie ha dichiarato nel 1668, che le fiale piene di sangue, accompagnate da un ramo di palma, simbolo del trionfo, devono essere considerate come un segno certo della presenza delle reliquie di un martire. – Gli scavi praticati nelle catacombe hanno portato alla luce preziose testimonianze dell’arte cristiana, del simbolismo, della dottrina e della disciplina di questa prima era della Chiesa; esse sono le prove che ogni giorno confermano la tradizione che dimostra come la Chiesa Romana abbia conservato la fede nella sua integrità ed in tutta la sua purezza. Il monogramma del Nome di Gesù-Cristo con una croce che Costantino incise sul labarum, nuovo stendardo dell’impero romano, e che aveva preceduto questo principe; lo si ritrova sulle tombe di San Mario e San Alessandro, di San Lorenzo, di San Caio Papa, e di molti altri. Gesù-Cristo stesso veniva rappresentato sotto la figura di un agnello con una croce o senza croce sulla testa, o più spesso ancora sotto quella di un pastore che porta l’agnello smarrito sulle spalle. La colomba, semplice e dolce, il cervo, che sospira presso le fontane d’acqua viva, i pesci, l’ancora, i candelabri, l’ulivo, la palma, la vite, il pavone il cui ricco piumaggio rimanda alla gloriosa trasfigurazione degli eletti, una moltitudine di altre immagini prese dall’Antico e dal Nuovo Testamento, erano tanti simboli compresi da tutti e che ricordavano ai Cristiani tutta la sequenza della religione. – Quanto alle iscrizioni poste sulle tombe, esso sono molto semplici. Il nome, l’età, il giorno ed il genere di morte, era il più spesso tutto, a cui si aggiungeva qualche parola di elogio o di speranza, più toccanti nella loro semplicità che tutti gli epitaffi più ambiziosi: « Perpetuus, che ha ben meritato Cristo, il suo Dio, vissuto 25 anni; Leonzia sua madre, l’ha posto in questo luogo, nella pace. – Giulia in pace, in mezzo ai Santi. – Qui dorme Proto nello Spirito-Santo. – Pietro, che visse XC anni in Gesù-Cristo, deposto qui in pace sotto il consolato di Filippo. – Laurinio, più dolce del miele, riposa in pace. » Gli epitaffi dei Martiri non erano più lunghi: « Primitius, che visse XXXIII anni, dopo aver, martire irriducibile, sofferto diverse prove, riposa in pace. – Tu sei caduta troppo presto, Constantia, mirabile per bellezza e grazia, sii in pace! – I Martiri Simplicio e Faustino, la cui passione si è conclusa nelle acque del Tevere, sono stati deposti in questo cimitero. – Io, Seconda, ho eretto questa cappella in memoria di mia figlia Secondina, che lasciò questo mondo per la fede con suo fratello Laurentinus; essi partirono in pace. » La Chiesa intera era nelle catacombe. Si ritrovano in queste dimore sotterranee tutto quanto ne costituiva la disciplina ed il culto: i cubicula contenevano circa una dozzina di cori; essi erano arcuati nella parte superiore, a volte quadrate, a volte ovali, sia ottagonali che esagonali, presentanti internamente tre arcate: una di faccia all’entrata, le altre due a destra e a sinistra. Il nome di cripta si applicava più particolarmente a delle piccole cappelle, più grandi dei cubicula, e costruite sullo stesso piano; la nicchia circolare del fondo, che serviva da altare, si elevava un poco sopra il suolo, e a destra e a sinistra vi si trovavano spesso due sedie per i diaconi. I battisteri erano dei grandi bacini, o fontane naturali nelle quali si immergevano i neofiti per battezzarli. Quante allora, chiese o luoghi di riunione generale, avevano una forme allungata e non potevano contenere che un centinaio di Cristiani per volta: le si riconoscevano per le loro sedie, dall’altezza della volta, dai tavoli tagliati nelle pareti e che portavano delle lampade, infine da un debole lucernario aperto a piombo sopra la porta, per dare passaggio all’aria esterna. – Ma bisogna ora staccarsi da questi sotterranei così pieni di tanti gloriosi ricordi, e raccontare i combattimenti degli eroi che dormono in pace in questa immensa città della morte. Coloro che volessero conoscere nei dettali la Roma dei martiri e dei Santi, non avrano che da leggere l’ “Esquisse de Rome Chrétienne” del monsignor Gerbert; vi troveranno ampia materia per nutrire la loro pietà e la loro curiosità in questo bel libro; noi ci compiacciamo maggiormente di segnalarlo qui avendoci consolato dalla lettura di tristi opere pubblicate in questi ultimi tempi per sminuire la Chiesa ed il Papato, lettura che bisogna ben intraprendere per rispondere agli attacchi di cui è  oggetto la Madre nostra, ed agli oltraggi da cui è attaccato il Vicario di Cristo. [Consultare anche Raoul-Rochette, Tableau des Catacombes; Mgr Gaume, les Trois Rome: Bosio, Roma sotterranea, etc.].

I PAPI DELLE CATACOMBE (1) J. Chantrel

I PAPI

DELLE CATACOMBE

(II E III  SECOLO) di

J. CHANTREL. 2a edizione.

PARIGI

DILLET, LIBRAIO, Éditore del Messager de la Semaine,

15 RUE DE SÈVRES, 15 – 1862

PREFAZIONE.

La storia della Chiesa presenta un fenomeno unico negli annali dell’umanità: il trionfo di una dottrina che presenta dei misteri incomprensibili alla ragione, che impone dei doveri in contrasto con la natura nonché delle pratiche fastidiose e penose. Questo trionfo è stato ottenuto per vie del tutto contrarie a ciò che consiglierebbe la prudenza umana; nessuna adulazione, nessuna concessione, nessun compromesso; esso è stato ottenuto malgradi gli ostacoli più formidabili: una persecuzione sanguinosa per più di tre secoli, un lavoro incessante di dissoluzione operato da false dottrine e dalle più stravaganti immaginazioni. Tuttavia, nonostante questi ostacoli, nonostante questi errori, nonostante questi roghi e tutti gli strumenti di tortura, la dottrina di cui parliamo non ha cessato di accrescersi e diffondersi; il sangue dei suoi martiri si è trasformato in una semenza feconda, e la vittoria alfine è stata completa: la croce sulla quale era stato sospeso un Giudeo sconosciuto e disprezzato, è divenuta il simbolo d’onore più invidiato, gli imperatori romani hanno adorato questo Giudeo che un governatore inviato da essi, aveva giudicato e lasciato crocifiggere a Gerusalemme. Ecco un fatto che non si presenta due volte nella storia: inspiegabile alla ragione, contrario a tutte le leggi naturali, è prova nel modo più perentorio della divinità del Cristianesimo. È questa meravigliosa lotta di quasi tre secoli contro la ricchezza, la potenza, l’errore e la tirannia congiurata che noi vogliamo qui descrivere; perché è sugli intrepidi capi che condussero i Cristiani alla vittoria immolando se stessi, che noi vogliamo attirare specialmente l’attenzione dei nostri lettori. Ma come raccontare tanti fatti in sì poche pagine? Come rendere a questi eroi del Cristianesimo gli onori che sono loro dovuti, quando si dispone di uno spazio ristretto? Noi saremo obbligati a lasciare da parte tanti dettagli, e non potremo dare tutti i nomi dei gloriosi atleti che hanno combattuto per Gesù-Cristo. È con vero dolore che ci rassegnamo a riassumere una storia così interessante e magnifica. Il primo secolo è l’età divina del Cristianesimo; il secondo secolo ed il terzo ne sono l’età eroica: qui c’è una miniera inesauribile di fatti attraenti, di sublimi epopee, di riflessioni veramente filosofiche. Ancora una volta bisognerà limitarsi. Del resto, i nostri rimpianti saranno un po’ diminuiti dalle considerazioni che, avendo intrapreso noi principalmente lo scopo di vendicare il Papato dalle calunnie e dalle ingiurie con cui lo si attacca, non avremo ancora qui occasione di occuparci di tali calunnie e di queste ingiurie; anche se ci sono già delle difficoltà sulle quali dobbiamo arrestarci, né l’empietà, né l’eresia hanno osato per  il momento attaccare direttamente questi venerabili vegliardi, che non usciranno affatto dalle catacombe di Roma se non per andare al supplizio; l’empietà non ha osato oltraggiare la memoria di questi Pontefici la cui dignità non era che un titolo al martirio, e che non successero a Gesù-Cristo, se non per salire con Lui sul Calvario. – Ma la vita e la morte di questi Pontefici spiegherà l’incredibile fenomeno della potenza morale dei loro successori, come la vita e la morte dei Santi dei primi secoli fanno comprendere la vitalità di cui è dotata la Chiesa di Gesù-Cristo. Ecco dunque in pratica un edificio che non è costruito sulla sabbia: esso è posto sulla roccia dalla stessa mano di Dio, e su tali solidi fondamenti si appoggia! Per tre secoli le ossa dei martiri si accumulano; ed è appunto su tre secoli di santità, di eroismo e di trionfi che si elevano le muraglie della nuova Gerusalemme, e ciascuno dei secoli seguenti vi aggiunge delle nuove pietre non meno belle, non meno ben tagliate e lucidate di quelle poste a fondamenta: e chi potrebbe rovesciarle? Ecco la Chiesa Cattolica con i suoi Pastori supremi, i suoi Vescovi, i suoi Preti, le sue Vergini, i suoi Martiri, i suoi Santi; eccoli tali come li ha fatti Dio, tali come i secoli li hanno visti e li vedranno fino alla fine del mondo, degni sempre di sentir cantare in suo onore questo inno che ripetono i fedeli il giorno della Dedicazione: « O felice Gerusalemme, dolce visione di pace, costruita fino al cielo con pietre viventi, e circondata da cori di Angeli, come una sposa accompagnati dagli amici dello Sposo! « Ecco la città nuova che esce dal cielo come dalla sua casa nunziale, ornata come una sposa per le sue nozze con il Signore, l’oro più puro brilla sulle sue piazze e nelle sue mura. « Le ricche pietre abbelliscono le sue porte; il suo santuario è aperto; là possono entrare tutti coloro che soffrono in questo mondo per il nome di Gesù-Cristo, « è con i colpi, con le prove che le sue pietre sono state ripulite, ed è con la mano del supremo Costruttore che sono fissate al loro posto: Dio le ha fissate per sempre per formare l’edificio sacro. « Onore dunque, lode, gloria e potenza al Padre che ci ha creati, al Figlio che ci ha riscattati! Lode allo Spirito Santo di cui i fedeli sono il tempio!» [In questa seconda edizione abbiamo rivisto con cura, corretto qualche passaggio, aggiunto al pontificato di San Callisto I dei dettagli resi necessari dalle recenti scoperte].

I

Costituzione della Chiesa.

Quando i tempi apostolici arrivarono al compimento con San Giovanni Evangelista, la Chiesa era perfettamente costituita in ogni sua parte, ed i secoli successivi non avevano quasi nulla da sviluppare, non avevano niente di nuovo da apportare, il tempo non doveva perfezionare ciò che era già perfetto fin dall’inizio, non doveva che mostrare lo sviluppo dell’azione della Chiesa sul mondo. Il dogma, il culto, la disciplina erano stabiliti: l’eresia servirà più tardi a definire sempre più chiaramente l’immutabile credo della Chiesa; il culto, costituito nelle sue parti fondamentali, non riceveva più se non delle aggiunte secondarie, richieste dai bisogni del cuore umano e resi possibili dalla libertà data alla Chiesa; la disciplina non avrebbe potuto modificarsi esteriormente che nelle parti accessorie, secondo le circostanze dei tempi, dei luoghi, delle persone, senza cambiare nelle sue caratteristiche essenziali. La sacra Scrittura e la tradizione formano fin da allora i due depositi della dottrina, ma era la Chiesa che interpretava la Scrittura, era Essa che controllava la tradizione. In una parola, l’Autorità era da allora, come è sempre stato, il carattere proprio del suo insegnamento. Gli apostoli non ragionavano, essi esponevano: non si ragiona in effetti sulla parola di Dio, la si deve accettare, dal momento che essa è riconosciuta come essere parola di Dio. Di modo che tutto si reduce alla testimonianza: gli Apostoli erano i testimoni di Gesù-Cristo, ne attestavano con i miracoli, con la loro morte, la verità di ciò che essi dicevano; dopo di essi la testimonianza continuò egualmente con dei miracoli, alla quale si aggiunse la testimonianza suprema della morte volontaria, di ciò che si chiama “martirio”; “si crede volentieri, si è detto, a dei testimoni che si fanno sgozzare per attestare la verità delle loro parole”. È su queste testimonianze che è stata fondata la Chiesa. Ogni religione che pretende di appoggiarsi esclusivamente sulla ragione umana, che fa della ragione il giudice ultimo della fede, è ugualmente convinta di falsità. Non c’è che una cosa da ricercare: “Dio ha parlato? Che ha detto?”. Una volta constatato questo punto, non c’è più nulla che da ascoltare e sottomettersi. Ed è per questo che la vera Chiesa procede con autorità: essa insegna, definisce, non discute, non dialoga: tutto ciò che resta da fare alla ragione, è assicurarsi della veracità del testimone, cosa sempre facile quando si tratta della Chiesa Cattolica, le cui caratteristiche di veracità sono brillanti come luminoso è il sole. Per mantenere l’integrità della dottrina e del deposito della tradizione, c’è bisogno di una forma di governo regolare: questa forma esisteva fin dai primi secoli. Pietro è il capo del collegio apostolico; lui ed i suoi successori legittimi sono I veri Capi della Chiesa, la Chiesa non può essere ove non essi non sono. Ecco il punto culminante della Gerarchia. Al secondo posto si pongono i vescovi, il cui nome significa in Greco “sorvegliante”. Essi erano eletti dall’assemblea del clero e dei fedeli, e consacrati da altri Vescovi. Il Vescovo si prendeva cura dei poveri, delle vedove, degli orfani; egli presiedeva all’amministrazione delle elemosine e alle collette ed aveva il privilegio quasi esclusivo della predicazione. La consacrazione si faceva con l’imposizione delle mani, come dei nostri giorni. Appena eletto, egli faceva parte della sua elezione al Vescovo di Roma, Vescovo dei Vescovi, al quale Gesù-Cristo ha affidato la missione di confermare i suoi fratelli; in tal modo, fin da questi primi tempi, l’unità era perfettamente stabilita; la comunione con la sede di San Pietro è un carattere essenziale della cattolicità. Dopo i vescovi vengono i preti, seniori o presbiteri, parole che significano gli “anziani”, perché venivano presi tra le persone di età matura e di santità di vita provata. Era il Vescovo che li sceglieva, spesso con la designazione dello stesso popolo. Dopo la loro ordinazione, essi erano obbligati alla residenza, a meno che il Vescovo non permetteva loro di passare in un’altra provincia. I preti ricevevano una retribuzione speciale in ragione del loro ministero, e vivevano dell’altare, secondo l’espressione stessa impiegata da san Paolo nelle sue epistole. Al di sotto dei preti c’erano i diaconi, la cui istituzione risale, come le precedenti, agli Apostoli. I diaconi furono dapprima incaricati della ripartizione delle elemosine; essi aggiungevano a questa funzione, quelle di distribuire, accanto ai preti, l’Eucarestia ai fedeli ed anche di predicare il Vangelo, come si vede ad esempio di Santo Stefano, il primo dei diaconi ed il primo dei martiri. I Vescovi, i Preti ed i diaconi erano tenuti ad osservare la continenza: nel caso in cui essi fossero maritati prima della loro ordinazione, cessavano di vivere in comune con le loro mogli. Il celibato ecclesiastico risale dunque al primo secolo della Chiesa. – Il diaconato ed il sacerdozio formano quelli che si chiamano gli “ordini maggiori”; ma è fuor di dubbio che gli altri ordini, detti minori, esistessero già dai tempi degli Apostoli, come gradi diversi di preparazione agli ordini maggiori. Così esisteva il sottodiaconato, elevato alla dignità di ordine sacro maggiore già intorno al tempo del Papa Innocenzo III; a partire da questo tempo, i sottodiaconi fecero il voto che li incatenava per il resto della loro vita, e tra essi si sceglievano i diaconi; c’erano poi gli accoliti, incaricati della cura dei ceri, gli esorcisti, incaricati di pregare per l’espulsione dei demoni, i lettori, che leggevano le Scritture tra i fedeli, gli ostiari, ai quali veniva affidato la cura dei luoghi dell’assemblea e la convocazione dei fedeli. Si trovano anche, fin dal primo secolo i germi degli ordini religiosi. Vi erano dei Cristiani chiamati ad una vita più perfetta, e che si dedicavano a mettere in pratica tutti i consigli del Vangelo. Li si chiamava ascetici, da una parola greca che indicava che essi si esercitavano più particolarmente alla santità; alcuni credono che i “terapeuti” d’Egitto fossero in realtà degli asceti cristiani. Essi vivevano nel ritiro, osservavano la continenza e praticavano dei digiuni straordinari; non mangiavano che cibi secchi, dormivano sulla nuda terra, e dividevano il loro tempo tra la preghiera, lo studio della Scrittura ed il lavoro manuale. Le Vergini cristiane, questi fiori della Chiesa, pressoché sconosciute nelle altre religioni, si erano già moltiplicate, e opponevano la loro vita ai disordini ed alle infamie del mondo pagano. Era proprio del Cristianesimo mettere in onore la verginità, che i giudei consideravano un obbrobrio, e che il paganesimo non riusciva nemmeno a comprendere. Roma aveva sei vestali, obbligate a mantenere la verginità fino ad una certa età, e queste vestali erano ricolme di onori, avendo persino il privilegio di salvare la vita al condannato che si trovava sul loro passaggio: l’orgoglio però era la salvaguardia della loro verginità limitata a qualche anno; un castigo terribile, la morte per inedia in un sepolcro ove venivano rinchiuse vive se avessero violato il loro voto, veniva a sostenere la loro virtù, eppure più di una vestale cedette. Le Vergini cristiane, al contrario, rinunciavano a tutte le dolcezze della vita, vivevano nel ritiro e nell’umiltà, si contavano, ed ancora si contano, a migliaia. È così che il Cristianesimo mostra la virtù che possiede di elevare l’umanità al di sopra di se stessa, di dare allo spirito un trionfo completo sulla carne: questo non è più un trionfo naturale. Esisteva un’altra istituzione che non durò che durante i primi secoli della Chiesa, quella delle “diaconesse”, che erano delle vedove di provata virtù, incaricate di visitare persone del proprio sesso, che la povertà, la malattia o qualche altra miseria, rendevano degne della sollecitudine della Chiesa. Esse istruivano i catecumeni, sotto la direzione dei sacerdoti, li presentavano al Battesimo, e dirigevano i nuovi battezzati nella pratica della virtù cristiane. Esse davano rendiconto della loro funzione al Vescovo oppure ai diaconi e Preti che il Vescovo aveva designato. Niente di più toccante che il quadro presentato dai primi Cristiani: « Tra di noi, diceva Atenagora ai pagani (Atenagora visse sotto l’imperatore Marco-Aurelio, che regnò dal 161 al 180), voi trovate degli ignoranti, dei poveri, degli operai, delle donne anziane che non potranno forse mostrare con dei ragionamenti la divinità della nostra dottrina; essi non fanno discorsi, ma fanno delle buone opere. Amano il prossimo come se stessi, abbiamo imparato a non colpire coloro che ci colpiscono, a non fare processi a coloro che ci spogliano. A chi ci da uno schiaffo, noi volgiamo l’altra guancia; se ci viene richiesta la tunica, noi offriamo anche il mantello. Secondo la differenza degli anni, noi consideriamo gli uni come nostri figli, gli altri come nostri fratelli e sorelle. Noi onoriamo le persone più anziane come nostri padri e come nostre madri; la speranza di un’altra vita, ci fa disprezzare la presente, finanche nei piaceri spirituali. Il matrimonio per noi è una vocazione santa, che dà la grazia necessaria per allevare i figli nel timore del Signore. Noi abbiamo rinunciato ai vostri spettacoli cruenti, persuasi che c’è molta poca differenza tra il guardare l’omicidio ed il commetterlo. I pagani espongono i loro figli per sbarazzarsene, noi consideriamo questa azione come un omicidio ». – Qualche anno più tardi, Tertulliano completava così questo quadro: « ci si accusa di essere faziosi. Lo spirito fazioso dei Cristiani consiste nell’essere riuniti nella stessa religione, nella stessa morale, nella stessa speranza. Noi formiamo una cospirazione, è vero, ma solo per pregare Dio in comune e leggere le Scritture divine. Se qualcuno di noi ha peccato, è privato della comunione, delle preghiere e delle nostre assemblee, finché non faccia penitenza. Queste assemblee sono presiedute da anziani, la cui saggezza ha meritato loro questo onore. Qualcuno porta denaro ogni mese, se vuole e se può. Questo tesoro serve a nutrire e seppellire i poveri, a sostenere gli orfani, i naufragati, gli esiliati, i condannati alle miniere o alla prigione per la causa di Dio. Tutto è in comune tra noi, tranne le donne. Il nostro pasto in comune si spiega con il suo nome di “agape”, che significa carità. » Ecco cosa erano i Cristiani dei primi secoli, essi davano l’esempio di tutte le virtù, confondevano la corruzione pagana con la purezza della loro vita, e ponevano la loro forza nella preghiera, nei sacramenti, nelle opera di carità, nelle mortificazioni, nel digiuno e nell’astinenza. La preghiera pubblica era l’azione principale delle loro giornate, soprattutto del giorno del Signore, della Domenica, con la quale gli Apostoli avevano rimpiazzato il sabbat dei giudei, in commemorazione del giorno della Resurrezione del Salvatore e della discesa dello Spirito Santo. I luoghi della riunione furono dapprima delle sale da pranzo che i latini chiamavano cenacoli, e che erano situati nella parte superiore delle case. Più tardi, quando seguirono le persecuzioni, ci si riunì dove si poteva, ed i Cristiani delle città scelsero, per essere in sicurezza, le cripte o le cave sotterranee che si trovavano nei paraggi; a Roma ci si riuniva nelle catacombe, vaste cavità sulle quali daremo più avanti alcuni dettagli. La preghiera per eccellenza era il sacrificio, al quale si davano nomi diversi, come cena, frazione del pane, oblazione od offerta, colletta o assemblea (Chiesa), eucarestia o azione di grazia, di liturgia o ufficio pubblico, tutti nomi che designano il sacrificio della Messa, costituito nei tempi degli Apostoli, nelle sue parti essenziali. Era il Vescovo che la celebrava, i Preti non lo facevano che in assenza dei Vescovi. Si cominciava con delle preghiere; poi si leggeva qualche passaggio scritturale, prima dell’antico Testamento, poi del nuovo, etc., quelle che oggi si chiamano l’Epistola e il Vangelo. La lettura del Vangelo era seguita da una spiegazione fatta dal Vescovo. Dopo di che i catecumeni, cioè coloro che si istruivano ancora nella fede e che non erano battezzati, dovevano ritirarsi. Allora cominciava l’offerta (offertorio) dei doni che dovevano costituire materia del sacrificio: erano il pane ed il vino mescolato ad acqua. Il popolo si dava il bacio di pace, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, in segno di perfetta unione. Venivano in seguito pronunciate le parole della consacrazione, si recitava in comune l’orazione domenicale, il celebrante si comunicava ed i suoi assistenti con lui, sotto le due specie del pane e del vino. Un’agape, o pasto comune di carità, seguiva la celebrazione dei santi misteri; il pane benedetto dei nostri giorni richiama questo antico e toccante uso. I Cristiani si riuniscono ancora per altre preghiere pubbliche in ore diverse del mattino e della sera; il canto dei salmi costituiva il fondamento di queste preghiere. Il sacrificio del mattino dell’antica legge era rimpiazzato dal mattutino, quello della sera dai vespri; la terza, la sesta e la nona ora del giorno, erano santificate con la recita dei salmi. Fin da allora furono in uso le cerimonie che si sono perpetuate fino ai nostri giorni, le genuflessioni, le prostrazioni, gli incensamenti, la distribuzione dell’acqua benedetta e le fiaccolate luminose. Ma tutte queste cerimonie erano circondate da un profondo mistero, a causa delle persecuzioni e nel timore delle profanazioni, ed è per questo che i pagani, incapaci di credere a delle riunioni innocenti, imputavano ai cristiani tutte le abominazioni dei loro misteri. Si è visto quale fosse la vita pura e santa dei primi Cristiani, sia quali fossero i loro misteri, quale ordine e quale decenza regnasse nelle loro assemblee, quanto sublime fosse la loro dottrina, celeste la loro morale. Ecco come i pagani distorcevano la verità: « … c’è una nuova seta, essi dicevano, che predica apertamente il disprezzo degli dei e che cerca di abbatterne gli altari. Questi sono degli atei che parlano di un re chiamato Cristo, che darà loro un giorno l’impero, e che rifiutano di pregare per Cesare. È una razza di impostori, di sofisti, e di uomini dediti ai malefici, capaci di ogni crimine, nemici della intera natura, che si dedicano ad orribili dissolutezze, e vivono di carne umana. Malgrado le accuse portate contro di loro, essi si riuniscono nel giorno del sole (la Domenica) per iniziare i loro proseliti. Un bambino coperto di pasta fatta per ingannare gli occhi di coloro che non conoscono questi misteri, è posto davanti all’iniziatore: il proselito batte ed uccide il bambino senza saperlo, e queste tigri bevono il suo sangue, si dividono le sue membra, e si garantiscono il silenzio con la complicità del crimine. » È così che veniva sfigurato il divino banchetto dell’Eucaristia; si sfiguravano le agapi e le trasformavano in scene mostruose che la penna si rifiuta di descrivere. « Questo non è soltanto un idolo assurdo che essi onorano, dicono ancora, è un morto, Cristo che si è fatto Dio dopo una fine ignominiosa, e la croce è per essi un oggetto sacro. Essi aggiungono a queste loro chimere le visioni più insensate; essi dicono che resusciteranno dopo la morte; essi non vogliono mettere corone sulle tombe; rifuggono gli spettacoli ed i pubblici festini; hanno orrore dei cibi consacrati agli dei e delle libazioni. Sprezzanti di Giove, maledicono il suo culto e pregano sulle tombe di coloro che sono stati suppliziate. Essi accolgono tra loro gli omini più perversi; è sufficiente che questi vengano da loro e si confessino; questi maghi aspergono su di loro un poco d’acqua ed i criminali sono assolti. Vile ammasso di finitori di lana, di tessitori, di calzolai, di miserabili usciti dalla plebe, i Cristiani si dichiarano audacemente nemici degli dei, di Cesare, del senato, delle leggi, del genere umano. » Queste favole eccitavano il popolo contro i discepoli di Gesù-Cristo; i filosofi li detestavano perché essi distruggevano i loro antichi sistemi; gli imperatori ed i potenti, perché essi condannavano la loro tirannia, i loro crimini, le loro dissolutezze; i Cristiani erano in effetti esposti all’odio del genere umano; ma è perché tutte le passioni vedevano in loro dei nemici, e soprattutto perché il mondo non li conosceva. Ci volevano ancora due secoli di combattimenti per vincere l’inferno congiurato, per aprire gli occhi accecati, e per far trionfare il Crocifisso divino.

LO SCUDO DELLA FEDE [X]

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LA BIBBIA.

– La Bibbia e la predicazione. — La Tradizione e l’insegnamento della Chiesa. — La interpretazione della Bibbia spetta alla Chiesa. — Essa tutt’altro che proibirne la lettura, la raccomanda. — Vantaggio che si ricava da tale lettura. — Con quale spirito si debba fare. — La Bibbia di un falsario.

— Sono ora ben convinto che si debba credere alle verità rivelate da Dio. La ragione stessa mi dice di credere, perché vi sono dei motivi assoluti di credibilità, quali sono le profezie ed i miracoli, e perché del fatto della divina rivelazione comprovato dalle profezie e dei miracoli vi sono delle inoppugnabili testimonianze datemi specialmente dai Martiri. Dunque ora basterà che io prenda in mano la Bibbia e leggendo quel libro creda a ciò che in esso si insegna. Ho appunto inteso a dire che chi legge la Bibbia, il puro Vangelo, e su di tali libri si forma gli articoli di fede e di morale cristiana è nella verità e si salva.

Così avrai inteso dire da qualche protestante, e così avrai letto su qualche loro libercolo. Ma dimmi, se fosse così, non ti pare che Iddio l’avrebbe certamente rivelato? Invece io ti sfido a trovarmi fra tutti quanti i divini insegnamenti, siano scritti nei sacri libri dell’antico testamento o nel Vangelo, oppure siano venuti a noi per tradizione orale, quello che dica che per salvarsi basta leggere la Bibbia, il puro Vangelo, e su tali libri formarsi da per se stesso gli articoli di fede e di morale. Ti sfido a trovarmi che Gesù Cristo, affine di salvare i popoli, abbia detto agli Apostoli di portare e consegnare ai medesimi la Bibbia da leggere e da interpretare a loro piacimento. Al contrario nello stesso Vangelo troverai che Gesù Cristo per operare la salute delle anime disse agli Apostoli che andassero ed insegnassero alle nazioni tutte le cose, che aveva loro comandate, soggiungendo che chi avesse creduto a tali insegnamenti (e li avesse praticati) sarebbe andato salvo (V. Vangelo di San Marco, Capo XVI, Versetto 16). E S. Marco attesta che gli Apostoli andarono e predicarono dovunque (Versetto 20). Troverai che Gesù Cristo ha pur detto degli Apostoli e naturalmente dei loro successori: « Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi disprezza me; » troverai che della Chiesa, ha detto: « Se alcuno non ascolterà la Chiesa, abbilo per un infedele ed un pubblicano » (V. Vangelo di San Matteo, Capo XVIII, Versetto 17). Donde appare ben manifesto, e per insegnamento stesso della Bibbia, del Santo Vangelo, che ad ottenere la salvezza non è già da leggersi e interpretarci la Bibbia, il puro Vangelo, ma fa d’uopo ascoltare e praticare la predicazione e l’insegnamento degli Apostoli, dei loro successori ossia del Papa e dei Vescovi, l’insegnamento della Chiesa. – Se la cosa fosse come dicono i protestanti, che cioè unica regola di fede si è la Bibbia e il puro Vangelo, come avrebbero potuto regolarsi intorno alla fede coloro che vissero anticipatamente alla Bibbia ed al Vangelo?

— Veramente non saprei. Avranno avuto qualche altra regola.

Va benissimo. E questa regola per quelli che vissero prima di Gesù Cristo fu la tradizione orale, per gli altri che vissero immediatamente dopo Gesù Cristo fu la Chiesa mediante la tradizione.

— Amerei che mi spiegasse bene questo.

Volentieri, ma tu sta bene attento.

— Non ne dubiti.

Le sacre scritture dell’antico testamento furono cominciate da Mosè tremila anni circa dacché il mondo esisteva, e proseguite poscia da altri scrittori; e il primo dei Vangeli secondo calcoli più favorevoli alla sua antichità, e criticamente non molto sicuri, si scrisse tutto al più nel 42 dell’era volgare, cioè dieci anni almeno dopo la morte, risurrezione ed ascensione al cielo di Gesù Cristo. Ora in quei tre mila anni, che precedettero il cominciamento delle sacre scritture dell’antico testamento, sempre esistette su questa terra la vera religione, che era allora la religione ebraica, e così in quel periodo di anni, che precede le sacre scritture del nuovo testamento, sempre esistette la vera religione, con la quale Gesù Cristo sostituì l’antica, vale a dire la religione cristiana. – In tutto quel tempo pertanto che, sia nell’una come nell’altra epoca precedette le sacre scritture, forse che non si credeva e non si doveva credere alle verità rivelate in principio da Dio e poi da Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, venuto per noi su questa terra? Tutt’altro! Si credeva talmente a quelle verità, che è precisamente sulla fede che si aveva a quelle verità, che si composero come sopra la loro naturale base le sante scritture.

— E su che cosa si stava appoggiati allora per credere a quelle verità rivelate?

Si stava appoggiati alla tradizione, vale a dire al tramandare, che si fece dall’una all’altra generazione le verità, che furono rivelate da Dio. Da principio Iddio, dopo che ebbe creato Adamo, gli rivelò le verità, che doveva credere per raggiungere il fine nobilissimo, a cui lo aveva destinato.. Adamo manifestò poscia ai suoi figli quelle verità istesse; i figli di Adamo ai loro discendenti e così di seguito per tre mila anni sino a che Mosè, divinamente inspirato, cominciò a scrivere tutto ciò, che di generazione in generazione era stato tramandato sino a lui. Così devi dire di quel periodo di anni trascorso da Gesù Cristo alla composizione dei Vangeli, degli Atti degli Apostoli, e delle loro Lettere. Durante quel tempo gli Apostoli, che avevano intese le dottrine di Gesù Cristo, ossequenti all’ordine ricevuto, andati nelle diverse parti del mondo, si diedero tosto ad insegnarle agli uomini e massimamente a coloro che elessero ad aiutarli in quest’opera di predicare il Vangelo e a succedere a loro nell’apostolato, cioè ai Vescovi. Questi alla loro volta tramandavano ad altri gli stessi insegnamenti, e così si fece sino a che gli Apostoli ancor viventi credettero bene, ispirati pur essi e sostenuti da Dio, di metter mano a comporre le sacre scritture del nuovo Testamento.

  • Che anzi, anche dopo aver composto le sacre scritture del nuovo Testamento, si continuò e si continuerà mai sempre nel seno della Chiesa ad insegnare per tradizione molte verità.

— E perché mai?

Dimmi: credi tu che nella Bibbia si contengano dichiarate assolutamente tutte le verità, che dobbiamo credere?

— Io crederei che sì.

E tu credendo così saresti in errore. San Giovanni nell’ultimo versetto del suo Vangelo dice chiaro: « Ci sono poi molte altre cose, che ha fatto Gesù, le quali, se si scrivessero ad una ad una, credo che il mondo non potrebbe contenere i libri da scrivere».

— Ma questa è una esagerazione, una vera iperbole.

E sia pure che l’espressione di S. Giovanni sia qualche po’ iperbolica; tuttavia non lascia nel suo fondo di essere vera e di renderci manifesto che nei Vangeli non fu scritto tutto quello che fece e disse Gesù. No, il Vangelo puro, inteso come una riproduzione stereotipa, diremmo quasi fonografata, integrale del pensiero di Gesù Cristo, materialmente fatta, non è mai esistito.

— Vuol dire adunque che il Vangelo non lo riproduce fedelmente il pensiero di Gesù.

Adagio a cavare tale conseguenza da ciò che ti ho detto. Se il Vangelo non riproduce integralmente il pensiero di Gesù, ciò non vuol dire che non lo riproduca fedelmente. Anzi non possiamo dubitare che lo riproduca nel modo più fedele; ma non lo riproduce con una fedeltà materiale, per esempio, con la fedeltà degli atti stenografici rispetto ai discorsi ufficiali.

— Ho inteso. Nel Vangelo adunque vi saranno la più parte della verità che dobbiamo credere e delle massime che dobbiamo seguire per salvarci, ma non ci sono assolutamente tutte.

Benissimo. Lo stesso è da dire dei libri sacri dell’antico Testamento. Talune delle verità che si hanno a credere sono ivi appena indicate in modo indiretto ed allusivo.

— E come mai, se Dio ha rivelato tutte le verità che dobbiamo credere, gli scrittori sacri non le hanno scritte e dichiarate tutte?

Essi generalmente tennero questa regola: quando si trattava di verità, che erano la ristaurazione di verità antiche quasi scadute dalla mente degli uomini, o di verità di fresco rivelate, allora le scrissero e ne trattarono nei santi libri nel modo più chiaro e più esplicito; quando invece si trattava di verità che sebbene primitivamente rivelate si erano conservate mai sempre, almeno per riguardo alla sostanza, nella loro integrità presso tutti i popoli, allora nei santi libri le accennarono appena, e appena ne fecero qualche allusione.

— Dunque la pura Bibbia non può servire come unica regola di Fede.

No, ma insieme colla Bibbia ci vuole la Tradizione, e neppure tutte due ci bastano, ma ci vuole prima di tutto la Chiesa col suo insegnamento, perché la Bibbia e la Tradizione non è che dalla Chiesa che ci sono sicuramente conservate e dichiarate. È celebre la vecchia frase di S. Agostino, che noi non potremmo neppure credere al Vangelo senza la testimonianza della Chiesa. Siccome soltanto la Chiesa porta in sé visibili i segni della sua divinità, così la Chiesa, essa, ed essa sola, con parola infallibile può assicurare l’origine e il carattere divino della Bibbia e della Tradizione, essa, ed essa sola, ce ne può fare la sicura interpretazione.

— Ma perché solamente la Chiesa può interpretare la Bibbia! Non possiamo avere anche noi la sufficiente intelligenza per fare ciò?

Ascolta: in ogni società ben costituita vi sono dei codici civili, penali e commerciali. Ma forse che, in ogni società, qualunque individuo per quanto dotato di intelligenza possa interpretarli e interpretarli esattamente? Non ti pare piuttosto che lasciandone a ciascuno la interpretazione si andrebbe a rischio che ogni individuo li avesse a interpretare a sua voglia?

— Se fosse così guai! Credo che i più degli uomini vi troverebbero tutte le ragioni per contentare le loro più disordinate voglie: i ladri a rubare, i debitori a non pagare i debiti, gli scellerati ad insultare la gente, gli assassini a pugnalare gli uomini.

Certamente! Dunque?

— Dunque i codici devono essere interpretati da coloro che hanno in società tale ufficio, dai magistrati, dai pretori, dai giudici, dai tribunali, dalle Corti di Assise, dalle Cassazioni, dagli insegnanti di diritto, dalle pubbliche autorità.

Benissimo. Lo stesso è da dire del Vangelo, della Bibbia: esso è il libro di Dio, il codice delle sue sante leggi, ma non è certamente a qualsiasi individuo che si convenga di interpretarlo per leggervi ciò che gli pare e piace, ma a chi da Dio stesso ne ha ricevuto l’ufficio e l’autorità, vale a dire alla Chiesa, al Papa, ai Vescovi, ai Concili.

— Ma lo Spirito Santo non illumina forse ogni uomo nell’atto che legge la Bibbia? Come dunque si potrà sbagliare nell’interpretarla?

Per leggere e interpretare la Bibbia come si conviene lo Spirito Santo fu promesso ed è realmente disceso sugli Apostoli, che furono gli antecessori del Papa e dei Vescovi. Tutti gli altri poi lo Spirito Santo li illumina a conoscere e seguire la volontà di Dio in conformità al modo che Dio ha voluto tenere per manifestarci la sua volontà; e la sua volontà, Dio ha stabilito di manifestarcela per mezzo dell’insegnamento della sua Chiesa e non già nella lettura e interpretazione privata della Bibbia. Ed in vero, dimmi, se lo Spirito Santo illuminasse direttamente ogni uomo nella lettura ed interpretazione della Bibbia, non dovrebbero tutti gli uomini leggendo la Bibbia riuscire tutti alla stessa interpretazione?

— Sì, certo, perché se lo Spirito Santo è spirito di verità non deve rivelare che la verità, e la verità è sempre quella.

Com’è adunque che di cento protestanti, che leggono la Bibbia e la interpretano, non due vanno d’accordo fra di loro, ma chi la vuol nera, chi la vuol bianca, chi fredda chi calda, chi la intende a un modo e chi ad un altro?

— Ma è propriamente così!

Potrei recartene cento prove. Ti basti quella che riguarda l’Eucaristia. Sopra queste parole dette da Nostro Signore nell’ultima Cena: « Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo: » dice lo stesso protestante Dottor Gibbons che ci sono nel protestantesimo nientemeno che cento differenti interpretazioni.

— Dunque stando così le cose, è vero quel che ho inteso a dire che la Chiesa proibisce ai cattolici di leggere la Bibbia, il Vangelo!

No, ciò è una falsità. La Chiesa proibisce ogni traduzione ed edizione della Bibbia, che non sia da essa approvata. E ciò ella fa precisamente perché vuole che la Bibbia sia conservata nella sua integrità e non vi si introducano alterazioni di sorta. Del resto la Chiesa, tutt’altro che proibirne la lettura, ha sempre esortato i fedeli a leggere la Bibbia, come si vede chiaramente dal Breve di Pio VI a Mons. A. Martini, Arcivescovo di Firenze, celebre traduttore e commentatore della Bibbia in lingua italiana; come risulta dalla Lettera dei Vescovi degli Stati Uniti riguardo alla magnifica edizione della Bibbia di Haydock e come appare chiarissimo dalla speciale pubblicazione che si fece ultimamente del Vangelo di Gesù Cristo e degli Atti degli Apostoli in italiano per opera della Pia società di S. Girolamo per la diffusione dei Santi Vangeli sotto l’impulso e la benedizione del Papa Leone XIII. – Solamente la Chiesa desidera che, sorgendo dubbi o difficoltà nel leggere la Bibbia, i buoni fedeli interroghino modestamente i sacerdoti, le labbra dei quali devono custodire la scienza (V. Malachia, Capo II, Versetto 7), senza pretendere tuttavia di scrutare indiscretamente e comprendere i misteri divini, ricordando ognora gli avvertimenti di Dio medesimo nell’Ecclesiastico (Capo III, Versetto 22): « Non cercare quello che è sopra di te, e non voler indagare quelle cose, che sorpassano le tue forze; ma pensa mai sempre a quello che ti ha comandato Iddio; e non essere curioso scrutatore delle molte opere di Lui » e nei Proverbi (Capo XXV, Versetto 27): « Colui che si fa scrutatore della maestà di Dio rimarrà sotto il peso della sua gloria ».

— E quale vantaggio si potrà ricavare dalla lettura della Bibbia e del Vangelo, se basta l’insegnamento della Chiesa?

Se ne potrà ricavare un vantaggio grandissimo. Anzi tutto coloro stessi, che non credono alla fede cattolica, possono giovarsi della Bibbia e del Vangelo come di libri storici di valore indiscutibile per apprendervi molte delle verità, che Dio ha rivelate agli uomini e per conoscere più da vicino quel Gesù Cristo, che è venuto quale nostro divino maestro. Tutti poi da tale lettura potranno rilevare che la Chiesa alla fin fine non fa altro che sviluppare in modo chiaro ed esatto le verità, che nelle sacre scritture si contengono, e così raffermarsi ognor più nella fede a tali verità. Per di più tutti da tale lettura potranno essere salutarmente edificati ed efficacemente animati a seguire le massime e gli esempi santissimi che in essa si offrono, e quelli massimamente del divino maestro e modello, Gesù Cristo. E quando non fosse altro, in tale lettura da un’anima intelligente si gusterà quell’impagabile diletto spirituale, che quasi porta la mente fuori di sé e le fa sentire ciò che è impossibile ridire. – Si narra che un giorno Giovanni Racine condusse l’amico suo, La Fontaine, all’ufficio dei Mattutini. Era la settimana santa; i padri nostri usavano in quei giorni solenni unirsi alle preghiere della Chiesa. Racine non durò fatica a raccogliersi, perché egli era pio; ma lo scrittore di favole, la cui mente conversava abitualmente coi buoni amici della natura, gli animali e le piante, cercava da ogni parte uno sfogo alle sue distrazioni. Racine vedendo il suo impaccio, gli diede una piccola Bibbia, che portava seco, e il caso volle che si aprisse là dove si legge la profezia di Baruch. La Fontaine dapprima si mise a leggere distrattamente, poi con attenzione, poi con entusiasmo, finché rapito dalle belle cose, che fin allora aveva ignorato, esclamò ad alta voce, con iscandalo di chi assisteva: Che genio è Baruch! Dopo d’allora non cessava dal dire a tutti quelli che vedeva: Avete letto Baruch? Era un gran genio!

— Con quale spirito adunque devesi leggere la sacra scrittura?

Eccotelo indicato dall’autore dell’Imitazione di Cristo: « Nelle sante scritture bisogna cercare la verità e non l’eloquenza. Ogni scrittura santa va letta con quello spirito medesimo ond’è stato composta. Devesi badare nelle scritture all’utilità, più che alla finezza nel dire. E son da leggere volentieri i libri devoti e semplici, come i sublimi e profondi. Non ti far caso dell’autorità dello scrittore, se fosse poco o molto letterato; ma il solo amore della verità t’inviti a leggere. Non voler sapere chi ha detto questo, ma bensì poni mente a ciò che è detto. Gli uomini passano, ma la verità del Signore sta in eterno (Salmo CXVI, versetto 2). Dio ci parla in vari modi, senza accettazione di persone (S. Pietro, la Epistola I, versetto 17). La curiosità ci è sovente di ostacolo nel leggere le scritture, perché vogliamo capire ed esaminare, dove sarebbe da passarcela alla semplice. – Se vuoi cavarne profitto, leggi umilmente, semplicemente e fedelmente ; né t’importi fama di scienza. Interroga volentieri, e ascolta in silenzio le parole dei Santi; né ti dispiacciano i dettati dei vecchi, che non son detti senza perché (V. libro I , capo v) ».

— Si può leggere la Bibbia del Diodati?

No, assolutamente. Essa è proibita dalla Chiesa, perché è una Bibbia falsificata. Il Diodati traducendo la Bibbia salta le parole, le muta, ne aggiunge, e tutto ciò fa proprio, in quei testi, che citati a dovere sarebbero la condanna delle sue false dottrine. Il Diodati taglia dalla Bibbia sette interi volumi già mille e più anni prima avuti dalla Chiesa per ispirati e canonici, cioè il libro di Giuditta, di Tobia, i due libri dei Maccabei, la profezia di Baruch ed i libri della Sapienza e dell’Ecclesiastico. E ciò egli ha fatto perché in quei libri vi sono insegnate verità, che i protestanti assolutamente rifiutano di credere. Per esempio, nel libro dei Maccabei si legge la preghiera e il sacrifizio di Giuda offerto per il suffragio delle anime dei suoi soldati morti, ciò che fa balzar fuori chiaro come la luce, il dogma del Purgatorio e dei suffragi per i defunti. Ma appunto perché i protestanti non vogliono saperne di purgatorio, perciò il Diodati taglia via dalla Bibbia il libro dei Maccabei. – Dopo tutto ciò, nessuna meraviglia che la Chiesa abbia proibito la lettura di questa falsa Bibbia. Se tu avessi un servo infedele che rubasse e ti facesse dire presso la gente cose che non hai dette mai o che hai dette in modo ben diverso, non lo metteresti alla porta e non gli proibiresti di entrare ancora in casa tua? Così fece la Chiesa col Diodati. Esso ha rubato nella Bibbia, vi ha introdotte delle falsità e delle bugie: ha fatto dire a S. Paolo e a S. Pietro molte cose che essi non hanno dette; e perciò il Diodati è un ladro, un falsario; e la Chiesa doveva respingerlo da sé, doveva proibirne la lettura. Chi pertanto comperasse o anche solo ricevessi in dono e tenesse presso di sé, o leggesse una tal Bibbia, mancherebbe gravissimamente. Che se per avventura qualcheduno ti si presentasse per regalarti qualche Bibbia oppure per vendertela a pochi soldi, allontanati tosto da costui come da un velenoso serpente. Quelle bibbie, che si vanno regalando o vendendo a pochi soldi per le pubbliche vie, sono appunto quelle del Diodati, e gli spacciatori delle medesime sono gli emissari delle famose società bibliche del protestantesimo.

— La ringrazio dell’avviso, e al caso lo praticherò esattamente.

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: AD BEATISSIMI APOSTOLORUM PRINCIPIS

In questa lettera enciclica di Benedetto XV del 1914, viene delineato il programma del Pontificato del Papa appena eletto; forti erano al momento i timori per le tensioni fra gli stati europei pronti alla guerra. Ricercate le cause religiose e morali, oltre che sociali ed economiche, da cui il conflitto è scatenato, il Papa riassume i principi costitutivi predicati dalla Chiesa, per l’ordine e la pace nella vita delle classi sociali e delle nazioni. – Ai nostri giorni, la situazione sociale è di gran lunga più grave, mentre gravissimo è il precipitare della vita spirituale soffocata, nei paesi un tempo Cristiani, dalla dispnea mortale di un modernismo ultra-liberale satanico, dall’ecumenismo indifferentista, parto distocico delle conventicole massoniche, ovunque infiltrate, anche là dove un tempo c’erano i palazzi sacri, e fin’anche nelle antiche Sedi Apostoliche, tutte al servizio del potere occulto della finanza kazara, longa manus di lucifero, l’angelo decaduto, sprofondato negli inferi, che pretende oggi di essere adorato nientemeno che come “architetto del mondo” e come “signore dell’universo”. I princîpi della lettera,   sono oggi ovviamente ancor più necessari affinché, nel conformarci ad essi, tutti: governanti, prelati, veri (una manciata) o falsi (una baraonda di viziosi corrotti … et abominabiles facti sunt in studiis suis; non est qui faciat bonum, non est usque ad unumPs. XIII) che siano, “duci” della finanza, uomini comuni, possiamo evitare un disastro ben più grave di quello paventato dal Santo Padre nell’Enciclica e che coinvolgerà tutti. Ormai molti hanno compreso di essere ad un bivio cruciale nella vita del nostro mondo, e la fede in Gesù-Cristo, con il Magistero della Chiesa Cattolica, è l’unico mezzo per comprendere quale strada intraprendere per salvare non solo la nostra anima, ma pure tutto il creato visibile … “Ad Beatissimi Apostolorum Principis cathedram arcano Dei providentis consilio, …”

Benedetto XV
Ad Beatissimi Apostolorum Principis”

– Lettera Enciclica –

Venerabili fratelli

Salute e apostolica benedizione.

Non appena per gli inscrutabili consigli della Provvidenza divina, senza alcun Nostro merito, fummo chiamati ad assiderCi sulla Cattedra del Beatissimo Principe degli Apostoli, Noi, ascoltando come diretta alla Nostra Persona quell’istessa voce che il Nostro Signor Gesù Cristo rivolgeva a Pietro: “Pascola i miei agnelli, pascola le mie pecore” (Joan. XXI, 15-17), immediatamente rivolgemmo uno sguardo di inesprimibile affetto al gregge che veniva affidato alla Nostra cura: gregge veramente immenso, perché abbraccia, quali per un aspetto, quali per un altro, tutti gli uomini. Tutti, infatti, quanti essi sono, furono liberati dalla servitù del peccato da Gesù Cristo, che per loro offrì il prezzo del Suo Sangue; né v’ha alcuno che sia escluso dai vantaggi di questa redenzione. Onde può ben dire il Divino Pastore che, mentre una parte dell’uman genere la tiene di già avventuratamente accolta nell’ovile della Chiesa, l’altra Egli ve la sospingerà dolcemente: “Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile; ed occorre che io le porti qui ed ascolteranno la mia voce” (Joan. X, 16). – Lo confessiamo, Venerabili Fratelli: il primo sentimento che abbiamo provato nell’animo, e che vi fu acceso di sicuro dalla divina bontà, è stato un incredibile palpito di affetto e di desiderio per la salvezza di tutti gli uomini; e nell’assumere il Pontificato Noi concepimmo quel medesimo voto che Gesù Cristo espresse già presso a morire sulla Croce: “O padre santo, conservali nel tuo nome, che Tu hai dato a me” (Joan. XVII, 11). Quindi è che allorquando da questa altezza dell’apostolica dignità potemmo contemplare con un solo sguardo il corso degli umani avvenimenti, e Ci vedemmo dinanzi la miseranda condizione della civile società, Noi ne provammo davvero un acuto dolore. E come sarebbe potuto accadere, che divenuti Noi Padre di tutti gli uomini, non Ci sentissimo straziare il cuore allo spettacolo che presenta l’Europa e con essa tutto il mondo, spettacolo il più tetro forse ed il più luttuoso nella storia dei tempi? Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: “Udirete le battaglie e le opinioni delle battaglie […] Nascerà infatti gente da gente e regno da regno” (Matth. XXIV, 6,7). Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia per ciò, se ben fornite, come uomo, di quegli orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armate, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte dell’istessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, tristi seguaci della guerra: si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani: languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto. – Commossi da mali così gravi Noi, fin dalla soglia del Sommo Pontificato, ritenemmo Nostro dovere di raccogliere le ultime parole uscite dal labbro del Nostro Predecessore, Pontefice di illustre e così santa memoria, e di dar principio al Nostro Apostolico Ministero col tornare a pronunziarle: e così caldamente scongiurammo e Principi e Governanti affinché, considerando quante mai lagrime e quanto sangue sono stati già versati, s’affrettassero a ridare ai loro popoli i vitali benefizi della pace. Deh! Ci conceda Iddio misericordioso che, come all’apparire del Redentore divino sulla terra, così all’iniziarsi del Nostro ufficio di Vicario di Lui, risuoni l’angelica voce annunziatrice di pace: “Pace in terra agli uomini di buona volontà” (Luc. II, 14). E l’ascoltino, li preghiamo, l’ascoltino questa voce coloro che hanno nelle loro mani i destini dei popoli. Altre vie certamente vi sono, vi sono altre maniere, onde i lesi diritti possano avere ragione: a queste, deposte intanto le armi, essi ricorrano, sinceramente animati da retta coscienza e da animi volonterosi. È la carità verso di loro e verso tutte le nazioni che così Ci fa parlare, non già il Nostro interesse. Non permettano dunque che cada nel vuoto la Nostra voce di padre e di amico.  – Ma non è soltanto l’attuale sanguinosa guerra che funesti le nazioni e a Noi amareggi e travagli lo spirito. Vi è un’altra furibonda guerra, che rode le viscere dell’odierna società: guerra che spaventa ogni persona di buon senso, perché mentre ha accumulato ed accumulerà anche per l’avvenire tante rovine sulle nazioni, deve anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente luttuosissima lotta. Invero, da quando si è lasciato di osservare nell’ordinamento statale le norme e le pratiche della cristiana saggezza, le quali garantivano esse sole la stabilità e la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a vacillare nelle loro basi, e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale un cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già imminente lo sfacelo dell’umano consorzio. I disordini che scorgiamo, sono questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale fatto unico obbiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere. Son questi a Nostro parere i quattro fattori della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque diligentemente adoperarsi a torre di mezzo tali disordini, richiamando in vigore i principi del Cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la società.  – Gesù Cristo disceso dal Cielo appunto per questo fine di ripristinare fra gli uomini il regno della pace, rovesciato dall’odio d Satana, non altro fondamento volle porvi che quello dell’amore fraterno. Quindi quelle Sue parole tanto spesso ripetute: “Io vi dò un nuovo incarico: di amarvi a vicenda (Joan. XIII, 34); questo è il mio precetto, che vi amiate a vicenda (Joan. XV, 12); questo vi ordino, di amarvi a vicenda” (Joan. XV, 17); quasi che tutta la Sua missione ed il Suo compito si restringessero a far sì che gli uomini si amassero scambievolmente. E quale forza di argomenti non adoperò per condurci a questo amore? Guardate in alto, ci disse: “Uno solo è infatti il Padre vostro, che è nei Cieli” (Matth. XXIII, 9). A tutti, senza che per Lui possa per nulla contare la diversità di nazioni, la differenza di lingue, la contrarietà di interessi, a tutti pone sul labbro la stessa preghiera: “Padre nostro, che sei nei Cieli” (Matth. VI, 9); ci assicura anzi che questo Padre Celeste, nell’effondere i suoi benefizi, non fa distinzione neppure di meriti: “Egli fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Matth. V, 45). Dichiara inoltre che noi siamo tutti fratelli: “Voi tutti poi siete fratelli” (Matth. XXIII, 8); e fratelli a Lui stesso: “Perché, tra i molti fratelli, Egli sia il primogenito” (Rom. VIII, 29). Poi, cosa che vale assaissimo a stimolarci all’amore fraterno anche verso di quelli che la nativa nostra superbia disprezza, giunse sino ad identificarsi col più meschino degli uomini, nel quale vuole si ravvisi la dignità della sua stessa persona: “Quanto avete fatto ad uno solo di questi miei umilissimi fratelli, lo avete fatto a me” (Matth. XXV, 40). Che più? Sul punto di lasciare la vita, pregò intensamente il Padre, affinché tutti coloro che avessero creduto in Lui, fossero per il vincolo della carità una cosa sola fra loro: “Come tu Padre sei in me, io sono in te” (Joan. XVII, 21). E finalmente, confitto sulla Croce, tutto il Suo Sangue riversò su di noi, onde plasmati quasi e formati in un corpo solo, ci amassimo scambievolmente con la forza di quel medesimo amore che l’un membro porta all’altro in uno stesso corpo. – Ma, purtroppo, oggigiorno diversamente si comportano gli uomini. Mai forse più di oggi si parlò di umana fratellanza: si pretende anzi, dimenticando le parole del Vangelo e l’opera di Cristo e della sua Chiesa, che questo zelo di fraternità sia uno dei parti più preziosi della moderna civiltà. La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l’umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori: in seno ad una stessa nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini; e fra gli individui tutto si regola con l’egoismo, fatto legge suprema.  – Vedete, Venerabili Fratelli, quanto sia necessario fare ogni sforzo perché la carità di Cristo torni a dominare fra gli uomini. Questo sarà sempre il Nostro obbiettivo e questa l’impresa speciale del Nostro Pontificato. Questo sia pure, ve ne esortiamo, il vostro studio. Non ci stanchiamo di inculcare negli animi di attuare il detto dell’Apostolo San Giovanni: “Perché noi ci amiamo l’un l’altro” (Joan. III, 23). Sono belle, per fermo, sono commendevoli le pie istituzioni, di cui abbondano i nostri tempi; ma allora solo tradurranno un reale vantaggio, quando contribuiranno in qualche modo a fomentare nei cuori l’amore di Dio e del prossimo; diversamente non hanno valore, perché “chi non ama rimane nella morte” (Ibid. 14).  – Abbiamo detto che un’altra cagione dello scompiglio sociale consiste in questo, che generalmente non è più rispettata l’autorità di chi comanda. Imperocché dal giorno che ogni potere umano si volle emancipato da Dio, Creatore e Padrone dell’universo, e lo si volle originato dalla libera volontà degli uomini, i vincoli intercedenti fra superiori e sudditi si andarono rallentando talmente da sembrare ormai che siano quasi spariti. Uno sfrenato spirito di indipendenza unito ad orgoglio si è a mano a mano infiltrato per ogni dove, non risparmiando neppure la famiglia ove il potere chiarissimamente germina dalla natura; ed anzi, ciò che è più deplorevole, non sempre si è arrestato alle soglie del Santuario. Di qui il disprezzo delle leggi; di qui l’insubordinazione delle masse; di qui la petulante critica di quanto l’autorità disponga; di qui i mille modi escogitati a fin di rendere inefficace la forza del potere; di qui gli spaventevoli delitti di coloro che, facendo professione di anarchia, non si peritano di attentare così agli averi come alla vita altrui.  – Di fronte a questa mostruosità del pensare e dell’agire, deleteria di ogni esistenza sociale, Noi costituiti da Dio custodi della verità, non possiamo non alzare la voce; e ricordiamo ai popoli quella dottrina che nessun placito umano può mutare: “Non vi è potere se non da Dio: e le cose che sono, sono ordinate da Dio” (Rom. XIII, 1). Ogni potere adunque che si esercita sulla terra, sia esso di sovrano, sia di autorità subalterne, ha Dio per origine. Dal che San Paolo deduce il dovere di ottemperare, non già in qualsivoglia maniera, ma per coscienza, ai comandi di chi è investito del potere, salvo il caso in cui si oppongano alle leggi divine:”Laonde siate costretti della necessità, non solo per ira, ma anche per coscienza” (Ibid. 5). E conformemente a questi precetti di San Paolo, insegna pure lo stesso Principe degli Apostoli: “Siate soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio: sia al re perché capo, sia ai comandanti come quelli che sono da lui inviati” (I Petr. II, 13-14). Dalla qual premessa il medesimo Apostolo delle genti inferisce che chi si ribella alle legittime potestà umane, si ribella a Dio ed incorre nell’eterna dannazione: “Perciò chi resiste al potere, resiste all’ordine di Dio. E quelli che resistono, vanno in dannazione” (Rom. XIII, 2).  – Rammentino questo i Principi e i Reggitori dei popoli, e vedano se sa sapiente e salutevole consiglio, per i pubblici poteri e per gli Stati, il far divorzio dalla Religione santa di Cristo, che è sostegno così potente delle autorità. Riflettano bene se sia misura di saggia politica il voler sbandita dal pubblico insegnamento la dottrina del Vangelo e della Chiesa. Una funesta esperienza dimostra che ivi l’autorità umana è disprezzata, donde esula la religione. Succede infatti alle società, quello stesso che accadde al nostro primo padre, dopo aver mancato. Come in lui appena la volontà si fu ribellata a Dio, le passioni si sfrenarono e disconobbero l’impero della volontà; cosi, allorquando chi regge i popoli disprezza l’autorità divina, i popoli a loro volta scherniscono l’autorità umana. Rimane certo il solito espediente di ricorrere alla violenza per soffocare le ribellioni: ma a che pro? La violenza opprime i corpi, non trionfa della volontà.  – Tolto dunque o indebolito il doppio elemento di coesione di ogni corpo sociale, l’unione cioè dei membri fra loro per la carità vicendevole e l’unione dei membri stessi col capo per la soggezione all’autorità, qual meraviglia, o Venerabili Fratelli, che la società odierna ci si presenti divisa come in due grandi armate che fra loro lottano ferocemente e senza posa? Di fronte a coloro ai quali o concesse fortune o l’attività propria apportò una qualche abbondanza di beni, stanno i proletari e i lavoratori, accesi d’odio e d’invidia, perché mentre partecipano agli stessi costitutivi essenziali, pur non si trovano nella medesima condizione di quelli. Naturalmente, infatuati come sono dagli inganni dei sobillatori, ai cui cenni si mostrano d’ordinario docilissimi, chi potrebbe loro persuadere come dall’essere gli uomini uguali per natura, non segua che tutti debbano occupare lo stesso grado nel consorzio sociale, ma che ognuno ha quella posizione che con le sue doti, non contrariate dalle circostanze, si sia procacciata? Per il che, quando i poveri lottano coi facoltosi, quasi che questi si siano impadroniti d’una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la giustizia e la carità, ma anche la ragione, specialmente perché anch’essi, se volessero, potrebbero collo sforzo di onorato lavoro riuscire a migliorare la propria condizione.  – A quali conseguenze, non meno disastrose per gli individui che per la società, meni quest’odio di classe, è superfluo il dirlo. Tutti vediamo e lamentiamo la frequenza degli scioperi per i quali di subito si produce l’arresto della vita cittadina e nazionale nelle operazioni più necessarie: parimenti le minacciose sommosse e i tumulti, in cui spesso avviene che si dà mano alle armi e si fa scorrere il sangue.  – Non vogliamo stare qui a ripetere le ragioni che provano a evidenza l’assurdità del socialismo e di altri simili errori. Leone XIII, Nostro Predecessore, ne trattò con grande maestria in memorabili Encicliche: e voi, o Venerabili Fratelli, cercate, col vostro abituale interessamento, che quegli autorevoli insegnamenti non cadano mai in dimenticanza, e che anzi nelle associazioni cattoliche, nei congressi, nei discorsi sacri, nella stampa cattolica si insista sempre nell’illustrarli saggiamente e nell’inculcarli secondo i bisogni. Ma in particolar modo – non dubitiamo di ripeterlo – con tutti gli argomenti che ci dà il Vangelo e che ci porgono la stessa umana natura e gl’interessi sì pubblici che privati, studiamoci di esortare tutti gli uomini ad amarsi tra loro fraternamente in virtù del divino precetto sulla carità. L’amore fraterno non varrà certo a togliere di mezzo la diversità delle condizioni e perciò delle classi. Questo non è possibile, come non è possibile che in un corpo organico tutte le membra abbiano una stessa funzione ed una stessa dignità. Farà non di meno che i più alti si inchinino verso i più umili e li trattino non solo secondo giustizia, come è d’uopo, ma con benevolenza, con affabilità, con tolleranza: i più umili poi riguardino i più elevati con compiacimento del loro bene e con fiducia nel loro appoggio: a quella maniera appunto che in una stessa famiglia i fratelli più piccoli confidano nell’aiuto e nella difesa dei più grandi. – Se non che, Venerabili Fratelli, quei mali che finora siamo venuti lamentando, hanno ora radice più profonda, a sterpar la quale, se non concorrono gli sforzi di tutti gli onesti, è vano sperare di conseguire l’oggetto dei nostri voti, vale a dire la tranquillità stabile e durevole negli umani rapporti. Quale sia questa radice l’insegna l’Apostolo: “Radice.. di tutti i mali è la cupidigia” (I Tim. VI, 10). E infatti, se ben si consideri, da questa radice si originano tutti i mali onde al presente è inferma la società. Quando invero con le scuole perverse, ove si plasma il cuore della tenera età malleabile come cera, colla stampa cattiva, che informa le menti delle masse inesperte, e cogli altri mezzi con cui si dirige l’opinione pubblica, quando, diciamo, si è fatto penetrare negli animi l’esiziale errore che l’uomo non deve sperare in uno stato di felicità eterna; che quaggiù; proprio quaggiù, può essere felice col godimento delle ricchezze, degli onori, dei piaceri di questa vita, non v’è da meravigliarsi che tali esseri umani, naturalmente fatti per la felicità, colla stessa violenza onde sono trascinati all’acquisto di detti beni, respingano da sé qualunque ostacolo che ne li trattenga od impedisca. Giacché poi questi beni non sono divisi ugualmente fra tutti, ed e dovere dell’autorità sociale d’impedire che la libertà individuale trasmodi e s’impadronisca dell’altrui, di qui nasce l’odio contro i pubblici poteri, di qui l’invidia dei diseredati dalla fortuna contro quelli che ne sono favoriti, di qui infine la lotta fra le varie classi cittadine, gli uni per conseguire ad ogni costo e strappare il bene di cui mancano, gli altri per conservare ed accrescere quello che possiedono.  – Fu in previsione di questo stato di cose che Gesù Cristo Signor Nostro col sublime Sermone della Montagna spiegò a bello studio quali fossero le vere beatitudini dell’uomo sulla terra, e pose, per così dire, i fondamenti della cristiana filosofia. Quelle massime anche agli avversari della fede apparvero come tesoro incomparabile di sapienza e come la più perfetta teoria della morale religiosa; e certo tutti convengono nel riconoscere che prima di Cristo, verità assoluta, nulla di pari gravità ed autorità e di tanto alto sentimento fu mai da alcuno inculcato.  – Or tutto il segreto di questa filosofia sta in ciò che i così detti beni della vita mortale sono semplici parvenze di bene, e che perciò non è col loro godimento che si possa formare la felicità dell’uomo. Sulla fede dell’autorità divina, tanto è lungi che le ricchezze, la gloria, il piacere ci arrechino la felicità che, anzi, se vogliamo davvero essere felici, dobbiamo piuttosto, per amore di Dio, rinunziarvi: “Beati i poveri….Beati voi, che ora piangete… Beati quando gli uomini vi odieranno e vi separeranno e scacceranno il vostro nome come un male” (Luc. VI, 20-22). Vale a dire, attraverso i dolori, le sventure, le miserie di questa vita, se com’è dover nostro, le sopportiamo pazientemente, ci apriamo da noi stessi l’adito al possesso di quei veri ed imperituri beni “che Dio ha preparato a quelli che lo amano” (I Cor. II, 9). Ma un così importante insegnamento della fede da molti purtroppo è negletto, e da non pochi è dimenticato del tutto. Tocca a voi, Venerabili Fratelli, di farlo rivivere negli uomini: senza cui l’uomo, e l’umana società, non avranno mai pace. Diciamo dunque a quanti sono afflitti o sventurati, di non fermare l’occhio alla terra, che è luogo di esilio, ma di levarlo al Cielo, al quale siamo diretti: perché “non abbiamo qui una città stabile, ma ne cerchiamo una futura.” (Hebr. XIII, 13). Ed in mezzo alle avversità colle quali Iddio mette alla prova la loro perseveranza nel servirlo, riflettano sovente quale premio è loro riservato, se da tale cimento usciranno vittoriosi: “Poiché quella che oggi è per noi una momentanea e leggiera tribolazione, forma in noi il peso oltremodo sublime ed eterno della gloria” (II Cor. IV, 17). Da ultimo l’adoprarsi con ogni potere e con ogni attività per farli fiorire fra gli uomini la fede nella verità soprannaturale, e contemporaneamente la stima, il desiderio, la speranza dei beni eterni, sia la prima delle vostre missioni, o Venerabili Fratelli, e il principale intento del clero ed anche di tutti quei Nostri figli che, stretti in vari sodalizi, zelano la gloria di Dio e il bene vero della società. Perocché a misura che crescerà negli uomini il sentimento di questa fede, andrà scemando la smania febbrile onde si ricercano i vani beni della terra, e gradatamente andranno sedandosi i moti e le contese sociali.  – E ora se lasciando da parte la società civile, rivolgiamo il pensiero alla considerazione di ciò che è proprio della Chiesa, vi è, senza dubbio, ragione perché l’animo Nostro, trafitto da tanta calamità dei tempi, almeno in parte si allieti. Infatti oltre agli argomenti, che si offrono da sé luminosissimi, di quella divina virtù ed indefettibilità di cui gode la Chiesa, non piccola consolazione Ci offrono quei preclari frutti che del suo operoso Pontificato Ci lasciò il Nostro Predecessore, Pio X, dopo aver illustrato l’Apostolica Sede con gli esempi di una vita tutta santa. Vediamo, infatti, per l’opera sua, acceso universalmente negli Ecclesiastici lo spirito religioso; ravvivata la pietà del popolo cristiano; promosse nelle società cattoliche l’azione e la disciplina; dove costituita la sacra gerarchia, dove ampliata; provveduto per l’educazione del giovane clero, conforme alla severità dei canoni, e, nella misura del necessario, a seconda della natura dei tempi; rimosso dall’insegnamento delle scienze sacre ogni pericolo di temerarie innovazioni; l’arte musicale ricondotta a servire degnamente la maestà delle sacre funzioni ed accresciuto il decoro del culto; il cristianesimo largamente propagato con nuove missioni di banditori del Vangelo.  – Sono questi, in verità, grandi meriti del Nostro Antecessore verso la Chiesa, meriti dei quali conserveranno i posteri grata memoria. Tuttavia, poiché il campo del padre di famiglia è sempre esposto, così permettendo Iddio, alle male arti del nemico, non avverrà mai che non debbasi esso lavorare perché il fiorire della zizzania non danneggi la buona messe. Pertanto, ritenendo come detto anche a Noi ciò che Dio disse al profeta: “Ecco, e io ti ho posto oggi sulle genti e sui regni, perché tu tolga e distrugga… perché edifichi e pianti” (Jer. I, 10), per quanto starà in Noi avremo sempre la massima cura di rimuovere il male e promuovere il bene, fintantoché non piacerà al Pastore dei Pastori di domandarCi conto dell’esercizio del Nostro mandato.  – Or dunque, o Venerabili Fratelli, mentre vi rivolgiamo questa prima Lettera Enciclica, ravvisiamo opportuno accennare alcuni dei punti principali a cui abbiamo in animo di dedicare le Nostre speciali cure; così studiandovi voi di secondare col vostro zelo l’opera Nostra, anche più sollecitamente si otterranno i desiderati frutti.  – E innanzi tutto poiché in ogni umana società, qualunque sia stato il motivo della sua formazione, primo coefficiente di ogni operosità collettiva è l’unione e la concordia degli animi, Noi dovremo rivolgere un’attenzione specialissima a sopire i dissensi e le discordie tra i cattolici, quali esse si siano, e ad impedire che ne organo altre in avvenire, talché tra i cattolici, uno sia il pensare e uno l’operare. Ben comprendono i nemici di Dio e della Chiesa che qualsiasi dissidio dei nostri nella propria difesa, segna per essi una vittoria; laonde usano assai di frequente questo sistema che, allorquando più vedono compatti i cattolici, proprio allora, astutamente gettando tra di loro i semi della discordia, maggiormente si sforzano di romperne la compattezza. Piacesse al Cielo che tale sistema non così spesso avesse avuto l’esito desiderato, condanno tanto grave per la religione! Quindi, qualora la legittima autorità imparta qualche comando, a nessuno sia lecito di trasgredirlo, per la ragione che non gli piace; ma ciascuno sottometta la propria opinione all’autorità di colui al quale è soggetto, ed a lui obbedisca per debito di coscienza. Parimenti nessun privato, o col pubblicare libri o giornali, ovvero con tenere Pubblici discorsi, si comporti nella Chiesa da maestro. Sanno tutti a chi sia stato affidato da Dio il magistero della Chiesa; a Lui dunque si lasci libero il campo, affinché parli quando e come crederà opportuno. È dovere degli altri prestare a Lui, quando parla, ossequio devoto, ed ubbidire alla Sua parola.  – Riguardo poi a quelle cose delle quali – non avendo la Santa Sede pronunziato il proprio giudizio – si possa, salva la Fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla. Ma in simili discussioni rifuggasi da ogni eccesso di parole, potendone derivare gravi offese alla carità; ognuno liberamente difenda la sua opinione, ma lo faccia con garbo, né creda di poter accusare altri di sospetta fede o di mancata disciplina per la semplice ragione che la pensa diversamente da lui. Vogliamo pure che i nostri si guardino da quegli appellativi, di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici; e procurino di evitarli non solo come profane novità di parole, che non corrispondono né alla verità, né alla giustizia, ma anche perché né è ammissibile il più, né il meno: “Questa è la fede cattolica, alla quale chi non crede fedelmente e fermamente non potrà essere salvo” (Symb. Athanas.); o si professa intero, o punto non si professa. Non vi ha dunque necessità di aggiungere epiteti alla professione del cattolicismo; basti a ciascuno di dire così: “Cristiano il mio nome, e cattolico il mio cognome“; soltanto, si studi di essere veramente tale, quale si denomina.  – Del resto, dai nostri che si sono dedicati al comune vantaggio della causa cattolica, ben altro richiede oggidì la Chiesa che il persistere troppo a lungo in questioni da cui non si trae nessun utile: richiede invece che si sforzino a tutto potere di conservare integra la Fede ed incolume da ogni alito d’errore, seguendo specialmente le orme di colui che Cristo costituì custode ed interprete della verità. Vi sono oggi pure, e non sono scarsi, coloro i quali, come dice l’Apostolo: “Stimolati nell’orecchio, e non. sostenuti da una sana dottrina, ammucchiano le parole dei maestri secondo i propri desideri e dalle verità si sviano e si lasciano convertire dalle parole” (II Tim. IV, 3, 4). Infatti tronfi ed imbaldanziti per il grande concetto che hanno dell’umano pensiero, il quale in verità ha raggiunto, la Dio mercé, incredibili progressi nello studio della natura, alcuni, confidando nel proprio giudizio in ispregio dell’autorità della Chiesa, giunsero a tal punto di temerità che non esitarono a voler misurare con la loro intelligenza perfino le profondità dei divini misteri e tutte le verità rivelate, e a volerle adattare al gusto dei nostri tempi. Sorsero di conseguenza i mostruosi errori del Modernismo, che il Nostro Predecessore giustamente dichiarò “sintesi di tutte le eresie” condannandolo solennemente. Tale condanna, o Venerabili Fratelli, noi qui rinnoviamo in tutta la sua estensione; e poiché un così pestifero contagio non e stato ancora del tutto sradicato, ma, sebbene latente, serpeggia tuttora qua e là, Noi esortiamo che guardisi ognuno con cura dal pericolo di contagio; che ben potrebbe ripetersi di tale peste ciò che di altra cosa disse Giobbe: “È fuoco che divora. fino alla perdizione e che sradica tutti i germi” (Job. XXXI, 12). Né soltanto desideriamo che i cattolici rifuggano dagli errori dei Modernisti, ma anche dalle tendenze dei medesimi, e dal cosiddetto spirito modernistico; dal quale chi rimane infetto, subito respinge con nausea tutto ciò che sappia di antico, e si fa avido e cercatore di novità in ogni singola cosa, nel modo di parlare delle cose divine, nella celebrazione del sacro culto, nelle istituzioni cattoliche e perfino nell’esercizio privato della pietà. Vogliamo dunque che rimanga intatta la nota antica legge: “Nulla si rinnova, se non ciò che è stato, tramandato“; la quale legge, mentre da una parte deve inviolabilmente osservarsi nelle cose di Fede, deve dall’altra servire di norma anche in tutto ciò che va soggetto a mutamento; benché anche in questo valga generalmente la regola: “Non nova, sed noviter“. – Ma poiché, o Venerabili Fratelli, ad una aperta professione di fede cattolica e ad una vita ad essa consentanea sogliono gli uomini essere stimolati, più che da altro, dalle fraterne esortazioni e dal mutuo buon esempio, perciò Noi Ci compiacciamo vivamente che sorgano di continuo nuove associazioni cattoliche. E non solo desideriamo che queste fioriscano, ma vogliamo che il loro incremento si giovi della Nostra protezione e del Nostro favore; e tale incremento non sarà per mancare, purché obbediscano costantemente e fedelmente a quelle prescrizioni che furono o saranno date dalla Sede Apostolica.  – Tutti coloro pertanto che, iscritti in tali associazioni, tendono le loro forze per Iddio e per la Chiesa, non dimentichino mai il detto della divina Sapienza: “L’uomo obbediente parlerà di vittoria” (Prov. XXI, 28); perché se non obbediranno a Dio con ossequio verso il Capo della Chiesa, essi invano attenderanno l’aiuto del Cielo e invano altresì lavoreranno.  – Ma affinché tutte queste cose siano mandate a effetto con quell’esito che Ci ripromettiamo, voi ben sapete, o Venerabili Fratelli, esser necessaria l’opera prudente ed assidua di coloro che Cristo Signore ha mandato “operai della sua messe“, cioè del Clero. Perciò comprendete che la vostra cura principale deve essere di applicarvi a santificare sempre più, come esige il sacro stato, il Clero che già avete, ed a formare degnamente per l’ufficio così venerabile, con la più disciplinata educazione, gli alunni del Santuario. E benché la vostra diligenza non abbia bisogno di stimolo, pure Noi vi esortiamo e vi scongiuriamo a voler adempiere questo dovere colla massima solerzia. – Si tratta di cosa che per il bene della Chiesa ha importanza capitale; ma avendone i Nostri Predecessori di s. m. Leone XIII e Pio X trattato in proposito, non è il caso di aggiungere altri consigli. Solamente bramiamo che quei documenti di così saggi Pontefici, e più specialmente la “Exhortatio ad Clerum” della s. m. di Pio X, mercè le vostre insistenti premure giammai cadano in oblio, ma siamo sempre scrupolosamente osservati. Di una cosa peraltro non vogliamo tacere, ed è il ricordare ai sacerdoti di tutto il mondo, Nostri figli carissimi, l’assoluta necessità tanto per il vantaggio loro personale, quanto per l’efficacia del loro ministero, di stare strettamente uniti e pienamente ai propri Vescovi. Purtroppo dallo spirito di insubordinazione e d’indipendenza che ora regna nel mondo, non tutti, come con dolore accennammo più sopra, sono scevri i ministri del Santuario: né sono rari i Sacri Pastori che trovano angustie e contraddizioni proprio là, donde dovrebbero aspettarsi conforto ed aiuto. Orbene, se alcuno tanto miseramente vien meno ai dovere, rifletta e mediti bene che divina è L’autorità dei Vescovi, cui lo Spirito Santo ha destinati a reggere la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). Rifletta inoltre che se, come abbiamo visto, resiste a Dio chi resiste a qualsiasi legittima potestà, è assai più irriverente la condotta di coloro che ricusano di ubbidire ai Vescovi, cui Dio ha consacrati con carattere speciale per esercitare il suo divino potere. “Poiché l’amore – così scriveva il santo martire Ignazio – non permette di tacere di voi, perciò ho pensato ammonirvi di essere unanimi nella sentenza di Dio. Infatti Gesù Cristo, inseparabile dalla nostra vita, lo è per sentenza del Padre, come pure i Vescovi, stabiliti nelle plaghe del mondo, lo sono per sentenza del Padre. Onde a voi occorre convenire nella sentenza del Vescovo” (In Epist. ad Ephes., III). E la parola di quel martire insigne è stata, a traverso ogni età, la parola di tutti i Padri e Dottori della Chiesa. – Si aggiunga che già troppo grave, anche per le difficoltà dei tempi, e il peso che portano i Vescovi, e che più grave è ancora l’ansietà in che vivono per la responsabilità di custodire il gregge loro affidato: “Essi infatti vigilano come dovessero render conto delle vostre anime” (Hebr. XIII, 17). Non si deve dunque chiamare crudele chi, con la propria insubordinazione, ne accresce l’onere e l’amarezza? “Perché questo non vi giova” (Ibid. 17), direbbe a costoro l’Apostolo, e ciò perché: “La Chiesa è la plebe adunata intorno al sacerdote e il gregge raccolto intorno al pastore” (S.Cypr. Flor. et Pupp., ep. 66, al. 69); donde segue, che non è con la Chiesa chi non è col Vescovo. – Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna colà, donde volemmo prendere le mosse.  – È la parola di pace che Ci torna sul labbro, per il che, con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell’attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non rattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il Suo Capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli per tutela della Sua libertà. La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d’altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d’essere assicurati che il loro Padre comune sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.  – Al voto pertanto d’una pronta pace fra le Nazioni Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale, in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti rispetti, alla stessa tranquillità del popolo. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, emisero più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.  – Rimane, o Venerabili Fratelli, che, siccome il cuore dei Principi e di tutti coloro ai quali spetta mettere fine alle atrocità e ai danni che abbiamo ricordati, sta nelle mani di Dio, a Dio supplici leviamo la voce, e, a nome dell’intera umanità, gridiamo: “Dacci la pace, Signore, nei nostri giorni“. E chi disse di sé: “Io, Signore… faccio la pace” (Is. XLV, 6-7), Egli, placato dalle nostre preghiere, voglia quanto prima sedare i flutti tempestosi, dai quali sono agitate la Società civile e la Società religiosa. Ci assista propizia la Beatissima Vergine, Ella che ha generato lo stesso Principe della Pace; e l’umile Nostra Persona, il Nostro Pontificale Ministero, la Chiesa, e con essa le anime di tutti gli uomini, redente tutte dal Sangue divino del Suo Figlio, accolga sotto la Sua materna protezione.  – Auspice dei Celesti doni e pegno della Nostra benevolenza, impartiamo di gran cuore, o Venerabili Fratelli, l’Apostolica Benedizione a voi, al vostro clero ed al vostro popolo.

Dato in Roma, presso San Pietro, il 1° Novembre 1914, nella festa di Ognissanti, del Nostro Pontificato anno I.