DOMENICA TERZA dopo PASQUA
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXV:1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
Ps LXV:3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]
Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
Oratio
Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19
“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”
OMELIA I
[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed., vol. II, 1898 – Omelia XIX.]
“Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. Diportatevi degnamente tra i Gentili, affinché se sparlano di voi, come di malfattori, giudicandovi dalle vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno che li visiterà. Il perché, siate sommessi, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrano, sia ai governatori, come mandati da lui, a punizione dei malfattori e a lode dei buoni. Perciocché tale è la volontà di Dio, che, operando il bene, imponiate silenzio alla ignoranza di uomini stolti. Come liberi e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, riverite il re. Voi, servi, siate sommessi, con ogni riverenza, ai padroni non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. Perciocché questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente „ (I. di S. Pietro,, c. II, vers. 11-19).
Due sentimenti affatto contrari provo in me stesso al pensiero di dovervi fare la chiosa delle sentenze che avete udite, che son prese dalla prima lettera di S. Pietro; il primo sentimento è di vivo piacere, perché le verità che vi si contengono sono ad un tempo di somma rilevanza e pratiche per ogni classe di persone; il secondo sentimento è l’impaccio, nel quale mi trovo di svolgere come si deve ad una ad una queste verità, ciascuna delle quali richiederebbe un discorso. Mi è dunque forza congiungere insieme la brevità e il commento di tutti i nove versetti, che vi ho recitati: mi vi proverò, fidando sempre nella vostra attenzione. – « Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. „ Io non so dirvi, o fratelli, ciò che sento in cuore, allorché leggo e considero questa parola sì bella “Carissimi”, uscita dalla penna di S. Pietro. — Chi è colui, che scrive ? È il primo Vicario di Gesù Cristo, il Principe degli apostoli, il capo della Chiesa, carico di anni, di dolori e di meriti, già presso al patibolo, sul quale alla corona dell’apostolato si aggiungerà la palma del martire. A chi scrive? Ad alcuni cristiani, poveri, vessati, dispersi qua e là, usciti poc’anzi dalle tenebre del paganesimo e dai pregiudizi ebraici. E Pietro, questo primo depositario delle somme chiavi, lasciategli da Cristo, venerando per la dignità, per l’età, pei patimenti sofferti pel nome di Cristo, sembra quasi dimenticare se stesso, e con la effusione d’un padre, che abbraccia i suoi figliuoli, dice loro: “Carissimi!„ In questa parola si sente battere il cuore del sommo apostolo! Ah! se Pietro teneva coi semplici e poveri fedeli questo linguaggio pieno di affetto paterno, che dobbiamo fare noi? Noi, sacerdoti, noi, pastori di anime, oggi più che mai abbiamo bisogno d’informare i nostri cuori e le nostre parole al cuore, alle parole del primo apostolo! S. Pietro, dopo aver destata l’attenzione e guadagnato l’affetto dei suoi neofiti con quella parola -“Carissimi„- li esorta a considerarsi come stranieri e pellegrini sulla terra. Il pellegrino o straniero, che viaggia verso la patria sua, ricorda sempre d’essere pellegrino e straniero; non si cura delle cose che vede, passando, o appena le degna d’uno sguardo fuggevole, né punto lega ad esse il cuor suo; si sbriga di tutto ciò che lo impaccerebbe nel cammino e si restringe a portar seco solo quel tanto che è necessario e, fissa la mente nella patria, non bada a disagi e pericoli, non perde tempo con quelli che incontra per via, non contende con loro, li saluta cortesemente e studia il passo. — Ebbene: noi tutti, quaggiù sulla terra, siamo pellegrini e stranieri: la nostra patria è il cielo: là soltanto riposeremo: non fermiamoci per via, non leghiamo il nostro affetto a cose, che dobbiamo tosto abbandonare, non carichiamoci dell’inutile peso dei beni della terra, non consumiamoci tra noi con vani litigi, corriamo animosi verso la patria, dove ci aspetta Dio, Padre nostro, dove ci attendono i nostri fratelli, i Santi, dove tutto un giorno sarà pace e gioia purissima ed eterna. Se siete stranieri e pellegrini su questa terra “dovete astenervi – dice S. Pietro – dalle cupidigie terrene”, cioè dall’amore disordinato dei piaceri, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalla gola, dalla avarizia, dall’ozio e sopra tutto dalla lussuria, che ritardano il vostro cammino, anzi vi incatenano a questo mondo. – L’anima, che viene da Dio, attratta dalla verità, che brilla in alto, mossa dalla grazia, che dolcemente la porta al cielo, quasi aquila generosa spiega le ali verso l’altezza suprema; ma le cupidigie, i piaceri del senso, quasi fili avvolgenti i suoi piedi, la tengono legata alla terra: rompiamo questi fili, stacchiamo i nostri affetti dalla terra e voleremo al cielo, nel seno stesso di Dio, e cesserà questa malaugurata lotta tra lo spirito e la carne, quello, che ci tira in alto, questa, che quasi palla di piombo, legata ai nostri piedi, ci tiene avvinti a questa misera terra. – Segue un’altra esortazione pratica: “Diportatevi degnamente tra i Gentili. „ I Cristiani devono sempre vivere come esige la loro professione di Cristiani, cioè degnamente e santamente, perché così vuole il loro dovere e così vuole Iddio: ma a questo motivo, che è il primo e principalissimo, altri buoni ed onesti si possono aggiungere; e buono ed onesto è pur quello di onorare la loro fede innanzi agli uomini, e particolarmente dinanzi ai nemici della fede tessa. Qual mezzo più efficace di mostrare la santità della religione, di renderla cara e degna di venerazione e di condurre a lei gli erranti ed i nemici suoi più fieri quanto il mostrarne i benefici effetti in noi stessi? Sta bene metterne in luce le prove con una parola eloquente, ma è molto meglio farne brillare la divina origine nelle opere e nelle virtù. Noi sappiamo che nei primi secoli la conversione dei Gentili, più che alla eloquenza dei grandi apologisti, si doveva alla vita illibata e santa dei cristiani, e perciò S. Pietro scriveva: “Diportatevi degnamente tra’ Gentili. „ Carissimi! ora noi non viviamo, grazie a Dio, tra Gentili, ma tra cristiani; ma quali Cristiani? Assai volte sono cristiani di nome, praticamente ed anche teoricamente miscredenti: sono cristiani di costumi perduti, immersi in ogni sorta di disordini e di scandali. Forse voi stessi avrete amici, conoscenti, congiunti, persone teneramente amate, che hanno perduta la fede, oppure, conservandola, la disonorano con una vita indegna. Volete guadagnarli a Dio? Il mezzo più sicuro è quello di offrire in voi stessi la pratica della religione, di presentare nelle vostre parole e nelle vostre opere il modello del vero cristiano. Spargete intorno a voi nella famiglia, nella conversazione, nella parrocchia il profumo della vita cristiana e a poco a poco ricondurrete sulla retta via gli erranti ed i poveri peccatori. Lo insegna S. Pietro, che va innanzi e dice: “Se i Gentili sparlano di voi e vi tengono come malfattori, quando vedranno le vostre opere buone, daranno gloria a Dio allorché Dio li visiterà, „ cioè li toccherà colla sua grazia. Che cosa è, o dilettissimi, la grazia di Dio? È una visita ch’Egli fa alle anime nostre: le visita col lume della verità, che. ci fa conoscere la verità e il dovere, che ci fa odiare il male, amare il bene: le visita colla grazia, che ci sveglia, ci scuote, ci rimprovera, ci stimola, ci sostiene, ci spinge innanzi nella via della virtù. Felice colui che riceve spesso la visita di Dio, più felice chi l’accoglie e si trattiene con Lui! – È da sapere, che nei primi secoli della Chiesa e al tempo stesso degli apostoli i cristiani erano considerati dai pagani come malfattori, nemici dell’impero e ribelli alle autorità costituite; lo sappiamo da Tacito, da Plinio, da Minuzio Felice, e qui ce lo fa sapere lo stesso S. Pietro : ” Quod detrectant de vobis tamquam de malefactoribus — Sparlano di voi come di malfattori. „ Non v’era delitto, per quanto enorme, che il popolo pagano, ingannato dai tristi, non apponesse ai cristiani, e il più comune e più terribile era quello, che essi disprezzavano le leggi e gli imperatori. – Era dunque natural cosa che gli apostoli respingessero la nera calunnia ed inculcassero pubblicamente il rispetto e l’obbedienza alle autorità civili in tutto ciò che era lecito. Allorché S. Pietro scriveva la sua lettera ai fedeli era già scoppiata o stava per scoppiare quella tremenda rivolta dei Giudei contro i Romani, che finì con lo sterminio e con la dispersione di quelli. Presso i pagani troppo spesso Cristiano e Giudeo si confondevano, come apparisce da molti luoghi degli Atti Apostolici. Il fondatore del Cristianesimo era sorto in mezzo ai Giudei ed era Giudeo: i suoi Apostoli erano Giudei, Giudei i primi Cristiani, e tutta la parte dogmatica e morale del giudaismo era passata nella Chiesa cristiana. Qual cosa più facile per i pagani quanto il confondere i Cristiani coi Giudei? Quindi è che lo spirito di rivolta dei Giudei si riputava comune ai Cristiani e perciò era doppiamente necessario che gli Apostoli separassero la causa dei Cristiani da quella dei Giudei in cosa sì grave. Ecco una delle ragioni, per la quale S. Pietro e S Paolo insistono con tanta forza sul dovere che hanno i Cristiani di rispettare ed ubbidire lo Autorità politiche e civili ancorché pagane. Si trattava di liberare i Cristiani da una accusa e da un pericolo gravissimo in quei momenti supremi. – Egli è per questo che S. Paolo nella lettera ai Romani e in questa S. Pietro nei termini più espliciti e quasi identici ricordano ai Cristiani questo dovere: “Siate dunque sottommessi, scrive S. Pietro, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrani, sia a governatori, come mandati da Lui, a punizione dei malfattori ed a lode dei buoni. „ Il tempo che mi è concesso, non mi permette di sviluppare largamente la dottrina del Vangelo o della Chiesa intorno ai doveri che abbiamo verso i poteri della terra, ma ve ne dirò quel tanto che basti all’uopo. Iddio ha creato l’uomo in modo che non può nascere, conservarsi, svilupparsi e perfezionarsi né quanto al corpo, né quanto all’anima se non nella società: prima nella società domestica, la famiglia, poi nella società civile e politica: esso è figlio, è fratello, è cittadino, e come il pesce non può vivere fuori dell’acqua, così l’uomo non può vivere fuori della società. È una necessità imposta dalla natura e perciò da Dio stesso, che ha creata la natura. Ora, o cari, perché gli uomini vivano insieme e i forti non opprimano i deboli e si mantenga l’ordine e la giustizia e si renda a ciascuno ciò che gli si deve, è necessario che vi sia una autorità, un potere, che mantenga quest’ordine e questa giustizia, e che impedisca che gli uni soverchino gli altri e procuri il bene privato e pubblico, ed eccovi l’autorità del padre in famiglia, l’autorità suprema nei tribunali, negli eserciti, nei regni, negli imperi, nelle repubbliche. Ora quel Dio che ha voluto che gli uomini vivano in società e regni la giustizia, ha voluto e deve volere, che vi siano le autorità od i poteri pubblici, che sono il mezzo necessario per conservare la società e far regnare la giustizia. Se voi, o cari, volete che i vostri figli imparino questa o quella scienza, facciano questo o quel viaggio, dovete anche volere, che abbiano i maestri, i libri e il tempo necessario per apprendere quelle scienze, e il danaro indispensabile per fare quei viaggi: è cosa manifesta, perché chi vuole il fine deve volere i mezzi. Se Dio vuole la società, vuole anche l’autorità che la governi: se vuole l’autorità che la governi, vuole anche l’obbedienza di quelli che devono essere governati, e perciò l’obbedienza alle autorità è voluta da Dio ed è un dovere di coscienza, e chi la rifiuta, offende Dio stesso. Ora comprenderete, o dilettissimi, come S. Pietro aveva ragione di dire ai primi fedeli : “Figliuoli, siate soggetti ad ogni umana istituzione, o legge, per amore di Dio, cioè perché lo vuole Iddio! S. Paolo (Rom. XIII, 1 seq.) dice: ” Ogni persona sia sottoposta ai poteri superiori, perché non v’è potere se non da Dio, e quelli che sono esistenti, sono ordinati da Dio, a talché chi resiste al potere resiste all’ordine di Dio … È necessario essere soggetto al potere, non solo per timore, ma ancora per la coscienza. „ Vedete perfetto accordo di S. Pietro e di S. Paolo! Quasi le stesse frasi! S. Pietro dice che bisogna ubbidire ai poteri per amore di Dio, propter Deum; S. Paolo “per la coscienza” propter conscientiam. „ Siate soggetti al re, come al sovrano, cioè a colui, che vi sovrasta pel potere stesso. Veramente allora il potere supremo risiedeva nelle mani dell’imperatore, ma san Pietro colla parola “re” volle indicare l’imperatore, e forse lo chiamò re anziché imperatore, perché la parola “re” a lui ed agli Ebrei era famigliare, e nuova quella di imperatore, ma la sostanza è sempre la stessa. Ma ubbidiremo noi soltanto al re, od all’imperatore, od al potere supremo, quando immediatamente ci intima di ubbidire? No: noi ubbidiremo ad esso ed ai governatori, come a delegati da lui a punire i malvagi ed a lode dei buoni. Il potere supremo è come la vita: questa risiede nel capo, come nel suo centro, e di là si spande per tutto il corpo: il potere risiede nel capo o nei capi supremi dello Stato, e di là si dirama in tutti quelli, che variamente ne partecipano: e come il ferire o percuotere una mano od un dito è ferire e percuotere il capo, da cui deriva la vita ed il senso, così rivoltarci contro i poteri inferiori è rivoltarci contro il potere, del quale sono emanazione. Che fare pertanto? Ubbidire a tutti i poteri, per dovere di coscienza, per amore di Dio. Ai sommi, come agli inferiori, perché così vuole Iddio: “Quia sic est voluntas Dei”: lo vuole la necessità delle cose, lo vuole il nostro interesse, lo vuole il timore della pena, lo vuole sopra tutto Iddio! – E qui non vi sfugga, o cari, una osservazione di grande importanza, ed è questa: la fede nostra eleva, nobilita, divinizza il potere, e così eleva, nobilita e divinizza anche la nostra sottommissione e la nostra ubbidienza. Ubbidire ad un uomo come noi, forse per ingegno, dottrina, ricchezza e virtù inferiore a noi, è cosa che offende l’amor proprio, che ci umilia, e tale può essere ed è assai volte chi comanda: ma allorché al di sopra di lui io veggo Dio, che così vuole, e mi dice: Ubbidendo a quest’uomo, tu ubbidisci a Me, Re dei re —, sento tutta la mia dignità, e lungi dall’abbassarmi, ubbidendo, mi innalzo: l’uomo del potere è un valletto, che mi porta i comandi di Dio; quello sparisce ai miei occhi e questo solo mi sta dinanzi: come non mi terrei onorato di ubbidire? S. Pietro voleva che i cristiani ubbidissero per coscienza al re, cioè all’imperatore; e chi era quell’imperatore? Sappiatelo bene: era il più scellerato degli imperatori, un vero mostro di crudeltà, uccisore del maestro e della madre sua; che due o tre anni appresso avrebbe fatto mettere in croce lui stesso, Pietro, e decollare il fratel suo nell’apostolato, Paolo: era Nerone. Ma Nerone era pagano! Non importa; Pietro a nome di Dio comanda di ubbidire anche al pagano: il potere sovrano è come un raggio di luce: esso può cadere sopra un diamante come sopra il fango: la luce è sempre luce e non si contamina illuminando le sozzure. Il padre pagano cessa di essere padre perché è pagano, e cessa forse nei suoi figli il dovere di rispettarlo ed ubbidirlo? Un ministro dell’altare potrebb’essere malvagio, empio, miscredente : ma il fulgore del carattere che suggella in lui il potere divino non si eclissa, non si spegne mai; così è il potere sovrano: esso può essere nel pagano, nell’eretico, nell’empio, e noi gli dobbiamo rispetto ed ubbidienza: non è l’uomo, ma Dio che in lui rispettiamo ed ubbidiamo. Ma l’imperatore era legittimo? Legittimo Nerone! Quale domanda! Allora non si facevano siffatte questioni, sempre difficilissime a sciogliersi anche dai dotti. Si diceva soltanto: Questi è l’imperatore; il potere supremo è nelle sue mani; il mio dovere è di ubbidire; il bene pubblico lo esige; non cerco altro, ubbidisco. E in che cosa dovevano ubbidire i cristiani? S. Pietro non determina nulla: vuole dunque che si ubbidisca in ogni cosa fin là dove un’altra autorità superiore dice: Qui comincia il mio regno e qui finisce quello dell’imperatore. — In altre parole: si deve ubbidire all’autorità terrena in tutto ciò che non si oppone alla legge di Dio; a lui è soggetto ogni potere terreno, e allorché questo vuole ch’io mi ribelli a Dio ed alla sua Chiesa, io gli rispondo: Non ubbidisco a te, ma a Dio, che è mio e tuo Re. — Così fece Pietro con Nerone! E questa la gran regola tracciata dal Principe degli Apostoli e costantemente osservata nella Chiesa e che noi custodiremo fedelmente. Con questa sottommissione a tutti i poteri della terra voi non solo adempirete la volontà di Dio e farete il bene, scriveva S. Pietro, ma imporrete silenzio alla ignoranza di uomini insipienti. „ Con queste parole S. Pietro chiaramente ci fa conoscere le condizioni difficili e dolorose, nelle quali si trovavano i Cristiani, sospettati non solo, ma denunciati pubblicamente come nemici dell’imperatore, sprezzatori delle leggi, pronti alla rivolta. Col vostro rispetto all’imperatore e a tutte le autorità, con la obbedienza alle leggi, voi, diceva S. Pietro, chiuderete la bocca a questi calunniatori che, non conoscendovi, vi rappresentano come ribelli. – Miei cari! Alcun che di simile avviene anche al giorno d’oggi, nella nostra Italia. Certi giornali, certi scrittori, certi uomini ci designano pubblicamente come nemici della patria, come avversi alle sue istituzioni, alla sua libertà, alla sua grandezza, alla sua indipendenza: questa sì atroce accusa cade particolarmente sopra di noi, uomini di Chiesa. Ma seguendo l’esempio dei primi Cristiani e il precetto di S. Pietro, con le opere, col nostro rispetto, colla nostra ubbidienza sincera e costante alle leggi ed alle autorità tutte ci studieremo di mostrare il nostro amore alla patria, e secondo le nostre forze ne procureremo la prosperità e la gloria, perché questo è pure un dovere impostoci da Dio. S. Pietro passa oltre e tocca una verità utile allora, oggi per noi necessaria, e che vorrei fosse da voi tutti debitamente ponderata. Udite: “Diportatevi come liberi, e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. „ Voi siete stati redenti da Gesù Cristo, e per Lui avete acquistata la libertà di figli di Dio. Ma che libertà è questa, che Gesù Cristo vi ha data? E la forza di vincere le vostre passioni, di conoscere la verità e rigettare l’errore, di praticare la virtù: Gesù Cristo vi ha chiamati alla libertà del bene, ma non vi ha sottratto ai vostri doveri, non vi ha sciolto dall’obbedienza, che dovete ai principi. Voi a ragione dite: Noi siamo liberi; ma badate bene di non usare della libertà per servire la iniquità, per gettarvi in braccio alle passioni, per coprire la licenza. Oggi la bella e santa parola di libertà per molti vuol dire “mantello di malizia” — “Velamen habentes malitiæ libertatem”.— Vogliono la libertà, ma quale libertà? La libertà di ingiuriare, di calunniare, di opprimere il fratello: la libertà di spargere la discordia: la libertà di scuotere il giogo della autorità paterna e sovrana: la libertà di farsi schiavi della superbia, della gola, dell’avarizia, della lussuria, del peccato. È questa libertà vera, o fratelli? Chiamereste voi libertà quella di potervi strappare gli occhi, di potervi tagliare, le braccia, di potervi togliere la ragione, di potervi gettare in un precipizio? Questo è abuso di libertà, non mai libertà. – Quella è vera libertà, che ci rende padroni di noi stessi, signori delle nostre passioni, che ci affranca dal vizio e dal peccato, che ci fa maggiormente simili a Dio, il quale non può far il male. Allora la nostra libertà è perfetta quando non offendiamo l’altrui, quando adempiamo tutti i nostri doveri, primo dei quali è ubbidire a Dio: Sicut servi Dei. Seguono quattro bellissime esortazioni di Pietro. “Onorate tutti, amate i fratelli, tetemete Dio, riverite il re. „ Il Vangelo fu e sarà sempre il più perfetto codice non solo di morale, ma eziandio di quella che dicesi civiltà ed educazione. Esso vuole che colle parole e colle opere sempre ed in ogni luogo onoriamo sinceramente non pure quelli che per dignità, scienza o per qualsiasi altro titolo ci sono superiori, ma gli eguali ed anche gli inferiori: “Omnes honorate”, prevenendovi gli uni gli altri con quegli atti, che sono segni di stima e di onore, come altrove insegna san Paolo. E onoreremo tutti, se tutti ameremo come fratelli: “Fraternitatem diligite”. Chi ama una persona la onora e vuole che da tutti sia onorata, e l’onore che le rende è sempre in ragione dell’amore. Quei superbissimi e terribili uomini della rivoluzione francese, che scossero tutta Europa e rovesciarono l’ordine antico di cose, scrissero sulla loro bandiera queste tre parole famose: Libertà, eguaglianza, fratellanza. Parole sante bene intese e bene applicate! Quei Titani della rivoluzione avevano l’orgoglio di credere d’aver essi pei primi proclamata la fratellanza universale, ignoravano che diciotto secoli prima S. Pietro aveva scritto: Fraternitatem diligite. — Amate la fratellanza. ” Temete Iddio — Deum timete. „ Temiamo Iddio, perché è infinita maestà e giustizia e non lascia impunita colpa alcuna; temiamo Iddio, non come lo schiavo teme il padrone, ma come il figlio teme il padre suo; il nostro sia timore di offenderlo, un timore misto ad amore. “Riverite il re — Regem honorificate. „ Ripete ciò che disse sopra per mostrare come la cosa gli stia a cuore, e non fa bisogno il dire, che questa riverenza dovuta al capo dello Stato deve manifestarsi nella obbedienza e nella preghiera, che per lui si deve fare, secondo ché S. Paolo comanda nella sua lettera a Timoteo (I. II, 1). – S. Pietro da Dio discende al re e dal re discende ai padroni ed ai servi e, rivolto a questi, dice: “Voi, servi, siate sottomessi, con ogni riverenza, ai padroni, non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. „ Quale insegnamento, o dilettissimi! La condizione dei servi, dirò meglio, degli schiavi, era orribile: potevano essere venduti e barattati come merce; potevano essere maltrattati, percossi ed anche uccisi: la legge non si curava di loro, perché li teneva in conto di proprietà del padrone, che poteva farne quell’uso, che voleva. Voi potete comprendere qual fosse la condizione di questi sventurati, venuti a mano dei padroni pagani, spesso senza cuore. L’apostolo non dice loro: Rivendicatevi a libertà, fate valere la vostra ragione: non avrebbe fatto che rendere più dolorosa la loro sì misera condizione: il Vangelo di Gesù Cristo ha collocato il rimedio dei maggiori mali nel grande segreto della pazienza e della rassegnazione che finisce col vincere e guadagnare gli stessi oppressori. S. Pietro vuole che questi infelici ubbidiscano ai loro padroni, ed ubbidiscano con ogni riverenza, e ubbidiscano ad essi non solo quando sono buoni, discreti, ma anche quando sono puntigliosi, capricciosi, cattivi, perché è questo il miglior modo di scemare i proprii mali e di rendere mansueti e trattabili i padroni. — Servi, dipendenti, che mi ascoltate e che forse talvolta trovate i vostri padroni difficili, duri, indiscreti, esigenti, capricciosi, ingiusti, ricordate le parole di san Pietro e fatene regola della vostra condotta. Il più terribile problema che si affacci alla mente dell’uomo, è questo: vedere la virtù avvilita, tribolata, oppressa, e la malvagità onorata, felice, trionfante. Se non ci fosse la fede, che ci mostra al di là della tomba la giustizia, che infallibilmente sarà fatta, sarebbe da disperare, da maledire la virtù, e ripetere col fiero Romano : “O virtù, tu non sei che un sogno. „ Ma la fede fa scendere dall’alto un raggio della sua luce e ci assicura che Dio un giorno renderà a ciascuno secondo le opere sue, e la ragione si calma, il cuore respira ed il problema è sciolto. Ecco ciò che insegna S. Pietro in quest’ultimo versetto: “Questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente. „ – Sì, o cari, è un favore del cielo, è una gloria per noi soffrire molestie, dolori e persecuzioni ingiuste per amore di Dio, perché queste saranno il seme che ci frutterà la gioia eterna del cielo!
Alleluja
Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]
Luc XXIV:46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]
Evangelium
Joannes XVI:16: 22
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]
Omelia
[Idem ut supra, Omel. XX]
Gesù disse queste parole in un momento solenne, poche ore prima di cominciare la sua passione, e fanno parte di quel sublime discorso che tenne ai suoi cari dopo la Cena. Allorché si pensa che Gesù vedeva con tutta chiarezza e sicurezza gli inenarrabili dolori e la morte crudelissima e vituperosa che doveva soffrire il giorno appresso: allorché si pensa alle trepidazioni, alle angosce del suo cuore in quella sera fatale, e si legge quel discorso ammirabile, in cui apre l’animo suo ai suoi cari discepoli, li conforta, li consola, li ammaestra, dimenticando se stesso: allorché si considera la calma, la pace, la serenità, la tenerezza del suo linguaggio, la sublimità e la semplicità delle cose che dice, è forza esclamare: Gesù non è un uomo, perché un uomo in quelle terribili distrette non poteva parlare a quel modo: Gesù è Dio! Con profonda venerazione e viva fede raccogliamo le sue parole e meditiamole con amore. Il discorso di Gesù, che dicesi dell’ultima Cena, è riferito dal solo S. Giovanni, e comincia subito dopo la partenza di Giuda, dal capo XIII, vers. 31, e continua tutto il capo X. Alla fine del capo XIV Gesù dice: “Levatevi, andiamocene di qui. „ Allora egli con gli Apostoli uscì dal cenacolo e mosse verso il Getsemani, continuando il discorso che si legge nei capi XV, XVI e XVII, che fu certamente tenuto per via. Il perché anche le parole che ora siamo per ispiegare, da Gesù furono dette nel tratto di via che fece dal cenacolo all’orto del Getsemani. “Ancora un poco, diceva Gesù ai discepoli, con voce piena d’affetto, ancora un poco, e più non mi vedrete, e di nuovo, ancora un poco, e mi vedrete, perché me ne vo al Padre.„ – Non mi fermo a spiegare queste parole, perché tosto le udremo spiegate da Gesù Cristo stesso. Il pensiero di Gesù era fisso naturalmente su due punti capitali, l’imminente sua dipartita e la prova terribile a cui andavano incontro i suoi cari Apostoli, e non poteva essere altrimenti. Della sua imminente dipartita più volte fa cenno nel discorso, ma si direbbe che si studia di temperarne l’orrore per non sgomentare soverchiamente i timidi discepoli: ne parla, ma quasi velatamente e certo in modo meno particolareggiato, che non avesse fatto alcuni mesi prima, come in questo luogo: “Ancora un poco, e non mi vedrete più, ed ancora un poco, e mi vedrete. „ Udendo queste parole, che indicavano la prossima sua morte e risurrezione, come già tante volte, gli Apostoli non ne potevano afferrare il senso, che pure era abbastanza manifesto, massime se le avessero raffrontate alle altre ripetutamente da Lui udite. Che fecero, che dissero alcuni tra di loro? Quello che sogliono fare gli scolari d’un buon maestro, che sia altamente rispettato, allorché insegna cose ch’essi non capiscono. Si guardano gli uni gli altri e a bassa voce si domandano a vicenda: “Che vuol dire questo? Come si intende ciò che il maestro insegna?” – Essi non osano per riverenza interrogarlo direttamente, ma non possono dissimulare il desiderio di udire una spiegazione più chiara, che li appaghi, e la sperano dal buon maestro. Il somigliante avveniva intorno al divino Maestro. Alcuni de’ suoi discepoli (il Vangelo ne tacque il nome), camminando a fianco o dietro a Lui, bisbigliavano rispettosamente tra loro, e dicevano: “Che è mai questo che il Maestro dice: Anche un poco, e più non mi vedrete, ed anche un poco, e mi vedrete, perché me ne vado al Padre? Che è mai questo: Un poco? Non sappiamo che cosa egli voglia dire. „ Quanto candore in questa narrazione di S. Giovanni! Come apparisce la schiettezza degli Apostoli, il loro rispetto dinanzi al Maestro ed insieme la figliale confidenza che avevano in Lui, e la bontà e dignità tutta paterna ch’Egli aveva con loro! Figliuoli carissimi! allorché nella vostra mente spuntano dubbi angosciosi intorno alla fede e non sapete scioglierli, non potreste imitare gli Apostoli e chiedere a chi può dissiparli una parola di luce, un consiglio? È ciò che fanno i figli coi genitori, i discepoli col maestro. E ciò che timidamente fecero gli Apostoli con Gesù e Gesù spiegò loro la cosa. Gesù certo non aveva bisogno che le parole degli Apostoli giungessero a Lui per conoscere ciò che passava nell’animo loro, ma, come più e più volte vi dissi, Egli era uomo e in ogni cosa si acconciava a fare e parlare come uomo. E perciò, udite quelle parole degli Apostoli, come se da esse avesse appreso il bisogno che avevano d’uno schiarimento, senza una parola di meraviglia o di rimprovero, con tutta benignità ed amorevolezza, compatendo la loro ignoranza, si volse verso di essi e disse: “Voi state cercando tra di voi di ciò che ho detto: Ancora un poco, e non mi vedrete, e di nuovo un poco, e mi vedrete. „ – Eppure la cosa è facilissima ad intendersi, e l’amabile Maestro la spiega tosto, dicendo: “In verità, in verità vi dico: Voi gemerete e piangerete; il mondo godrà e voi vi rattristerete, ma la tristizia vostra si cangerà in gioia. „ Evidentemente in questi due periodi si dà la spiegazione dei due periodi della domanda fatta dagli Apostoli. “Ancora un poco, e non mi vedrete più, „ risponde alle parole: “Voi piangerete e gemerete. „ E perché? Ancora poche ore, ed Io dopo dolori senza nome morrò sulla croce e sarò calato nel sepolcro: Io sarò tolto di mezzo a voi e il vostro dolore avrà la misura nell’amore, che avete per me: voi piangerete, gemerete, sarete oppressi dalla desolazione più profonda, come figli amorosi, ai quali è rapito improvvisamente il padre. “Ma ancora un poco, e mi vedrete; „ queste altre parole trovano il loro riscontro nelle seguenti: “E la vostra tristezza si cangerà in gioia. „ Dopo poche ore Io risusciterò pieno di vita immortale, mi mostrerò a voi nella mia gloria, e il vostro dolore cesserà e si cangerà in gioia ineffabile. In altri termini Gesù volle dire: “Tra breve morrò, e voi sarete immersi nel più cocente dolore; ma poco dopo risorgerò, vi rivedrò, e grandissima sarà la vostra gioia”. In queste parole di Gesù Cristo due cose mi sembrano degne di osservazione. Primieramente Gesù Cristo non pronuncia mai la parola morte e l’altra relativa risurrezione, che senza dubbio erano più chiare. Per qual ragione? La parola morte, benché temperata dall’altra risurrezione, era troppo crudele ferita al cuore degli Apostoli, già ricolmi di tristezza, e perciò non la pronuncia ed usa una specie di circonlocuzione per raddolcire il dolore che doveva arrecare. Gesù fece con gli Apostoli come facciamo noi allorché dobbiamo annunziare a persone amate una grande sventura: non la diciamo di netto, apertamente: crederemmo, così facendo, d’essere indelicati e peggio, ma diciamo l’equivalente con un giro di parole che facciano sentire men viva la punta del dolore. Quanta delicatezza in questa condotta di Gesù coi suoi Apostoli! Quanta tenerezza! Che squisita bontà usa con loro! Imitiamolo nei nostri rapporti con tutti i fratelli nostri e più con i poveri, con gli ignoranti, perché più ne abbisognano. In secondo luogo Gesù Cristo, in queste parole e in tutto questo stupendo discorso dell’ultima Cena, non parla mai dei dolori che trafiggevano il suo cuore, delle agonie che gli sovrastavano, del calice amarissimo a cui era per accostare le labbra: Egli dissimula le sue ansie, i suoi affanni, che già dovevano premere sul suo cuore: non pensa a sé, non parla di sé, ma pensa ai suoi cari, ed ogni sua parola è volta a confortarli, a prepararli alla durissima ed imminente prova. Quale grandezza d’animo! Quale generosità di cuore! Quanta differenza tra noi e Lui! Noi, allorché siamo colti dal dolore, percossi da qualche sventura, non pensiamo che a noi stessi, non parliamo che dei nostri dolori, vogliamo che tutti se ne interessino e ci lagniamo se altri non se ne occupano e non ci compatiscono. Gesù non parla dei suoi dolori, dell’imminente sua passione e morte sì crudele e non si occupa che dei suoi cari e li conforta con una tenerezza veramente divina. Gesù Cristo rischiara il suo pensiero con una similitudine efficacissima: “Allorché la donna dà alla luce, soffre, perché è venuta l’ora sua: ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’ambascia, per la gioia che è nato un uomo al mondo. „ La similitudine non abbisogna di spiegazione: è facile immaginare come il dolore della madre si muti in vivissima gioia allorché vede, stringe tra le braccia e copre di baci il frutto del suo seno: essa più non ricorda i suoi dolori e le sue angosce e si bea e si allieta della vista del suo bambino. Similmente, dice Gesù Cristo agli Apostoli, avverrà a voi fra poco. Vedendo la mia morte, voi soffrirete dolore acerbissimo, ma sarà breve; come quello della madre che dà alla luce. Rivedendomi risorto, voi vi rallegrerete e gioirete, come si rallegra la madre, vagheggiando il suo nato. Allora la vostra gioia non vi potrà essere tolta da chicchessia. – Considerando queste parole, parrebbe quasi che nostro Signore non intenda significare la gioia degli Apostoli per la sua risurrezione e per le sue apparizioni, ma sì quella eterna del cielo, giacche dice: “Nessuno vi toglierà la vostra gioia. „ Ma la risposta è piana e chiarissima, quando si rifletta, che la prima gioia non si può separare dalla seconda, anzi è la radice della seconda. Allorché gli Apostoli videro risorto Gesù Cristo, conobbero ch’Egli era veramente il Figlio di Dio e l’aspettato Salvatore del mondo; essi da quel giorno credettero in Lui fermamente e lo amarono con tutto l’ardore dell’anima; essi poterono soffrire e soffrirono ogni maniera di dolori d’una morte crudele, ma in mezzo a quei dolori ed alle agonie più strazianti la certezza del premio li avvalorava, la speranza incrollabile di essere ricongiunti a Gesù che li aveva preceduti, li inebriava di gioia, tantoché S. Paolo diceva di sovrabbondare di consolazione in mezzo alle sue tribolazioni, e gli Apostoli si rallegravano d’essere fatti degni di patire per Cristo. Il giubilo pertanto degli Apostoli, che cominciò con la risurrezione di Cristo, dura in qualche senso tutta la loro vita e si compie in cielo, e d’esso Gesù Cristo poteva dire con tutta ragione: “Nessuno ve lo toglierà più mai. „ – Qui ancora, o dilettissimi, si ribadisce quella grande dottrina che troviamo ad ogni pagina dei Libri santi, che è il nostro sostegno e nostro conforto nelle prove della vita e che risponde a meraviglia ai bisogni del nostro cuore; la dottrina è questa, che al nostro patire quaggiù è riserbato un godere eterno, ed alla virtù tribolata sulla terra Iddio prepara la corona in cielo. – Vi furono e vi sono uomini e talora forniti d’ingegno e di dottrina non comune, i quali affermano essere dovere fuggire il vizio e praticare la virtù, e nello stesso tempo osano insegnare che tutto finisce con la presente vita, che il cimitero è l’ultimo nostro termine. Se a codesti uomini voi domandate: “Qual premio dunque darete voi alla virtù se, dopo questa sì misera, non v’è un’altra vita?” Essi rispondono: “La virtù è premio a se stessa: il dovere vuolsi adempire per se stesso senza por mente al premio: una virtù, che si esercita in vista d’una ricompensa, è una virtù interessata, perde ogni pregio e non merita il nome di virtù” [Era questa la dottrina degli Stoici, che dicevano doversi praticare la virtù perché è il nostro dovere e perché essa con le sue gioie interne è ricompensa più che sufficiente. Tutta la scuola di materialità, che vorrebbe salvare una larva di virtù, ripete la stessa cosa al giorno d’oggi. È gente che non conosce il cuore dell’uomo e vuole ingannare se stessa. Non nego che talvolta la virtù apporti gioie interne soavissime: ma sempre? No. Ma durano molto? Pochi istanti. Ma contrappesano i sacrifici? No. Ma tutti ne sono capaci? Pochissimi. Ci vuol altro per ottenere i sacrifici della virtù!]. Ma allora, o dilettissimi, bisogna pigliare tutti i nostri Libri santi e lacerarli pagina per pagina, perché costantemente promettono all’uomo virtuoso la mercede nell’altra vita; e non solo bisogna rigettare l’insegnamento del Vangelo, che dice: “Rallegratevi, che la vostra ricompensa è grande in cielo, e nessuno più mai toglierà a voi il vostro gaudio: „ ma è necessario rinnegare tutte le tradizioni dei popoli, anche fuori della nostra religione, perché anch’essi, tutti, senza eccezione, e in tutti i tempi ammisero e professarono l’esistenza d’un’altra vita, dove il delitto è punito e debitamente retribuita la virtù. E poi, possiamo noi andare a ritroso della natura e rigettare e calpestare i suoi dettami più evidenti? Dite al contadino: Ora semina il tuo campo, pota e coltiva la tua vigna, ma bada di non pensare nemmeno alla messe: alla vendemmia. Dite all’operaio: Lavora nella tua officina, ma senza curarti della mercede. Dite al negoziante: Viaggia attraverso ai mari, logora la tua salute, ma l’idea del guadagno non deve essere il tuo fine. E costoro vorrebbero, che noi giorno e notte lavorassimo il campo dell’anima nostra, ne estirpassimo le male erbe, vi gettassimo il seme delle virtù, combattessimo contro le nostre perverse passioni, crocifiggessimo la nostra carne, lottassimo senza posa contro i nostri nemici, battessimo la via della virtù, seminata di spine e di bronchi, senza la speranza della mercede? — La virtù deve essere disinteressata! Buon Dio! possiamo noi dimenticare noi stessi? Noi siamo fatti per essere felici: il desiderio, il bisogno irresistibile della felicità ci segue da per tutto, ci incalza, non ci dà tregua un solo istante, è posto qui, in fondo al mio cuore, è il peso dell’anima mia: questo desiderio deve essere appagato, questo bisogno deve essere soddisfatto, e se non lo è col premio della virtù, in qual altro modo lo potrebbe mai essere? Io devo amare i miei fratelli, e perché li amo devo procurare loro quel bene che per me è possibile. Se devo amare i miei fratelli e procurare loro il bene per me possibile, perché non amerò prima me stesso? Non sono io uomo? Non sono io a me stesso più che fratello? Perché dunque non procurerò a me stesso il bene che posso? Perché della virtù, che mi costa tanti e sì amari sacrifici, non dovrò attendere la ricompensa? Lavorare, sudare, soffrire: ecco la virtù: e la virtù dovrebbe essere premio a se stessa? Allora il dolore: bel premio per fermo, bella ricompensa sarebbe la sua! Ah! Dio conosce bene il cuore umano: sa che per fuggire il vizio e praticare la virtù, ha bisogno del freno del castigo e dell’incoraggiamento del premio: perciò gli mette innanzi la carcere eterna da una parte, il cielo dall’altra, il possesso di se medesimo, una felicità immortale. Senza il timore della pena e la speranza della gioia, entrambe eterne, chi mai fuggirebbe il peccato, e correrebbe il sentiero sì aspro della virtù? Nessuno, io credo, perché nessuno vorrebbe soffrire senza speranza della mercede, nessuno vorrebbe patire tutta la vita sulla terra per nulla. Figliuoli! fissiamo gli occhi in quel gaudio che nessuna forza ci potrà mai rapire, e portiamo la croce inseparabile dall’esercizio della virtù.
Credo…
Offertorium
Orémus
Ps CXLV:2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]
Secreta
His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]
Communio
Joannes XVI:16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]
Postcommunio
Orémus.
Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]