DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA

 DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII:5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre].

Omelia I

[Bonomelli, “Nuovo saggio di Omelie”; Vol II, Om. XVII]

Queste poche sentenze si leggono nella prima lettera di S. Pietro. Voi dovete sapere che del Principe degli Apostoli ci rimangono soltanto due lettere, la seconda brevissima, che sono, come potete bene immaginare, un vero tesoro di dottrina sacra. La prima lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, allorché si trovava colà con Marco, suo interprete e scrittore del Vangelo che porta il suo nome, dopo la fuga dal carcere di Gerusalemme, narrata nel capo XII degli Atti apostolici. La lettera fu scritta circa dodici anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, e indirizzata alle varie Chiese già stabilite nell’Asia Minore, nelle provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia e della Bitinia. – L’argomento di questa lettera, somigliantissima in ogni cosa a quella di S. Paolo ai Romani ed agli Efesini, è pratico e semplicissimo. Egli esorta i nuovi credenti, la maggior parte dei quali doveva essere di Ebrei convertiti poc’anzi, ad informare la loro vita secondo i principii del Vangelo, incoraggiandoli a tollerare l’odio, le vessazioni e le persecuzioni colla speranza del premio e a ricambiare i tristi, i nemici colla carità affine di guadagnarli. Premesse queste comuni, ma non inutili osservazioni, è da venire alla interpretazione dei cinque versetti, che sopra vi ho riportati; S. Pietro nei versetti, che precedono, con l’affetto d’un padre amorosissimo esorta quei novelli cristiani, usciti dal mosaismo e dal paganesimo, a nutrirsi, come bambini, del latte della divina parola, a star fermi sulla pietra fondamentale, che è Cristo, a raffrenare le cupidigie, e con una santa vita a guadagnare i pagani; poi ricorda loro il dovere di vivere sottomessi alle podestà della terra: eccita i servi ad ubbidire ai padroni anche cattivi e, se è necessario, a gloriarsi di soffrire ingiustamente. A questo punto pervenuto colle sue esortazioni, S. Pietro, come S. Paolo, mette innanzi ai suoi cari, il grande, l’eterno, l’incomparabile modello di tutte queste virtù, che è Gesù Cristo, e così continua: “Gesù Cristo ha patito per noi, lasciandovi esempio, affinché seguitiate le sue orme”. È egli possibile, o cari, vivere sulla terra ed esercitare la virtù senza patire nel corpo e nello spirito, dal mondo, dai nemici e da noi stessi? No: vivere ed esercitare la virtù vuol dire lottare, e per conseguenza soffrire: chi pensa altrimenti si inganna ad occhi aperti. Ora Iddio, per nostro conforto ed ammaestramento, volle che il Figliuol suo Gesù Cristo ci camminasse innanzi per l’aspra via; Egli ha patito, e più di tutti gli uomini, ed ha patito, non per sé, ma sì per noi, soddisfacendo per noi alla divina giustizia. È questo il primo scopo della Passione e morte di Gesù Cristo, pagare il prezzo dovuto pel nostro riscatto. Noi eravamo colpevoli: ai colpevoli è dovuta la pena, perché la giustizia lo vuole: al nostro luogo si mette l’amabile Gesù, e quella pena, che doveva cadere sopra di noi, cade sopra di Lui, come disse sì bene Isaia: “Disciplina pacis nostra, super eum,” onde il suo patire affranca noi. – Ma la Passione e la morte di Gesù Cristo ha un altro scopo strettamente congiunto al primo, ed è quello di darci esempio nel cammino della Croce. Esortare, incoraggiare altri colla parola a correre animosamente la gran via della croce, è bella e santa cosa, ma facile: mettersi per essa e percorrerla è opera assai più difficile, ma più efficace, e Gesù Cristo la volle compire. Vedetelo: Egli soffre nel corpo, cominciando dalla culla alla tomba: soffre il freddo, il caldo, la fame, la fatica nell’officina, nei viaggi della sua vita pubblica: soffre la povertà e tutto ciò che necessariamente va congiunto colla povertà: soffre le percosse, i flagelli, in una parola, la morte di croce. Ma i dolori del corpo sono ben poca cosa in confronto di quelli che soffre nello spirito. Egli è Dio e l’anima di Gesù, rischiarata perennemente dai fulgori della divinità, vede ogni cosa con perfetta certezza e chiarezza: occhio umano non vide, né vedrà mai più addentro le cose divine ed umane dell’occhio di Gesù. Egli vede l’ignoranza degli uomini, le loro colpe, la malignità dei suoi nemici, le iniquità tutte, che allagano la terra: vede il passato, il presente, il futuro: vede la rovina di tante anime, opera delle sue mani, e per le quali immola se stesso: vede la gloria del Padre suo conculcata: vede la propria dignità e maestà di Figlio di Dio disconosciuta, calpestata. Qual dolore! quale strazio pel suo cuore! Dolore e strazio tanto più crudele ed atroce in quanto che nessuno lo comprende e pochissimi lo raddolciscono, ed Egli è costretto a divorarlo in silenzio: Gesù è veramente l’uomo dei dolori! l’uomo dei dolori continui, intimi, ineffabili nel corpo e nello spirito, e come tale Egli raccoglie sopra di sé gli occhi di tutta questa immensa progenie di Adamo, che va incessantemente dolorando in questa via di esilio e, Lui rimirando, si conforta e apprende come ha da patire. Ah fratelli miei! Se allorché il dolore si aggrava sopra di noi e quasi ci schiaccia non avessimo dinanzi agli occhi questo Gesù l’uomo dei dolori, il re dei martiri, che sarebbe di noi? Rimirar Lui santo, innocentissimo, eppure saziato di obbrobri, agonizzante sulla croce, è sentirci confortati a correre la via dei patimenti, ch’Egli ha segnato col suo sangue! Sappiamo per fede che “Gesù non fece peccato alcuno, né sulle sue labbra fu mai trovata frode.” Con questa osservazione san Pietro rincalza la verità. Noi tutti soffriamo più o meno, ma nessuno di noi soffrirà mai come Gesù Cristo; è già un argomento efficacissimo ad imitarLo: ma vi è di più. Noi soffriamo e alcune volte soffriamo assai. Ma chi siamo noi? Povere creature, e Gesù è il Figlio di Dio! Quale confronto! Non basta: noi soffriamo e sia pure moltissimo. Chi siamo noi? Non solo povere creature, ma peccatori, e se poniamo sulla bilancia da una parte i nostri dolori, e dall’altra i nostri peccati, troviamo che questi di gran lunga superano quelli, e che se Iddio volesse proporzionare i dolori ai peccati nostri, noi ne saremmo certamente schiacciati. Eppure, Gesù che sofferse quel cumulo di dolori atrocissimi, che dicemmo, era santo, innocente, immacolato: ombra di colpa non fu mai, né poteva essere in Lui, perché l’Uomo-Dio non può peccare. Quale incoraggiamento per noi a patire, avendo innanzi agli occhi tanto modello, per noi rei di tante colpe e meritevoli d’ogni supplizio! – Né qui si ferma il Principe degli Apostoli. Dopo d’aver confortati noi peccatori a patire coll’esempio di Gesù innocentissimo, tocca del modo con cui Gesù patì, e in questo pure vuole che ci modelliamo sopra di Lui. “Gesù oltraggiato, non oltraggiava; soffrendo, non minacciava.” Con queste parole il sacro Scrittore credo abbia voluto abbracciare tutta la vita di Gesù, senza alludere a qualche fatto particolare: Gesù fu crudelmente oltraggiato allorché i Giudei più volte e pubblicamente lo dissero amico dei pubblicani e dei peccatori, bevitore, samaritano, posseduto dal demonio, eccitatore di tumulti, nemico di Cesare, malfattore, seduttore, bestemmiatore, peggiore d’un ladrone e d’un omicida; eppure Gesù a tanti insulti, a sì sanguinose ingiurie non oppose che il silenzio e risposte piene di dignità e di mansuetudine: a chi Lo straziava non fece minacce, ma come agnello si lasciò condurre alla morte. Ecco come pativa Gesù, l’innocentissimo Gesù, ed ecco come dobbiamo patire noi pure. Ma che avviene, o cari? che vediamo noi? che facciamo? Troppo spesso alla più lieve offesa, e forse non sempre immeritata, ci risentiamo, leviamo alti lamenti, mettiamo a rumore il vicinato, gridiamo, strepitiamo, vogliamo giustizia, sbuffiamo d’ira, rompiamo in insulti e, non piaccia a Dio, in bestemmie, in imprecazioni! Oh come abbiamo bisogno di meditare il divino modello, Gesù Cristo, che oltraggiato, non oltraggiava, soffrendo, non minacciava! Come è bella, nobile e degna di ammirazione la calma tranquilla e dignitosa del cristiano in faccia a chi lo offende ed insulta! La pazienza e la carità non vietano che domandiamo giustizia e riparazione delle offese ricevute, e in certi casi può essere un dovere l’esigerla, ma è sempre indegno del cristiano rispondere coll’ingiuria all’ingiuria, colle invettive alle invettive. S. Pietro, proseguendo a parlare del supremo nostro modello, Gesù Cristo, dice: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Ponete mente, o dilettissimi, a queste parole: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Esse vi dicono, che Gesù Cristo patì e morì, non forzatamente, ma liberamente: Egli stesso si diede in mano de’ suoi nemici, incatenò, se posso dirlo, la sua onnipotenza, e lasciò che facessero ogni lor volere della propria Persona. L’aveva detto in termini Gesù Cristo: “Io metto l’anima mia per ripigliarla: niuno me la toglie, ma la do da me stesso, ed ho potere di darla e di ripigliarla” (Giov. x, 15 seg.). Non poteva più chiaramente affermare la sua libertà di patire e non patire, di morire e non morire. E invero: se Gesù Cristo non fosse stato perfettamente libero e di patire e di morire, non sarebbe stato perfetto uomo, la sua Passione non avrebbe avuto merito alcuno e sarebbe stato ridicolo il proporlo a noi come esempio da seguire. Chi è colui, in balia del quale Gesù si diede e che Lo giudicò ingiustamente? Accennandosi qui un giudice ingiusto, in singolare, che pronunciò sentenza contro Gesù Cristo, sembra fuor di dubbio che questi sia Pilato. E’ vero, Lo giudicarono Anna, Caifa, i capi del popolo, Erode, e Lo giudicarono ingiustissimamente; ma di quelli, ancorché più colpevoli, S. Pietro non si cura, perché la loro sentenza non poteva essere eseguita, se quella di Pilato non si aggiungeva: onde fu la sua che trasse a morte Gesù Cristo, e perciò di lui particolarmente si parla. — Gesù si commise alla mercé di Pilato, giudice straniero e pagano: in lui riconobbe un potere, che veniva dall’alto (S. Giov. XIX, 11), ancorché ingiustamente ne usasse. – Apprendiamo, o cari, da queste parole di S. Pietro non solo a rispettare l’autorità, in chiunque essa risieda, ma eziandio a soffrire ingiustizie, se questa ce le fa soffrire. Chi mai sulla terra soffrì ingiustizia più scellerata di quella, che Gesù Cristo sofferse da Pilato? Riconosciuto innocente, flagellato, coronato di spine e condannato alla croce: eppure Egli si diede nelle sue mani, limitandosi a dirgli: “Chi mi ha dato nelle tue mani è reo di maggior peccato, perché lo faceva per odio. – Soffrire l’ingiustizia non è approvarla, e noi possiamo bene rispettare l’autorità e condannare i suoi abusi. Lo so, ciò è difficile, perché l’ingiustizia, che si soffre dalla autorità, è congiunta con essa per forma che ai nostri occhi sembra formare con essa una sola cosa: ma pure è necessario non confondere queste due cose se non vogliamo renderci colpevoli. Voi avete o aveste i vostri genitori: l’autorità paterna e materna, che dopo la divina è la prima, era ed è in essi e voi la rispettaste e la rispettate. Se, per sventura vi fosse stato o vi fosse abuso in loro, qual era e quale sarebbe il vostro dovere? Avreste voi il diritto di disconoscerla? Giammai. Voi potreste e dovreste riprovare in cuor vostro l’abuso della loro autorità, ma rispettarla sempre, perché essa è cosa divina. Ragguagliata ogni cosa, è ciò che dobbiamo fare con qualunque autorità, allorché vien meno a se stessa. Nell’antica legge il sommo sacerdote, una volta all’anno, compiva il rito solenne del capro emissario: egli poneva le mani sul suo capo, confessava i peccati suoi e del popolo, e li poneva sul capro, e questo era abbandonato nel deserto (Levit. XVI, 21). Qui S. Pietro accenna a quel rito misterioso, che adombrava Gesù Cristo, il quale tolse sopra di sé, volontariamente i peccati di tutti gli uomini, li portò sulla croce e nel suo corpo, ossia nei patimenti del suo corpo, e nel sangue che sparse li espiò e li cancellò. Egli è il vero Giacobbe, che si copre della pelle del capretto, anzi è il vero capro emissario, che carico dei delitti del mondo [Non è necessario avvertire che più volte nelle Scritture la parola peccato è presa non a significare il reato, il disordine morale, ma l ‘effetto del peccato, che è la pena. Qui si dice che Gesù Cristo portò i peccati nostri sulla croce, nel suo corpo, cioè portò sulla croce ed espiò la pena dovuta al peccato.], esce dal mondo, è sollevato sull’alto della croce, muore come reietto, anzi come maledetto, e in sé riconcilia il cielo e la terra, secondo la frase di san Paolo. Allorché Gesù morì per noi sull’albero della croce e nel suo sangue spense il peccato, noi fummo sciolti dal giogo del peccato stesso, fummo come morti ad esso, e cominciammo a vivere alla giustizia risanati dalle sue lividure. Spieghiamoci meglio. Un uomo è condannato alla morte: un altro uomo innocente, mosso a pietà di lui, si offre a morire in suo luogo: la morte dell’uno è la vita dell’altro: il colpevole, compiuta la giustizia, cessa d’essere colpevole, è riabilitato, è giusto: egli è come morto ai suoi delitti, rivive alla virtù, all’onestà, alla giustizia. Il colpevole è ciascuno di noi; Gesù Cristo si offre a pagare per noi, paga col suo sangue, ed eccoci riabilitati, giustificati, risanati colle sue lividure. – S. Pietro dopo aver messo innanzi agli occhi dei suoi figliuoli il sommo modello dell’amore e del perdono, Gesù Cristo, chiude la sua esortazione, rivolgendo loro queste bellissime parole: ” Voi eravate come pecorelle smarrite: ma ora vi siete rivolte al pastore e al vescovo delle anime vostre.” Voi, pochi anni or sono, eravate ancora Giudei e Gentili; correvate le vie dell’errore: eravate simili a quelle povere agnelle, che si allontanano dall’ovile, ai smarriscono nei fitto d’un bosco o nella immensità del deserto, e che ad ogni istante possono essere sbranate dalle belve feroci: Dio ebbe pietà di voi: vi chiamò, colla sua grazia vi trasse dolcemente a sé, e voi ubbidiste, vi rivolgeste a Lui, al pastore, al Vescovo delle anime vostre. — Gesù Cristo è il Pastore delle anime in quanto le guida ai pascoli della vita, le difende dai lupi che le insidiano: è vescovo [Vescovo “Episcopus”, significa propriamente chi sovraintende ad altri in qualunque ufficio: ora si usa esclusivamente per indicare il Vescovo, il maggiore dei gradi gerarchici], cioè veglia sopra di loro, le regge, le custodisce. Egli fu Pastore e Vescovo degli Apostoli e dei discepoli, dei credenti, finché visse mortale sulla terra, ed è Pastore e Vescovo sempre nella persona di quelli che continuano l’opera sua attraverso ai secoli. Queste parole di agnelle, di pastore e di vescovo richiamano alla nostra memoria i doveri che tutti abbiamo, io vostro pastore, voi agnelle dell’ovile di Cristo. A me i doveri di ammaestrarvi e di camminare innanzi a voi coll’esempio d’una vita irreprensibile: a voi di ascoltarmi e seguirmi: adempiamoli fedelmente e tutti dal Principe dei pastori, dal Vescovo dei vescovi, avremo la nostra mercede.

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV:35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X:14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X:11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XVIII]

“Io sono il buon Pastore: il buon pastore mette la sua vita per le sue pecorelle; ma il mercenario e chi non è pastore e al quale non appartengono le pecorelle, se vede venire il lupo, abbandonale pecorelle e fugge; e il lupo le rapisce e le disperde. Ora il mercenario fugge, perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Il Padre conosce me ed Io conosco il Padre, e pongo la mia vita per le mie pecorelle. Ed altre pecorelle Io ho, e quelle ancora mi conviene addurre, ed esse udranno la mia voce, e vi sarà un solo ovile e un solo Pastore „ (S. Giov. capo X, vers. 11-16).

Chiunque percorre le catacombe romane, qua e là su quelle pareti, all’incerto lume della sua lampana, vede molte figure rozzamente tracciate: qua è la colomba che esce dall’arca noetica, là Mosè che batte con la verga la pietra e ne fa scaturire l’acqua; altrove è una donna atteggiata di dolore, che prega: poi il mistico pesce posto sopra una mensa: ma fra quelle povere figure, eppure sì belle e sì espressive, delineate dai martiri e dai figli dei martiri, più frequente apparisce l’immagine d’un pastorello scalzo, che or porta sulle spalle una pecorella, ed ora appoggiato sul suo vincastro, circondato da parecchi uomini che lo mirano, contempla con occhio pieno d’amore le pecorelle che brucano l’erba. Quel pastorello raffigura Gesù Cristo e, non vi è dubbio, quelle mani inesperte, eppure sì pie, che scolpirono quelle care immagini, erano mosse e guidate dalla fede, seguivano fedelmente il sublime ideale che Gesù aveva lasciato di sé nella parabola dell’agnella smarrita (S. Luca, xv), e nel mirabile discorso del pastore, che sopra ho riportato e che è il soggetto della presente omelia. Gesù, il buon Pastore, dipinge se stesso con sì vivi ed amabili colori, ci fa sentire la sua bontà, la sua tenerezza con tali accenti, che nulla di più eloquente e di soave. — Ascoltiamolo. S. Giovanni, nei versetti che stanno innanzi a quelli per me riferiti, riporta il discorso di Cristo, nel quale Egli dice d’essere la porta dell’ovile, e che il ladro e il mercenario non entrano per essa. Poi Gesù rappresenta se stesso come pastore, e dice: “Io sono il buon Pastore.” Avvertite, che secondo il testo originale greco dovremmo leggere: “Io sono quel buon pastore. „ Quale? Non dubito che alluda al luogo del profeta Ezechiele, che sette secoli innanzi l’aveva annunziato, dicendo: “Io susciterò un pastore che pasca le mie agnelle „ (C. XXXIV, 23). Io sono quel pastore, che fu predetto, quel Pastore buono! Ma perché disse buono? Perché non disse: Io sono quel Pastore sapiente, potente, coraggioso, giusto? Certo tutto questo Gesù Cristo avrebbe potuto dire; ma a tutte queste qualità volle preferire quella di “buono”, perché è quella che più d’ogni altra si addice al pastore e dalla quale derivano tutte le altre. La bontà è la suprema bellezza morale, e la corona di tutte le più preziose qualità. Dio creò il cuore dell’uomo, dice Bossuet, e vi pose là bontà come quella dote che meglio d’ogni altra rappresenta Lui stesso. Noi stimiamo la scienza, la forza, la prudenza, la giustizia, tutte le virtù; ma è la sola bontà che noi amiamo. Non è egli così? Vi sia un uomo colmo di ricchezze, tenga lo scettro di re, sia un prodigio di sapienza; tutto quello che volete di grande, di ammirabile, ma sia senza cuore, cioè privo di bontà: lo stimeremo, lo ammireremo, ci chineremo dinanzi a lui, ma non ci sentiremo mossi ad amarlo. Sia privo di quelle doti, ma tutto cuore, tutta bontà, noi lo ameremo: è sempre la bontà che si ama. – Gesù è il Pastore buono! Quali sono i doveri del buon pastore? Molti; eccovi i principali, toccati in questo tratto evangelico; il pastore deve conoscere le sue pecorelle: deve guidarle al pascolo; camminare loro innanzi, se occorre, difenderle dai lupi e dai ladri, nutrirle, se inferme, curarle: così il parroco, più ancora il Vescovo e sopra tutto il Pontefice, Pastore dei pastori, devono conoscere come meglio possono le anime loro commesse; devono guidarle ai pascoli della vita, nutrendole con la parola e con i sacramenti; devono camminare loro innanzi coll’esempio, difenderle contro i seminatori di errori e di scandali, curarle, guarirle dalle infermità del peccato, salvarle. – Ecco, o cari, ciò che dobbiamo fare noi, pastori di anime, ciascuno nel suo ufficio. Noi dovremmo sempre tenere fissi gli occhi in quelle sapientissime parole del Principe dei pastori, S. Pietro. Uditele: “Pascete il gregge di Dio, che vi è dato, avendone cura, non sforzatamente, ma volontariamente: non per brutta cupidigia del guadagno, ma con animo franco: e non a guisa di chi signoreggia nella eredità del Signore, ma facendoci modelli del gregge. „ O benedette e sante parole! Oh felici quei pastori, che le mettono in pratica! – Felici quelle parrocchie, che hanno tali pastori! E come ottenere che i pastori abbiano in sé tutte queste qualità? Con la carità. S’essi ameranno Iddio e per Iddio le anime, saranno veri pastori, modellati su Lui, che è il Pastor buono [“Amor in eo qui pascit oves in terra magnum debet spiritualem crescere ardorem, ut vincat etiam mortis naturalem timorem” -S. August., Tract. 123]. Ma se i pastori debbono adempire i loro uffici (e li avete uditi), voi pure avete i vostri da osservare. Se il pastore deve conoscere le agnelle, guidarle al pascolo, andare loro innanzi coll’esempio, difenderle, curarle e inferme guarirle, voi pure dovete, come docili agnelle, conoscere il vostro pastore, lasciarvi guidare, seguirne gli esempi, stringervi a lui, mostrargli le vostre infermità e ricevere ed usare i rimedi che vi suggerisce. Se i genitori devono nutrire i figli, istruirli o farli istruire, difenderli, guidarli, anche i figli hanno il dovere imposto da Dio stesso di rispettarli, ubbidirli, amarli e fare con essi tutto ciò che l’amore figliale comanda: è cosa più che manifesta. Quel Gesù che impone a noi pastori di istruirvi, guidarvi e curarvi, impone anche a voi di lasciarvi istruire, guidare e curare. E mentre domando alla mia coscienza, dinanzi a Dio, se ho adempiuto i miei sì grandi e sì terribili doveri, ancor voi domandate alla vostra se avete osservati sempre e fedelmente i vostri. – Se il pastore è buono, che farà? Qual sarà il segno infallibile dal quale noi lo riconosceremo? Gesù Cristo ce lo insegna con la parola e con l’esempio: “Il buon pastore mette la sua vita per le sue pecorelle. “Gesù Cristo per salvare le anime non esitò di correre alla obbrobriosa morte della croce, Egli, Dio! Che non dobbiamo fare noi per salvare le anime alle nostre cure affidate? Non dobbiamo risparmiare fatiche, patimenti, umiliazioni, sacrifici e, se fosse necessario, dobbiamo sfidare la stessa morte, come in ogni tempo fecero i pastori, che si formavano sull’esempio di Gesù Cristo, da S. Pietro e S. Paolo a S. Carlo Borromeo, a S. Francesco di Sales. – Era l’anno 1849, e il cannone tuonava spaventosamente per le vie di Parigi: di qui l’esercito, difensore dell’ordine; di là gli uomini della rivolta, col grido di libertà sulle labbra: il sangue scorreva a rivi da una parte e dall’altra, il sangue dei fratelli, e la vista di quel sangue infiammava le ire, raddoppiava il furore. Un uomo, venerando all’aspetto, curvo sotto il peso degli anni, atteggiato ad ineffabile dolore, con gli occhi gonfi di lacrime, comparisce nella via, dove più feroce ferveva la mischia: a stento monta sopra una barricata, in mezzo ai feriti ed ai cadaveri, e stendendo le mani ai combattenti, con accento di inesprimibile carità, esclama: “Figli miei, cessate, pace, pace!” — A quelle parole, a quella vista, cessa il fuoco, cessano le grida di rabbia e di vendetta, gli occhi di quei furibondi sono fìssi su quella figura, che sembra una apparizione eterea; con le mani annerite dalla polvere asciugano i sudori della fronte e stupefatti si domandano: “Chi è quell’uomo?” In quell’istante si ode una fucilata: la palla colpisce quell’uomo in mezzo al petto: esso cade, dicendo: “Che il mio sangue sia l’ultimo che si versi, „ e fu veramente l’ultimo: la lotta fratricida cessava. Quell’uomo era l’arcivescovo di Parigi, Mons. Affre; era il pastore che dava eroicamente la sua vita per le sue pecorelle. Ecco un pastore formato alla scuola del sommo Pastore, Gesù Cristo. Vedete il pastore che passa i mesi d’estate nelle gole delle nostre alpi, presso alle nevi eterne, vegliando sulle sue pecorelle. Allorché la notte copre col suo bruno velo ogni cosa e le stelle scintillano nel firmamento e tutto tace intorno, più volte accade che il lupo chetamente s’avvicini all’ovile: il fido cane, odorando la belva, si leva, arruffa il pelo e latra fieramente: il pastore si sveglia, si alza e tosto dà di piglio al robusto vincastro, chiama i compagni, con la voce incoraggia il cane, che animoso muove contro il lupo e raddoppia i suoi latrati, mentre le agnelle, avvertite del pericolo, tremanti si stringono, addossandosi le une alle altre. Il pastore non teme il pericolo, si lancia fuori del chiuso, affronta il lupo, e con la voce e col vincastro lo mette in fuga e salva le sue agnelle. Ecco ciò che deve fare il buon pastore, il parroco, il vescovo, allorché il lupo, l’uomo dello scandalo, il corruttore della fede, insidia le anime. Egli non deve temere le ingiurie, gli insulti, le calunnie, le minacce, i pericoli; deve levare la voce, mettere in guardia i fedeli e sventare le arti e le insidie dei nemici della fede e dei costumi. Così fa il buon pastore! – Gesù-Cristo, dopo avere descritto sì bene il buon pastore descrive il mercenario. Chi è il mercenario? E colui che non è padrone delle pecore, che aiuta il padrone per la mercede che ne riceve, che non ha alcun amore per le pecore. Che fa egli all’avvicinarsi del lupo? Teme, non vuol mettere a pericolo la sua vita, si chiude in luogo sicuro, o fugge e abbandona le pecorelle, delle quali il lupo fa scempio: il mercenario fugge, dice Cristo, perché è mercenario, perché non ha amore per le agnelle, non pensa che alla sua mercede. In questo mercenario Gesù Cristo ci rappresenta al vivo quei pastori di anime che per interesse, per timore, per prudenza mondana tradiscono il loro dovere. S. Gregorio M., quel modello di pastore supremo, nei suoi scritti ce ne lasciò una pittura vivissima. Il mercenario, grida il santo Pontefice, è colui che non pasce le anime per amore, ma tiene l’occhio ai vantaggi materiali, che è ghiotto degli agi e delle ricchezze, che ambisce onori, che esige omaggi, che pensa ad accumulare per sé o per i parenti, che opprime i deboli, che adula i ricchi, che vive oziando, che tace quando deve parlare, che non ha scintilla di zelo, che lascia correre gli scandali che potrebbe impedire, che non resiste all’ingiustizia, che non istruisce i pargoli, che non si adopera a guadagnare i peccatori, in una parola, che cerca le cose sue, non quelle di Gesù Cristo (Homil. 14, e in molti altri luoghi presso A Lapide). O grande e misericordioso Iddio! non permettete mai, ch’io, chiamato ad essere pastore di questo popolo, possa diventare un mercenario, e lasciar perire queste pecorelle, che mi avete affidate. Guai a me! Voi mi riprovereste e mi chiedereste conto delle agnelle per colpa mia perdute! – Seguitiamo il Vangelo. “Io sono il buon Pastore. „ Si direbbe che questa espressione esercita sul cuore di Gesù un tale fascino, ond’Egli ama ripeterla: essa rivela il suo cuore, mostra l’amor suo per le anime e il carattere della sua missione, del suo potere. Non dice mai: Io sono il padrone, il signore, il re, il dominatore delle anime, e lo poteva dire, perché veramente Egli lo è: ama invece ripetere questa parola sì dolce, sì amabile: Io sono il Pastore; non basta: Io sono il buon Pastore. Eppure, duole il dirlo, assai volte certi pastori sogliono ripetere queste parole sì aliene dallo spirito di Gesù Cristo: Io sono padrone! In chiesa comando io! Voglio così e non permetto che altri mi consigli! — Buon Dio! Quanta differenza tra il linguaggio di Gesù Cristo e il linguaggio di costoro! Egli Dio ed essi poveri peccatori! — Questa immagine del buon Pastore sì soave ci dice che Gesù ha potere sopra di noi, ma potere ch’Egli esercita con l’amore, con la tenerezza: essa allontana ogni idea di durezza, di pompa, di fasto, di violenza e insinua l’idea di semplicità, di vita comune, di confidenza, di mansuetudine, di scambievole affetto. Questa espressione sì bella “Io sono il buon Pastore”, uscita ripetutamente dalla bocca di Gesù scolpisce a meraviglia l’indole e il carattere del ministero sacerdotale, che è vero potere, ma paterno, temperato dalla carità. Quale esempio per noi Pastori! – “Io conosco le mie (pecorelle) e le mie (pecorelle) conoscono me, „ soggiunge Cristo. Voleva dire: Io conosco ed amo le anime che mi ascoltano, Io le seguo dovunque colla mia provvidenza, le accompagno con la mia grazia, “come un pastore non perde mai di vista le sue agnelle, ed esse con la fede, con la speranza, con la carità stanno unite a me: tra me e loro esiste una corrente misteriosa di affetto, che ci rende inseparabili, ond’Io vivo per esse ed esse vivono per me: “Cognosco meas et cognoscunt me meæ!” Quale linguaggio, o cari! Sembra un padre, che non pensa che ai figli e che sa d’essere dai figli riamato, che riposa nei figli come i figli riposano nel padre! “Il Padre conosce me ed io conosco il Padre.„ Queste parole, secondo ché spiega san Cirillo d’Alessandria, si devono collegare con le antecedenti, e vogliono dire: Come il Padre eterno conosce ed ama me da tutta la eternità e mi conosce ed ama come suo Figlio vero e proprio, ed Io conosco ed amo Lui come vero e proprio Padre mio, così Io conosco ed amo le mie pecorelle, ed esse a loro volta conoscono ed amano me, come loro pastore. È un confronto che Gesù fa tra i suoi rapporti eterni ed essenziali col Padre divino e i suoi rapporti temporali e contingenti colle anime, confronto che sotto altra forma comparisce più e più volte in quell’inarrivabile preghiera che fece nell’ultima Cena, e che ci fu conservata da S. Giovanni, e che leggiamo più innanzi nel capo XVII. Il vincolo d’amore che stringe Gesù alle sue pecorelle è una copia di quello che lo stringe al Padre suo. Si può concepire vincolo d’amore di questo più alto, più nobile, più sublime, più santo? – È una sola catena quella che lega Gesù al Padre e quella che lo lega a noi, sue povere creature; catena sì forte, che lo porta al massimo dei sacrifici, il sacrificio della sua vita per noi, e questa prova suprema dell’amor suo per noi, che ben presto avrebbe data, la ripete qui per la terza volta, dicendo: “Io pongo la mia vita per le mie pecorelle. „ Il suo cuore sente il bisogno quasi irresistibile e prova una divina compiacenza, una santa voluttà, pensando che un dì darà la sua vita per le sue pecorelle, che conosce ed ama con amore tenerissimo. – Ma qui ad un tratto lo sguardo di Gesù si spinge nel futuro; il libro del futuro sta aperto ai suoi occhi come il presente, e vi legge. E che cosa vi legge? Che cosa contempla nei secoli, che gli stanno innanzi riverenti? Egli ha intorno a sè un piccolo ovile, gli Apostoli, i discepoli, alcuni pochi credenti sparsi qua e là nelle tribù d’Israele; ma vede da lungi, in oriente e in occidente, a tramontana e mezzogiorno innumerevoli schiere di pecorelle, che entreranno nel suo ovile, e nell’impeto della gioia esclama: “Altre pecorelle io ho, che non sono di questo ovile, e quelle pure devo addurre, ed esse udiranno la mia voce. „ Gesù distingue chiaramente le pecorelle, che aveva intorno a sé, il piccolo gregge, che aveva raccolto, e le altre pecorelle, il gran gregge. che sarebbesi aggiunto, e, non occorre il dirlo, queste altre pecorelle, il gran gregge, che sarebbesi aggiunto, adombravano la gentilità, che in sì gran numero e con sì gran cuore sarebbe entrata nell’ovile, di due popoli, l’ebreo ed il gentile, formandone un solo all’ombra della croce. “Anche i Gentili udranno la mia voce!„ dice Cristo. L’udranno, non da me, sebbene per bocca de’ miei Apostoli, ma la verità è sempre la stessa. Osservate ancor qui, come Gesù Cristo di sé e degli Apostoli, cioè della Chiesa, della propria dottrina e della dottrina della sua Chiesa faccia una cosa sola, tantoché udire la voce della Chiesa egli è udire la voce di Gesù Cristo. “Et vocem meam audient”. Queste parole racchiudono una profezia, e quale profezia! Allorché Gesù annunziava la conversione dei Gentili e la futura loro fusione con quella parte d’Israele, che erasi convertita e lo seguiva, non v’era pur l’ombra d’indizio di quel gran fatto; anzi, umanamente parlando, era più che evidente la improbabilità, anzi l’impossibilità, che il gentilesimo, sì glorioso per ricchezza, per cultura di lettere, di scienze e di arti, per potenza e ampiezza sformata d’impero, seguisse Cristo, un povero Galileo, senza nome, senza splendore di potenza e di scienza, predicante l’umiltà, la pazienza, la croce, la mortificazione: eppure ciò che Cristo sì chiaramente disse: “Anch’essi, i Gentili, udranno la mia voce”, è un fatto e ci sta sotto gli occhi, e noi stessi ne siamo una prova. Noi abbiamo già un solo ovile e un solo pastore, una sola Chiesa e un solo Capo supremo della Chiesa, il Vicario di Cristo e successore di S. Pietro. Ben è vero, che fuori di questo ovile vanno qua e là errando ancora milioni e milioni di pecorelle smarrite, Ebrei, Mussulmani, Buddisti, Pagani: ma è pur vero che ogni anno, ogni giorno molte di queste pecorelle sbrancate entrano nel nostro ovile: è pur vero che la nostra Chiesa ogni giorno allarga le sue tende e stringe al suo seno materno nuovi figli: è pur vero, che i suoi apostoli, oggi sparsi su tutti i punti del globo, proseguono la grande conquista cominciata da Cristo e dilatano i confini del suo regno, e il progresso stesso delle arti e delle scienze e le vie di terra e di mare agevolate ci lasciano vedere non lontano quel giorno felice, in cui il mondo vedrà compiuto il vaticinio di Cristo: “Vi sarà un solo ovile e un solo pastore”. Che questo voto di Cristo e di tutti i suoi figli, voto che risponde ai bisogni di tutta l’umanità, la quale, spinta da forza irresistibile, tende inconsciamente a formare una sola famiglia, che questo voto presto si compia!

Credo

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca]. Communio

Joannes X:14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

GREGORIO XVII: DEGNO SUCCESSORE DI PIO XII

Il Degno Successore di Pio XII: Gregorio XVII “Siri”

(Immagine del ragazzo-prodigio Giuseppe Siri con la sua famiglia)

Giuseppe Siri è nato a Genova il 20 maggio 1906. Sua madre era originaria di un villaggio vicino a Forlì, suo padre era ligure. A quattro anni, i suoi genitori decisero di iscriverlo alla scuola elementare, un segno del suo precoce sviluppo intellettuale. Giuseppe crebbe rapidamente ed i suoi eccellenti risultati accademici suscitarono l’attenzione di un amico di suo padre, un agente di cambio, che promise di insegnargli il suo lavoro nonostante la sua giovane età. Dopo pochi giorni Giuseppe Siri mostrò però un forte disinteresse per questa attività, in questo condiviso  da sua madre.

Trascorreva una grande quantità di tempo in fervente preghiera all’oratorio della chiesa in cui era stato battezzato, Santa Maria Immacolata a Genova. All’età di nove anni, espresse la sua intenzione di entrare nel seminario per diventare sacerdote. Nel 1916, all’età di 10 anni, i suoi genitori permisero il suo ingresso nel seminario minore di Genova, noto per la sua rigida disciplina. Giuseppe si distinse subito per la sua rapidità di pensiero e per gli ottimi risultati raggiunti. Sulla base dei suoi successi, il cardinale Minoretti, arcivescovo di Genova, informò Giuseppe e i suoi genitori della sua intenzione di mandare a Roma il bambino prodigio, per farlo studiare alla Pontificia Università Gregoriana.

Il cardinale Minoretti, arcivescovo di Genova, fu molto colpito dal giovane Giuseppe Siri e lo mandò a Roma per studiare alla Pontificia Università Gregoriana.

All’età di 22 anni ricevette l’ordinazione sacerdotale dalle mani del cardinal Minoretti. Il 23 settembre 1928, il giorno successivo all’accoglienza del sacerdozio, celebrò la sua prima Santa Messa. L’anno successivo si laureò in Teologia all’Università Gregoriana. Dal 1929 al 1946 ha insegnato a Genova. Nel marzo del 1944, in seguito ad un dettagliato rapporto del cardinale Boetto, Pio XII lo elevò a un vescovo titolare di Liviade e ausiliare di Genova. All’età di 47 anni fu nominato cardinale da Pio XII il 12 gennaio 1953.

Durante il pontificato di Pio XII, Giuseppe Siri rimase molto vicino al Papa, tanto che sua santità lo considerava un consulente di fiducia. Pio XII stimò a tal punto l’intelletto e la condotta di Siri, che decise di  designarlo come successore della sua morte. (*)

(*) Nota: un Papa,  Supremo Legislatore della Chiesa, può indicare il nome del suo successore prima di morire. Questo è già accaduto nella storia della Chiesa (v. nota 2). È stato riferito che il Cardinale Siri, con grande umiltà e rispetto, declinò l’offerta di Pio XII, affermando che preferiva che un Conclave eleggesse il prossimo Papa, per manifestare il desiderio di Pio XII.

Nel 1958 Pio XII morì. Molti cardinali liberali criticarono la gestione centralizzata di Pio XII e temevano che Siri accentuasse questo comportamento. Il cardinale Siri dichiarò che nei giorni precedenti il ​​conclave aveva avvertito una sensazione di fastidio da parte di alcuni cardinali. Passarono i giorni tra le trattative febbrili alla ricerca del successore di Pio XII. Secondo diversi cardinali, Giuseppe Siri era la persona più adatta. Altri “cardinali” [massoni infiltrati … Tisserant … Bea … Lienart Roncalli … l’elemco è lungo] disprezzavano il cardinale ultramontano di Genova e ordirono un complotto per rubare il trono papale al legittimo successore di San Pietro, a qualsiasi costo.

Nota 2 : un Papa, Supremo Legislatore della Chiesa, può fare il nome del suo successore. prima che muoia. Questo è già accaduto nella storia della Chiesa in passato... sul suo letto di morte, nel 530 d . C., Papa San Felice IV, avvalendosi del diritto stabilito da Papa Simmaco designò come suo successore  un consigliere fidato suo amico,  (poi Bonifacio II). È stato riferito che il Cardinale Siri, con grande umiltà e rispetto, declinò l’offerta di Pio XII, affermando che preferiva che un Conclave eleggesse il prossimo Papa, onde manifestare il desiderio di Pio XII.

“La persona così eletta [Papa] acquisisce piena giurisdizione sulla  Chiesa universale immediatamente al suo consenso, e diventa il Vicario di Cristo sulla terra”. ( C. J. C. : “Elezioni canoniche ” a pagina 107, 1917, Imp.).

L’elezione di Bonifacio II fu contrastata da un certo Dioscoro antipapa, che solo 14 gioni dopo … morì …, non sapeva infatti che:

“Qui mange le Pape, meurt !”

Profezia papale di St. Giovanni di Roccia spaccata  (XIV secolo): “Verso la fine del mondo, i tiranni e le folle ostili deruberanno la Chiesa e il clero di tutti i loro beni e li affliggeranno e li martirizzeranno, e l’abuso su di loro sarà tenuto in grande considerazione.  In quel tempo, il Papa con i suoi cardinali dovrà fuggire Roma in circostanze tragiche, in un luogo dove saranno sconosciuti. Il Papa morirà con una morte crudele nel suo esilio. Le sofferenze della Chiesa saranno molto più grandi di qualsiasi altra nella sua storia, ma Dio risolleverà un santo Papa e gli Angeli si rallegreranno. Illuminato da Dio, quest’uomo ricostruirà quasi tutto il mondo mediante la sua santità, la vera fede: dappertutto prevarrà il timore di Dio, della virtù e della buona morale, che ricondurrà tutte le pecore erranti all’ovile, e ci sarà un’unica fede, una sola legge, una sola regola di vita e un solo Battesimo: sulla terra tutti gli uomini si ameranno e faranno il bene, e tutti i litigi e le guerre cesseranno”.

Dogma della Chiesa: secondo le parole di Cristo, Pietro deve avere
successori nel suo primato su tutta la Chiesa ed in tutti i tempi. (de fide.-dogma ribadito con vigore al Concilio Vaticano – Cost. Ap. “Pastor Aeternus” 1871)